Mettiamo a disposizione on-line anche sul nostro sito la conferenza tenuta da Ermenegildo Manicardi per l’Azione Cattolica di Carpi all’interno del ciclo Le giornate del Vangelo, nell’anno 1998/1999, già disponibile sul sito della stessa associazione. Il testo conserva lo stile discorsivo tipico di una relazione e non è stato rivisto dall’autore. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line del testo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (27/8/2007)
Il Vangelo di Matteo (Mt) presenta, nel corso della narrazione, cinque grandi
rallentamentidell’azione, costituiti da altrettanti lunghi discorsi di Gesù. Dal
punto di vista dell’estensione il fenomeno è consistente: circa un terzo dell’opera - otto
capitoli su ventotto - è dedicato a questi cinque discorsi. Si tratta, di fatto, dei capp. 5-7, del cap. 10,
del cap. 13, del cap. 18 e dei capp. 24-25.
Anche gli altri vangeli mostrano chiaramente che l'insegnamento è una dimensione essenziale del ministero
di Gesù. Mt, però, ha ritenuto opportuno compilare grandi raccolte di detti di Gesù, secondo
un tema di fondo, in modo che le sue parole di allora si spiegassero ora l’una con l’altra e,
soprattutto, fornissero fasci di luce capaci di illuminare - con una certa sistematicità - alcune questioni
forti della vita dei discepoli e della Chiesa, sperimentate nelle comunità conosciute
dall’Evangelista.
Di fronte a questi computi astratti, qualcuno forse penserà che in realtà non
interessa se le parole di Gesù siano raccolte in un discorso a tema unificato, oppure se vengano presentate
nei contesti specifici distinti o se, addirittura, siano presentati ex abrupto senza alcuna connotazione
narrativa di contesto. Molti credenti, infatti, meditano i detti del Signore isolatamente; leggono i vangeli, per
così dire, a semplici versetti, cercando come contesto interpretativo delle parole di Gesù gli aspetti
concreti della nostra vita. Ancora oggi sono molti pochi i cristiani consapevoli che uno dei luoghi assolutamente
privilegiati della comprensione dei detti di Gesù sono i contesti in cui gli evangelisti hanno collocato
consapevolmente le sue parole.
Forse conviene ammettere che questa impostazione è troppo povera. La fede considera i vangeli al pari delle
Sacre Scritture, anzi come parte eccellente delle stesse Scritture (cf. Dei Verbum, 18), come testi
ispirati dallo Spirito di Dio. Le singole frasi - anche quelle provenienti da Gesù - hanno comunque il loro
sigillo supremo nel loro essere effetto di un’azione specialissima dello Spirito e nell'essere parte di
un’opera scritta, donata alla Chiesa come testimonianza divina della Parola di Dio.
Il Vangelo secondo Matteo non è semplicemente il resoconto degli sviluppi e del contenuto del ministero di
Gesù, ma uno scritto che «attesta» tale ministero, sia nel senso che lo testimonia come
teste e, quindi, lo rende - in un modo misterioso, ma reale – presente, sia nel senso che lo ripropone
come «testo», cioè come un intreccio e uno spazio nel quale anche noi possiamo inoltrarci. Va
da sé che tale «entrarci» può essere più o meno adeguato e, in definitiva,
più o meno reale.
Se si vuole capire un’opera, bisogna capire come l’autore, di fatto, la intende e
la ordina: non basta insistere sui particolari, per quanto ricapitolativi possano essere o sembrare. Entrare nel
Vangelo secondo Matteo vuole dire capire meglio il lavoro di Matteo, comprendere di più come Matteo
abbia capito Gesù ed ascoltare al contempo la voce dello Spirito che illumina la Chiesa su Gesù e la
sua parola. Capire più intensamente come Matteo ha compreso Gesù vuole dire capire meglio
Gesù, risalendo la strada che dal testo evangelico ci riporta all’evento di Gesù, alle azioni
e alle parole del suo ministero cariche della forza della rivelazione. Lungo questa strada lo Spirito, che ha guidato
la formazione del testo di Matteo, porta oggi anche noi più vicino alla «verità
tutt'intera» (cf. Gv 16,13) ed opera per far ardere nel petto un cuore talvolta intiepidito (cf. Lc 24,32).
Quanti sono, in Italia, i cristiani che hanno letto davvero e per intero, prendendolo come un messaggio serio e
unitario, tutto il Discorso della Montagna? Oppure, personalizzando maggiormente: chi di noi ha letto il primo grande
discorso di Gesù nel Vangelo secondo Matteo (Mt 5-7), per vedere che cosa l'Evangelista ha pensato di
raccogliere delle parole di Gesù, presentandolo come il discorso inaugurale del ministero di Gesù?
Certamente anche chi deve rispondere di no a queste semplici domande può vivere una vita cristiana discreta od
eroica; è chiaro, però, che queste domande non sono inutili. Chi conosce i vangeli, anche come
narrazione, comprende meglio il brano del vangelo proposto nella celebrazione eucaristica domenicale. Chi conosce
già un testo evangelico, riascoltandolo nella liturgia domenicale, può fare un balzo nuovo e più
in alto.
