Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito la relazione tenuta da S.Em.il cardinal Camillo
Ruini il giorno 11 maggio 2007 presso la
Fiera Internazionale del libro di Torino, sul tema Teologia e cultura. Terre di confine. I neretti sono
nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2007)
Il rapporto tra teologia e cultura è stato fondamentale nel passato, sia per la
teologia, e più ampiamente per il cristianesimo e la sua espansione missionaria, sia per la
cultura, o meglio per le varie culture e civiltà nelle quali il cristianesimo si è inserito e che
ha esso stesso in larga misura plasmato o anche generato. Ciò è avvenuto già nell’epoca
neotestamentaria, quando la fede in Gesù Cristo è nata nel mondo culturale giudaico e subito
dopo è entrata in quello ellenistico-romano, iniziando a trasformare entrambe queste culture, che del resto
non erano rigidamente separate ma già tra loro assai intrecciate.
Poi questo processo ha caratterizzato tutta l’epoca patristica, attraverso un confronto serrato della
teologia dei Padri (non solo gli Apologeti) con la filosofia e gli stili di vita allora dominanti. Ciò
è andato di pari passo con l’affermarsi della missione cristiana e ne ha anzi costituito una dimensione
essenziale. Al termine di questo itinerario la fede cristiana era diventata il fattore più influente e
determinante di quella cultura, che pure manteneva i suoi tratti propri e specifici e naturalmente il suo dinamismo
di evoluzione storica.
A lungo, e attraverso complesse fasi successive che hanno a che fare con le grandi migrazioni di popoli
avvenute al passaggio tra l’Antichità e il Medioevo e con le ulteriori fasi di espansione missionaria
del cristianesimo tra i popoli germanici e slavi, è perdurato e si è per vari aspetti esteso e
anche istituzionalizzato questo ruolo centrale del cristianesimo nella cultura. Una formulazione classica ed
esemplare di tale centralità si può vedere nella prima questione della Summa
Theologiae di San Tommaso d’Aquino, dedicata alla Sacra doctrina, dove si
afferma non solo che questa dottrina è scienza, in un senso superiore, e sapienza, ma che, essendo una in se
stessa, essa si estende a tutto ciò che appartiene alle diverse scienze filosofiche, speculative e pratiche, e
al contempo ha rispetto ad esse una dignità che le trascende e un radicale primato, e tuttavia deve avvalersi
di loro, secondo il principio che la grazia non toglie ma perfeziona la natura.
Sappiamo bene come non solo questo primato ma il rapporto stesso tra cristianesimo e cultura, teologia e cultura, sia
progressivamente entrato in crisi fin dai primi inizi dell’epoca moderna, a partire da quella che è
stata chiamata la “svolta antropologica”, che ha posto l’uomo al centro, oltre che dalla
nascita della scienza detta “galileiana” e dalle guerre di religione europee, che hanno reso in qualche
modo necessario concepire e gestire la sfera pubblica etsi Deus non daretur.
Non è il caso di soffermarsi qui su queste ben note problematiche. Vorrei piuttosto ricordare che
all’interno della teologia medievale, e in forma eminente con San Tommaso, la distinzione e nella distinzione
il rapporto reciproco tra ragione e fede, filosofia e teologia, sono stati oggetto di approfondimento
sistematico: come ha mostrato magistralmente É. Gilson in uno studio pubblicato già nel 1927 sui
motivi per i quali San Tommaso ha criticato Sant’Agostino (Pourquoi saint Thomas a critiqué saint
Augustin, in AHDLM, 1, pp. 5-127), la base teoretica di questo approfondimento è da ritrovarsi
nella gnoseologia ed ontologia di matrice aristotelica, che ha consentito appunto una distinzione più
chiara e sistematica tra le capacità conoscitive intrinseche all’uomo e la luce che egli riceve dalla
presenza divina in lui.
