Riproponiamo on-line la trascrizione delle meditazioni proposte da don Franco Cagnasso ai preti della diocesi di Roma negli esercizi spirituali del 13-17 novembre 2000. Ogni settimana sarà messa a disposizione sul nostro sito una meditazione perché possa accompagnare la preghiera personale. La trascrizione dei testi è stata curata dal Servizio diocesano di formazione permanente del clero, guidato da mons.Luciano Pascucci. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (17/5/2007)
“Che ci faccio qui?”: domanda che mi sono rivolto spesso, in situazioni
imbarazzanti, o a seguito di impegni assunti e poi rivelatisi onerosi e difficili, o attraversando momenti di
smarrimento, appena entrato in seminario e poi specialmente all’inizio della mia missione in Bangladesh. Ho
davvero sentito martellare in me a lungo l’interrogativo: ma perché sono venuto? che faccio?
perché resto? Lingua... povertà insanabile e urtante... estraneità religiosa...
disinteresse...
Proprio perché così impellente in me, ho notato che questa domanda si trova nella Bibbia, rivolta da
Dio stesso al più grande dei profeti: “Che fai qui, Elia?” (1Re 19,10.13) per ben due volte.
Domanda che ha ottenuto per due volte la stessa, desolata risposta.
Mi ha incuriosito, perché Elia è profeta, ed è giunto all’Oreb grazie al pane che Dio
stesso gli ha dato; e l’Oreb è il monte di Dio, dell’incontro con lui. Che senso dunque ha
questo interrogativo? Cercherò di darne una lettura, un’interpretazione che è possibile
collocandoci nel contesto della vita e delle opere di Elia, cioè nei capitoli 17-19 di 1Re. Ne richiamo
brevemente i fatti, che sono noti. Regna Acab, il quale “fece ciò che è male agli occhi del
Signore, peggio di tutti i suoi predecessori (...), prese anche in moglie Gezabele, figlia di Et Baal, re di quelli
di Sidone, e si mise a servire Baal e a prostrarsi davanti a lui” (1Re 16,30-31). Erige un altare e un palo
sacro, permette che si sacrifichi il figlio di Chiel per ricostruire Gerico (costume non del tutto scomparso neppure
oggi!). Tempi iniqui e amari dunque...
Elia predice la siccità, vive sul torrente Cherit con pane e carne portati dai corvi, poi va a Sarepta dove
compie il miracolo della farina e dell’olio nella giara della vedova che gli dà da mangiare, e le
ridà il figlio che era morto. Seguono l’incontro con Acab e la terribile sfida del monte Carmelo, con
una brillante vittoria e il massacro dei sacerdoti di Baal; dopo il quale Elia predice la fine della siccità e
così avviene. Poi la scena cambia completamente. Gezabele lo minaccia ed Elia ha paura, fugge.
Attraversa il deserto e giunge all’Oreb, dove Dio gli rivolge appunto la domanda su cui vogliamo
soffermarci.
Abbiamo troppo pochi elementi per delineare bene la figura di Elia e capirla. E’ certo però che
è il profeta della fede forte e radicale. Sfida il potere politico perché tradisce il compito di
governare in nome di Dio e secondo la legge, si compromette e prostituisce all’idolatria. Sfida la gente che
subisce passivamente. Non ha, o pare non avere paura, perché è convinto della forza di Dio e convinto
di essere dalla parte giusta. Con la stessa sicurezza promette alla vedova che non mancherà la farina, e
deride i sacerdoti di Baal che ha provocato; prevede la siccità e annuncia la pioggia. Non ha cura di
sé, va dove Dio lo manda; chiede e ottiene tutto perché si è dato totalmente.
E’ difficile intuire come vivesse interiormente questi fatti straordinari. Possiamo però pensare che
fosse molto umile tanto da lasciarsi afferrare così da Dio, e che ogni esperienza fosse per lui la conferma
della grandezza di Dio e perciò della sua vittoria finale. “Ora so che tu sei un uomo di Dio e che
la vera parola del Signore è sulla tua bocca”, gli diceva la vedova (1Re 17,24). Certo crescevano in lui
stupore, gratitudine a Dio, desiderio di essere strumento di cose sempre più belle e grandi per la sua gloria.