Anche in questo campo non vanno confuse le cose: il capire non ostacola la spiritualità, proprio come la spiritualità non ostacola l'agire! Le cose che uno capisce bene, le sa anche pensare; e dove si pensa con chiarezza, allora si può operare. Se non si entra in queste prospettive si cade nella dimensione del solo sentimento e si rischia un’impostazione pasticciata. Il sentimento è certamente una dimensione importante e decisiva della vita religiosa e cristiana anche oggi. Al tempo stesso, però, è interessante osservare che, nelle guide della Chiesa contemporanea, si manifesta una certa preoccupazione che il sentimento debordi. Giovanni Paolo II, nel 20° anno del suo pontificato, ha pubblicato l’enciclica «Fides et ratio». Il titolo «fede e ragione» forse potrebbe essere tradotto con le parole «fede e pensiero», ma certamente non con il binomio «fede e sentimento». In questo intervento pontificio è evidente la preoccupazione di arginare, nella Chiesa e nella società di oggi, una «deriva sentimentale». In conformità con la tradizione cristiana autentica si rivendica, ancora una volta, la necessità di una riflessione che porti la fede a percepire il suo oggetto con vera profondità. L'enciclica si muove sul versante della riflessione sistematica, speculativa, filosofica, ma questa esigenza di ragione si può applicare anche all'oggettività della lettura e della comprensione biblica.
I capitoli da 5 a 7 del Vangelo secondo Matteo si presentano come un discorso senza
interruzioni. Complessivamente si tratta di un insieme di oltre cento frasi, che non ha in nessun punto della
tradizione evangelica un equivalente così prolungato. Il discorso che abbiamo in Lc 6,20-49 presenta
contatti importantissimi con elementi decisivi di Mt 5-7, ma se valutiamo il numero dei versetti in questione ci
accorgiamo facilmente che il discorso in Lc è circa un quarto rispetto a quello di Mt (29 versetti di Lc
contro i 108 versetti di Mt).
Matteo ha voluto mettere questo discorso all’inizio della presentazione del ministero di Gesù per
raccogliere e lanciare fin dal principio la proposta fondamentale di Gesù. Egli ha scelto parole sparse di
Gesù e le ha presentate nella forma di una grande raccolta, che desse fin dall'inizio la prospettiva decisiva
del messaggio e dell'insegnamento di Gesù. A questo punto il titolo di questo nostro intervento risulta
motivato: intendiamo riflettere sul Discorso della Montagna come proposta prima di Gesù secondo Matteo. In
questo discorso, Matteo ha accolto quello che, a suo giudizio e sotto la guida dello Spirito Santo, è
assolutamente fondamentale: gli elementi senza i quali non si può neanche partire per seguire la vicenda di
Gesù.
Per fortuna i vangeli - almeno i primi tre - sono sinottici, cioè si possono leggere insieme e, quindi, solitamente è possibile arrivare a capire la mentalità di ciascun evangelista da confronti accurati con le narrazioni degli altri. Per questa strada non è sempre possibile capire tutto; molti aspetti però, soppesando ciò che è simile e ciò che varia, vengono in luce piuttosto chiaramente. Il «Vangelo secondo Matteo» è opera di un pensatore che ha lavorato sul testo dell'Evangelista Marco, che è precedente, per approfondirlo con l'aggiunta di racconti, detti ed altri elementi tradizionali, non utilizzati da Marco. Nella seconda metà del nostro secolo si è sviluppato – e progressivamente affinato – un metodo, chiamato in genere «ricerca sulla redazione», che cerca di capire i Vangeli di Matteo e di Luca a partire dalle loro variazioni rispetto a quello di Marco. Se Marco, nella redazione del suo vangelo, ha fatto in un certo modo e Matteo, studiando Marco, ha aggiunto, tolto o variato alcuni elementi, allora si può pensare di capire meglio il disegno teologico matteano scoprendo il senso delle variazioni che esso presenta rispetto la narrazione marciana. Occorre studiare il «prima» (Mc), poi rilevare come il «dopo» (Mt) sia variato e cercare di spiegare questa variazione - se si riesce - come un elemento rivelatore di una sensibilità nuova e di un orientamento mentale complessivo. Possiamo - anzi dobbiamo - andare a vedere come Marco inizia, se vogliamo davvero capire meglio come ha deciso di iniziare Matteo.
Marco inizia il racconto del ministero di Gesù con l’annunzio del Regno di
Dio. «Dopo che Giovanni Battista fu consegnato, venne Gesù in Galilea, predicando il Vangelo di
Dio e dicendo: ‘Il tempo è compiuto, il Regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete
nel Vangelo’» (Mc 1,14-15). Si tratta di una specie di sommario - cioè di presentazione
riassuntiva e globale - che presenta in sostanza tre cose: (1) la collocazione degli inizi nel tempo e nello spazio
geografico, (2) la qualificazione teologica del messaggio di Gesù e (3) la sintesi delle sue parole. Gli inizi
non sono collocati in un tempo solamente profano. La «consegna» di Giovanni è, materialmente,
l'incarcerazione nelle prigioni di Erode. Marco, però, usa una formula che lascia intravedere come questo sia
un avvenimento voluto da Dio. Il passivo «fu consegnato» va compreso sottintendendo
il complemento d'agente «da Dio» e ricordando che il verbo «essere consegnato»
avrà il suo impiego maggiore per indicare il disegno di Dio quanto alla pasqua del Figlio dell'uomo (cf. per
es. Mc 8,31). L'indicazione geografica, a differenza di quella cronologica, non sembra avere, per Marco, un
significato particolare. La parola di Gesù è qualificata come «Vangelo di Dio».
Sintetizzando il contenuto della sua proclamazione, Mc insiste sulla dimensione escatologica («il tempo
è compiuto») e presenta la conversione richiesta come fede in questo vangelo.
Matteo ha assimilato questo testo marciano e ne ha dato una nuova, intelligente redazione. Impegnandoci con
pazienza, possiamo scrutare gli approfondimenti apportati e i nuovi orientamenti. «Avendo poi sentito dire
che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea e, lasciata Nazareth, venne ad abitare a
Cafarnao, presso il mare nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si adempisse ciò
che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: ‘Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali,
sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre ha visto una
grande luce; su quelli che dimoravano in terra e in ombra di morte una luce si è levata’» (Mt
4,12-16).