Una tesi storico-teologica largamente diffusa, e sviluppata soprattutto da un autore della portata di H. de
Lubac, sulle orme di M. Blondel, ritiene che l’insistenza unilaterale su questa distinzione, affermatasi
nella “seconda scolastica”, cioè appunto ai primi inizi dell’età moderna, abbia
contribuito all’emarginazione del cristianesimo e della teologia dagli sviluppi della cultura, rappresentandone
involontariamente una legittimazione teologica. Personalmente posso concordare con questa valutazione, a patto di non
esagerare il suo concreto peso storico. Mi preme sottolineare però che essa non deve portare a un giudizio
negativo sulla validità intrinseca, e anche sulla necessità e fecondità storica, di quella
distinzione sistematica. Essa infatti nasce in ultima analisi dal riconoscimento del carattere divino e
trascendente della rivelazione cristiana, anzitutto nel suo centro che è Gesù Cristo ma anche per
quanto riguarda la vocazione dell’umanità a partecipare gratuitamente, nello Spirito Santo, al rapporto
filiale che Cristo ha con il Padre. Dall’altra parte essa scaturisce dal riconoscimento della consistenza
interna delle creature, proprio perché esse sono opera di Dio (cfr Gaudium et spes, 36). Soltanto sulla
base di questa distinzione, inoltre, è possibile un rapporto con la ragione moderna e contemporanea e con la
rivendicazione di libertà che pervade la nostra cultura, rispettando e valorizzando quei loro dinamismi che
hanno consentito di conseguire, negli ultimi secoli, risultati straordinari.
Nella crisi dei rapporti tra cristianesimo e cultura occidentale è comunque importante
distinguere almeno due principali fasi storiche. La prima riconosce ancora il valore e l’importanza della
fede cristiana e a suo modo cerca di salvarne anche la verità. Ancora in Hegel si riscontra in qualche
modo questo atteggiamento, sebbene in lui appaia particolarmente chiaro che la verità e validità del
cristianesimo è subordinata al primato della filosofia e comporta in realtà uno svuotamento
dall’interno del cristianesimo stesso, ossia il suo “trascendimento” filosofico. Già
prima di Hegel però l’illuminismo, soprattutto in Francia, aveva visto l’emergere di una critica
radicale alla Chiesa e alla fede cristiana. Questa critica, che si conclude nella negazione della divinità di
Cristo e dell’esistenza stessa di Dio, con la riconduzione dell’uomo a un semplice essere del mondo, ha
però il suo sviluppo culturalmente più significativo in Germania, nella parabola storica che va da
Hegel a Nietzsche e che è stata descritta da K. Löwith con rara profondità (Da Hegel a
Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, ed. Einaudi).
Il secolo XIX è anche il tempo nel quale il cristianesimo occidentale ha preso piena coscienza della
radicalità di questa minaccia ed ha cercato di reagirvi, secondo due grandi direttrici che,
semplificando, possono ricondursi l’una principalmente al protestantesimo e l’altra soprattutto al
cattolicesimo. La prima è caratterizzata dal tentativo di riformulare il cristianesimo, in modo da
renderlo accettabile al nuovo contesto culturale ed idoneo non solo a sopravvivere in esso ma a porsi come la sua
dimensione più alta: è la linea del protestantesimo liberale, da Schleiermacher ad Harnack, che ha
avuto certamente notevole influsso anche in ambito cattolico, soprattutto nella vicenda del modernismo. Questa
linea ha comportato in realtà uno svuotamento del centro vitale del cristianesimo, cioè del suo
contenuto di fede, di quello che possiamo chiamare il “cristianesimo credente”. Dal punto di vista
storico essa si è conclusa, in realtà provvisoriamente, con la prima guerra mondiale e con la
forte affermazione della fede promossa soprattutto da K. Barth.
L’altra direttrice, che ha trovato la sua espressione più significativa ed autorevole nel Concilio
Vaticano I, particolarmente nella Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica,
è consistita invece nel riproporre quelle verità fondamentali del cristianesimo che apparivano negate o
messe in dubbio dalle forme di pensiero allora prevalenti. L’approccio a tali forme di pensiero fu pertanto
fortemente dialettico, improntato alla contestazione e alla critica assai più che all’impegno di
valorizzare gli aspetti positivi che possono esservi presenti. Un impegno di questo genere certamente non è
mancato nel cattolicesimo del secolo XIX, basti ricordare la scuola teologica cattolica di Tubinga, o due
pensatori come J. H. Newman ed Antonio Rosmini, ma la linea prevalente è stata diversa. Vorrei evitare
però le caricature e le semplificazioni sommarie: in realtà il lavoro teologico e filosofico sotteso al
Concilio Vaticano I e continuato poi con l’affermarsi del neotomismo ha avuto una grande vivacità
culturale, esplicatasi per un verso nel mettere a nudo limiti e contraddizioni presenti nel pensiero moderno, per
l’altro nel ricuperare e ripensare la grande eredità della teologia medievale, in dialogo con le
problematiche del nostro tempo.