La strada era giusta, si trattava di continuare. Certo Elia ha sentito che era giunto il momento quando la folla
prima dubbiosa e apatica prorompe nel grido: “Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!” (18,40)
e si getta con entusiasmo sui falsi profeti. Che cosa sperava? Forse che Acab cambiasse, forse che il popolo si
ribellasse, che Gezabele fosse finalmente svergognata. Invece Gezabele non cambia di un millimetro, anzi lo
minaccia.
E qui qualcosa si spezza, l’uomo di fede forte e coraggioso, sicuro di sé perché sicuro di Dio
“impaurito si alzò e se ne andò per salvarsi” (19,3). Dove sono le folle? Dove la
fiducia? Elia non sa più cosa vuole Dio, perché non porta a compimento la sua opera. Per questo ha
paura, sente di non potersi più fidare e cerca di salvarsi almeno la vita.
E’ una crisi, un’esperienza di deserto profonda e amarissima. Il versetto 4 del cap. 19 ce lo fa
intravedere. E’ scappato per salvarsi e ora vuole morire. Il cammino nel deserto gli ha permesso di scorgere,
oltre la paura, il fallimento. Aveva pensato di restaurare la legge là dove si era insediata
l’idolatria; aveva sperato che fosse giunto qualcosa di nuovo e il cuore del popolo fosse tornato a Dio...
invece tutto era rimasto come prima. Che cosa aveva fatto di più e di meglio degli altri? E dove sfuggire
ora che le speranze erano svanite nella paura, le certezze nella confusione? Elia scopre la sua debolezza di uomo di
poca fede, e anche l’inefficacia della sua azione profetica. Almeno la forza di Dio trionfasse nella sua
debolezza, come in Gedeone, in Davide; ma su di lui vince l’intrigo e l’ostinazione di una donna, che non
si arrende neppure davanti ai miracoli e al massacro dei suoi sacerdoti! La gente che ha applaudito ora è
scomparsa ed Elia si sente mortalmente stanco, incapace di proseguire verso qualsiasi parte.
S’addormenta. Un angelo per due volte lo sveglia e gli offre il pane. Che differenza fra questo e quello
portato dai corvi o quello cotto dalla vedova! Là era Elia a testimoniare che Dio provvede, qui deve essere
svegliato e quasi costretto a mangiare. La forza che riceve non lo toglie dall’angoscia; è un pane
che nutre, ma non viene gustato come la manna, “cibo troppo leggero” e che nausea. Va all’Oreb.
Torna alle origini, a cercare quel Dio che non sa più riconoscere e di cui perciò non si fida
più. Il deserto è sofferenza, tentazione, rimpianto di una vita normale, tiepida, ma sicura, senza
slanci di fede che tormentano e deludono. E’ così per gli Ebrei e per Gesù.
Sull’Oreb Elia entra in una grotta. Cerca Dio, ma ne ha paura, si protegge. E’ nella notte.
All’apertura del VI sigillo dice Ap 6,15: “I re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi, i potenti,
e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti e dicevano ai monti e
alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono”. Mentre è
lì, nascosto e impaurito e cerca riposo, gli giunge come una beffa la domanda: “Che fai qui,
Elia?” Ha camminato tanto e ora si chiede: che cosa sono venuto a fare? Perché sono qui? A che
serve? E’ una domanda che rivela il vuoto e lo smarrimento, l’angoscia e il senso di inutilità che
lo abitano.
La risposta è ancora un parlare a se stesso, un rivendicare le sue ragioni. Sono qui per te e mi chiedi che
faccio? Chi altri se non tu mi ha condotto qui? E’ forse per me stesso che ho lottato tanto? Ma tutto
è stato inutile, perché “gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi
altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” (1Re
19,10). “Sono rimasto solo” perché non posso appoggiarmi a nessuno, e perché Dio - come un
estraneo - mi domanda che faccio; invece di sostenermi, mi interroga e io sento che la mia solitudine è colpa
sua, e non posso più reggerla.
Segue l’invito ad uscire. Mi pare un parallelo del racconto di Dio che chiede ad Adamo dove sia, perché
si nasconda. Elia non deve restare nella grotta, deve “stare fermo sul monte alla presenza del
Signore”, e invece non esce. Quanto dura la sua resistenza, la sua lotta? Elia cerca quel Dio che
già conosce, che lo ha guidato finora: un Dio che è forza di vento, terremoto, fuoco. Sono tutte
immagini vere di Dio, che la Bibbia usa perché espressive di aspetti veri di Dio che si rivela. Dio, in altri
passi, è nel vento, è nel terremoto, è nel fuoco. Ma ora Elia non lo trova, non
c’è. Questi segni rimangono muti. Tutta quella forza che gli ha fatto compiere miracoli ora è
solo caos interiore. Elia resta solo, Dio gli è estraneo.
Finché sente “il mormorio di un vento leggero”. La prova si placa. Nell’animo del profeta
forse entra una rassegnazione a cui non è abituato, la convinzione che in tutto quanto è accaduto
è stato comunque guidato dal Signore. Forse ora è libero dalla pretesa di sapere tutto di Dio, di
esserne l'interprete, di poterlo sempre capire. Si mette nelle sue mani ed entra in lui la pace, convinto che non
è lui il salvatore del mondo ma solo lo strumento, servo inutile di un progetto più grande che ha
tempi, logiche, passaggi, metodi che gli sfuggono e appartengono solo a Dio stesso. Non è lui il difensore
di Dio, al contrario ha bisogno di essere difeso e consolato. Dall’ebbrezza della vittoria alla delusione
amara, alla rabbia per la sconfitta fa seguito una placata disponibilità ad ascoltare e a capire in modo
nuovo.
Tornano allora la stessa domanda e la stessa risposta, ma si può supporre che le medesime parole suonino in
modo assai diverso ora che Elia ha riconosciuto il Signore, è uscito e si è fermato alla sua presenza,
coperto solo dal mantello. Elia dà ancora la stessa lettura, interpretando ciò che gli è
successo, ma ora è pronto ad ascoltare altro. Forse non c’è più delusione e
smarrimento, ma vera disponibilità, interrogativo nuovamente fiducioso che rimette il bilancio del passato
nelle mani di Dio.
Infatti, in un cuore pacificato e rinnovato torna a risuonare un invio missionario. Sempre, riconoscere il Signore
significa subito ricevere un incarico, rimettersi in movimento. Dio non sconfessa il passato di Elia, piuttosto gli
fa capire che non ha saputo leggere il suo vero piano. Si credeva solo, mentre ben settemila sono le persone ancora
fedeli; voleva morire mentre deve ancora ungere due re, e il profeta che prenderà il suo posto. Credeva
che tutto fosse finito, che il braccio del Signore si fosse accorciato, divenuto impotente, invece il suo progetto
continua, e con settemila persone che Elia non ha saputo riconoscere perché troppo pieno delle sue delusioni,
rivolto solo al suo progetto fallito, piuttosto che al progetto di Dio.
Elia ha riscoperto Dio. Lascia l’Oreb non per tornare a casa o per fare l’eremita, ma per riprendere
la sua missione profetica. Si ributta nella mischia con l’ardore e l’intransigenza di prima.
Vedrà vittorie e sconfitte finché andrà con serenità e piena consapevolezza incontro a
Dio che lo prende con sé, dopo aver preparato il successore Eliseo che lo accompagna fino
all’ultimo.
Lo spunto offerto da Deut. 8 era l’attraversamento del Giordano: un passaggio arduo, che ha richiesto di
“ricordare” con attenzione per trovare il coraggio di procedere.
Lo spunto di meditazione su Elia è l’Oreb. Un corso di esercizi è sempre un cercare Dio,
raccogliersi davanti a lui, andando in un luogo dove ciò sia più facile. Andiamo portando le nostre
fatiche che Dio conosce e la nostra storia di cui iniziamo a fare memoria. Lì il Signore ci chiede:
“Che fai qui?”.
Elia è figura eccezionale, ma non è improprio ispirarsi a lui, mettere a confronto la nostra esperienza
con la sua. Infatti seguiamo Gesù e ogni profeta anticipa, come ogni santo ripete, i tratti fondamentali
dell’esperienza di Gesù.
Ho già detto che la domanda fondamentale è: “Che fai qui, Elia?”, udita sul monte di Dio a
seguito di una lunga esperienza di missione, e poi di crisi e di deserto. Poniamola a noi stessi, collocando il
nostro nome al posto di quello di Elia, e tentiamo di dare la nostra risposta.
Credo di non sbagliarmi tuttavia se dico che certamente tutti voi potete rispondere la stessa cosa che ha risposto
Elia: “Sono pieno di zelo per il Signore”. Se siete diventati preti, e se avete vissuto il vostro
servizio pastorale in questi anni è perché avete ricevuto un dono e avete accolto questo dono e quindi
avete uno zelo per il Signore. Diventando preti voi volevate fare qualcosa di bello, di grande e anche di buono
per il Signore. Qualcuno forse in maniera più esplicita aveva dei sogni, dei desideri, ma comunque è
sempre grande quello che un prete fa, consapevole di cosa vuol dire il presbiterato: annunciare il Signore, farlo
conoscere, farlo amare, aiutare tanta gente, essere portatore di speranza, correggere dagli errori, rimettere i
peccati, consolare, confortare... Queste sono cose grandi, anzi grandissime, più grandi che non certe sfide di
cui si parla nel racconto di Elia.
Non solo siete pieni di zelo, perché siete partiti su una strada che il Signore vi ha indicato e avete
perseverato fino ad oggi, ma certamente avete fatto delle cose che sono miracolo, segno che il Signore vi ha
accompagnato. Primo fra tutti quello della vostra perseveranza nella fede, nella vocazione. Dio ha mostrato in voi la
sua forza tenendovi legati a sé. E voi siete segno di questa forza efficace della parola e dell’amore di
Cristo, che chiama uomini del nostro tempo a seguirlo su una strada così difficile e ardua come quella del
servizio presbiterale. E quindi voi avete fatto dei miracoli. Innanzitutto i segni sacramentali che avete
amministrato: battesimi, eucaristia, perdono di Dio... E poi il segno della vostra fedeltà, del vostro
impegno. Siete andati dove il Signore vi ha mandato, magari attraverso l’obbedienza al Vescovo, al parroco,
avete girato anche voi come ha girato Elia. Qualcuno è rimasto a lungo nello stesso posto, qualcuno è
stato trasferito più volte, avete parlato nel nome del Signore: quante omelie, quante catechesi, quante
esortazioni, quanti consigli dati alle persone!
Avete affrontato difficoltà e contrasti, avete anche affrontato i profeti dell’idolatria,
perché non c’è bisogno di andare in Cina o in India per trovare gli idolatri. Vi siete
confrontati con coloro che hanno fatto del denaro, oppure del piacere, o del prestigio o della comodità i loro
idoli e che vi invitavano a seguirli su quella strada.
Forse anche noi qualche volta abbiamo sentito la stanchezza che ha sentito Elia, perché stare sempre sulla
breccia è difficile, è un ruolo per cui la gente in un certo modo ci chiede esattamente ciò che
pensiamo essere giusto. A volte le persone chiedono al prete le cose giuste, a volte no. A volte gli chiedono quasi
di essere disumano e allora questo può stancare. Attraverso tutte queste esperienze voi siete andati avanti,
avete cercato di rinnovare tutto il vostro impegno; vi siete chiesti che cos’altro bisogna fare per essere
efficaci, per rendere più comprensibile il messaggio, per trasformare i cuori e le coscienze. Avete cercato di
cambiare le cose che non andavano bene, avete chiesto ad altri dei gesti di fede anche esigenti, senza tirarvi
indietro. E sono sicuro che il vostro rammarico è sempre stato soprattutto quello di non avere più
fede, più speranza, più coraggio, di non saper essere abbastanza radicali, abbastanza santi; che
è un rammarico bello, giusto, se non diventa un’ossessione. Ecco per tutte queste ragioni credo che
sia giusto che noi diamo questa prima risposta al Signore: “Ecco, Signore, sono qui, pieno di zelo per
te!”.
Ma anche noi forse lo diciamo, o possiamo dirlo, o lo abbiamo detto, avendo nel cuore quell’altra espressione
che Elia aveva pronunciato dopo la prima giornata di cammino nel deserto: “Basta Signore! Prendi la mia
vita, perché non sono migliore dei miei padri!”.
Possiamo infatti avere sperimentato o sperimentare ora la depressione e lo scoraggiamento. La depressione in
senso proprio (anche se diversamente descritta e definita) che colpisce anche i preti con il suo bagaglio di
sofferenza difficile o impossibile da capire e da descrivere, con i suoi tunnel oscuri e senza fine, con
l’incapacità a comunicare, le tentazioni strane fino a quella del suicidio. E’ uscita qualche
tempo fa la testimonianza offerta da un superiore generale che ha vissuto questa croce quando ancora era superiore,
portandola e uscendone - almeno in parte - restando nel suo incarico. E’ molto illuminante, sia sul fenomeno in
sé della depressione e come affrontarlo, sia sulla necessità di fare onestamente e apertamente i conti
con la nostra umanità, i suoi pesi e i suoi condizionamenti, le sue leggi che non si possono ignorare.
Oppure, anziché la depressione a farci pronunciare quelle parole: “Non sono migliore dei miei
padri...” o altre simili può essere stata l’esperienza della nostra debolezza e del peccato.
Pensavo di..., e invece eccomi qui, caduto di colpo... sorpreso di me stesso, stordito! Credevo di poterne uscire, di
vincermi; ho negato la realtà a me stesso finché non ce l’ho fatta più. Non sono migliore
degli altri che hanno anche loro sbagliato, che hanno dato scandalo, che hanno ingannato... e adesso?
Oppure queste parole sono espressione di un senso di delusione apostolica, del senso dell’inefficacia di
ciò che facciamo. Tante omelie, tante catechesi, tante esortazioni, tanti gruppi, tanti consigli, tante
riunioni e quanti hanno dato ascolto alla parola del Signore? Che cosa siamo riusciti a cambiare? Forse qualcosa!
Sì, forse alcuni di voi, o molti, possono dire “ho realizzato questo, ho realizzato quello, questo
gruppo, quell’altra attività”, però se certamente avete questo zelo per il Signore,
avete anche la sensazione che i risultati sono molto lontani da quello che vorreste, da quell’anelito che il
vostro cuore ha dentro. Avete toccato con mano che desideriamo in grande, ma poi abbiamo paura, siamo incapaci di
tradurre questi desideri grandi in cose concrete. Avete toccato con mano come è facile lasciarsi prendere
dalla tiepidezza, dal compromesso, essere accomodanti davanti alle nostre stesse meschinità e addirittura
scoprirne di nuove e inattese. Certe forme, certi modi di accomodamento, ce li troviamo dentro, quasi senza
accorgercene. Questa tentazione riemerge con sfumature diverse nelle varie età della vita.
Dopo avere dato la sua risposta, Elia si sente dare un ordine: “Esci, fermati alla presenza del
Signore!”, perché, come abbiamo detto, Elia era in una grotta. E la grotta è simbolo del
nascondersi a Dio, del crearsi uno spazio dove Dio non ci raggiunga. E allora, ecco il terzo passo.
Nell’immagine della caverna collocherei quella tentazione che tutti noi abbiamo di farci un angolo nostro, di
farci una vita accomodata. Diventiamo un po’ cinici, ci proteggiamo dalla sofferenza. Dopo aver avuto delle
delusioni, diciamo: “Forse è perché avevo delle illusioni! Per questo non ne voglio avere
più. Rinuncio a pensare in grande, rinuncio a un po’ dello zelo, mi accomodo, mi accontento”.
In questa grotta noi viviamo anche un’esperienza di buio. Non è bello stare in una grotta! Ci
crogioliamo in una condizione da cui non abbiamo il coraggio di uscire! Magari abbiamo ripetuto il nostro
sì, il sì che abbiamo detto quando siamo diventati preti ma l’abbiamo ripetuto
ridimensionandolo. Sì, vado avanti, che altro devo fare adesso? Ho capito qualcosa di più della
vita, che non sono migliore dei miei padri, che bisogna essere realisti, perché tanto le cose non cambiano; e
quindi mi porto dietro i miei problemi e mi gestisco meglio che posso! Magari mi porto dietro la sensazione che
chissà se ho fatto proprio bene a fare questa scelta. Forse la vita del celibato non era quella fatta per me!
Magari mi porto dietro una fede intiepidita, sulla quale non ho più voglia di confrontarmi e di lottare!
E’ un deserto che è nello stesso tempo grotta: non il deserto della prova di fede, ma il deserto che ci
costruiamo noi con le nostre mani. Appunto per proteggerci dalle sofferenze, dalle delusioni, dalla fatica di dover
sempre ricominciare. Con la scusa che ormai siamo grandi, che non vogliamo più vivere delle illusioni, che non
dobbiamo lasciarci emozionare troppo per non soffrire troppo. Lasciamo che la gente con i suoi problemi ci sfiori,
perché se ci lasciamo coinvolgere dai suoi problemi ci fa soffrire, ci fa paura, non sappiamo risolverli.
Diventiamo, come si usa dire, dei “professionisti” e l’amore di Dio, la sua sequela, il Vangelo
sono come filtrati attraverso il “giusto equilibrio”, il “buon senso”, l’abitudine.
Anche la preghiera che magari continua con una fedeltà formale, è però più non un
incontro con Dio, è un parlare a qualcosa. Non penso che dobbiamo essere troppo preoccupati se non
riusciamo a pregare bene, pur tentandoci; dobbiamo essere preoccupati quando non ci interroghiamo più su come
è la nostra preghiera, quando la facciamo regolarmente e ci accontentiamo di dire “va bene
così”; quando la preghiera non ci scomoda più, è una cosa da fare e la facciamo!
Quello che il Signore ci dice è: “Esci da questa grotta!”. Non pensare che sia definitiva! Il
deserto può durare a lungo, ma alla fine si arriva al momento in cui si è sfidati a passare il
Giordano. Si arriva a un momento in cui, se vogliamo, possiamo uscirne, non per evitare tentazioni e sofferenze, ma
per dare una prospettiva diversa alla nostra vita.
Allora esci, non cercare più nessun riparo davanti al Signore; mettiti davanti a lui, sii crudelmente sincero
perché il Signore conosce, perché questa operazione di spogliarsi davanti a lui, di prendere coscienza
che ogni fibra del nostro essere è conosciuta, che ogni nostro problema e peccato gli è noto, è
un’operazione che può essere dolorosa, ma che finisce nel ricostruirci umanamente. Esci e fermati!
Fermati, perché dopo tanto cammino siamo delle trottole, che abbiamo la tentazione di sfuggire, di non
afferrarci bene e solidamente per lasciarci guardare dal Signore, per guardare noi stessi, per guardare lui.
Questo “fermati” vuol dire: smetti di girare, guarda dentro te stesso! Ciò che viene alla luce del
tuo deserto, delle tue difficoltà va considerato con calma, senza scappare, senza nasconderlo con un rapido
pentimento, troppo rapido, se si tratta di peccato o con un rapido buon proposito, troppo rapido per essere serio,
per essere vero!
