Modernità, post-modernità e vangelo in Italia, dopo il convegno ecclesiale di Verona
di don Antonio Pompili

Mettiamo a disposizione sul nostro sito la relazione che don Antonio Pompili, direttore dell’Ufficio per le comunicazione sociali della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha tenuto l’8/11/2007 all’incontro con i direttori degli uffici pastorali del Lazio, tenutosi a Frascati. Essa portava il titolo: In un mondo che cambia, il vangelo non muta. Introduzione alla Nota pastorale della CEI dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale “Testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2007)


In un mondo che cambia, il vangelo non muta”. Introduzione alla Nota pastorale della CEI dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale “Testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo”

Vorremmo che diventassero patrimonio comune tre scelte di fondo:
il primato di Dio,… la testimonianza personale e comunitaria, come forma dell’esistenza cristiana,… una pastorale che converge sull’unità della persona (n. 4).

Indice


1. In un mondo che cambia

Essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che siamo… Le persone che si trovano al centro di questo vortice sono inclini a considerasi le prime, e forse le sole, a vivere una simile esperienza e questa sensazione ha dato vita a numerosi miti nostalgici di un premoderno Paradiso perduto. In realtà, però da quasi cinquecento anni a questa parte, un numero considerevole e sempre crescente di persone ha vissuto un’esperienza simile. Benché la maggior parte di costoro abbia sentito la modernità come una minaccia radicale a tutta la propria storia e alle proprie tradizioni, ha poi sviluppato, nel corso di cinque secoli, una ricca storia e una moltitudine di tradizioni proprie (…).

Ad alimentare questo vortice della vita moderna hanno contribuito diversi motivi d’origine: le grandi scoperte nel campo della fisica, che hanno mutato le raffigurazioni dell’universo e del posto che occupiamo; l’industrializzazione dei processi produttivi, che trasforma la conoscenza scientifica in tecnologia, creando nuovi ambienti umani, distruggendo quelli vecchi, accelera il ritmo dell’esistenza e dà vita a nuove forme di potere corporativo e di lotta di classe; gli immensi sconvolgimenti demografici, che hanno strappato milioni di persone ai loro habitat ancestrali, gettandole nel mondo in uno stato d’incertezza che ha ispirato le loro nuove vite; una rapida e spesso catastrofica crescita urbana; sistemi di comunicazione di massa, dinamici nel loro sviluppo, che abbracciano e uniscono i popoli e le società più disparate; stati nazionali sempre più potenti, strutturati e gestiti secondo logica burocratica, continuamente in lotta per estendere i propri poteri; movimenti sociali che interessano un popolo, o più popoli, pronti a sfidare i loro responsabili economici e politici, lottando per ottenere un certo controllo sulle proprie vita e, infine, spingere avanti, ed a guidare tutte queste persone e queste istituzioni, un mercato capitalista mondiale, rigorosamente fluttuante e in perpetua espansione”.

Tutto questo processo che giunge ai nostri giorni in realtà prende le mosse da lontano. Il che per un verso ci rassicura e per un altro ci dà la percezione dei cambiamenti di lungo periodo. Marshall Berman nel suo ‘L’esperienza della modernità’, a cui ci siamo fin qui ispirati, distingue almeno tre fasi in questa corsa verso la modernità.

Nella prima c’è un personaggio emblematico, J.J. Rousseau (1712-1778), peraltro il primo ad usare il termine moderniste, è un uomo inquieto, a motivo della sua instabilità nervosa, ma anche per l’acuta consapevolezza delle situazioni sociali che andavano condizionando la vita di milioni di persone. Rousseau colpì i suoi contemporanei proclamando che la società europea era ormai “sull’orlo dell’abisso”, alle soglie della rivoluzione che era legata a quel ‘tourbillon social’, che è la Parigi del suo tempo.

Nel descrivere il giovane protagonista Saint-Preux in Giuliao La nuova Eloisa che va in città dalla campagna (“Caterina va in città”, è il titolo di un recente film che scandaglia la metropoli post-moderna), tenta di trasmettere il suo stupore e il suo timore. Saint-Preux sente la vita metropolitana come uno ‘scontro perpetuo di gruppi ed intrighi, un flusso e riflusso ininterrotto di pregiudizi e opinioni in conflitto… Ognuno pone costantemente se stesso in contraddizione con se stesso” e “tutto è assurdo, ma non ci si stupisce di nulla, perché tutti sono pronti a tutto”. Questo è un mondo in cui “il bene, il male, il bello, il brutto, verità, merito hanno un’esistenza solo locale e limitata”.

Si rende possibile una quantità di nuove esperienze, ma chiunque voglia goderne deve essere più flessibile di Alcibiade, pronto a cambiare i suoi principi, a seconda degli interlocutori, a modificare ad ogni passo i propri pensieri”. Dopo pochi mesi in questo ambiente, “comincio ad avvertire l’ebbrezza in cui ti precipita questa vita agitata e tumultuosa. Davanti a una moltitudine così fitta di oggetti che mi passano davanti agli occhi, mi viene il capogiro. Di tutte le cose che mi colpiscono, non ce n’è nessuna che mi prenda il cuore, anche se tutte nel loro insieme turbano la mia interiorità, al punto che io non so più cosa sono e qual è la mia origine”.

Il personaggio sconsolato si confida anche circa il suo primo amore, ammettendo che teme “di non sapere un giorno cosa si accinge ad amare in quello successivo. Egli desidera qualcosa di concreto cui aggrapparsi, eppure: “vedo solo fantasmi che attraggono la mia attenzione, ma scompaiono non appena cerca di afferrarli”. Quest’atmosfera – di agitazione e di disordine, di ebbrezza e di stordimento psichico, di ampliamento delle possibilità di esperienza e di distruzione dei limiti morali e dei legami personali, di autoespansione e di autoalienazione, di fantasmi che occupano le strade e gli animi – è l’atmosfera in cui è nata la sensibilità moderna. “L’uomo è nato libero e tuttavia è ovunque in catene”, questa la sconsolata constatazione di Rousseau, cui avrebbe dovuto ovviare il ‘Contratto sociale’.

Spostandoci di un centinaio di anni o giù di lì il panorama cambia notevolmente. Si tratta di un paesaggio costellato di macchine automatizzate, ferrovie, nuove e ampie zone industriali, di brulicanti città, sorte nello spazio di una notte, spesso con conseguenze terribili per l’uomo, di quotidiani, telegrafi, telefoni ed altri mezzi di comunicazione di massa, che comunicano su scala maggiore, di stati nazionali sempre più forti ed aggregazioni multinazionali di capitale, di movimenti sociali di massa che combattono tali modernizzazioni imposte dall’alto, salvo poi ritrovarcisi dentro con naturalezza, consci delle potenzialità eppure contrariati da quel che sta accadendo. Un nome basta a risvegliare la nostra attenzione.

È Karl Marx (1818-1883) che a Londra nel 1856 esordisce dicendo: Le cosiddette rivoluzioni del 1848 non sono altro che ridicoli episodi, piccole screpolature e fessure nella solida crosta della società europea, ma sono bastate a rivelare la presenza di un abisso. Hanno rivelato che, al di sotto di quella superficie apparentemente solida, si celano oceani di materia liquida che ha solo bisogno di ingrossarsi per ridurre in frammenti continenti di dura roccia”.

L’uso di un linguaggio intenso serve al filosofo di Treviri non solo per segnalare la dialettica delle classi, ma anche per dare il segno di un pericolo che ravvisa nella radicale contraddittorietà su cui si fonda la vita moderna: “Oggigiorno ogni cosa sembra recare in sé il germe del suo esatto contrario. Vediamo i macchinari, che hanno il meraviglioso potere di ridurre e far fruttificare il lavoro dell’uomo, affamare e sovraccaricare di eccessivo lavoro quest’ultimo. Le nuove fonti di benessere, per una sorta di bizzarra magia, si tramutano in fonti di bisogno… Con la stessa velocità con cui l’umanità assoggetta la natura, l’uomo sembra diventare più schiavo di altri uomini o della propria infamia”. E pensando a quel che accade a livello sociale commenta: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi”.

Ma non è ancora la terza fase della modernizzazione che dopo aver conosciuto il disincanto tragico delle due guerre mondiali, giunge a noi attraverso il severo monito di Marcuse, per il quale Marx e Nietzsche (1844-1900) sono obsoleti: non soltanto le lotte sociali e di classe, ma anche i conflitti psicologici e le contraddizioni son stati eliminati dallo stato dell’amministrazione totale. Le masse non hanno ego, non hanno es, le loro anime non conoscono tensioni o dinamismi interni: le loro idee, i loro bisogni e perfino i loro sogni, “non sono i loro”; le loro vite interiori sono “oggetto di amministrazione totale”, programmate in modo da produrre esattamente quei desideri che il sistema sociale può soddisfare e nulla di più. “Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina” (MARCUSE, H., One-Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, p. 9, 1964 tr. It. Einaudi, 1967)

E arriviamo allora a comprendere quel che due psichiatri ci aiutano a cogliere del nostro tempo, definito “l’epoca delle passioni tristi”, dove si sperimenta impotenza e fatalismo, autorità in calo ed aggressività in crescita, e tutto questo perché il futuro è una minaccia più che una promessa. E a farne le spese sono anzitutto gli adolescenti (BENASAYAG, M., - SCHMIT, G, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004): “Con questa espressione il filosofo non si riferiva alla tristezza del pianto, ma all’impotenza e alla disgregazione. La speranza in un sapere globale che avrebbe spiegato il reale cede il passo all’incertezza che persiste, quell’incognita che vanifica la promessa dello scientismo”.

Proprio qui più che spazio per il fallimento c’è l’apertura ad una altra forma di approccio alla realtà, ad un allargamento della razionalità, direbbe Benedetto XVI. Come aveva intuito Husserl (1930): “Nei momenti di disperazione della nostra vita – come si ode ovunque – questa scienza non ha nulla da dirci. Le questioni che la scienza esclude per principio sono proprio le questioni scottanti nella nostra infelice epoca per un’umanità abbandonata agli sconvolgimenti del destino: sono le questioni che riguardano il senso o l’assenza di senso dell’esistenza umana in generale”.

2. Il Vangelo non muta

Il sì che continuamente e fedelmente Dio pronuncia sull’uomo trova compimento nel “sì” con cui il credente risponde ogni giorno con la fede nella parola di verità, con la speranza della definitiva sconfitta del male e della morte, con l’amore nei confronti della vita, di ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio. I discepoli di Cristo riconoscono pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai semplice adattarsi alle culture, ma è sempre anche una purificazione, un taglio coraggioso, che diviene maturazione e risanamento, un’apertura che consente di nascere a quella ‘creatura nuova’ (2 Cor 5,17; Gal 6, 15) che è il frutto dello Spirito Santo” (Nota pastorale della CEI dopo il IV Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo”[1], 10).

E’ esattamente questa capacità di discernimento quanto evocava un articolo de La Civiltà Cattolica del 25 gennaio del 1912 (!), dal titolo Vera e falsa modernità che avanzava la necessità e insieme l’auspicio di esperire una ‘sana modernità’, capace non solo di “accordarsi col passato”, ma anche di “felicemente acconciarsi alle condizioni del presente, di riconoscerne i bisogni, apprezzarne i progressi, promuoverne gl’interessi e trarne i migliori vantaggi per il bene comune”.

Di qui si comprende che “la via della missione ecclesiale più adatta al tempo presente e più comprensibile per i nostri contemporanei prende la forma della testimonianza personale e comunitaria: una testimonianza umile e appassionata, radicata in una spiritualità profonda e culturalmente attrezzata, specchio dell’unità inscindibile tra una fede amica dell’intelligenza e un amore che si fa servizio generoso e gratuito” (Nota, 11).

2.1 Una fede amica dell’intelligenza

Parto da una frase demenziale, ma purtroppo diffusa in migliaia di copie. “L’accostamento tra Cristianesimo e cretinismo, apparentemente irriguardoso, è in realtà corroborato dall’interpretazione autentica di Cristo stesso, che nel Discorso della Montagna iniziò l’elenco delle Beatitudini con: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli, usando una formula che ricorre tipicamente anche in ebraico (anawim ruach). In fondo la critica al Cristianesimo potrebbe dunque ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse, per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo. Tale critica, di passaggio, spiegherebbe anche in parte la fortuna del Cristianesimo: perché, come insegna la statistica, metà della popolazione mondiale ha un’intelligenza inferiore alla media(na), ed è dunque nella disposizione adatta a questa e altre beatitudini”. È con questo parole che il matematico Piergiorgio Odifreddi dà avvio alla sua imponente dimostrazione dell’insuperabile distacco esistente tra le esigenze della ragione e della scienza e quelle della fede e della religione. Insomma: chi pensa non può credere e chi crede non può pensare. Per questo, allora, la verità è che se uno è un cristiano in verità è un cretino. Questo è il succo del testo del filosofo italiano, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici).

Ovviamente il pensiero di Odifreddi non è nuovo né originale. Almeno dall’illuminismo in poi questa tesi dell’inconciliabilità tra fede e ragione si è diffusa sempre più. Non c’è tempo per dimostrare come sia accaduto che una tale inconciliabilità si sia affermata, ma solo per domandarsi se davvero la fede sia originariamente nemica della ragione. Se cioè per essere credenti si debba davvero rinunciare a pensare. Oppure se al contrario proprio l’adesione alle parole del Vangelo ci spingano ad un esercizio rigoroso dell’intelligenza, ancor più preciso ed esigente. La questione non è semplice. Nel nostro tempo postmoderno infatti, crollato il mito della ragione moderna cartesiana, capace di conoscere tutto e di fornire istruzioni precise per un felice esercizio della libertà,e che tuttavia poi ha portato alla tragedia dell’Olocausto, si è imposta una forma di razionalità ermeneutica (“non si danno più fatti, ma solo interpretazioni”), con non poche derive debolistiche e relativistiche.

Conseguenza di ciò la stessa fede è tentata talvolta di ritagliarsi uno spazio identitario che recida i rapporti con il contesto oggettivamente spaesante e assuma i tratti di un certo fondamentalismo. Per questo nel 1998 Giovanni Paolo II puntualizzò i rapporti tra fede e ragione che impongono “un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l’una di fronte all’altra. La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. E’ illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggiore incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere” (Fides et Ratio, 48).

Il punto di partenza di una possibile risposta è dato dalla constatazione che tra gli stessi cristiani prevalga una concezione del credere che spinge a dar credito ad Odifreddi, intorno alla parentela tra cristianesimo e cretinismo (!). Per molti ancora oggi Dio avrebbe rivelato alcuni pensieri che il credente dovrebbe accettare senza alcuna discussione. In realtà Dei Verbum 2 e 5 ci offrono dell’evento in questione una evocazione molto più articolata: “Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti, Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalla parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esso contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione”.

Da questo celebre testo si ricava che Dio si manifesta agli uomini per renderli partecipi della divina natura, parla loro come ad amici ed intende offrire loro l’occasione per vivere ‘da Dio’, in comunione con Lui. Cosa implica tutto ciò? Tale struttura della Rivelazione dice che l’essere umano non ha da sé tutte le chiavi con le quali risolvere i problemi e le situazioni della sua vita. Anzi normalmente le nostre risposte non sono automaticamente adeguate alle sollecitazioni che riceviamo dall’esterno. Non è forse vero che ci poniamo continuamente domande, ci interroghiamo su che cosa fare, su come fare una certa cosa e se ciò che abbiamo deciso di fare sia la scelta migliore? L’uomo è sempre domanda a se stesso. Che Dio, allora, si riveli per renderci partecipi della natura divina, implica il riconoscimento della sproporzione tra l’esistenza umana e quella degli animali, che trova la sua cifra nel carattere di libertà impresso alla vita degli uomini e delle donne. Questo è il punto decisivo per un’autentica concezione cristiana del credere. Il corredo dei suoi istinti è poca cosa rispetto a quello degli altri esseri viventi. Noi dobbiamo sempre scegliere bene oppure male. Insomma, se, da una parte, è vero che possiamo conquistare il mondo, dall’altra è altrettanto vero che possiamo farlo perdendo l’anima.

Il Vangelo si inserisce esattamente in questa fatica che l’uomo non può non compiere per trovare il suo posto ed il suo orientamento nel mondo. Cristo è diventato uno di noi perché voleva aiutarci a dare una forma ed una consistenza veramente ‘umana’ alla nostra esistenza. Per questo ciò su cui si esercita l’atto della fede, la Rivelazione, non è innanzitutto un insieme di proposizioni, di dogmi, ma è la memoria viva dei gesti e delle parole che Gesù ha compiuto e ha detto, e che è a noi proposta come guida per la nostra esperienza, come luogo in cui elaborare l’esercizio della nostra libertà residua, in un mondo che sembra pianificato per intero (cfr. per tutta questa parte 2.1: MATTEO, A., Fides quaerens intellectum, in Presbyteri 41 - 2007, 503-598). La fede rimette in movimento la nostra libertà, a partire da una domanda iniziale “E se fosse vero?”. Seguita poi da una relazione personale che ci sbilancia verso di Lui fino al punto di appartenergli (cfr. Nota, 6). In definitiva appartenere a Cristo significa credere. E credere coincide con l’accettazione piena della vita. Ma tutto questo non è senza conseguenze.

2.2 Una fede che parla a tutto l’uomo

Parto da una frase del teologo e cardinale A. Dulles, per il quale: “la crisi contemporanea della fede è in grandissima parte una crisi di immagini”.
La fede in effetti esprime un atto di fiducia e di abbandono, che per essere suscitato ha bisogno di trovare conferma non solo nei cosiddetti motivi di ragione, ma anche nell’ambito dell’immaginazione. Non si crede semplicemente in base a delle argomentazioni, ma più profondamente a motivo di un Incontro, cioè di un’esperienza personale (cfr. Deus caritas est ).

Occorre forse tornare a distinguere come facevano i medievali la ‘fides qua’ dalla ‘fides quae’ non per contrapporle, ma per ritrovarle insieme. La ‘fides qua’ è l’atto della libertà umana che si sbilancia verso Dio ed è impastata necessariamente di tutti i colori dell’umano, ivi compreso le emozioni e l’immaginazione. La ‘fides quae’ dice invece i contenuti del credere, talora esplicitati attraverso l’insieme degli articoli della fede, che hanno necessità pure di essere veicolati in forma plausibile.

Ora cosa è accaduto per doverne oggi riparlare? In una società cristiana e alle prese con un certo razionalismo, comunicare la fede significava sostanzialmente trasmettere la dottrina, anche perché la dinamica familiare pensava poi a far emergere la dimensione dell’immaginazione e dell’emozione. Di qui l’impegno della chiesa soprattutto attraverso la ‘dottrina cristiana’ per purificare i contenuti ed orientare la fede. In tal modo il linguaggio informativo-razionale del catechismo ben si abbinava a quello simbolico-narrativo dell’ambiente familiare. Il punto è che oggi questi due linguaggi, non più uniti, non solo non producono più ciascuno il suo effetto, ma raddoppiano i loro difetti. E così assistiamo da un lato a bambini che vengono al catechismo ormai ‘disincantati’ perché non hanno più in famiglia la crescita della loro sensibilità religiosa e da parte nostra offriamo per lo più dottrina che però è indigesta e inutile perché senza la ‘fides qua’ la ‘fides quae’ non attecchisce. E dall’altra c’è un ritorno al sacro sempre più selvaggio perché la gente spesso insegue fenomeni emotivamente coinvolgenti (santoni, superstizione, …), ma senza il necessario discernimento razionale.

Dice bene Gallagher: “La gente non è ostile alla verità posta nel cuore del vangelo, ma spesso la sua immaginazione non è raggiunta dal normale linguaggio della chiesa. Il senso religioso ha sempre trovato la sua più eloquente incarnazione nei simboli, ma oggi… i nostri simboli di trascendenza sono isolati dalle esperienze che li hanno fatti nascere” (GALLAGHER, M.P., La poesia umana della fede, Milano, 2004, 133).

Si è dunque consumato un divorzio che ha reso orfana l’immaginazione, privata della possibilità culturale di sentire vitalmente vero ciò che viene comunicato e capito come vero”. Così si esprime nettamente in un bell’articolo A. Ratti che argomenta in questo modo: “La mancanza di cui molte persone oggi soffrono, e di cui la chiesa deve prendere atto, è quella di ‘immagini credibili e trasformanti’, non di dottrine vere o indicazioni morali da comprendere” (cfr. RATTI, A., Tra fede e cultura: l’immaginazione e il linguaggio simbolico e narrativo, in CredOg, 24 -6/2004 - n 144, 45-59) .

Del resto già Agostino aveva lasciato intendere che non è sufficiente un approccio solo razionale. Se davvero la fede coinvolge l’assenso, non si può credere senza volerlo, e la volontà è mossa dall’amore: “Con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si aderisce alla rivelazione, con l’amore infine si rimane in quello che è stato rivelato” (De moribus ecclesiae catholicae, I, 17,31, in PL 32, 1321).

Questo significa che la nostra pastorale deve essere molto più attenta anche alla dimensione della bellezza. Oggi spesso avvertiamo nell’architettura delle chiese, nel canto, nel modo in cui vengono arredati i locali parrocchiali, una rinunzia a questa dimensione essenziale dello spirito. Le nostre opere d’arte religiose ormai popolano solo i musei e vengono guardate senza più comprenderne il messaggio religioso originario. Reciprocamente nei nostri luoghi di culto e di evangelizzazione il messaggio è mortificato dalla bruttezza (cfr. Rupnik).

Del resto, dal punto di vista metafisico, verità, bene e bellezza sono espressioni dell’essere e sono inscindibili. Non c’è bellezza che non sia anche verità e bene. In concreto mi pare che il linguaggio simbolico-narrativo che la chiesa ha sempre utilizzato con estrema disinvoltura (arte, liturgia, musica), debba essere riappreso proprio nella nostra cultura mediatica. Che ci sia una qualche difficoltà nel farsi interpreti di tale tradizionale modo di esprimersi è evidente. Non si spiegherebbe ad esempio l’aristocratica distanza dalle forme della religiosità popolare, né la superficiale acquiescenza ad una riforma liturgica, di cui si è smarrito talvolta il vero ‘spirito’. Per non parlare della fatica che ha rivelato nei fatti il rinnovamento catechistico che ha per un verso pagato il prezzo di un cambio epocale, ma ha pure frettolosamente accantonato il linguaggio informativo senza assumere in profondità quello narrativo. E perché non pensare alla caduta dei ‘buon esempi’ che ricordano come la comunicazione più che convincente, ha da essere attraente cioè coinvolgente per la forza di una personalità che seduce più di qualsiasi altra dimostrazione astratta (il catechista viene prima del catechismo e a fortiori del libro di catechismo).

Occorre poi che i cristiani vigilino perché essi sanno che il loro compito non si esaurisce rispondendo al bisogno, ma incontrando il bisognoso, o meglio facendolo scoprire e riscoprendoci noi stessi come bisognosi. Una cura del bisogno inteso in modo solo materiale, senza mettere in luce che esso è un segno di una domanda più radicale, del bisogno di un bene più grande, di cui il credente è a sua volta testimone e non proprietario, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Gesù guarisce molti malati e quasi sempre, una volta guariti, li manda a casa, perché nessuno sospetti che li ha guariti per farli diventare dei suoi. Ma quando li guarisce, sembra suggerire alla loro coscienza che la guarigione è il segno di una salvezza più piena, che essi troveranno nel rispondere liberamente e consapevolmente a quel bene più grande che è la vita in pienezza e non è solo la salute riacquistata.

Per questo il cristianesimo non può essere ridotto alla sua funzione terapeutica. L’evangelizzazione non è un nome alto per dire il servizio agli altri. La carità/servizio è un aspetto – assolutamente necessario! – che esprime e costruisce la comunione con Dio e tra di noi (la carità/virtù). La comunione con Dio e la fraternità evangelica sono il proprio della vocazione cristiana, la quale non è che la vocazione verso il comune destino, è la chiamata alla comunione con Dio. Ridurre il cristianesimo alla solidarietà comporta recidere la sua radice più originale che è la comunione teologale, con Dio e tra gli uomini. La carità come servizio e/o ministero della chiesa è un aspetto della carità come virtù. Se il ministero della carità non approda ad una nuova esperienza della comunione, se in altre parole non rinnova l’immagine della chiesa come comunione che viene da Dio e a Dio introduce, il suo annuncio resta dimezzato e rimosso a un generico solidarismo che non immette la linfa vitale della comunione trinitaria.

3. Chi mette insieme il mondo con il Vangelo?

Con i laici e non solo per i laici

A Verona Brambilla ha detto: «Bisogna ritornare prima di tutto a riscoprire la vocazione formativa delle comunità cristiane. L’accento di novità del Convegno ecclesiale è quello di una formazione che abbia una forte armatura spirituale, che sappia rinnovarsi ai fondamenti della vita battesimale (la parola, il sacramento, la comunione), la radice che alimenta tutte le vocazioni e le missioni nella Chiesa. Dove sono oggi i credenti che abbiano la fierezza di dirsi cristiani, dove il nome cattolico non è un’etichetta per schierarsi, ma l’indicazione di una sorgente a cui si alimenta la “speranza viva”? Bisogna ritornare, nelle diocesi e nelle parrocchie, ad essere gli annunciatori premurosi e tenaci della necessità insopprimibile di formare credenti solidi, storie di vita cristiana che possano dire: “Io ho visto il Signore!”».

A questo proposito una formazione non solo dei laici, ma con i laici significa almeno una maggiore attenzione alle età della vita, e dunque una forma più esperta di umanità. Si richiede una maggiore attenzione alle età della vita: occorre non fare un discorso generico per i laici adulti, ma descrivere ed abitare meglio le età della vita: i giovani adulti, i primi dieci/quindici anni del matrimonio, l’età di mezzo, la stagione della maturità, l’età del tramonto.

Secondo l’analisi di Fratticci nella sua densa relazione al convegno regionale dello scorso 9 giugno “proprio la scarsa incidenza pratica di tutta la discussione pone la questione se la formazione, che ha come destinatario privilegiato il laico, sia anche pensata in termini laicali; se, cioè, i contenuti, ma anche i tempi, i modi, gli strumenti di essa, siano progettati e costruiti effettivamente a partire dal vissuto concreto delle persone cui intendono indirizzarsi”. E aggiungeva: “Accade così che nei percorsi formativi rivolti agli adolescenti ed ai giovani solo con difficoltà e quasi di traverso entrino le problematiche dell’affettività e dell’amore, così delicate per chi a quell’età comincia a viverle”. E concludeva: “Formazione efficace in effetti è quella che mette i laici in condizione di riscoprire dentro il tessuto dell’esistenza la trama nascosta di un progetto divino, che li qualifica come autentici testimoni di Cristo” (cfr.CEL, Testimoni di Cristo. Il cammino delle chiese laziali dopo Verona, Roma 2007, 18-19). È questa spiritualità quotidiana evocata dalla lettera agli Ebrei, che costituisce la base di qualsiasi impegno ecclesiale.

Laici con uno stile comunionale

E aggiungeva, ancora a Verona sempre Brambilla: «In secondo luogo, si dovrà coltivare la vocazione comunionale del laico. Mai come oggi, il laico deve partecipare al carattere corale della testimonianza, parlare i molti “linguaggi” della testimonianza. Essere testimoni non è un atto isolato, ma si dà solo nella comunione ecclesiale. Il NT non conosce dei profeti isolati, ma semmai pionieri che fanno da battistrada e trascinano dietro di sé la comunità credente. Non si dà testimonianza separata dalla trama di relazioni della comunione ecclesiale. Si profila al nostro orizzonte un tempo dove la Chiesa o sarà la comunità dei molti carismi, servizi e missioni, o non esisterà semplicemente. Dico questo non solo in riferimento al problema urgente e, in alcune regioni d’Italia, drammatico della scarsità del clero e dell’aumento della sua età media. Questa sarebbe ancora una visione funzionale dei carismi e del compito dei laici nella Chiesa e nel mondo. Non bisogna pensare alla testimonianza di tutti come il surrogato a buon prezzo della carenza di ministri del Vangelo. È il Vangelo stesso che esige un annuncio nella corale diversità e complementarità di carismi e missioni. Mi immagino la ricaduta pastorale di questa rinnovata coscienza comunionale della testimonianza. Il laico deve stare attento al pericolo della burocrazia ecclesiastica e, al contrario, deve promuovere la corrente viva della pastorale d’insieme, della lettura dei segni nuovi della vita della Chiesa, dell’animazione di progetti profetici, anche se parziali, della capacità di abitare i linguaggi della cultura, della socialità, della cittadinanza, soprattutto presso le nuove generazioni. Il laico è un uomo della “sinodalità”, capace di “camminare insieme” (syn-odós), soprattutto di aprire strade nuove. Penso a una Chiesa abitata da persone che faranno uscire il laicato dall’essere semplice collaboratore dell’apostolato gerarchico per diventare corresponsabile di una comune passione evangelica».

Anche qui suggerisco l’esigenza di una formazione al senso ecclesiale dei laici e con i laici. Nelle altre nazioni dove la formazione dei laici, soprattutto in vista dei ministeri, non è decollata, ciò è avvenuto perché si è curata troppo poco la formazione spirituale e il senso ecclesiale: per fare questo è necessario pensare in grande e immaginare accanto alla formazione intellettuale un periodo di esperienza ecclesiale almeno diocesano. È giunto davvero il tempo di pensare e progettare la pastorale con laici “corresponsabili”, capaci di sognare insieme e di appassionarsi alla vita della chiesa e alla testimonianza nella vita. Questo muta di molto il nostro modo di pensare la relazione pastorale dei ministeri ecclesiali e dei laici, che deve essere meno direttiva e più comunionale, più capace di dar fiducia, di guidare e ascoltare, di accompagnare e far maturare il senso di ecclesialità. È inutile nascondercelo: senza uno stile comunionale, che prenda avvio anche da un profondo rinnovamento interiore dei presbiteri e dei laici, è impossibile immaginare che la chiesa di domani torni ad essere la chiesa di tutto il popolo di Dio.

Qui non si può più rinviare un serio esame circa il pratico fallimento dei cosiddetti consigli pastorali e ancor più profondamente del discernimento comunitario, già evocato a Palermo e che la stessa Nota al n. 24 riconosce vivano una stagione di stanca. Il card. Biffi in un suo testo confida la sua esperienza e mette in luce i due problemi irrisolti con estrema franchezza (BIFFI, G., Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Siena 2007, 205-206): e cioè la scelta dei membri e il valore consultivo e non deliberativo del consiglio (CJC, 536 §2).

In ogni caso come chiosa Fratticci: “Ai laici, proprio per la loro intima frequentazione degli ambienti di vita, è richiesto in particolare di formare quegli elementi essenziali per un puntuale discernimento comunitario delle situazioni e dei contesti sociali… Per questo i fedeli laici devono imparare ad offrire generosamente ai pastori le loro competenze particolari anche e soprattutto nella fase di studio della situazione ecclesiale, culturale e sociale e della ideazione di adeguate strategie pastorali, per la quali la sensibilità laicale costituisce senza dubbio un valore aggiunto che non può più essere tralasciato… Vero discernimento comunitario si dà infatti solo quando la responsabilità della decisione, propria dei pastori, risulti da un vero movimento corale e non da solitari percorsi, che talora finiscono per scambiare private preoccupazioni con più generali questioni problematiche” (cfr.FRATTICCI; W., ibidem, 20-21)

Laici per abitare negli spazi della vita

E, infine, concludeva Brambilla, «è urgente riattivare il genio cristiano del laicoin Italia. Potremmo dire che il genio cristianodel laico si esprime nell’opera di uomini e donne che sono uno spazio personale e associato di discernimento vivo del Vangelo, dove avviene quel “meraviglioso scambio” tra le esperienze della vita e le esigenze del Vangelo. Questi uomini e donne possono assumere nella comunità credente la figura del “cristiano vigilante”, della sentinella del mattino, quella che prevede il sole luminoso attraverso i bagliori dell’aurora. Si tratta di un credente che unifica in sé le forme del cristianesimo incarnato e, insieme, escatologico, capace di mostrare l’altra faccia del Vangelo che non è ancora realizzata nel frammento presente. È un credente che non abbandona la terra per guardare le cose di lassù, ma vede quelle di lassù abitando la terra».

Mi pare che questo sia il punto oggi più debole: non sappiamo come fare a educare il credente ad abitare gli spazi della vita: ma in ogni caso è molto importante che il discorso sugli stili di vita e sugli statidi vita torni ad essere praticato in modo creativo, per fare in modo che la fede cristiana continui ad incidere sul corpo, sul tempo, sulla vita quotidiana: dagli spazi della testimonianza quotidiana a quelli dell’impegno di servizio e della passione sociale e politica. È necessario ritornare a riscoprire l’importanza dell’educazione alla legalità, alla socialità e al senso della polis. Bisogna che si metta a tema la questione se nel tessuto ordinario della pastorale ci sia lo spazio per questa attenzione: non dico che tutti devono fare tutto, ma almeno che in ogni zona sia individuato qualcuno (qualche gruppo) che solleciti gli altri a mettere a fuoco questa dimensione necessaria per la vita personale e sociale.

Qui si coglie la provocazione dell’alfabeto della vita quotidiana, declinato dentro i cinque ambiti vitali che ci consente di ritrovare l’esperienza umana nella sua ferialità (corpo e affetti, tempo di lavoro e di riposo, fragilità e vicinanza, tradizione e capacità di educare, cittadinanza e mobilitazione pubblica).

4. Il discorso di Subiaco (1.04.2007)

Voglio concludere con le parole di Benedetto XVI, nel suo discorso a Subiaco dell’1/4/2007:
“Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto le porte dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”.


Note

[1] D’ora in avanti, Nota.


[Approfondimenti]