Nel periodo tra le due guerre mondiali il cristianesimo occidentale, sia cattolico che
protestante, ha conosciuto un periodo complessivamente più favorevole, come interna vitalità religiosa
e come accoglienza nel contesto generale della cultura. Proprio in questo periodo sono avvenute quella svolta
all’interno della teologia e filosofia neotomista e contestualmente quell’opera di riappropriazione e
valorizzazione delle grandi ricchezze bibliche, patristiche e liturgiche, che hanno costituito la piattaforma di base
del decisivo e per molti versi inatteso sviluppo costituito dal Concilio Vaticano II. Con esso è cambiato
profondamente l’approccio alla cultura del nostro tempo, passando da un atteggiamento prevalentemente
critico alla ricerca di un terreno di incontro, attraverso un dialogo improntato alla simpatia e
all’apprezzamento, che non ha significato però un’accettazione unilaterale e acritica.
Ciò riguardo alla centralità dell’uomo, cardine della svolta antropologica dell’epoca
moderna, all’autonomia delle realtà terrene, alla libertà religiosa e alla valutazione favorevole
della democrazia e dello Stato di diritto. La forza del Vaticano II è consistita nell’aver operato
quest’apertura proprio a partire dal centro vitale del cristianesimo, ripensato nella sua straordinaria
fecondità anche umana e culturale.
Subito dopo la conclusione del Vaticano II, e non senza rapporto con quel fenomeno storico e culturale che viene
indicato facendo riferimento all’anno 1968, si è posto acutamente il problema dell’interpretazione
del Concilio stesso, con l’affermarsi di linee divergenti che hanno diviso la teologia cattolica e
fortemente influenzato la vita stessa della Chiesa. Così, mentre vi erano coloro che sostanzialmente, o anche
apertamente e frontalmente, rifiutavano il Concilio come una rottura della tradizione cattolica, altri, assai
più numerosi ed influenti, ritenevano che la novità portata dal Vaticano II dovesse condurre ad
un’apertura radicale verso la cultura del nostro tempo, come anche al superamento ad ogni costo delle
differenze tra le diverse confessioni cristiane, fino a quella che a mio avviso avrebbe rappresentato una rottura
della “forma cattolica” del cristianesimo. Viene spontaneo ricordare in proposito il libro
Infallibile? Una domanda di H. Küng, uscito nel 1970, ma è indicativo anche ciò che
scriveva un teologo come O. H. Pesch nel nono volume del Mysterium Salutis, pubblicato in tedesco nel 1973 e
in italiano nel 1975: “Rispetto al concetto corrente di ortodossia si deve dire oggi che nessuno può
più ignorare la quantità di eresia, non solo materiale ma anche ‘formale’, che esiste oggi
nella Chiesa” (pp. 388-389 dell’edizione italiana). Si tratta per lui di una situazione positiva, che
consente in particolare di affermare finalmente, anche all’interno della Chiesa cattolica, il primato della
fede personale che salva rispetto ad ogni norma o condizione ecclesiale.
In effetti è iniziata e si è diffusa rapidamente subito dopo il Concilio la prassi di
un’interpretazione assai disinvolta, riduttiva e anche elusiva delle stesse verità essenziali della
fede. Si è verificata così, inevitabilmente, una frattura tra quei teologi che più avevano
contribuito a far maturare le premesse del Concilio, oltre che al suo svolgimento. Nei decenni più recenti
questa situazione si sta, sia pure faticosamente, ricomponendo: per il suo pieno e positivo superamento, che non
significa affatto la soppressione della giusta e indispensabile libertà di ricerca e di un sano pluralismo
teologico, è assai importante quella linea di ermeneutica del Vaticano II che Benedetto XVI ha proposto nel
discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e che egli stesso ha qualificato come “ermeneutica della
riforma”.