L'unico elemento veramente comune a Marco è la venuta di Gesù in Galilea dopo l'incarcerazione di
Giovanni Battista. L'attenzione di Matteo è attirata, però, da aspetti nuovi, più
interessanti per la sua sensibilità teologica. L'evangelista è colpito anzitutto dal fatto che
Gesù, iniziando il suo ministero, non solo viene in Galilea, ma cambia di residenza. Dalle colline di
Nazareth, scende verso il mare di Galilea per abitare in Cafarnao. Ciò che lo interessa non è la
variazione del paesaggio o la precisione biografica in sé, ma il fatto che Cafarnao, a differenza di
Nazaret, si trova «nel territorio di Zabulon e di Neftali». I nomi di Zabulon e di
Neftali, come qualificanti Cafarnao, sono infatti dichiarati fin dalla prima menzione della città del lago. Il
v. 13 facilita, in questo modo, il collegamento con il testo isaiano citato al v. 15.
Ripensando gli spostamenti iniziali del ministero, Matteo intuisce un segno profondo. Gesù ha voluto partire
non solo dalla Galilea, ma dalla zona della Galilea assegnata a Zabulon e Neftali, vale a dire da quella regione
– la cosiddetta «Galilea» delle genti (= dei pagani) – per la quale Isaia aveva annunciato
una grande luce (Is 8,23-9,1). Il momento in cui Gesù lascia Nazaret per abitare in Cafarnao è
presentato perciò come il compimento di quell'annunzio profetico. Se Gesù comincia il suo
ministero a partire dalla città sul lago, allora è chiaro: la luce finalmente sta giungendo sia agli
Israeliti di Galilea, sia - e qui sta il tratto più sorprendente - per i gentili del territorio di Zabulon e
di Neftali. Secondo Matteo l'azione di Gesù è orientata ad Israele, popolo di Dio, ma al tempo
spesso è dichiaratamente aperta alle genti.
Non è un caso che, proprio a Cafarnao, Gesù - secondo il racconto di Mt 8,5-13 - incontri il
centurione. Questo personaggio non ebreo, che si muove nei territori di Zabulon e Neftali, è interpretato
come il segno della venuta futura delle genti a partecipare del regno. Proprio in tale episodio, infatti, Matteo
ha inserito le parole di Gesù sulla venuta futura dei pagani (cf. Mt 8,10-12 e il diverso contesto dello
stesso detto in Lc 13,28-29).
Anche la sintesi iniziale del messaggio, che apre il ministero di Gesù, presenta variazioni di rilievo
rispetto a Marco. L'appello: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt
4,17) si rivela, ad una lettura attenta, piuttosto povero rispetto a «Il tempo è compiuto, il Regno
di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). L'appello incontrato in
Matteo non è una frase nuova per lui e, in definitiva, non dice molto. La stessa identica espressione, infatti
è stata usata da Matteo per introdurre il ministero di Giovanni. «In quei giorni comparve
Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea e diceva: ‘Convertitevi, perché il Regno dei
Cieli è vicino’» (Mt 3,1-2).
Si resta piuttosto stupiti. Ma come, la vicinanza del regno di Dio non è forse il messaggio di Gesù?
Perché mai Matteo dice che Giovanni Battista è venuto ad annunciare il Regno di Dio? Non si toglie
forse così originalità alla venuta di Gesù, appiattendola su quella di Giovanni? A noi sembra
che la coincidenza dell'annuncio del regno, presentato da Giovanni (3,2) e presentato da Gesù (4,17), permetta
di constatare come Mt non sia interessato a presentare in questa prima sintesi l'originalità della
proclamazione di Gesù. La frase sul regno che apre il ministero di Gesù secondo Matteo dà solo
un’informazione generale e, in realtà, non dice molto sullo specifico modo di vedere il regno portato da
Gesù. Chi ha ascoltato con attenzione la narrazione precedente, si chiede quando l’autore dirà
dove sta il punto di vista di Gesù sul regno di Dio. Da 4,17 non si capisce molto: si tratta semplicemente
delle stesse parole di Giovanni Battista! Possibile che Matteo ci voglia presentare un Gesù così
poco originale? La formulazione debole di Mt 4,17 serve - ci sembra - ad aumentare la
suspense. Il lettore attento si mette ad aspettare il momento in cui il narratore tirerà
fuori «la novità di Gesù».
Come paradigma riuscito dell'appello di Gesù, Marco e Matteo presentano entrambi la
chiamata di due coppie di fratelli pescatori: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni (cf. Mc 1,16-20 e Mt 4,18-22).
Le due narrazioni non presentano variazioni di rilievo; in questo caso Matteo ha semplicemente trascritto il testo
marciano. Subito dopo il racconto della costituzione di un primo gruppetto di discepoli, invece, la narrazione
matteana varia profondamente. Mc racconta l'attività di Gesù, di sabato, a Cafarnao (Mc 1,21-39). Mt,
invece, presenta un testo più breve, che descrive un quadro generale (Mt 4,23-25). Si tratta dello sfondo
complessivo su cui sarà collocato il discorso della montagna (Mt 5-7). Vale la pena di esaminare con pazienza
alcuni elementi di questo passo matteano.
La narrazione inizia con un nuovo sommario, che presenta le tre attività caratteristiche di
Gesù. «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e
predicando la buona novella del regno e curando ogni sorta di malattia e d'infermità tra il
popolo» (Mt 4,23). Si dice molto e, al tempo stesso, molto poco! Si tratta di un procedimento narrativo che
conosciamo dai minuti iniziali di un film. In genere, in essi il regista mostra l’ambiente nel quale si
svolgerà il racconto che si prepara a proporre. Un film western, ad esempio, comincia mostrando un saloon, una
diligenza che arriva, ecc. Si vede tutto e non si vede niente. Lo spettatore è ambientato ma, al tempo stesso,
attende che inizi la storia vera e propria. Matteo, nel nostro caso, procede in modo simile. Egli offre le pennellate
di fondo di un quadro molto ampio: il personaggio, di cui si parlerà nel racconto, è uno che insegna
nelle sinagoghe, che predica, che cura e guarisce anche malattie molto crudeli. La parola che colpisce
maggiormente, in rapporto alla narrazione precedente, sembra essere «la buona novelladel regno».
Ancora una volta il lettore attento deve chiedersi: che cos'è questo «regno», il cui vangelo
Gesù è venuto a predicare?
Nei versetti seguenti l’evangelista si distrae ancora per un poco. «La sua fama si sparse per
tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati,
epilettici, paralitici; ed egli li guariva. E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli, da
Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano» (4,24-25). L'elemento nuovo rispetto alle indicazioni
date precedentemente è costituito dalle determinazioni geografiche. La fama di Gesù si diffonde
«fino alla Siria». L'avvenimento, che si sta raccontando, non riguarda semplicemente «la
Galilea» e nemmeno soltanto «la Galilea delle genti»: la Siria è ben più vasta della
Galilea, regione molto piccola, e della stessa intera Palestina. La Siria è un territorio vastissimo, in cui
la cultura romana si è diffusa in maniera imponente; ancora oggi è un luogo in cui si possono
ammirare monumenti romani grandiosi.
Anche i luoghi, da cui provengono le grandi folle che seguono Gesù, sono abbastanza estesi: non solo
Gerusalemme, la Giudea e l'al di là del Giordano, ma anche - ovviamente oltre alla Galilea - la zona
paganeggiante della Decapoli. Ancora una volta Matteo insiste per farci capire che il messaggio di Gesù
interessa Israele («predicava nelle loro sinagoghe»), ma ha di mira anche i pagani e
tutta l’umanità («la sua fama si sparse per tutta la Siria … cominciarono a seguirlo
dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano»).
«Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si
avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, insegnava loro dicendo» (5,1-2).
All’improvviso il ritmo del racconto cambia rispetto alle frasi immediatamente precedenti! Dopo annotazioni
generali si passa ad indicazioni molto mirate. La parte preparatoria è terminata; ora il personaggio
principale è inquadrato con precisione e si descrive dettagliatamente il suo agire. La frase
«Vedendo le folle» serve a far sì che anche noi le vediamo. Il lettore che non voglia
ancora identificarsi nei discepoli può scegliere di ascoltare il discorso dal punto di vista delle folle.
Soprattutto, però, Matteo chiede al lettore di ricordarsi bene chi sono le folle che ascoltano e che
l'evangelista ha già presentato accuratamente. Merita riepilogare: la Galilea toccata da Gesù
è la Galilea in cui, accanto ad Israele, vivono anche «le genti»; ad ascoltare ci sono pure folle
della Decapoli; la fama di questi avvenimenti intanto ha raggiunto tutta la Siria.
L'attenzione alle dimensioni dello scenario del discorso della montagna è essenziale per interrogarsi su
chi sono i destinatari. Certamente l'evangelista presenta, in primo piano, i discepoli di Gesù:
«si avvicinarono i suoi discepoli». Tra gli ascoltatori, però, ci sono anche le folle e
queste sono provenienti tanto da Israele quanto dalle genti. Per comprendere il significato attribuito da Matteo al
discorso della montagna è necessario leggere la sua composizione in relazione con le folle che lo
ascoltano!
Il primo grande testo del discorso della montagna sono le otto beatitudini con il soggetto alla
terza persona plurale. Una loro lettura accurata fa capire con chiarezza che, in esse, Matteo intende offrire le
affermazioni più caratteristiche di Gesù sul regno di Dio da lui reso vicino. Se le parole
precedenti di Gesù sul regno rimanevano piuttosto indefinite (cf. 4,17 e 4,23), in questo passaggio troviamo
elementi chiari e marcati.
La disposizione delle beatitudini, particolarmente accurata, manifesta un dato di particolare interesse già ad
una prima lettura. La prima e l'ottava beatitudine presentano una motivazione identica, che rappresenta
un'inclusione evidente. La prima beatitudine, infatti, dice: «Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli»(5,3). L'ultima afferma: «Beati i
perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli»
(5,10).
Questa inclusione delle due beatitudini le differenzia dalle sei centrali per la differenza del tempo verbale.
Mentre, infatti, queste sei collegano sempre la beatitudine attuale a una ricompensa futura (per es.
«perché saranno consolati», «perché erediteranno la terra»,
ecc.), la prima e l'ultima mettono in relazione la beatitudine presente con il possesso presente del regno. Appare
qui un messaggio importante. Per afferrarlo bene è forse opportuno, ancora una volta, ribadire il carattere
delle beatitudini. Le beatitudini non sono «benedizioni», che vogliano trasmettere un elemento non
ancora presente nella realtà, e nemmeno delle «esortazioni», che chiedano un impegno personale per
fare esistere ciò che ancora non c'è. Le beatitudini di Gesù sono invece affermazioni di una
realtà che già esiste, ma che ha bisogno di una parola che la riveli. Attraverso le beatitudini
Gesù manifesta in che senso il regno di Dio, da lui annunciato come fattosi vicino, è presente. Il
regno è presente tra le categorie di uomini descritti nelle otto beatitudini. E la sua presenza ha una natura
in certo senso dialettica: è presenza che rimanda a una ricompensa futura, come si vede dalla sei
beatitudini centrali, ma presenza che è già adesso veramente attuale, come manifesta l'insistenza
sull'inclusione generale: «perché di essi è il regno dei cieli».
Merita ora tornare al confronto con Marco, per precisare l'ottica di Matteo sull'idea di regno portata da Gesù
e, in particolare, sulla sua presenza. In Marco Gesù grida che «il tempo è
compiuto» – che, cioè, non bisogna aspettare nient'altro –, che «il Regno
di Dio si è (già) fatto vicino», che è sufficiente (!) convertirsi e credere nel Vangelo
(cf. Mc 1,14-15). Matteo, dopo essere rimasto nelle prime affermazioni di Gesù sul regno in termini
più generali (cf. 4,17 e 4,23), nelle parole iniziali del primo discorso manifesta la sua comprensione
più articolata e, in un certo senso, sottile. Per quanto riguarda il luogo, attraverso
le otto beatitudini appaiono categorie di persone che già possono affermare di «avere» il
regno. Per quanto riguarda il tempo, c'è da distinguere tra qualcosa che è
già dato – e che è in qualche modo il regno stesso (cf. la prima e l'ultima beatitudine)
– e qualcosa che sarà possibile solo in un tempo futuro (cf. le sei beatitudini centrali).
La rivelazione della presenza del regno in alcune persone conduce, naturalmente, a nuove e più impegnative
domande. Dove si trovano queste categorie di persone? Vanno cercate tra i discepoli o si possono trovare dovunque?
Legando insieme due dati evidenti si può arrivare ad una risposta convincente. Le prime otto beatitudini sono
alla terza persona plurale e non, invece, al «voi» come quelle lucane (Lc 6,20-21). Gli ascoltatori di
queste parole comprendono chiaramente sia i primi discepoli di Gesù sia le folle che – come si è
visto – rappresentano Israele e le genti. Le categorie di coloro che possiedono il regno non è
circoscritta a nessuno di questi due gruppi: non alle folle, ma neanche ai soli discepoli.
I poveri in spirito, coloro che sono capaci di affliggersi, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i
misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati a causa della giustizia possono trovarsi
tanto tra i discepoli quanto tra le folle più diverse. L'uso della terza persona plurale ha proprio la
funzione di far passare alcuni tipi di persone alle quali il regno di Dio è già dato e che, in futuro,
ne saranno compiutamente beneficate davanti agli occhi di qualunque ascoltatore, senza discriminazioni.
Gesù non dice: «Il Regno di Dio è presente nei miei discepoli». I discepoli sono presenti
in primo piano, come uditori privilegiati del discorso della montagna, ma non sono i soli potenziali beati.
Gesù dice loro – come per altro lo dice alle folle – quello che pensa lui, quello che vede lui a
riguardo del regno! Ciò che Gesù vede è: il Regno di Dio c’è ed esso appartiene ai
poveri in spirito, ai miti, ecc., siano o non siano suoi discepoli. Per Gesù la cosa principale non è:
essere o non essere discepoli; ma è piuttosto: essere o non essere persone di un certo tipo! Tutto per lui
dipende da come un uomo è, da come una donna è.
Queste prime parole di Gesù, secondo Matteo, presentano, su questo punto, corrispondenze importanti con le
ultime parole che, sempre secondo Matteo, Gesù pronuncia in pubblico e che riguardano la fine dei tempi
secondo Matteo (cf. Mt 25,31-46).«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti
i suoi angeli, allora si siederà sul suo trono della sua gloria e saranno raccolte davanti a lui tutte le
genti e separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai i capri, e staranno le pecore a
destra e i capri a sinistra» (Mt 25,31-33). Di fronte a questa scena forse molti di noi sono tentati di
sospettare un errore. Non sarebbe molto meglio descrivere così: a destra ci sono i credenti e a sinistra i non
credenti? Poi si potrebbe precisare: Gesù allora, rivoltosi verso i credenti, distingue fra credenti bravi,
spinti a destra, e credenti non bravi, cacciati a sinistra. In seguito, guardando dall’altra parte, potrebbe
dividere i non credenti bravi dai non credenti cattivi.
Gesù, però, racconta un’altra storia. Tutte le genti giungono alla parusia e, solo lì,
sono divise in due gruppi senza che ci sia una disgiunzione previa tra discepoli e non discepoli. Il racconto
di Gesù fa vedere anche che i singoli, nemmeno allora, capiscono bene l'accaduto. Dicono i buoni:
«Quando, Signore, ti abbiamo dato da mangiare?». Gli altri incalzano: «Quando, Signore, non ti
abbiamo dato da mangiare?». E forse vorrebbero aggiungere: «Ma figurati! Se tu fossi veramente venuto
affamato e ti fossi mostrato, noi certamente ti avremmo nutrito». Il messaggio è molto chiaro dunque.
Gesù guarda alla qualità della persona. Ciò che una persona pensa di sé stessa conta
veramente poco. Anche noi, quando sentiamo una persona che parla di sé, non sempre ci fidiamo. Ci fidiamo
piuttosto più dei nostri occhi. C’è gente che dice di essere brava, ma in realtà
è pasticciona od egoista; altri dicono di non saper fare niente, invece sono efficienti. C’è
qualcuno che si sente povero, mentre gli altri pensano che sia soltanto avaro. C’è chi sente pigro e,
invece, è generoso. L’esperienza insegna che raramente azzecchiamo nel giudicare noi stessi. Gesù
non si lascia condizionare da ciò che l'uomo pensa di sé.
In conclusione, il messaggio di Gesù sul regno di Dio riguarda l'insieme della storia umana. Il regno di Dio
non è circoscritto alla Chiesa dei discepoli, ma ha una dimensione universale che riguarda tutta
l’umanità. Il regno dei cieli tocca tutta la realtà e ci sono uomini che lo possiedono a tutte
le latitudini di convinzioni e di esperienze. Al regno si appartiene entrando nella tensione degli atteggiamenti
indicati dalle beatitudini.
E la Chiesa? E i discepoli? Non stiamo forse esagerando nel liquidare così la Chiesa? Non
è forse sempre stato detto che il vangelo di Matteo è proprio quello che s'interessa di più
della Chiesa? Sono giuste le spiegazioni che stiamo proponendo?
La Chiesa è il soggetto della nona beatitudine, che si distacca dalle prime otto per il
passaggio al «voi». In questo modo i discepoli, che occupano il primo posto nell'ascolto, sono rimessi in
primo piano come destinatari. Gesù non li ha dimenticati. Più dietro ci sono le folle: se vogliono
salire più vicino a Gesù, possono farlo anche loro. «Beati voi quando vi insulteranno,
vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed
esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato
i profeti prima di voi» (5,11-12).
E' con questa nona beatitudine che Gesù parla dei cristiani. Quando i cristiani avranno delle
difficoltà molto serie, delle difficoltà ingiuste; quando saranno perseguitati «per causa
sua», allora i discepoli potranno rallegrarsi ed esultare. La motivazione finale collega la ricompensa nel
regno alla qualifica di «profeti». Ecco una parola veramente difficile. Chi sono i profeti? Ci sono,
nell'Italia, di oggi dei profeti, e chi sono?
Per Gesù i profeti sono dei credenti, che si staccano dagli altri e diventano profeti in quanto conoscono il
disegno di Dio, cercano di viverlo e lo propongono. Il regno di Dio è per tutti gli uomini. Pensiamo alla
svariate forme di religione nel mondo. Il regno di Dio è per i cristiani, per i musulmani, per gli induisti,
per i buddhisti, per gli animisti, persino per alcuni «senza Dio». Gesù guarda e vede uomini di
ottima qualità – uomini del Regno di Dio – in tutto il mondo. Chi sono allora specificamente i
cristiani, i discepoli di Gesù? Sono coloro che non solo possono appartenere al regno, ma anche lo conoscono.
Conoscono questo stupendo disegno divino e ne diventano i profeti. Proprio per questo loro impegno d'annuncio
possono venire anche perseguitati. E' a questo livello che essi hanno una beatitudine propria, che certo è
esclusa ai non discepoli.
Possiamo usare la parola «profeta» in un altro senso, designando - come facevamo prima – personaggi
emergenti per le loro impegnative azioni. Non è, però, legittimo restringere il concetto di
«profeta» utilizzato da Gesù. Per lui i profeti sono i credenti in quanto conoscono quello che
è dentro a tutta la storia. Il Regno è per tutti gli uomini; i profeti del Regno sono invece i
credenti. Lavorando, poi, alcuni credenti si mostreranno più bravi e inventeranno qualcosa di migliore al
servizio del Regno. Questa pagina di Matteo è davvero indimenticabile. Adesso si capisce anche perché
il nostro evangelista abbia riscritto Marco, presentando prima un concetto generico del regno per giungere poi ad una
visione tanto precisa e articolata nelle prime parole del primo discorso di Gesù. Egli ha atteso questo
momento per mostrare ciò che è specifico di Gesù, ma adesso è perfettamente chiaro come
Gesù vede il regno di Dio e la sua attuale presenza.
La nona beatitudine viene come prolungata da alcuni detti, in cui Gesù, continuando
ancora con il «voi», procede ancora a tratteggiare, con nuove frasi, la realtà teologica dei
discepoli. «Voi siete il sale della terra» (5,13a). I discepoli, essendo profeti, sono di
fatto il sale che dà il giusto sapore. Proprio per questo egli si rivela preoccupato: «ma se il
sale perdesse il suo sapore, con che cosa lo si potrebbe rendere salato? Non serve che ad essere buttato via e
calpestato dagli uomini» (5,13b). Ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si può rendere
salato? In questa frase Gesù sembra quasi angosciato... «Non serve che ad essere buttato via e
calpestato dagli uomini».
«Voi siete la luce del mondo. Non può una città collocata sopra un monte rimanere nascosta;
non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce su quanti
sono nella casa» (5,14). Gesù sta parlando di tutti i cristiani, non di quelli più
intelligenti. Abbiamo così un'affermazione ancora più impressionante del discorso del sale. I
cristiani, i discepoli di Gesù – in quanto sono uomini delle beatitudini e profeti che conoscono il
disegno di Dio – sono luce del mondo.
«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini affinché vedano le vostre opere belle e
rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (5,16). I cristiani sono sale della terra e luce del
mondo quando fanno le loro opere che sono «belle». La traduzione liturgica della C.E.I. parla di
«opere buone», ma il testo greco porta inequivocabilmente «opere belle» (tà
kalà érga). Quando il comportamento dei cristiani è bello, luminoso, chiaro e lascia
intravedere che essi agiscono in un determinato modo perché sono in collegamento col Padre celeste, allora si
compie la profezia del regno. Il v. 16 è fondamentale nella struttura del discorso della montagna
perché esso offre la motivazione profonda dei comportamenti radicali che vengono proposti nel seguito. La
scommessa in gioco è che i cristiani emanino una luce tale da mostrare inequivocabilmente, nella loro azione
di discepoli di Gesù, la paternità divina.
«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto ad abolire, ma per dare compimento» (5,17). Con queste parole incomincia il corpo del discorso della montagna, che terminerà con la famosa regola d’oro: «Quello che volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro: questa è tutta la legge e i profeti» (7,12). Tutto il corpo del discorso si trova incluso tra la coppia decisiva «legge o/e profeti». Non si può capire bene Gesù, se non si capisce bene la sua relazione con la legge e i profeti. Un primo dato è evidente: Gesù non è venuto ad abolire la legge di Mosé e i profeti. La legge e i profeti non sono eliminati. Un secondo aspetto merita più attenzione. Se Gesù non è venuto ad eliminare, non è venuto nemmeno semplicemente a confermare, a dire che davvero bisogna seguire Mosé e i Profeti. Il vero scopo della venuta di Gesù è «dare compimento». Il testo greco parla di «riempire». Per poter riempire, però, è necessario avere qualcosa in più. Per definizione non è più sufficiente quello di cui si disponeva prima. Di fatto Gesù dice qui di essere venuto non ad abolire, né a confermare, ma ad aggiungere. Le sue parole sono, in questo caso, simili a quelle dette a Giovanni Battista al momento del battesimo: «Lascia che io e te riempiamo ogni giustizia» (3,15). Il verbo è lo stesso. Il termine «giustizia» ritorna invece in Mt 5,20.
Leggiamo ora il v. 20, in cui Gesù dice ai suoi ascoltatori: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20). Gesù non è venuto ad eliminare, ma a riempire la legge e i profeti. Chi, facendo la «persona molto brava», crede con questo d'appartenere al regno, probabilmente sbaglia. Molto bravi – secondo un parametro che pure intende rifarsi alla legge e ai profeti – sono anche gli scribi e i farisei, eppure non appartengono per questo al regno. Nella recezione di Mt 5,20 dobbiamo stare attenti a non essere influenzati dall’immagine negativa di scribi e farisei, presente nel maggior numero di passi matteani con riferimento a questi gruppi. Condizionati dallo stereotipo degli «scribi e farisei ipocriti» c’è il rischio che si comprenda questa parola di Gesù in maniera superficiale e banale: «Se la vostra giustizia non supererà quella, ipocrita e falsa, di scribi e farisei». La frase di Gesù sarebbe così completamente stravolta. Temo però che molti fedeli capiscano così, e credano di essere a posto semplicemente non essendo ipocriti. Se invece la si legge bene, la frase diventa un criterio valido permanentemente. Essa dichiara che se la nostra giustizia (cioè quello che noi facciamo e ciò in forza di cui siamo quello che noi siamo) non supererà quella di scribi e farisei – che tra gli Israeliti si pensano come i più attenti ad osservare la legge e i profeti – non potremo entrare nel regno dei cieli.
Gesù spiega cosa significhi «riempimento» (5,17) e
«superiorità» (5,20) di legge e profeti, fornendo sei esempi, che costituiscono le famose
antitesi. Esse sono formate da due terne: come le prime otto beatitudini sono divise in due gruppi di quattro, le
sei antitesi sono raggruppabili in tre più tre. Ciascuna di esse presenta quasi due piatti di bilancia.
Sul primo piatto Gesù pone l’insegnamento della legge e dei profeti; sul secondo butta invece il suo
insegnamento, sbilanciando drammaticamente la proporzione. Percorriamo rapidamente i sei esempi.
«Avete inteso che fu detto agli antichi («fu detto» è
un passivo dietro cui si deve sottintendere «da Dio»): ‘Non uccidere, ma chi avrà
ucciso sarà sottoposto al giudizio’. Io però vi dico (Gesù viene a riempire!):
chiunque si arrabbia con il proprio fratello sarà sottoposto al giudizio». Questa è
l’antitesi più facile. La legge afferma che chi uccide un uomo viene a sua volta ucciso. Gesù,
invece, dichiara che chi si arrabbia con qualcuno finisce nella Geenna. Questa è la giustizia superiore,
sovrabbondante, completata in forza dell'autorità e della parola di Gesù. Ecco un esempio di ciò
di cui i discepoli devono essere affamati e assetati; di ciò per cui si viene dichiarati beati; di ciò
di cui si è profeti e di ciò per cui vale la pena di essere perseguitati!
Il primo discorso diventa sempre più chiaro e concreto. Da questo punto di vista, si capisce bene cos'è
il cristiano. Forse egli è uno che non riesce a vivere del tutto questa antitesi, ma che però
non rifiuta di trovarsela scolpita addosso dalle parole dell'unico Maestro. Anche se non riesce sempre a viverla fino
in fondo, essa è qualcosa per cui lui vuole vivere, è ciò di cui lui ha fame e sete e di cui
vuole essere profeta. Forse è utile un riferimento a una mentalità oggi diffusa. Alcuni (o molti)
cristiani pensano: «Se riesco a vivere una certa situazione, se ce la faccio ad essere coerente, allora predico
una tale esigenza. Se invece non ci riesco, almeno non voglio essere ipocrita: non predicherò agli altri
ciò che io non faccio». Occorre stare ben attenti su questo punto. Dire di fare ciò che non si
fa sarebbe ipocrisia insopportabile; essere, però, profeti del regno significa annunciare non il poco che -
magari goffamente – si realizza, ma testimoniare quello che si è compreso dal vangelo. Bisogna
cercare di fare; bisogna sforzarsi d'essere sinceri a riguardo di se stessi; ma bisogna con altrettanta forza
testimoniare quali sono gli obiettivi, che abbiamo accettato dal vangelo. Non possiamo immiserirlo limitandolo
alle nostre effettive realizzazioni. Interessa forse a qualcuno dove siamo giunti noi? Il mondo va avanti anche senza
di noi! Dove si giunti, interessa al singolo discepolo. Si è «sale», «luce»,
«profeta» se – arrivati dove si è arrivati – sappiamo capire e confessare verso cosa
ci ha spinti Gesù.