Dì bene a te stesso chi sei, qual è il tuo problema, che cosa vuoi. Ma fallo alla presenza del Signore;
perché può succedere di pregare, di meditare per tanti anni, di parlare di Dio, di camminare con la
forza del suo pane, come ha fatto Elia nel deserto, senza mai percepire davvero di essere alla sua presenza,
semplicemente stare alla sua presenza, spoglio di ogni programma e di ogni difesa, di ogni predica da preparare,
nella fragilità più completa nella sua incomprensibilità, perché quando stiamo davanti a
Dio ne percepiamo davvero il mistero, nel suo silenzio. Elia ha sperimentato il silenzio del terremoto, del
vento, del fuoco e poi ha percepito la parola del venticello leggero. Davanti a lui con la fiducia del bambino che
non sa soltanto piangere dei suoi sbagli, ma anche rallegrarsi. Stare davanti al Signore con questa stabilità,
con questo star fermo, dà frutti. Lo dà in Elia, ma lo dà anche a noi.
Stare davanti a Dio per scoprire ciò che non va, ma anche per lasciare che il Signore ci guardi con il suo
amore e che dica: “Sono contento di te, nonostante tutto; coraggio, continua!”. E anche per ritrovare
il mistero di Dio. Elia non ha più trovato Dio dove era abituato a trovarlo e l’ha trovato dove non era
abituato a trovarlo, perché Dio era presente anche nel fuoco, nel terremoto, nel vento, dove lui l’aveva
conosciuto e ora non si fa più sentire lì. Si fa sentire laddove lui non l’aveva ancora
conosciuto. Ecco anche noi abbiamo bisogno di fare queste esperienze.
Parliamo tanto di Dio, di Gesù, del Vangelo, ma qual è la nostra esperienza di lui? Spesso il prete
è considerato una persona buona da chi è benevolo nei nostri confronti, una persona equilibrata, di
fiducia, che dà dei buoni consigli; non so se è considerato veramente come un maestro di spirito, come
una persona che ha sperimentato Dio davvero. Come una persona da cui si va in piena fiducia per dirgli:
accompagnami! Non perché sai tutto, ma perché hai una esperienza. Oggi c’è bisogno di
trasmettere l’esperienza su Dio! E allora abbiamo bisogno noi di fare l’esperienza di Dio, di stare
davanti a lui, di sentirne il mistero, di lasciarci interrogare, di passare dei periodi in cui non lo troviamo e
prendiamo coscienza che non lo troviamo e continuiamo a celebrare, parlare di lui, consapevoli che non sentiamo nulla
di lui, che ci sembra lontano e scomparso e come poveri a mendicare un suo ritorno, una sua manifestazione a noi
nuova, diversa, se ne abbiamo bisogno. Non abbiamo paura di questo, altrimenti rimaniamo un po’ bambini.
Lo stare fuori della caverna fermi non è solo per ritrovare noi stessi, ma soprattutto per permettere a lui
di rivelarsi di nuovo, farci riscoprire tutte quelle cose belle che ci hanno chiamato alla fede, al nostro essere
preti, ma che non possiamo semplicemente guardare come erano una volta; ritornare ad esse come si ritorna a delle
vecchie fotografie. Abbiamo bisogno che le foto vengano scattate nuovamente ancora con le stagioni della vita che
cambiano. E allora magari scopriremo Dio laddove pensavamo di avere sperimentato solo solitudine e fallimento. Ci
renderemo conto che gli siamo sfuggiti tante volte, che tante volte ci ha cercato, atteso, sostenuto, richiamato.
Riconosceremo il suo volto con i tratti del volto di Cristo, che ci ha chiamati, ma anche in maniera più
adeguata al tempo che viviamo.
Quando avremo obbedito a chi ci invita a uscire dalla caverna, a stare alla presenza di Dio con tutta la nostra
storia, allora potremo sentire di nuovo quella domanda: “Che fai qui?”, che sarà una domanda
che ci manderà in missione rinnovati, ci manderà al nostro ministero rinnovati, così come
è successo a Elia. Come rinnovati? Non lo so! Perché il Signore ha un progetto rinnovato per
ciascuno di voi!
Per altri articoli e studi di d.Franco Cagnasso o sulla Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici