Il Verbo carne nel vangelo di Giovanni: la gloria dell’Unigenito e i suoi segni
di Ermenegildo Manicardi

Mettiamo a disposizione on-line anche sul nostro sito la conferenza tenuta da Ermenegildo Manicardi per l’Azione Cattolica di Carpi all’interno del ciclo Le giornate de Vangelo, nell’anno 2000/2001, già disponibile sul sito della stessa associazione. Il testo conserva lo stile discorsivo tipico di una relazione e non è stato rivisto dall’autore. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line del testo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2007)


Indice


1. Introduzione

1.1. Giovanni «vangelo spirituale»

Solitamente il vangelo di Giovanni (Gv) è letto durante i cosiddetti “tempi forti”, cioè nei momenti in cui si celebra un grande mistero di Gesù. Ad esempio, si ascolta il Prologo alla messa del giorno di Natale o alla messa di Capodanno; così anche la Passione di Gv viene letta ogni Venerdì Santo, mentre durante la domenica delle Palme sono proclamate le diverse passioni secondo gli altri tre vangeli sinottici.

I quattro vangeli canonici sono i più antichi: indubbiamente non esistono apocrifi antichi come loro. Sul numero “quattro” i Padri fecero da subito una forte speculazione: i quattro vangeli corrispondono alle quattro parti del mondo, ai quattro punti cardinali; come tutto l’universo si regge su quattro punti, così il messaggio del Vangelo si regge su quattro vangeli. Molto presto venne coniata l’espressione di “Vangelo quadriforme”: l’unico Vangelo si presenta a noi in quattro forme, esattamente come il panorama intorno a noi a 360 gradi comporta i quattro punti cardinali. Alcuni gruppi cristiani pensarono di avere vangeli più profondi (gli “apocrifi”); ad esempio il vangelo di Tommaso che comincia con le parole: «Queste sono le parole segrete (appunto: non conosciute nei quattro vangeli canonici) che Gesù il vivente disse e Tommaso Dìdimo (che significa “gemello”) scrisse». Ma fu proprio grazie a tale “quadrilatero” che nessuno mai riuscì a infilare i propri vangeli segreti nella Sacra Scrittura.

Però fra i quattro vangeli fu nota sempre la natura peculiare del vangelo di Gv. Se sin dal principio si percepì il quadrilatero dei vangeli, pure da subito si sentì che il quarto vangelo aveva una natura particolare. La definizione più famosa del vangelo di Gv fu data ad Alessandria d’Egitto, una delle più raffinate comunità dei primi tempi, che ebbe tra i suoi vescovi più famosi Clemente Alessandrino (vescovo intorno alla metà del II secolo). Questi formulò una distinzione nei vangeli per cui Gv venne definito “vangelo spirituale” (in greco to pneumatikon euanghélion), mentre gli altri tre vangeli, per contrasto, furono chiamati somatikon, cioè “corporali”.

Tale distinzione operata da Clemente Alessandrino conobbe una vasta diffusione, soprattutto grazie ad un suo discepolo che fu uno degli uomini più geniali che la Chiesa abbia avuto: Origene (anche lui di Alessandria d’Egitto), che visse tra la fine del II secolo e l’inizio del III e al quale la Bibbia deve tantissimo. Ad esempio, dal punto di vista tecnico: Origene ideò l’edizione della Bibbia in sei colonne con sei traduzioni diverse (in ebraico, la trascrizione dell’ebraico, varie traduzioni greche tra cui quella dei Settanta, con aggiunte di segnaletica critica del testo). Ma soprattutto ad Origene si deve lo sviluppo dell’esegesi “allegorica”, cioè di quell’esegesi interessata particolarmente al senso spirituale e non a quello materiale, “corporale” del testo. Proprio grazie a Origene il vangelo di Gv ha avuto sempre questo riconoscimento speciale, in quanto fu sempre percepito come un vangelo più in grado di portare dentro a percorsi spirituali.

Ci sono dei testi commoventi, soprattutto di Origene; uno è riportato all’inizio dell’opera “Giovanni maestro spirituale” di padre Donatien Mollat: «Non si può capire questo vangelo se non si fa quello che ha fatto il discepolo amato, se non si piega la propria testa verso l’abbraccio di Gesù come ha fatto il discepolo amato nell’Ultima Cena per sentire chi è il traditore». Insegna Origene che non si può capire il quarto vangelo se non si fa questo “piegamento” verso Gesù; e aggiunge: «Non si può conoscere bene questo vangelo se non si è il discepolo amato da Gesù e se non si riceve per madre la madre stessa di Gesù perché il discepolo amato, l’autore stesso del vangelo si sentì dire anche dal Signore morente: “Ecco tua madre” e questo stesso personaggio racconta: “E da quell’ora il discepolo la prese con sé”» (cfr. Gv 19,27).

La modernità ha percepito in termini più descrittivi, esterni, quel “qualcosa” che stacca il quarto vangelo dagli altri tre. Sul finire del 1700 lo studioso tedesco Griesbach inventò la “sinossi”, una “macchina” da studio che pone i quattro vangeli su colonne affiancate, così che si possa confrontare rapidamente, dall’inizio alla fine, cosa dice un vangelo rispetto ad un altro. La sinossi rivelò che tre colonne (Matteo, Marco e Luca) sono sostanzialmente uniformi: pur con diversità anche molto profonde, esse procedono similmente. Infatti la trama narrativa di questi tre vangeli è identica: può darsi che sia narrata l'infanzia di Gesù (Mt e Lc) oppure no (Mc), ma gli elementi presenti seguono uno stesso ordine, molto semplice. Secondo il loro racconto, il ministero di Gesù si presenta prima in Galilea, al nord della Palestina e, in seguito, intorno al lago di Galilea (o di Tiberiade); poi Gesù scende in un unico viaggio verso Gerusalemme, attraverso la Giudea e la Samarìa (su questo formulano diversamente i tre vangeli) e intanto, mentre Gesù avanza, si raccontano le sue azioni e le sue parole. Finalmente Gesù arriva a Gerusalemme, dove lo scontro con le autorità religiose si fa sempre più pesante; il ministero a Gerusalemme nei cortili del Tempio è sostanzialmente contenuto e presto arriva la Passione: Gesù fa appena in tempo a celebrare la Pasqua nell’Ultima Cena e, nella stessa notte, viene catturato e poi giustiziato. Infine questi tre vangeli presentano racconti ed esperienze dopo la Resurrezione.

1.2. Le peculiarità di Giovanni

Il vangelo di Giovanni non rientra in questo sistema. È sì vero che racconta episodi paralleli ai vangeli sinottici, ma sono presenti due profonde diversità, che mostriamo in modo sommario e che spiegano in parte la natura diversa di questo vangelo.

Innanzi tutto il vangelo di Gv rappresenta il ministero di Gesù non in un anno come i sinottici, bensì attraverso tre anni; infatti in Gv sono raccontati tre racconti di Pasqua, quindi la narrazione non segue più la sequenza: 1. Gesù in Galilea, 2. Gesù scende verso Gerusalemme, 3. qui Gesù muore. Il vangelo di Gv presenta diverse venute di Gesù a Gerusalemme: per tre volte Gesù, fin dall’inizio della narrazione, si reca a Gerusalemme per poi tornare in Galilea. Questo rende molto diverso il quarto vangelo, che non può essere messo in sinossi con gli altri. Allora dal 1700 i vangeli detti “corporali” dagli antichi vennero sempre più spesso chiamati “sinottici”, un termine inventato a tavolino che indica come Mt, Mc e Lc si possano “leggere insieme”. Di conseguenza Gv divenne più difficile da studiare, nell’Ottocento e anche all’inizio di questo secolo: perché è diverso? cosa ha di diverso? cosa vi sta dietro? quali comunità hanno lavorato a questo vangelo?

Vi è poi secondo un aspetto molto importante oltre a quello dell’ordine della narrazione: il linguaggio del vangelo di Gv è differente da quello dei sinottici. Nel quarto vangelo Gesù parla diversamente, molto diversamente. È proprio questo che fece dare agli antichi la valutazione che i vangeli sinottici erano vangeli “corporali”, “somatici”, che portavano le parole di Gesù e i fatti di Gesù così come erano avvenuti senza tanto approfondimento; mentre il vangelo di Giovanni era un vangelo “spirituale”, che portava il messaggio di Gesù e il racconto della vita di Gesù a un livello più profondo, più “spiritualizzato”.

Questo è il punto veramente interessante di tutta la questione. Il vangelo di Gv è un grandissimo approfondimento, i materiali che vengono da Gesù sono diventati più preziosi. Diciamo uno slogan semplice che può aiutare: nel vangelo secondo Gv Gesù parla come Giovanni (dando questo nome all’autore del vangelo). Invece di trovare da una parte lo stile narrativo dell’evangelista e dall’altra, quando Gesù parla, leggere le sue parole (come nei sinottici), nel quarto vangelo Gesù e l’evangelista parlano nello stesso modo, adoperano lo stesso linguaggio.

Con delle sorprese; ad esempio, è ben noto che il messaggio centrale di Gesù è concentrato attorno alle parole “Regno di Dio”, tant’è che nel “Padre Nostro” la richiesta principale è «Venga il tuo Regno» (Mt 6,10). Al contrario nel vangelo di Gv la parola “Regno” ritorna solo due volte, unicamente nell’episodio di Nicodemo: «Se uno non nasce dall'alto non può vedere il Regno di Dio»; «Se uno non nasce da acqua e Spirito non può entrare nel Regno di Dio» (Gv 3,3.5). È l’unica pericope in cui si trova il termine “Regno”.

Dunque si deve accettare tale passaggio: nel vangelo di Gv si è di fronte a un ripensamento profondissimo del messaggio di Gesù. La seconda metà del secolo XX ha mostrato che è molto profonda anche la teologia dei sinottici, che un tempo appunto veniva appiattita nella lettura di quella di Gv, immaginando che i sinottici fossero quasi privi di teologia, delle semplici ripetizioni. L’ultimo mezzo secolo ha mostrato chiaramente che anche i sinottici possiedono una teologia molto originale; però essi non creano la loro teologia “pressando” le parole di Gesù, bensì compilandole senza evidenti trasformazioni verbali, in composizioni che, appunto, le interpretano, ma non le trasformano.

Nel vangelo di Gv, invece, è come se le parole di Gesù di carbonio fossero “pressate” fino a diventare dei diamanti: questa potrebbe essere l’immagine. Dunque il vangelo di Gv viene da una comunità che ha approfondito in maniera specialissima il messaggio di Gesù e lo ha riproposto con autenticità, secondo la mentalità che la comunità era andata elaborando. Allora chi è alla ricerca di Gesù di Nazaret certamente deve fare un lavorio molto complesso per arrivare al Gesù che sta dietro sia al vangelo di Gv, sia ai vangeli cosiddetti sinottici.

1.3. L’importanza del vangelo di Giovanni nella liturgia odierna

Il grande fatto che la Chiesa Cattolica sia passata, per la prima volta nella storia, a pensare tre cicli annuali sui sinottici più l’uso di Gv nei tempi forti, esige dalle nostre comunità una maturità che è anche intellettualmente impegnativa. Non è raro vedere persone che cercano la risalita a Gesù con tutti gli elementi presi indistintamente da un vangelo o da un altro; ovviamente tale sistema non è veramente soddisfacente per la mente. La risalita a Gesù è decisamente più complessa ed è necessario rendersene conto. L’utilizzo dei vangeli è talmente difficile che, per molti secoli, non c’è stato da parte della Chiesa interesse a farli conoscere direttamente; per diversi secoli si sono letti unicamente alcuni brani la domenica. C’era grande interesse alla catechesi, ma non si pensava alla lettura dei vangeli come ad un obiettivo pastorale o spirituale. I grandi santi (ad esempio, santa Teresa del Bambin Gesù) compresero ugualmente che l’uso dei vangeli era importantissimo; ma vi arrivarono da soli, non grazie alla pastorale del tempo, la quale, nonostante la loro intuizione, non mutò affatto.

La chiesa cattolica nel ’65, col Concilio Vaticano II, ha cambiato moltissimo su questo punto. Si ritiene che i credenti tutti debbano non pensare come vogliono sui vangeli, ma debbano avere un accesso diretto ai vangeli. La liturgia si è arricchita di molte parole e la pastorale è arrivata al punto che, per procedere davvero, nelle liturgie domenicali c’è il bisogno di approfondire veramente la comprensione dei vangeli. Certamente ne ha bisogno il predicatore, ma, altrettanto sicuramente, anche i credenti. La riforma liturgica ha fatto il primo passo; rimane ancora un approfondimento che non può essere demandato semplicemente alle omelie. I cattolici dovrebbero pensare (con meno complessi e con molto più realismo) che per molti secoli del secondo millennio non c’è stata la preoccupazione pastorale che la gente conoscesse il testo biblico: non soltanto le “misteriosità” dell’Antico Testamento, ma persino il testo evangelico! Allora oggi è necessario essere ben consci che, per tale cambiamento di Chiesa, occorre un profondissimo cambiamento di mentalità, appunto perché i vangeli non sono minimamente facili da “usare”. Tuttavia la chiesa del Concilio Vaticano II ha capito molto bene che non ci può essere ricchezza di vita spirituale in un credente e in una comunità senza utilizzo dei vangeli.

È un cambiamento che non deve stupire; ci sono state epoche in cui si teneva la gente lontana dall’Eucarestia per evitare sacrilegi. Ad esempio, a fine del secolo XIX, la stessa santa Teresa del Bambin Gesù non faceva la Comunione tutti i giorni. Nemmeno le monache di clausura si comunicavano tutti i giorni; partecipavano all’Eucarestia, ma si accostavano alla Comunione raramente e col permesso del padre spirituale o del confessore. Si riteneva di avere così un grande rispetto, di rendere molto più intensa l’Eucarestia. Su questo punto la chiesa ha modificato alla fine dell’Ottocento, e oggi è per noi impensabile andare all’Eucarestia con intensità senza fare la Comunione. Quante difficoltà ha procurato il riportare l’Eucarestia e quante ne comporta oggi! Infatti alcuni sono preoccupati che ci siano più Comunioni che confessioni e che la gente si comunichi senza confessarsi sufficientemente.

Il discorso sull’Eucarestia, attorno alla quale c’è stato un ponderoso cambiamento pastorale, è parallelo al discorso sulle Scritture. Alla fine dell’enciclica “Dei Verbum” il Concilio Vaticano II afferma proprio che è da sperare un grande rinnovamento dalla accresciuta venerazione della parola di Dio, così come c’è stato un grande rinnovamento dalla accresciuta venerazione dell’Eucarestia (cfr. DV 26). Nei tempi forti sarebbe dunque necessario che il predicatore e coloro che ascoltano il vangelo si rendessero conto della diversità, della bellezza e della peculiarità del vangelo di Gv.

1.4. Struttura del vangelo di Giovanni

Le osservazioni che faremo riguardano la prima parte del vangelo, poiché Gv è diviso in due parti nettamente distinguibili. L’intero vangelo è composto di 21 capitoli; il ministero di Gesù è raccontato in 12 capitoli (di fatto la metà del vangelo). In questi 12 capitoli sono narrate tutte e tre le Pasque che ha celebrato Gesù, dunque un periodo che abbraccia più di due anni. Da 13,1 comincia la seconda metà del vangelo tutta concentrata sulla parte finale della vita di Gesù e, da un punto di vista materiale, soprattutto sull’Ultima Cena. Infatti i capp. 13-17 (sono 5 capitoli su 21: quasi un quarto dell’opera!) sono discorsi tenuti da Gesù durante l’Ultima Cena, la quale non presenta nessuna traccia dell’istituzione eucaristica: inizia con la Lavanda dei piedi (cap. 13) e chiude con la grande preghiera di Gesù: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te...» (cap. 17). Segue la narrazione di passione, morte del Signore e risurrezione. Dunque vi sono due grandi parti.

Il quarto vangelo, però, è complicato anche da un’altra caratteristica: da tempo gli studiosi si sono resi conto che esso è stato “pubblicato” due volte. La prima volta finiva in 20,30-31 («Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome»). In un secondo momento è stato aggiunto un altro capitolo finale, il cap. 21, con una ulteriore chiusa, e in quell’occasione forse sono stati inserite altre pericopi anche nella prima parte (però questo è molto difficile da valutare). È ovvio che un libro che viene pubblicato due volte, con dei rifacimenti, porta il segno di una riflessione teologica molto robusta. Attenzione però: riflessione teologica robusta non significa allontanarsi dalla vita di Gesù, bensì cercare di pensarla sempre più approfonditamente.

2. Il “Prologo” come annuncio

Adesso concentriamo la nostra riflessione sui primi dodici capitoli. Subito ci si imbatte in una caratteristica da sempre considerata la principale nel vangelo di Gv: il cosiddetto “Prologo”. Il vangelo di Gv comincia con un brano quasi in poesia che copre i primi diciotto versetti e che non si elogia mai abbastanza. Il romanzo di U. Eco “Il nome della rosa” inizia proprio con tale testo, con Adso da Melk che scrive: «“In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”: non ci sono parole più preziose di queste che debbano essere ripetute per tutta la vita». Il Prologo è una chiave di lettura nuovissima; si rimane increduli non semplicemente per la partenza (che parla di un “principio” che è prima di ogni principio!), ma perché è impossibile non chiedersi come abbia potuto un uomo fare una sintesi così potente da immaginare che Gesù di Nazaret fosse il “Verbo di Dio”. Il Cristianesimo non è immaginabile senza questo testo: il modo nel quale il Cristianesimo è stato concepito e pensato nel corso dei secoli deve tantissimo a questo brano, tanto che, nell’immaginario dei quattro animali simbolici, si è dato a Giovanni il simbolo dell’aquila, che vola altissima. Dunque Gv deve la sua forza principale a questo aspetto: raccontare la vita di Gesù di Nazaret non semplicemente come vita di Gesù di Nazaret (cioè di un uomo che ha fatto certe cose), bensì leggendo la vita di Gesù di Nazaret come la vita di un uomo che era il Verbo incarnato di Dio! È questo che ha reso “spirituale” il vangelo di Gv.

Il titolo della nostra relazione è “Il Verbo carne”: Gesù è il Verbo carne! Ovviamente queste parole nei sinottici non si trovano assolutamente. Fra di loro i sinottici si differenziano soltanto in un punto su queste cose. Marco (Mc), il vangelo più antico, comincia a raccontare il ministero di Gesù da quando Giovanni il Battista appare nel deserto della Giudea e preannuncia la venuta di uno più forte di lui. Matteo (Mt) e Luca (Lc), senza sapere l’uno dell’altro, premettono entrambi due capitoli in cui si interessano di come Gesù è nato; soprattutto trasmettono Gesù concepito dalla vergine Maria e nato a Betlemme; poi elaborano Lc il racconto dei pastori, Mt il racconto dei Magi. Ripetiamo che nessuno dei due evangelisti conosce il vangelo dell’altro; semplicemente all’interno della loro chiesa hanno cercato tradizioni che illustrassero il dato nuovo (rispetto al tessuto di Mc) del concepimento verginale di Gesù. Però né i vangeli di Mt e di Lc, né tanto meno quello di Mc, si chiedono dove fosse Gesù prima di essere concepito verginalmente nel grembo di Maria; chi era Gesù? ha cominciato ad esistere allora? È una domanda a cui non siamo abituati; d’altra parte abbiamo appena detto che la lettura dei vangeli non è una passeggiata innocua.
Da questo punto di vista si può capire molto bene che cosa ha di originale Gv. A differenza di Mt e Lc, Gv non si interessa dell’infanzia di Gesù. Infatti in 1,19 parte nel suo linguaggio dallo stesso punto nel quale è partito Mc, cioè dal ministero di Giovanni Battista; però premette il Prologo, che ora percorriamo.

2.1. L’annuncio dell’esistenza del Verbo eterno in Dialogo con Dio

In 1,1 si annuncia che «In principio era il Verbo», cioè: prima di ogni principio, prima che potesse esistere anche l’idea di tempo, esisteva “il Verbo”, che significa “la Parola”; «e la Parola era presso Dio». È una rilettura drastica di tutta la Bibbia, la quale comincia con le parole: «In principio Dio creò il cielo e la terra»; poi «Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu» (Gen 1,1.3). Se si legge il racconto della Genesi, non si vede nient’altro che il Dio unico il quale, attraverso la sua parola («disse»), crea la luce e tutto l’universo. L’intuizione d’aquila di Giovanni, e forse della sua comunità prima di lui, ha approfondito la conoscenza di Gesù che portava delle parole eterne profondissime, giungendo ad intuire che Gesù non era solo Colui che portava la parola di Dio, ma Lui stesso era la Parola di Dio. Gesù non parlava soltanto “parole di vita eterna”, ma era questa “Parola” ed era questa “vita eterna”! Il passaggio stupendo è proprio questo. L’inizio del Prologo comincia presentando la realtà di Dio in una maniera incredibilmente profonda partendo da tale idea nuova: sin dall’inizio presso Dio c’era il Verbo.

Anzi, Gv imposta le cose proprio a partire dal Verbo: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Poi lo ripete per chi non avesse ancora capito: «Egli era in principio presso Dio» (v. 2). Qui viene profondamente ritoccata l’idea di Dio. Dio è comunione, da sempre. Dio non entra in comunione semplicemente quando crea il mondo o quando chiama Israele “suo popolo”, poiché Dio è comunione da sempre; da sempre Dio è dialogo. Nel mondo globalizzato in cui viviamo, il discorso sui cosiddetti “monoteismi” è molto interessante; si afferma che il mondo ebraico, il mondo musulmano e quello cristiano sono tutti “monoteisti”. È vero, ma bisognerebbe usare con molta attenzione questa parola, in quanto i tre mondi sono monoteisti in un senso molto diverso. Il Dio cristiano è un “monoteismo comunionale”, e la comunione non nasce dal fatto che ci sono due cose che è meglio tenere unite affinché non vadano in conflitto: la comunione è l’essenza stessa di Dio. Non ci si meraviglierà allora che nella prima lettera di Giovanni si legga, in una delle migliori sintesi del Nuovo Testamento, che «Dio è amore» (1 Gv 4,8). Dio è amore nel senso di questa comunione: la Deità è una comunione.

2.2. L’annuncio della mediazione del Verbo nella creazione

Il testo continua in ritocchi “drammatici” della Bibbia: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste» (v. 3). Senza il Verbo eterno Dio non ha fatto nulla; il Verbo è impresso in ogni cosa creata. Questo è la base del messaggio universalistico del Vangelo e della Chiesa. Prima di essere conosciuto il Verbo è inscritto dentro a tutto ciò che esiste poiché, dice appunto il quarto vangelo, «tutto è stato fatto [da Dio] per mezzo di Lui [il Verbo]e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».

Continua ancora: «In lui era la vita» (v. 4). Bisogna cogliere bene queste parole. Dov’è la vita: nelle nostre cellule? nel genoma? Da dove ha origine la vita? Qui c’è una risposta: nel Verbo eterno, «in lui era la vita». È un testo incredibile; adesso sono più chiare le parole di Adso da Melk quando asserisce che è impossibile scrivere un testo più profondo di questo. La vita non dei soli cristiani, ma tutta la vita è stata plasmata dal Verbo di Dio, è stata plasmata da Dio nel suo Verbo, nella sua Parola.

«In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Nel caso degli uomini la vita è diventata anche luce: perché? Perché l’uomo è intelligente, può conoscere, può cercare. Ciò significa che la vita nell’uomo diventa luce: «in Lui era la vita» e questa vita «era la luce degli uomini».

Segue poi una frase durissima: «La luce splende nelle tenebre» (v. 5). Questa è una brutta notizia: la luce è in un posto che la vuole soffocare. «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno soffocata»: la versione liturgica, al posto di «soffocata», traduce «accolta», che invece pare essere un errore di comprensione del greco.

Queste pochissime righe sono di importanza capitale per capire il vangelo di Gv: è proprio tale passaggio che lo rende diverso in tutti i punti rispetto ai vangeli sinottici.

2.3 L’annuncio dell’incarnazione del Verbo e della conseguente manifestazione della sua gloria

Non potendo spiegare l’intero Prologo, passiamo al v. 14 saltando tutta la riflessione cifrata e bellissima sull’Antico Testamento, sulla venuta del Verbo come luce nell’umanità attraverso il cammino degli uomini fino alla nascita di Gesù (vv. 6-13).
Al v. 14 si trova un passaggio fondamentale; il Verbo in cui erano la vita e la luce è venuto come luce del mondo, ma è venuto anche come Verbo: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre pieno di grazia e di verità». Questo versetto è stato inserito anche nel Credo: «Et verbum caro factum est et habitavit in nobis». Gv afferma che il Verbo eterno di Dio nel quale è stato fatto tutto, eterno e divino come il Padre, in dialogo con il Padre da sempre, nel quale sono state fatte tutte le cose; ebbene questo Verbo si è fatto carne. C’è un contrasto fortissimo; non dice “uomo”, ma: «e il Verbo carne si fece». Nulla è più diverso dalla “Parola” (che è soffio, che è spirito, che è comunicazione perfetta) della “carne” (che esprime concretezza, limite). Quello di Gv sarà tutto un vangelo su Gesù letto come «Verbo fatto carne».

Verrebbe la tentazione di dire che è uno scempio, poiché il problema dell’uomo sembra essere proprio quello di sfuggire la carne, di rendere eterna la realtà di vita che è dentro la carne e che nella carne si presenta sempre come transitoria, frammentaria, destinata alla corruzione. Non c’è carne che si salvi! La parola nella Bibbia era celebre: «Ogni carne (cioè: ogni uomo) è come l’erba del campo: passi la mattina ed è fiorita, passi la sera ed è già seccata» (cfr. Is 40,4; Sal 90,5-6). «Il Verbo si fece carne»: è il titolo di una tragedia! Se è vero che il Verbo tiene unito tutto ciò che è l’essere, se è vero che Dio ha creato tutto ciò che ha fatto attraverso il Verbo; allora, se questo Verbo si fa carne, verrebbe da dire che va proprio tutto in rovina!

Invece Gv interpreta in un’altra maniera: «Il Verbo si fece carne e mise la sua tenda tra di noi» (la traduzione liturgica «e venne ad abitare in mezzo a noi» è meno precisa). Attraverso la carne, che è al nostro livello, Dio «mise la sua tenda tra di noi». Probabilmente qui si gioca sul tema della tenda costruita da Mosè, nella quale la nuvola della gloria di Dio viene ad abitare a partire dall’Esodo (cfr. Es 40,34-35). Forse il gioco è raffinatissimo perché viene usato il termine greco eskénosen con la radice skn, la quale in ebraico indica proprio “la dimora”, “la dimora di Dio nella tenda”. Infatti nel linguaggio dei rabbini la shekina’ (skn) è la dimora di Dio, la gloria di Dio che sta nel Tempio.

Ecco che cosa ha visto Giovanni in Gesù: la tenda di Dio tra gli uomini, il luogo dove l’uomo può andare per incontrare Dio. Adesso è chiarissima la frase: «E il Verbo si fece carne, e venne a mettere la sua tenda in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria». Noi non vedemmo semplicemente «la tenda», ma attraverso di essa potemmo vedere «la sua gloria». Questo è il cuore profondo della teologia giovannea. Per Giovanni e la sua comunità tutto ciò che Gesù aveva fatto e detto non era che la «tenda esterna» dentro alla quale abitava la gloria di Dio; ma la gloria di Dio era manifestata come gloria dell’Unigenito Figlio di Dio. È la gloria di Dio, ma in quanto Dio è in comunione col suo Figlio: «Noi abbiamo visto la sua gloria» proprio a partire dall’incarnazione, perché la gloria che l’Unigenito ha è la gloria di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità, pieno della rivelazione di Dio.

Come andare a Dio, se non attraverso Gesù? Gesù porta con sé una immagine di Dio che non è condivisibile con nessun altro: non ci può essere lo stesso Dio con o senza Gesù, come se questi fosse facoltativo. Se Gesù di Nazaret è la tenda della gloria dell’Unigenito Figlio di Dio, allora tutto il volto di Dio viene “filtrato” attraverso Gesù, viene fatto conoscere attraverso Gesù, altrimenti non lo si conoscerebbe. Per questo è così importante conoscere i Vangeli, per questo è così importante cercare. Non si conosce per smettere di cercare: si cerca per conoscere e si conosce per cercare ancora.

2.4. L’annuncio dell’apertura di un accesso al Dio invisibile

L’ultimo versetto del prologo è molto chiaro (1,18). Comincia con delle parole che sono un vero pugno allo stomaco per il cattolico medio, che crede di saperla lunga: «Iddio nessuno l’ha visto mai». Sono parole da meditare bene. Anche qui sono presenti i contrasti che piacciono a Giovanni: Verbo/carne, Iddio/nessuno. «Iddio nessuno l’ha visto mai»: coloro che pensano di avere fatto delle grandi esperienze di Dio se ne ricordino! Anche quelli che sperano di vedere Dio un bel giorno, smettendo i dubbi per essere finalmente dentro alla sicurezza, non dimentichino questa frase, una delle principali della Bibbia: «Iddio non l’ha visto nessuno, mai».

Ma non finisce qui: «Iddio nessuno l’ha visto mai; il Figlio unigenito, che è rivolto verso l’abbraccio del Padre, Lui lo ha rivelato». Tutto dipende da Gesù, ma in quanto Gesù (inteso non in quanto il Figlio eterno, bensì come il figlio di Maria che è il Verbo fatto carne), piccolo e mortale come noi, nella misura in cui è «rivolto verso l’abbraccio del Padre» (quindi in questa sua tensione verso il Padre) «Lui lo ha rivelato». Probabilmente la traduzione «lo ha rivelato» non è corretta. Alcuni anni fa è stata fatta una scoperta filologica molto interessante: il verbo usato è exeghésato e si è trovato che esso, in alcune caratteristiche come ha qui, significa “aprire la strada”, “fare da esploratore”. Ad esempio, un esploratore mandato in avanscoperta da un esercito per vedere dove bisogna andare, è exeghésato. Ecco allora come risulta: «Iddio nessuno l’ha visto mai; l’Unigenito Figlio che è rivolto verso l’abbraccio del Padre, Lui ci ha aperto la strada». È la finale dell’introduzione al Vangelo.

Se si comprendono bene questi punti, si ha in mano qualche chiave per addentrarsi nel vangelo di Gv, che è un’opera profondissima, di grande ingegno, un’opera da amare moltissimo. Gli antichi diedero istintivamente il giudizio che Gv era un vangelo “spirituale”; essi non conoscevano molti dei dettagli appena citati, ma videro giustamente: Gv è un vangelo spirituale, che esige un cammino di trasformazione dell’uomo ancora più grande. Per questo la Chiesa lo ha posto nei tempi forti: proprio perché è difficile, tutti gli anni si torna a leggerlo. Nei tempi forti lo schema triennale dei sinottici salta, poiché questi brani sono troppo centrali.

3. Il primo “segno” a Cana di Galilea

3.1. La connessione tra la gloria e i segni

Nella prima parte del vangelo, composta dai primi 12 capitoli, viene manifestata la gloria dell’Unigenito Figlio nei segni: tutto quello che Gesù fa e dice è visto come un segno, cioè come una realtà che rimanda a qualcosa di più profondo e che il lettore è invitato a scoprire, a “scovare”. Ogni racconto che si legge nel vangelo di Gv non può essere preso soltanto alla lettera; è necessario andare più in profondità rispetto a ciò che il racconto presenta. Questo non significa che non vada preso alla lettera, in quanto racconterebbe fatti non accaduti; succede proprio il contrario: il vangelo di Gv racconta unicamente fatti accaduti, però vuole che, dentro al “fatterello” compiuto da Gesù, il lettore veda la profondità del mistero di Dio, della vita.

Ad esempio, un grande esegeta inglese, C.H.Dodd, ha detto che nel vangelo di Gv una cosa banale come un pediluvio diventa la “lavanda dei piedi”. La lavanda dei piedi è effettivamente un pediluvio: solo che Gv vi vede il Verbo fatto carne che lava i piedi! I pediluvi si facevano comunemente nei grandi pranzi; qui l’unica eccezione è che, invece di venire un servo, è il padrone di casa stesso a lavare i piedi; ma non è una gran cosa… salvo l’aspetto che è il Verbo fatto carne ad agire così. Ancora: le nozze di Cana non sono altro che un paio di bottiglie di vino tirate fuori all’improvviso; eppure è il «principio dei segni» (2,11).

Di cosa è segno il pediluvio all’inizio dell’ultima Cena (Gv 13)? Di cosa è segno il fatto che Gesù abbia tirato fuori del vino a quel matrimonio (Gv 2)? Di cosa è segno il fatto che Gesù abbia sfamato la folla (Gv 6)? Di cosa è segno il fatto che Gesù abbia guarito il cieco nato (Gv 9)? Di cosa è segno il dialogo notturno di Gesù con Nicodemo (Gv 3)? Il quarto vangelo dà una spinta fortissima; solo con tantissima meditazione è possibile andare al di là e vedere la sua gloria: «Il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria».

3.2. Il segno di Cana e l’arrivo dei discepoli alla fede

Il versetto che introduce le nozze di Cana è quello finale del primo capitolo. Natanaele dice a Gesù: «‘Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!’. Gli rispose Gesù: ‘Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!’. Poi gli disse: ‘In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo’» (1,49-51). Bisogna notare i rimandi al futuro: chi finisce di leggere il primo capitolo si sente promettere: «Vedrete i cieli aperti (il posto in cui sta Dio, che «nessuno ha visto mai»!) e vedrete gli angeli salire e scendere sul Figlio dell’uomo».

Le nozze di Cana sono un segno stupendo. Gesù prende dell’acqua; non si deve trascurare che è l’acqua per le purificazioni dei giudei - bisogna cercare i segni guardando bene a che cosa si riferiscono. Non è solo il segno dell’acqua cambiata in vino; si tratta dell’acqua per la purificazione dei giudei, che quindi è molto importante; ma lo scopo di Gesù lo è di più.

Ci interessiamo soltanto del versetto finale, tradotto con un errore nella traduzione liturgica, e di cui riportiamo la traduzione letterale: «Questo fece principio dei segni Gesù in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e credettero in Lui i suoi discepoli» (2,11). L’errore sta nel fatto che la traduzione liturgica, invece di «segni» riporta la parola «miracoli». “Miracolo” è una parola che nella Bibbia non si trova, poiché proviene dal latino: “mirum” è una cosa che desta meraviglia. Da questo errore il testo risulta distorto, poiché il lettore medio pensa che è un miracolo: “Già, è ovvio: nessuno può trasformare l’acqua in vino”. Invece l’evangelista sta fornendo una chiave importantissima: «Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria». La gloria non è qualcosa di eclatante, ma si manifesta in un piccolo avvenimento; nemmeno lo sposo e il sommelier conoscono da dove venga il vino, lo sanno soltanto i servi che hanno attinto l’acqua. Dunque i segni non sono cose “folgoranti”, ma affidate al pensiero e alla ricerca. «Così Gesù diede inizio ai suoi segni in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria (in questo segno da pensare!) e i suoi discepoli credettero in lui»; o meglio: cominciarono a credere.

4. Il vedere veramente i segni: il caso del pane dal cielo

4.1. La moltiplicazione di pane come segno

Al cap. 6 si trova lo stupendo discorso del pane di vita. Questo discorso è così bello che nell’anno di Mc, durante il periodo estivo, se ne riprendono dei brani, “sacrificando” il vangelo sinottico. Mostriamo appena qualche passaggio. Comincia con una moltiplicazione di pane.
«Dopo questi fatti, Gesù andò sull’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e una gran folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi» (6,1-2). Qui la traduzione è buona e quindi lascia vedere come Gv non parli di «guarigioni che compiva sugli infermi» oppure di «miracoli che faceva sugli infermi»; bensì Gv scrive: «Vedendo i segni che faceva sugli infermi».

«Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli» (v. 3): sembra di leggere il vangelo di Matteo, all’inizio del discorso della montagna (Mt 5,1). Segue una pennellata: «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (v. 4).

Nei tre vangeli sinottici il racconto della moltiplicazione dei pani è raccontato mostrando i discepoli spaventati che dicono: «Questa folla è con noi da tre giorni, hanno fame, moriranno per strada, congedali prima che succeda una tragedia»; e Gesù che risponde loro: «Voi dovete dare loro da mangiare» (cfr. Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17). Invece il racconto di Gv è differente; ad esempio, Gesù fa tutto da solo: «Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva a lui e disse a Filippo: ‘Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?’» (v. 5). È un’iniziativa di Gesù: è lui che si preoccupa del cibo per la folla. Poi l’evangelista spiega: «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: ‘Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo’. Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: ‘C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma cos’è questo per tanta gente?’. Rispose Gesù: ‘Fateli sedere’. C’era molta erba in quel luogo; si sedettero ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì» (vv. 6-11); ha luogo la moltiplicazione. Dunque tutto scende da Gesù.

«Allora la gente, visto il segno (di nuovo si ripete la parola chiave di questa parte del vangelo) che egli aveva compiuto, cominciò a dire: ‘Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!’» (v. 14): sembra che il segno abbia parlato e abbia permesso di riconoscere Gesù come il Messia (la perifrasi «il profeta che deve venire nel mondo» è un altro modo per indicare il Messia). «Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna tutto solo. Venuta la sera, intanto, i suoi discepoli scesero al mare…» (vv. 15-16).

Segue un racconto che non possiamo analizzare: il cammino sulle acque, nel quale si ripete la tipologia dell’Esodo: nel deserto si mangia il pane dato da Dio; si cammina, si passa sull’acqua. È piuttosto complesso per la nostra sensibilità, ma è appunto presente tutta la tipologia dell’Esodo; inoltre sullo sfondo sta la frase appena detta: «Era vicina la Pasqua dei Giudei».

4.2. Il discorso del pane del cielo

Saltiamo alla pericope successiva: «Il giorno dopo, la folla, rimasta sull’altra parte del mare, notò che non c’era una barca» (v. 22). Allora inseguono Gesù, che non vorrebbe farsi trovare; finalmente lo raggiungono: «Trovatolo al di là del mare, gli dissero: ‘Rabbì, quando sei venuto qui?’» (v. 15). Gesù non risponde alla domanda; infatti «Gesù rispose: ‘In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati’». È una frase molto rivelatrice che aiuta a capire la mentalità di Gv. Gesù li rimprovera e dice loro: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni» (poco prima l’evangelista ha scritto: «Vedendo i segni che faceva», v. 2). Gesù sta affermando che essi non hanno capito fino in fondo i segni e che non li hanno «visti» davvero. In precedenza il racconto ha detto che lo seguivano perché avevano visto i segni sui malati (v. 2) e poi perché avevano visto il segno dei pani (v. 14); ma Gesù non è contento di come «vedono» questi segni, poiché non sono andati abbastanza in profondità. E allora dice loro: «In verità, in verità vi dico: voi mi cercate non perché avete visto i segni (sottinteso: «e li avete capiti»), ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati».

Segue un passaggio duro: «Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». (v. 27). Gesù parla di un cibo che non perisce, che dura per la vita eterna e che è dato dal Figlio dell’uomo, perché il Padre ha messo sul Figlio dell’uomo il suo sigillo.

«Gli dissero allora: ‘Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?’. Gesù rispose: ‘Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato’» (vv. 28-29): l’opera di Dio non è correre a destra e a manca. Il vangelo di Giovanni non è (soltanto) il vangelo dell’amore; principalmente è il vangelo del credere. Gesù sta qui asserendo che «l’opera di Dio» è «credere in colui che egli ha mandato», cioè credere che Gesù è colui che il Padre ha mandato e, credendo in Gesù, cominciare a fare la risalita. Non è credere che Dio sia “Uno in tre Persone” e non semplicemente “Uno”: la fede non si gioca primariamente sulla dottrina. La fede ha sì bisogno della dottrina, ma si gioca in un cammino. Credere che Gesù è colui che Dio ha mandato significa essere capaci di andare sulla strada di Gesù, pure se con il carico delle nostre miserie. Ma: o si va o non si va. Per questo la fede è centrale; poi si trasformerà in amore, ovviamente; ma il centro è questo.

4.3. Il pane della rivelazione

«Allora gli dissero: ‘Quale segno dunque tu fai perché veniamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna del deserto, come sta scritto: Dio diede loro un pane dal cielo’. Rispose loro Gesù: ‘In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo’» (vv. 30-33): il pane di Dio è Gesù. Bisogna fare attenzione e non confondersi: il testo non si sta riferendo all’Eucarestia. Sta invece parlando di Gesù come colui che è disceso dal cielo mandato dal Padre: Gesù è il pane disceso dal cielo, capace di portare verso il cielo.

«Allora gli dissero: ‘Signore, dacci sempre questo pane’. Gesù rispose: ‘Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete’» (vv. 34-35). Quello di Gv è un linguaggio stupendo, fatto con parole semplicissime e finte discontinuità. È la grande proposta che fa Gesù: il «pane disceso dal cielo» è lui, e «chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete».

Saltiamo alcuni versetti di questi dialoghi stupendi, meravigliosa teologia giovannea sulle parole di Gesù, e leggiamo dal v. 41.
«Intanto i giudei mormoravano di lui perché aveva detto: ‘Io sono il pane disceso dal cielo’» (v. 41). Nel vangelo di Giovanni i “giudei” non sono semplicemente gli ebrei. In Gv per la parola “giudei” accade come per la parola “mondo”. Il “mondo” può essere inteso sia in senso buono che in senso negativo: in senso buono è la creazione, in negativo è il mondo in quanto si chiude a Dio. I “giudei” subiscono la stessa sorte: possono essere intesi in senso buono (si parla dei “giudei” come coloro che hanno ricevuto il dono di Dio, come il popolo di Israele), ma a volte questa parola è usata in senso negativo, per indicare gente che, pur possedendo la rivelazione, non sa aprirsi davvero. Però, in realtà, questa parola non è contro i giudei, bensì contro i cristiani, affinché, leggendo, il cristiano si renda conto che può avere una cosa, ma anche non averla! Per questo l’evangelista Giovanni ha lavorato non soltanto intorno alla categoria “mondo” (così bello, eppure così pericoloso), ma anche attorno alla categoria “giudei”, pure così bella e pericolosa.

«Intanto i giudei mormoravano di lui perché aveva detto ‘Io sono il pane disceso dal cielo’. E dicevano: ‘Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre’» (vv. 41-42): è l’esatta negazione del v. 14 del Prologo: «Il Verbo si fece carne e mise la sua tenda tra di noi e (proprio perché ha posto la sua tenda tra di noi) noi abbiamo visto la sua gloria». Questi giudei invece sono presi dalle loro idee e affermano che costui è un “Signor Nessuno”; questi è Gesù, il figlio di Giuseppe, di lui si conoscono il padre e la madre: «Come può dunque dire: ‘Sono disceso dal cielo’?». Qui il problema della fede è mostrato nella massima stringenza.

«Gesù rispose: ‘Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno’» (vv. 43-44): è una parola molto impegnativa. Il donare il pane al gruppo di credenti che lo seguivano diventa il segno che Gesù non abbandonerà la nostra vita oltre l’abisso della morte, la quale regna nei nostri occhi e nel nostro cuore per coloro che sono già morti. Certamente, come asseriva la filosofia greca dell’antichità, noi non ci saremo quando ci sarà la nostra morte; ma noi portiamo la morte degli altri per tutta la vita come un peso. Le parole di Gesù sono molto commoventi perché tengono conto di questo dramma: «E io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Gesù proclama che se uno va a Lui attraverso la fede, significa che il Padre lo ha attirato; se va verso di Lui nella fede e va verso il Padre, è il Padre che lo attira. Gesù non lo abbandonerà oltre l’abisso della morte, oltre la morte sperimentata così drammaticamente nel tempo.

«Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre (ripete il concetto già espresso nell’ultimo versetto del Prologo). In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo (Gesù indica se stesso!), perché chi ne mangia non muoia’» (vv. 45b-50).

4.4. Il pane carne e sangue del figlio dell’uomo

Segue una frase bellissima: «Io sono il pane vivo («vivo»: dà la vita perché è vivo) disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno». Poi un salto: «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Questo capitolo stupendo segna qui un grande scatto poiché Gesù dice che non solo lui è il pane disceso dal cielo per quello che è, e chi crede in lui va verso il Padre; ma questo suo essere tra di noi lo trasformerà così: «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Leggiamo questa frase insieme a Giovanni 1,14: «Il Verbo si fece carne»; «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Nell’Antico Testamento c’era la tenda, ma queste parole stanno ben oltre, nella profondità di Gesù. Gesù percepisce che il dono attraverso il quale dà la vita agli uomini non è solo la sua discesa dal cielo, non è solo il suo farsi carne, non è solo il fatto che il Logos eterno di vita si è fatto carne e ciò porta noi a vedere la sua carne quindi a riceverne la vita; ma Gesù darà la sua carne in sacrificio per la vita del mondo. Gesù guarda già verso la sua morte in croce, vissuta non come una disgrazia soltanto, ma come un dono d’amore che egli ha voluto vivere per noi.

4.5. Il sacramento della carne e del sangue, la risurrezione e la vita eterna

«Allora i giudei si misero a discutere tra di loro» (v. 52): da notare che erano spariti. Gv è raffinatissimo: nelle prime domande parla la gente, poi appaiono i giudei (cioè noi, i “furbetti” che sono già dentro al disegno di Dio, che credono di conoscere già tanto). «Allora i giudei si misero a discutere tra di loro: ‘Come può costui darci la sua carne da mangiare?’». Hanno capito bene; gli ebrei, che neanche toccano il sangue, come possono concepire di mangiare la carne di Gesù? «Gesù disse: ‘In verità, in verità vi dico (qui è durissimo): se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita’» (v. 53). Ciò è ributtante nella mentalità ebraica, dove tutto è impostato per non toccare in nessun modo il sangue. Ad esempio, guai se un levita si ferma ad aiutare un poveraccio sanguinante perché è stato bastonato: non può più andare al Tempio ed infatti, nella parabola raccontata da Gesù, ha proseguito (cfr. Lc 10,32).

Ci sono poche parole ributtanti come queste nei vangeli. Addirittura nell’originale greco c’è il verbo trògo (“masticare”), non il verbo esthìo (“mangiare”). «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita»: è qui che si parla dell’Eucarestia! L’Eucarestia è Comunione alla morte del Signore che si dona per la vita del mondo, al Signore che dona la sua vita: questa è la Comunione. I sinottici hanno una parola più castigata, che usiamo durante la Messa: il sacerdote prende il pane e dice: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22, 19). “Corpo” è un termine meno forte; qui invece è veramente brutale: «Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue (carne e sangue che sono offerta di Gesù libera per la vita del mondo), non potete avere in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (vv. 53-54).

Adesso si capisce la potenza del quarto vangelo e come mai, non appena ha trovato dei Padri della Chiesa veramente letterati, abbia subito ricevuto il titolo di “vangelo spirituale” (esisteva circa da cinquant’anni quando ebbe tale definizione). Non si deve, però, intendere “spirituale” nel senso di “sentimentale”. Infatti nella tradizione orientale Giovanni l’evangelista è detto “Giovanni il teologo” per distinguerlo dal Battista: “Giovanni il Battista” e “Giovanni o teòlogos”.

5. Conclusione

Vediamo un ultimissimo passo: «Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui» (v. 66). Il discorso del pane di vita è a metà della parte del libro che racconta il ministero pubblico di Gesù; siamo alla fine del cap. 6 (su 12) e qui c’è proprio la svolta. Il discorso del pane disceso dal cielo è sconvolgente, tanto che «da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: ‘Forse anche voi volete andarvene?’» (vv. 66-67): è certamente uno dei picchi più commoventi del vangelo di Gv.

Gesù chiede ai Dodici se vogliono andarsene anche loro, se non desiderano mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo ed entrare nella logica del pane di vita disceso dal cielo che è Cristo. Rispondono le bellissime parole di Simon Pietro: «Signore, da chi andremo?». Pietro non dice: «Signore, ci hai convinto»; qui c’è proprio lo spazio della ricerca: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che sei il Santo di Dio» (vv. 68-69). Infine notiamo l’ordine dei due verbi: «Noi abbiamo creduto e conosciuto». Si va dal credere alla conoscenza e poi alla testimonianza; in questo capitolo la parola “testimonianza” non c’è, ma si affronta proprio il tema del credere veramente.


Per altri articoli e studi di Ermenegildo Manicardi o sul vangelo di Giovanni presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


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