Come ha detto molto nettamente il Papa in quel discorso, il grande programma del Concilio di un
“sì” fondamentale, anche se non acritico, all’età moderna non è assolutamente
da abbandonare, anzi è da sviluppare e concretizzare nei suoi diversi versanti, da quello dei rapporti con le
scienze empiriche e con le scienze storiche a quello delle relazioni tra la Chiesa e le istituzioni politiche. Su
questi versanti Benedetto XVI rileva che non mancano positivi sviluppi, come la maggiore consapevolezza acquisita
dalle scienze empiriche dei limiti intrinseci ai loro metodi o come la percezione diffusa che escludere il contributo
della religione dalla vita sociale e pubblica risulta dannoso per la società stessa e alla fine
anacronistico.
Per procedere su questa strada occorre tentare un discernimento, sempre difficile e azzardato, del
tempo in cui stiamo vivendo. L’allora Prof. W. Kasper, nel libro Introduzione alla fede uscito nel 1972
(pp. 27-31), parlava del nostro tempo come di “un secondo illuminismo”, cioè di uno
“svelamento dell’illuminismo a se stesso”, di una “metacritica” della critica
illuministica, che si esercita riguardo ad entrambe le grandi rivendicazioni dell’illuminismo, la ragione e la
libertà, in quanto la critica stessa ha mostrato come ambedue siano largamente condizionate e gravate da
molteplici presupposti, alla fine dunque altamente problematiche. Così ci siamo resi di nuovo consapevoli
della fondamentale finitezza dell’uomo, della storicità e fatticità irriducibile della
realtà in cui viviamo e della provvisorietà dei nostri schemi di pensiero e progetti di vita, personale
e pubblica. In una tale situazione, a giudizio di Kasper si aprono davanti all’umanità occidentale
due strade possibili. Una è quella di attestarsi dentro ai propri limiti, accontentandosi per così
dire di essi e ritenendoli invalicabili; rifiutando pertanto come prive di senso le problematiche religiose come
quelle metafisiche. L’altra riconosce la propria limitatezza, anzi miseria profonda, ma resta anche aperta agli
interrogativi e alle aspirazioni che l’uomo continua a portare dentro di sé, in ultima analisi al
bisogno di salvezza, all’esigenza di cercare un’esistenza felice e compiuta e una risposta alle domande
sul senso della propria vita e sull’origine della realtà.
A mio parere questa diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice – basti pensare a quanto diffusa fosse
allora la convinzione del primato culturale del marxismo – a distanza di 35 anni rimane ancora in buona
parte valida. Nel frattempo sono intervenute però novità importanti, non solo negli atteggiamenti dello
spirito ma nei fatti della storia. Mi riferisco all’emergere della nuova “questione
antropologica” e delle connesse problematiche di “etica pubblica”, a seguito di quegli sviluppi
delle scienze e delle biotecnologie che hanno reso possibili interventi diretti sulla realtà fisica e
biologica del nostro essere, come anche ai grandi mutamenti degli scenari mondiali, che hanno una loro data
emblematica nell’11 settembre 2001 ma che riguardano assai più ampiamente il rapido affermarsi di grandi
nazioni e civiltà sempre meno disposte ad accettare il predominio dell’Occidente.
Quanto agli atteggiamenti dello spirito, nei decenni successivi a quella diagnosi di W. Kasper sono diventate
più evidenti la pretesa del relativismo di porsi come criterio insuperabile, e paradossalmente
“assoluto”, sia della verità sia del bene morale e al contempo la sua parentela con il fenomeno,
forse ancora più ampio e più profondo, del nichilismo, che sembra quasi inverare storicamente la tesi
di Nietzsche e Heidegger secondo la quale esso costituirebbe il destino del nostro tempo, intimamente connesso
con la “morte di Dio”. Un esempio recentissimo dell’influsso pervasivo del nichilismo in un ambito
come quello del diritto è rappresentato dal libro di N. Irti Il salvagente della forma (ed. Laterza) e
dal dialogo dello stesso Irti con Claudio Magris pubblicato sul Corriere della Sera del 6 aprile scorso.
Le forme nelle quali la “morte di Dio” si fa strada nella cultura occidentale di oggi sono
però tra loro diverse. Una è quella dell’affermazione dell’ateismo che viene motivata
soprattutto sulla base di un’assolutizzazione dell’interpretazione evoluzionistica dell’universo,
come se essa fosse, ben più di una teoria scientifica, “una teoria universale di tutto il reale, al
di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non siano più lecite
né necessarie” (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni
del mondo, ed. Cantagalli, pp. 189-190).
L’affermazione dell’ateismo viene però ritenuta da molti troppo impegnativa rispetto ai limiti
delle nostre conoscenze. Ben più diffuse sono quindi posizioni agnostiche, che si riconducono a
quell’idea, o a quell’atteggiamento dello spirito, secondo cui latet omne verum,
ogni verità è nascosta (ivi, pp. 184-186). Si potrebbe dire che il nichilismo prende
così un volto relativistico, apparentemente più benigno e tollerante e alla fine forse più
coerente con la sua natura profonda. In ogni caso però ci allontaniamo radicalmente dal contenuto
essenziale e dall’orizzonte stesso del cristianesimo, perché un Dio del quale non si può sapere
nulla non è certamente il Dio che parla a noi ed entra nella nostra storia.
Nei decenni più recenti vi sono stati tuttavia anche sviluppi di segno molto diverso, con un forte ricupero
del senso religioso e con il declino dell’idea che la secolarizzazione sia un processo irreversibile,
destinato a portare, se non alla scomparsa, all’irrilevanza della religione, almeno in Occidente e a livello
pubblico. La ragione intrinseca di tale declino sta anzitutto nell’incapacità di rispondere, da parte
di una cultura secolaristica, alle domande fondamentali e concretamente ineludibili sul senso e la direzione
della nostra esistenza.
Soprattutto a partire dall’11 settembre 2001 si è aggiunta un’altra motivazione, legata alla
percezione diffusa della minaccia che sembra provenire dalla deriva fondamentalista dell’islamismo: questa
percezione ha orientato il risveglio del senso religioso ad assumere un più preciso profilo identitario
cristiano e, in un Paese come l’Italia, cattolico. Si tratta di un fenomeno ampiamente presente e
fortemente sentito nelle popolazioni, ma che sta assumendo grande rilievo anche sul piano della cultura pubblica.
Tra il risveglio religioso e le tendenze relativistiche e nichilistiche esiste obiettivamente un profondo
contrasto: è questa la ragione sostanziale per la quale, in Italia come in moltissimi altri Paesi, quello
della religione, e in particolare del cristianesimo – e per altri versi dell’Islam – è
diventato ormai, nella cultura e nella società, uno dei più rilevanti terreni di confronto e anche di
polemica, reso ancora più concreto e coinvolgente dall’emergere della nuova questione antropologica, con
le sue implicazioni nell’etica pubblica.
In una situazione di questo genere è assai grande lo spazio, anzi il bisogno
dell’apporto della teologia. Per delineare la fisionomia che esso potrebbe assumere sembra utile richiamare
anzitutto i limiti di alcuni tentativi già attuati e, almeno in parte, ancora in atto. Uno di essi, ormai
desueto a motivo dei limiti emersi nei processi di secolarizzazione, è quella che è stata chiamata
“teologia della secolarizzazione”, di matrice soprattutto protestante ma penetrata anche in ambito
cattolico. Essa ratificava, come il risultato della dinamica interna del cristianesimo, la separazione crescente tra
fede e cultura e affidava la mediazione tra di esse soltanto alla rivendicazione dell’origine cristiana di
tale processo. Così però rimane aperta la strada all’emarginazione progressiva del
cristianesimo, man mano che i processi di secolarizzazione si sviluppano e si allontanano dalla propria origine, come
normalmente avviene nella storia.
Un altro approccio teologico, oggi ancora abbastanza presente, sebbene colpito alla radice dagli eventi
dell’anno 1989, che hanno messo in evidenza l’insostenibilità non solo politica ed economica
ma antropologica ed etica dei modelli di vita associata che si richiamano al marxismo, è quello delle
teologie della liberazione e anche delle teologie politiche. Alla loro base vi è l’intenzione,
ampiamente condivisibile, di ricuperare, in vista del futuro, il ruolo storico del cristianesimo. Il loro limite
sostanziale consiste però nell’affidare questo ruolo principalmente alla prassi politica, mettendo
così a carico della politica il problema stesso della salvezza dell’uomo e del senso
dell’esistenza, ciò che comporta fatalmente un’assolutizzazione falsa e distruttiva della
politica stessa.
La profonda disillusione prodotta nell’ambito delle teologie della liberazione dai fatti del 1989 ha spinto
vari loro esponenti verso posizioni improntate al relativismo. Essi sono confluiti così, insieme a non pochi
altri teologi, in quell’orientamento, che prende vari nomi tra cui quello di teologia delle religioni, secondo
il quale fondamentalmente non solo il cristianesimo ma anche le altre molteplici religioni del mondo, con i popoli e
le culture che ad esse si riferiscono – e che spesso sarebbero stati oggetto da parte dei cristiani di un
imperialismo e colonialismo non solo politico ma anche religioso –, costituirebbero in realtà,
accanto al cristianesimo storico, autonome e legittime vie di salvezza.
Viene abbandonata così quella fondamentale e davvero originaria verità della fede, evidentissima nel
Nuovo Testamento e fonte primaria del dinamismo missionario della Chiesa dei primi secoli, secondo la quale
Gesù Cristo, nella sua concretezza di Figlio di Dio che si è fatto uomo ed ha vissuto nella storia,
è l’unico Salvatore dell’intero genere umano, anzi di tutto l’universo. La Dichiarazione
Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, riaffermando con forza questa verità, non
ha fatto che dare voce alla missione essenziale della Chiesa. Il libro che ho già citato dell’allora
Cardinale Ratzinger mette in luce come in determinate forme di teologia delle religioni sia all’opera quel
principio del latet omne verum che accomuna per certi aspetti il relativismo attualmente diffuso in Occidente
con l’approccio al divino delle grandi religioni orientali, e anche del pensiero tardo-antico che proprio in
questi termini si opponeva al cristianesimo. In vari teologi questa svolta relativistica si accompagna con la
rivendicazione, non abbandonata, del primato della prassi: dove cioè la conoscenza non può arrivare
potrebbe invece giungere la prassi; essa sola sarebbe decisiva per la salvezza e il dialogo, anzi
l’unità tra le religioni, dovrebbe risolversi in essa.
Naturalmente in ciascuna di queste tre impostazioni teologiche sono presenti istanze che non
possono essere lasciate cadere, dalla volontà di superare una visione “catastrofale” della
modernità al rapporto che la fede cristiana non può non avere con l’umanizzazione del mondo, fino
alla necessità di una prospettiva davvero universale che faccia spazio concreto, in seno al cristianesimo,
alla pluralità delle culture e delle civiltà. Da quest’ultimo punto di vista l’allora
Cardinale Ratzinger ha avanzato (op. cit., pp. 57-82) una proposta assai innovativa rispetto
all’ipotesi teologiche oggi più diffuse e per me davvero convincente: abbandonare l’idea
dell’inculturazione di una fede di per sé culturalmente spoglia, che si trasporrebbe in diverse culture
religiosamente indifferenti, e riferirsi invece all’incontro delle culture (o
“interculturalità”), che si basa su due punti di forza. Da una parte l’incontro delle
culture è possibile e avviene continuamente perché, nonostante tutte le loro differenze, gli uomini
che le producono hanno in comune la stessa natura e la medesima apertura della ragione alla verità.
Dall’altra parte la fede cristiana, che nasce dal rivelarsi della verità stessa, produce quella che
possiamo chiamare la “cultura della fede”, la cui caratteristica è di non appartenere a un popolo
singolo e determinato, ma di poter sussistere in ogni popolo o soggetto culturale, entrando in relazione con la sua
cultura propria ed incontrandosi e compenetrandosi con essa. Questa è in concreto l’unità e
insieme la molteplicità e l’universalità culturale del cristianesimo.
Un contributo tuttora assai rilevante all’adempimento dei compiti che la teologia ha oggi davanti a sé
può venire, a mio giudizio, da quel grande moto di rinnovamento che ha percorso la teologia stessa negli anni
che hanno preceduto il Vaticano II, e anche dall’eredità della teologia neotomista, nonostante i suoi
limiti, che possono individuarsi più precisamente da una parte nella sottovalutazione della distanza storica
che separa San Tommaso e tutta la grande scolastica dal nostro tempo, e in concreto dei grandi sviluppi, teoretici e
pratici, realizzatisi attraverso i secoli; dall’altra parte nel tentativo di dimostrare la verità
delle premesse del cristianesimo (i praeambula fidei) mediante una ragione rigorosamente
indipendente dalla fede stessa. Questo tentativo è sostanzialmente fallito, come osservava il Cardinale
Ratzinger nel libro già citato (pp. 141-142), e appaiono destinati a fallire altri eventuali tentativi
analoghi, già per il motivo che le grandi questioni dell’uomo e di Dio (ed ugualmente la questione di
Gesù Cristo), riguardando e coinvolgendo inevitabilmente il senso e la direzione della nostra vita, mettono
in gioco noi stessi e quindi, pur richiedendo tutto il rigore e le capacità critiche della nostra
intelligenza, non possono esser decise indipendentemente dalle scelte secondo le quali orientiamo la nostra stessa
esistenza.
Reciprocamente però, e in sostanza per un motivo analogo, è fallito anche il tentativo opposto di K.
Barth di presentare la fede come un puro paradosso, che può sussistere soltanto in totale indipendenza dalla
ragione. A questo proposito, non solo riguardo a Barth ma a tutto il pur importantissimo filone della
“teologia kérygmatica”, si può osservare che è sì fondamentale e
irrinunciabile, ma non è sufficiente, presentare l’enorme ricchezza e la bellezza del mistero
cristiano, quali emergono dalle fonti bibliche, patristiche e liturgiche e quali si sono via via arricchite nel corso
della storia. Perché questa ricchezza e bellezza rimangano vive ed eloquenti nel nostro tempo è
necessario infatti che entrino in dialogo con la ragione critica e con la ricerca di libertà che lo
caratterizzano, in modo da aprire questa ragione e questa libertà, per così dire
“dall’interno”, e da assumere dentro alla fede cristiana i valori che esse contengono.
Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi del tempo che
sta davanti a noi rimane, a mio parere, quella forma di teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e
proprio perciò altrettanto radicalmente teologica e antropologica, che è implicitamente proposta nel n.
22 della Gaudium et spes: “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il
mistero dell’uomo… proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore per noi [Cristo] svela
anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”.
Perciò l’attenzione del teologo deve concentrarsi anzitutto su Gesù Cristo, cogliendo insieme la
sua realtà storica e la profondità del suo mistero. Con il suo libro Gesù di Nazaret
Benedetto XVI ci ha indicato una via e un metodo di lavoro che possono rivelarsi molto fecondi per lo sviluppo della
teologia, specialmente su quella frontiera ineludibile che è rappresentata dalla saldatura tra le esigenze
della critica storica e quelle di un’ermeneutica autenticamente teologica.
Nella luce della realtà e del mistero di Gesù Cristo si possono affrontare i due poli essenziali del
discorso teologico, Dio e l’uomo, che sono poi, in maniera esplicita o implicita, i veri nodi della cultura del
nostro tempo. Rispetto ad entrambi questi nodi l’attuale contesto culturale – nel quale le scienze
empiriche, con la loro forma di razionalità e con la mentalità che esse generano, esercitano un ruolo
trainante e per certi versi egemone – impegna la teologia ad un confronto con tali scienze ben più
approfondito di quel che sia stato realizzato fino adesso: confronto per altro che non può fare a meno di
un’autentica e non riduttiva dimensione filosofica. Perciò, riguardo a Dio, assume particolare
importanza quella riflessione che si concentra sulla struttura e sui presupposti della conoscenza scientifica, per
mostrare che proprio a partire da essi si pone di nuovo la domanda sull’intelligenza creatrice.
Analogamente riguardo all’uomo è decisivo il confronto sia con la teoria dell’evoluzione sia con
le neuroscienze, per mostrare, anzitutto alla luce delle sue capacità proprie ed esclusive di produrre
cultura, che l’uomo emerge dalla natura non nel senso di una semplice provenienza ma di un autentico
trascendimento. Solo su questa base antropologica diventa possibile e coerente quella promozione e difesa della
dignità umana a cui la teologia è chiamata, oggi particolarmente sul piano dell’etica
pubblica.
E’ questo il senso di quel programma di “allargare gli spazi della razionalità” che
Benedetto XVI propone con insistenza e che riguarda sia la ragione scientifica sia la ragione storica. Questo
programma implica il duplice convincimento che la rivelazione di Dio in Gesù Cristo offre alla ragione un
aiuto prezioso per proseguire il suo cammino, sempre più articolato, complesso e specialistico, senza perdere
di vista il suo orizzonte globale e gli interrogativi di fondo, e d’altra parte che proprio attraverso il
confronto con la ragione contemporanea la fede e la teologia sono stimolate ad approfondire ulteriormente quella
novità riguardo al mistero di Dio e dell’uomo che ci è venuta incontro in Gesù Cristo.
Nel contribuire a un simile programma la teologia non deve avere la pretesa razionalistica di dimostrazioni
cogenti, come già accennavo riguardo ai praeambula fidei, ma piuttosto essere consapevole
dei limiti del proprio discorso: così, a proposito del Lógos creatore J. Ratzinger afferma
che esso dal punto di vista razionale rimane “l’ipotesi migliore”, un’ipotesi che
richiede da parte dell’uomo e della sua ragione di rinunciare a propria volta ad una posizione di dominio e di
rischiare quella dell’ascolto umile (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed.
Cantagalli, pp. 115-124).
In sostanza viene proposta così una grande e coraggiosa uscita della teologia dai
discorsi autoreferenziali, dai propri orti e recinti, che possono inavvertitamente sussistere anche quando si
assumono interlocutori “esterni” a loro volta piuttosto estranei ai reali problemi di oggi. Questa
apertura coincide in realtà con la piena coerenza della teologia cristiana e cattolica con se stessa e si
alimenta di una tale coerenza. Ne abbiamo avuto un grande esempio nella dinamica spirituale, culturale e storica del
pontificato di Giovanni Paolo II e ne abbiamo ora un esempio altrettanto significativo e più direttamente
teologico nel pontificato di Benedetto XVI.
Concludo cercando di esplicitare il senso e il fondamento teologico di tale coerenza, e così anche di indicare
la via per superare dall’interno quella frattura che si è verificata nella teologia cattolica subito
dopo il Concilio Vaticano II. Lo faccio richiamandomi all’analisi della natura della divina rivelazione che
J. Ratzinger aveva elaborato nello studio su San Bonaventura con cui intendeva conseguire l’abilitazione
all’insegnamento accademico e che è riproposta sinteticamente nel suo libro La mia vita (ed. San
Paolo, pp. 72 e 88-93). La rivelazione è cioè anzitutto l’atto con cui Dio manifesta se
stesso, non il risultato oggettivato (scritto) di questo atto. Per conseguenza, del concetto stesso di rivelazione fa
parte il soggetto che la riceve e la comprende – in concreto il popolo di Dio dell’Antico e del Nuovo
Testamento –, dato che se nessuno percepisse la rivelazione nulla sarebbe stato svelato, nessuna rivelazione
sarebbe avvenuta. Perciò la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è
semplicemente identica ad essa, e la Scrittura stessa è legata al soggetto che accoglie e comprende sia la
rivelazione sia la Scrittura, ossia alla Chiesa. Concretamente la Scrittura nasce e vive all’interno di questo
soggetto. Con ciò è dato il significato essenziale della tradizione ed anche il motivo profondo del
carattere ecclesiale della fede e della teologia, oltre che il fondamento della validità di un approccio alla
Scrittura che sia al contempo storico e teologico. E’ dunque con buona coscienza e consapevolezza critica che
possiamo accogliere, come teologi, quell’intima relazione della Scrittura e della tradizione con tutta la
Chiesa e con il suo magistero di cui ci parla il n. 10 della Dei Verbum.