La seconda antitesi è del tutto chiara: «Fu detto: ‘Non commettere adulterio’; ma io vi
dico: chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso con lei adulterio nel suo cuore». Le due
prime antitesi presentano due preoccupazioni tipiche dei rabbini: la pericolosità dell’ira e la
pericolosità della donna. Forse il secondo punto potrebbe tradursi oggi nei termini: pericolosità
della sessualità lasciata a briglie sciolte. Su questi due terreni Gesù aveva (ed ha ancora) molti
compagni di strada.
Ma Gesù avanza oltre. Con la terza antitesi arriva a una sua determinazione caratteristica. «Fu pure
detto: ‘Chi ripudia la propria moglie le dia l’atto di ripudio’; ma io vi dico: chiunque ripudia
una moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e che sposa una donna ripudiata commette
adulterio». Su questo terreno, invece, Gesù ha perso molti amici. Non si tratta qui più
soltanto del problema dell’adulterio, ma di una questione ben più drammatica: cosa si deve fare quando
il matrimonio non funziona più? La presa di posizione di Gesù ci riporta le sue parole: «Se la
vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei
cieli». Scribi e farisei dicevano più o meno quanto molti sostengono anche oggi: se due non si
amano più, si dividano, basta che continuino a trattarsi con rispetto. Mosé si era preoccupato che,
in caso di ripudio, il marito desse un libello chiaro alla moglie in modo che essa fosse libera e la situazione
trasparente. Il marito doveva restituirle la libertà, rendere la dote rimasta, impegnarsi a non risposarla
più (cf. Dt 24).
Su questo punto Gesù è intervenuto in maniera nuova e risoluta. Su questo suo intervento, nel
corso della storia, sono spesso sorti gravi problemi. Senza negare i dibattiti molto importanti sulla pastorale dei
matrimoni interrotti, dei divorziati risposati, ecc. occorre affermare che questa determinazione evangelica ci
rimette sull’asse centrale del regno di Dio, della sua giustizia e delle esigenze della profezia cristiana.
Le ultime tre antitesi sono in un crescendo fortissimo. Con la terza antitesi Gesù si è già
decisamente allontanato dal pensiero dei rabbini del suo tempo, andando in un settore in cui nessuno aveva mai osato
procedere con una tale radicalità. Tuttavia il livello più alto è raggiunto nella seconda
terna di antitesi.
«Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non giurare il falso’; ma io vi dico: non giurate
affatto. Il tuo dire sia: sì sì, no no; il di più viene dal maligno”. A Gesù il
giuramento non piace, in quanto pensa che l’uomo che dovrebbe esserci è un uomo che dice sempre quello
che pensa: il sì è il sì, il no è no, «il di più viene dal
maligno». Gesù non amava il chiamare Dio in causa per sostenere che in quel momento stiamo dicendo
davvero la verità. E’ un ideale molto grande questo proposto da Gesù: un uomo perfettamente
trasparente, che dice quello che veramente pensa.
La quinta antitesi segna l’abbattimento della «legge del taglione», cioè la proporzione tra
il danno subito e la pena esigita: non più occhio per occhio, né dente per dente, né schiaffo
per schiaffo, ma «se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra».
Già il taglione serviva a moderare la vendetta (cf. per contrasto Gen 4,23-24). Questa giustizia proposta
da Gesù prevede non il risarcimento in stretta proporzione, ma l'abbandono della catena
azione-reazione-controreazione...
Accenniamo appena all'ultima antitesi. «Fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo’ e odierai il tuo
nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici, pregate per i vostri persecutori». E' in queste parole che
troviamo l'essenza dell'amore cristiano: non si tratta di un amore in senso generico e, nemmeno, soltanto dell'amore
al prossimo come a noi stessi. La verità del compimento portato da Gesù sta nell'amore al nemico. E'
soltanto questo tipo d'amore che mette gli uomini in cammino per diventare figli di Dio. Di conseguenza, è
soltanto questo tipo di carità che manifesta la paternità di Dio attraverso la vita dei discepoli di
Gesù.
Nella strategia narrativa e teologica di Matteo il discorso
della montagna serve ad indicare, finalmente, la presenza del regno dei cieli
con le modalità specifiche del pensiero di Gesù. Egli rivela
che il regno da lui annunziato è presente nelle categorie di persone
indicate dalle beatitudini. Un tale tipo di uomini non è legato al solo
Israele, ma può presentarsi presso qualunque popolo e in qualunque categoria.
Il gruppo dei discepoli di Gesù non nasce come una realtà che
realizzi un tale regno, ma essi appaiono piuttosto come i profeti di questo
regno. Abbiamo anche affermato che si può essere profeti in questo senso
se ci si fa carico degli obiettivi indicati da Gesù, senza lasciarci
bloccare nel testimoniare dalle nostre non complete realizzazioni.
Al tempo stesso i cristiani sono i custodi dell’idea di compimento
della legge e dei profeti e anche dei contenuti di tale compimento, esemplificati
dalle antitesi. Essi sono chiamati a vivere la giustizia superiore e a lasciar
trasparire i livelli e le tensioni di vita evangelica che hanno saputo accogliere.
Questo cammino deve essere fatto nella vera umiltà. Guai al credente
che pensasse di poter vantarsi: «Io sì, che sono uomo delle antitesi;
io sì, che sono donna delle Beatitudini». In 6,1 Gesù dice:
«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini
per essere ammirati da loro, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre
vostro che è nei cieli». Lo splendere della luce delle opere
belle (5,16) deve essere commisurato bene con la necessità del segreto.
Il primo discorso di Gesù secondo Matteo continua con nuovi temi affascinanti.
Noi possiamo però interrompere non solo perché il tempo è
scaduto, ma poiché quanto abbiamo indicato costituisce il tronco vigoroso,
essenziale alla forza degli altri rami.
Per altri articoli e studi di Ermenegildo Manicardi o sul vangelo di Matteo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici