«Il primo contatto con l’epistola agli Ebrei (= Ebr) è scoraggiante (rebutant). Di tutta la collezione del NT, in effetti, questa lettera è, insieme con l’Apocalisse, la più distante dal punto di vista letterario dalla nostra mentalità occidentale e moderna. Ella è strettamente dipendente da un’epoca, da una tradizione retorica, da un mondo intellettuale e religioso tanto caratterizzato quanto superato / aussi déterminé que périmé» (C. Spicq 1952, I, 1).
Ebr non contiene il nome dell’autore,
né indicazioni esplicite sui destinatari. Non dice da dove
è stata scritta, né a quale comunità è
stata indirizzata. Nei versetti finali, comunque, l’Autore
fornisce qualche rara notizia sia a proprio riguardo («Pregate
perché vi sia restituito al più presto», 13,19),
sia a riguardo di un certo Timoteo, probabilmente quello stesso
dell’epistolario paolino («… Timoteo è stato
messo in libertà», oppure - traduzione alternativa -
«è partito», 13,23a), sia a riguardo dei due insieme
(«Se Timoteo arriva presto, vi vedrò insieme con
lui», 13,23b), sia infine a riguardo di un gruppo di persone che
mandano saluti («Vi salutano quelli d’Italia»,
13,24).
Ci sono commentatori che vedono in Ebr 13,19.22-25 un biglietto
epistolare, aggiunto a un trattato teorico sul sacerdozio di Cristo
(L’ipotesi è di Weizsäcker, 1886: i molti che lo
hanno seguito sono citati da Spicq, 1952, I, p. 23). Lungi
dall’essere un documento astratto e teorico, però, Ebr
sembra essere invece uno scritto destinato a una situazione ben
concreta, che si può cercare di ricostruire, certo in via
ipotetica.
Il v. 2,3 sembra fornire alcune informazioni sui
tempi carismatici della fondazione della comunità destinataria
«(La salvezza), dopo essere stata promulgata all’inizio dal
Signore, è stata confermata in mezzo a noi da quelli che
l’avevano udita, mentre Dio convalidava la loro testimonianza con
segni e prodigi e miracoli di ogni genere e doni dello Spirito
Santo» (2,3-4). In particolare, la comunità non è
sorta dalla parola diretta di Gesù, bensì da qualche suo
discepolo («…da quelli che l’avevano udita /
υπο των
ακουσαντων»),
e l’Autore sembra appartenere alla comunità cui si rivolge
(«…confermata in mezzo a noi / εις
ημας», 2,3), senza esserne uno dei fondatori.
– Circa il tempo delle origini, cf. «Richiamate alla
memoria quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati (= il
primo annuncio? Il battesimo?), avete dovuto sopportare una grande e
penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni, ora
facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo.
Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete
accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze (=
confisca dei beni)» (10,32-34). Cf. anche 6,10.
I primi capi della comunità, probabilmente già morti, con
il loro comportamento hanno dato una bella prova di vita che i
destinatari dovrebbero imitare: «Ricordatevi dei vostri capi, i
quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente
l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede» (13,7).
L’Autore si rivolge non ai capi della
comunità ma a un gruppo di persone certamente distinte dai capi
e distinte forse anche dal gruppo più vasto dei
‘santi’: «Salutate tutti i vostri capi e tutti i
santi» (13,24). Scrive O. Kuss, p. 248: «Si noti come
l’Autore non dica una sola parola ai capi; piuttosto - si direbbe
- egli parla mettendosi dal loro punto di vista». – Il
gruppo dei Destinatari sembra essere fonte di profonda preoccupazione
pastorale per i capi: «Obbedite ai vostri capi e state loro
sottomessi - essi vegliano per le vostre anime! -, come chi ha da
renderne conto. Obbedite perché facciano questo con gioia e non
gemendo
(στεναζοντες
- il verbo στεναζω in greco
significa: gemo, sospiro, piango, deploro, compiango)» (13,17).
Con il loro comportamento, i destinatari sembrano mettere in
difficoltà ed essere di scandalo per gli altri cristiani
soprattutto della stessa comunità: cf. il pericolo di contagiare
molti altri con la radice amara di cui parla 12,5. Sembra addirittura
che i capi della comunità, non sapendo più pastoralmente
che fare a riguardo di quel gruppo, si siano rivolti all’Autore.
Probabilmente egli era un concittadino illustre e preparato, molto caro
a coloro cui scrive, e che godeva di grande autorità presso di
loro. Non potendo andare di persona, egli ha scritto. «Il suo
ministero presso di loro non è quello di un capo abitualmente
residente. … Se prega di essere restituito a loro, di vederli
con Timoteo, parla come un apostolo che visita delle chiese sulle quali
mantiene un diritto superiore» (J. Bonsirven, pp. 85-86). –
L’Autore sente di chiedere ai suoi interlocutori delle scelte che
comporteranno qualche sofferenza: «Pensate a colui (= il Cristo)
che ha sopportato una così grande ostilità, perché
non vi stanchiate, perdendovi d’animo» (12,3); «Non
avete resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il
peccato» (12,4); «Usciamo dunque verso il Cristo fuori
dell’accampamento, portando il suo obbrobrio, perché non
abbiamo quaggiù una città stabile ecc.» (13,13).
Sembra che i Destinatari da qualche tempo trascurino le riunioni: «Stimoliamoci a vicenda, non disertando le nostre riunioni come alcuni hanno l’abitudine di fare» (10,25). Sembra che siano attirati da dottrine e pasti cultuali diversi da quelli cristiani: «Non lasciatevi sviare da dottrine varie e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato per mezzo della grazia, non con cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono. Noi abbiamo un altare del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio della Tenda» (13,10). – Quei cibi e quei pasti appartengono al giudaismo (cf. l’espressione «coloro che rendono culto nella Tenda»), e sono ben distinti dall’‘altare’ dei cristiani. L’Autore insinua che, facendosi attirare a quei pasti cultuali, i Destinatari in fondo cadono nello stesso peccato di Esaù e, come lui, vendono la loro primogenitura: «Fate che … non vi sia nessun profanatore come Esaù che in cambio di un solo cibo vendette la sua primogenitura. Voi infatti ecc.» (12,14-16ss).
L’Autore avverte che non ci si lasci portare
fuori dalla giusta strada: «Proprio per questo bisogna che ci
applichiamo con maggiore impegno alle cose udite (dai fondatori), per
non essere sospinti fuori rotta (ινα μη
παραρυωμεν)»
(2,1); «Non lasciatevi sviare (μη
παραφερεσθε)
da dottrine varie e peregrine» (13,9).
Per questo richiama i suoi interlocutori alla professione di fede
tradizionale: cf. il termine homologìa in 3,1
(«fissate bene lo sguardo su Gesù, l’apostolo e
sommo sacerdote della fede che noi professiamo»); in 4,14
(«…manteniamo ferma la professione della nostra
fede»); e in 10,23 («Manteniamo senza vacillare la
professione della nostra speranza»). E li ammonisce e scongiura
di non crocifiggere di nuovo il Signore: «Lasciata da parte
l’istruzione iniziale, passiamo a ciò che è
più completo. (…) Infatti, quelli che furono una volta
illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello
Spirito Santo e gustarono la buona parola di Dio e le meraviglie del
mondo futuro, e che tuttavia sono caduti, è impossibile
rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento
che per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo
espongono all’infamia» (6,4-6).
Fin dall’inizio l’Autore è in grado di richiamarsi alle affermazioni della catechesi tradizionale, convinto di essere capito e condiviso. – In 1,1-4 ci sono per esempio affermazioni circa Gesù quale porta-parola di Dio più grande che non i profeti d’Israele, e poi quale Figlio, co-creatore ed erede del mondo, ora intronizzato alla destra di Dio. L’Autore cerca anche di richiamarsi al passato cristiano dei Destinatari: alla catechesi che ricevettero agli inizi, al battesimo (6,4-5; 6,10; 10,32-35), e alle esperienze pneumatiche dei primi tempi (2,4). – Quanto ai molti riferimenti sacrificali e liturgici «si noterà che l’Autore non si riferisce mai al tempio di Gerusalemme, né a quello di Salomone, né a quello di Zorobabele ed Erode, nel quale ultimo il Santo dei santi era vuoto perché l’arca era andata perduta. L’Autore non evoca in nessun modo la liturgia giudaica contemporanea: la sua descrizione è esclusivamente libresca, basata sul rituale mosaico (secondo i testi di Es e di Num), glossato dalla tradizione. Questo rende conto di certe imprecisioni della Lettera» (C. Spicq, 1977, p. 144).
Ad ogni passo del documento è evidente che i Destinatari accettano come probante e decisiva l’autorità della Scrittura. In particolare sono importanti soprattutto la legge levitica sul sacerdozio e sui sacrifici, i salmi (soprattutto i Sal 8, 40, 95, 110), ma anche i profeti (cf. la citazione di Ger 31 al cap. 8, la più lunga del NT) e i sapienziali (cf. la citazione di Prov 3,11-12, in 12,5-6). – L’Autore è in grado di applicare i metodi o i principî esegetici del tempo, convinto di riuscire convincente: cf. l’argomentazione a minori ad maius (per esempio in 2,2-3; 9,13-14; 10,28-29; 12,25); o il principio secondo cui «una parola o azione di Dio più recente annulla la precedente», (cf. l’abrogazione del sacerdozio levitico decretata dal Sal 110, secondo 7,11.28; e l’abrogazione della prima alleanza, decretata da Ger 31 secondo Ebr 8,7.13); o ancora il principio secondo cui «quello che non è nella Torah non esiste neppure nel mondo», principio applicato soprattutto nel commento a Gen 14, dove Melchisedec non avrebbe genitori né figli dal momento che il testo biblico non li menziona (Cf. R. FABRIS, RivBibl 1984, pp. 242-244).
Fin dall’inizio (1,4) l’Autore ha
bisogno di precisare che il Figlio ha conseguito un nome (= una
dignità, un ruolo) superiore a quello degli angeli. Questo
confronto tra il Cristo e gli angeli viene poi a lungo sviluppato in
1,5-2,18, ma sembra trattarsi in realtà di un confronto tra
Vangelo e legge mosaica, di cui gli angeli furono mediatori: «Se
infatti il lògos (= la legge) trasmesso per mezzo degli
angeli ecc.» (2,2). – L’Autore non può dare
per scontato, e deve invece ribadire, che c’è oramai
un’alleanza nuova (9,15) e superiore (8,6), mentre la prima
è stata dichiarata antiquata da Dio (9,13), e che
c’è un mediatore di alleanza più grande di
Mosè (7,22; 8,6; 9,15; 12,24).
Per i Destinatari sembra esserci solo il sacerdozio di Aronne e dei
Leviti, mentre per l’Autore è dimostrabile in base alle
Scritture l’esistenza di un sacerdozio alternativo e più
perfetto che è quello secondo l’ordine di Melchisedec. Per
l’Autore, anzi, i sacrifici levitici sono inefficaci, mentre solo
il sacrificio del Cristo, sacerdote secondo l’ordine di
Melchisedec, purifica efficacemente le coscienze dai peccati e avvicina
a Dio. – Forse i Destinatari avevano perduto fiducia nel
sacrificio del Cristo, o forse nella sua efficacia circa i peccati
intervenuti dopo il loro battesimo (B. LINDARS, La teologia della
lettera agli Ebrei). Tutto sembra girare intorno al problema della
remissione dei peccati, problema cui l’Autore fa un veloce ma
intenzionale e programmatico accenno fin dall’inizio (1,3),
quando scrive: «…, si è assiso alla destra della
Maestà nell’alto dei cieli, dopo aver compiuto la
purificazione dei peccati». – «I lettori non sono
dei ribelli, pervicaci e insolenti, ma hanno la coscienza profondamente
turbata e sono fortemente tentati di ricorrere all’aiuto della
comunità giudaica» e agli strumenti di purificazione dai
peccati che essa propone (LINDARS, La teologia, pp. 61-62).
Probabilmente i Destinatari stavano ritornando alle pratiche giudaiche
in cui erano cresciuti, e stavano riprendendo a frequentare di nuovo le
riunioni sinagogali che li mettevano in comunione con i sacrifici di
purificazione offerti al tempio di Gerusalemme. Cf. l’intento
apologetico che pervade ogni sezione: «L’esortazione
apologetica di Ebr consiste meno nello stabilire l’eccellenza
della nuova alleanza che non la sua superiorità
sull’antica. Tutta la dialettica dell’autore si riassume in
un’argomentazione a minori ad maius. Se i privilegi del
giudaismo sono grandi, quanto più, a fortiori, il
Vangelo è perfetto (1,4; 7,20; 8,6; 9,14; 10,29). Di qui
l’uso abbondante dei comparativi (1,4; 2,1; 6,17; 7,15; 8,6;
9,11; 11,26; 13,19 ecc.), e in particolare le 13 ricorrenze di
κρειττων, uno dei termini
più caratteristici della lettera» (Spicq, 1952, I, p. 13).
Di Ebr sono state date molte definizioni:
“trattato apologetico”, “opera oratoria” o
“omelia”, “epistola” (= trattato teorico in
forma epistolare: così A. Deißmann), vera
“lettera”.
Si ambientano molto bene in una lettera i versetti finali 13,19.22-24,
che contengono esortazioni («Ve lo raccomando, fratelli
ecc.»), notizie («Il nostro fratello Timoteo è stato
messo in libertà /è partito»), saluti
(«Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi; vi salutano
quelli d’Italia»), auguri («La grazia sia con tutti
voi»), la separazione dell’ “io” dal
“voi” («… perché io vi sia
restituito»), superata da uno scritto («… per questo
vi ho scritto»). – L’inizio di Ebr invece non
è epistolare, e quindi non ci sono mittente, destinatario,
augurio. Non è neanche possibile ipotizzare che tutto questo ci
fosse e che sia andato perduto o che sia stato volutamente cancellato:
l’inizio attuale infatti non sopporta alcun prescritto ed
è un perfetto esordio oratorio (A. VANHOYE, in GEORGE - GRELOT, Introduzione
al NT, vol. 3, p. 189).
I cap. i-xiii, e cioè il corpo del documento, non
confermano l’ipotesi epistolare basata sulla finale, ma quella
oratoria basata sull’inizio: cf. 2,3; 5,11: «Su questo
argomento abbiamo molte cose da dire
(πολυς ημιν ο
λογος!), difficili da spiegare
(λεγειν)
perché…»; cf. 6,9; 8,1: «Il punto capitale
delle cose che stiamo dicendo (τοις
λεγομενοις!)
è questo…»; cf. 9,5: «Di tutte queste cose
non è necessario ora parlare
(λεγειν!) nei particolari»);
cf. 11,32: «E che dirò (λεγω!)
ancora? Mi mancherebbe il tempo, se volessi narrare di Gedeone
ecc.».
La stessa finale epistolare definisce tutto il testo
precedente come “discorso di esortazione”: «Ve lo
raccomando, fratelli: accogliete questa parola di esortazione: proprio
per questo vi ho scritto brevemente» (13,22), e in At 13,15 la
stessa espressione (ο λογος
της
παρακλησεως)
significa “omelia”, “predica sinagogale”.
– Ebr ha dunque molto dell’omelia, e si avvicina molto ai
sermoni sinagogali della diaspora ellenistica. H. Thyen ha individuato
e studiato una quindicina di simili omelie: in Filone, 1Clem, in 1/3/4
Maccabei, Giac, At 7, Didachè, Pseudo-Barnaba, Pastore di Erma
ecc. In particolare, per E. LOHSE, Introd. al NT, p. 213, Ebr
sarebbe una omelia sui Sal 8; 95; 110; 40, e su Ger 31. «E’
il solo sermone che il NT ci ha conservato integralmente» (J.F.
Mc Connell; A. Vanhoye, p. 191).
Ebr comunque non può essere pensata come una omelia adatta a
qualsiasi comunità, che l’Autore avrebbe pronunciato
più volte o più volte inviato per iscritto. In
particolare il capitolo xiii fa pensare che il documento sia stato
invece pensato per una situazione unica e irripetibile. «Questa
(= di considerare Ebr un trattato teorico e atemporale) è
un’immagine fuorviante, perché Ebr è la risposta
pratica a una situazione urgente. I lettori sono sul punto di decidere
ciò che l’autore considera null’altro che il ripudio
della fede cristiana. Il suo obiettivo è di persuaderli a
cambiare idea e ad abbandonare quella direzione disastrosa»
(LINDARS, La teologia, p. 16). – Ebr si avvicina dunque a
1Giov e ad Apoc, che hanno un inizio oratorio (e non epistolare), il
quale è incentrato sul Cristo rivelatore, così come
quello di Ebr. Tra l’altro Apoc, dopo l’inizio oratorio
(1,1-3), ha poi anche gli elementi del prescritto epistolare in 1,4: il
nome del mittente («Giovanni…»), dei destinatari
(«… alle sette chiese che sono in Asia»), e
l’augurio iniziale («Grazia a voi e pace da Colui che
ecc.»). Questo significa che nel cristianesimo primitivo,
perché avessero un particolare rilievo nella lettura pubblica
alla chiesa destinataria, certi documenti di carattere epistolare
sottolineavano nelle parole iniziali più l’aspetto
dell’oralità che quello dell’epistolarità.
Altri documenti epistolari, anche non cristiani, senza inizio
epistolare sono elencati da Spicq, 1977, p. 12 . – Ebr sembra
essere dunque una lettera-sermone.
Quanto ai versetti epistolari finali, alcuni autori pensano che siano stati aggiunti da un autore diverso, per paolinizzare il documento: cf. il riferimento a Timoteo, probabilmente il noto discepolo di Paolo. A. Vanhoye pensa che l’autore di quel biglietto sia Paolo stesso: «Il biglietto potrebbe essere dello stesso Paolo che l’avrebbe aggiunto alla predica composta da uno dei suoi compagni di apostolato», ma saggiamente aggiunge: «Il testo del biglietto è troppo corto perché questa ipotesi possa essere dimostrata» (Vanhoye, p. 215). – Comunque l’ipotesi che i versetti 13,19 («… pregate perché io vi sia restituito al più presto») e 13,22-24 (con le notizie su Timoteo e con i saluti), siano un biglietto epistolare aggiunto al testo dell’omelia magari da Paolo, è problematica, se non altro perché non si spiegherebbe come mai il v. 19 è staccato dalle altre parole dello stesso biglietto.
All’interno di Ebr si alternano ripetutamente esposizioni dottrinali e brani parenetici, per cui gli interpreti discutono su quale dei due generi sia quello che più preme all’autore. – Per Vanhoye «la parenesi si subordina essa stessa alla esposizione, perché insiste innanzitutto sulla necessità di accogliere il messaggio della fede» (Vanhoye, p. 191). Ma per altri autori «le esposizioni vengono sempre interrotte dalla parenesi che evidentemente costituisce lo scopo perseguito dall’Autore» (W.G. KÜMMEL, Einleitung in das NT, pp. 343-344); «E’ proprio nel suo tentativo di tenere separate dottrina e parenesi che lo schema chiastico di Vanhoye è più chiaramente esposto alle critiche. L’intera composizione è parenesi, e la esposizione dottrinale è subordinata al suo scopo» (B. LINDARS, NTS 1989, p. 392, nota 2).
Da Ebr si ricava che la comunità destinataria
è così caratterizzata: non ha conosciuto Gesù ma
ha ricevuto il Vangelo da discepoli-missionari (2,3); i suoi membri
sono cristiani da lunga data (5,12), e i primi capi della
comunità sono già morti (13,7); la persecuzione dei primi
tempi li ha esposti a insulti pubblici, alla carcerazione e alla
spoliazione di quello che possedevano (10,32-34). Ora che
sopraggiungono nuove difficoltà, non sanno più essere
forti come allora (12,4). Non frequentano più le riunioni
(10,25), e si perdono d’animo (12,3).
L’intestazione esterna «Agli Ebrei» (προς
Εβραιους) si trova nel più
antico manoscritto di Ebr, il P6 (inizi sec. iii). [L’intestazione
esterna è il titolo di uno scritto posto sul dorso del rotolo o del codice,
per distinguerli da altri insieme ai quali sono allineati nello scaffale]. –
La stessa destinazione, ancora prima del P6, è attestata ad
Alessandria presso Panteno, Clemente alessandrino, e poi, sempre in Africa,
in Tertulliano, ed esprime la convinzione dei raccoglitori dei documenti neotestamentari
che Ebr fosse diretta a cristiani convertiti dal giudaismo. – «È
verosimile che nelle comunità cristiane primitive si chiamassero ‘ebrei’
quelli che provenivano dal giudaismo. Se molto presto si è dato all’epistola
il titolo “Agli Ebrei”, è perché si voleva che fosse
distinta dalle altre epistole paoline, rivolte ai cristiani senza alcuna distinzione
d’origine» (Bonsirven, p. 88). [“Ebrei”, “israeliti”,
“giudei”: «Ordinariamente i giudei antichi si servivano di
questa parola (= ebrei) per ciò che riguarda la lingua e la letteratura.
Indica dunque persone che sono di lingua e di razza giudaica, mentre ‘giudeo’
è piuttosto un termine politico, che designa colui che appartiene alla
nazione giudaica, e ‘israelita’ indica un membro della religione
mosaica», Bonsirven, p. 88].
In conclusione: i Destinatari di Ebr sembrano giudeo-cristiani (ma non sacerdoti) tentati di tornare a certi insegnamenti e pasti cultuali del giudaismo, misconoscendo l’«altare» cristiano, e cioè il sacrificio del Cristo. – Più o meno intenzionalmente, l’Autore esagera il pericolo di apostasia in cui sarebbero i Destinatari. In realtà, richiamandosi a gran parte della catechesi cristiana tradizionale, dimostra di rivolgersi a persone che credono ancora al Cristo. «Non bisogna esagerare questa gravità (= del pericolo di apostasia). Possiamo dire che in una comunità, una volta fervente, si sono verificati casi di rilassamento, che si sono conchiusi con qualche rara apostasia non ancora definitivamente consolidata» (Bonsirven, 75-76). Il fatto è che, mentre sono in cerca di strumenti di purificazione dai peccati, non sanno vedere nella persona del Cristo e nella sua opera l’aspetto sacrificale.
Le comunità che sono state chiamate in causa
come destinatarie sono quelle di Efeso, di Corinto, di Galazia, della
valle del Lico, di Antiochia di Siria, di Alessandria d’Egitto, e
poi di Gerusalemme, Cesarea Marittima, Cipro, ma addirittura anche di
Spagna (Così Nicola di Lira, † 1340; P. Ludwig, 1750;
Kuinoel 1831), e Ravenna (Così H. Ewald, 1870: l’Autore
scriverebbe da Gerusalemme a Ravenna, città che ha sempre avuto
strette relazioni con l’oriente). In ogni caso, come luogo di
destinazione, dovrebbe essere esclusa Gerusalemme perché,
secondo 2,2, i Destinatari hanno ricevuto l’annuncio evangelico
non dal Signore, ma dai suoi discepoli.
L’espressione “Vi salutano gli Italici (= οι
απο της
Ιταλιας)” può
significare che l’Autore scrive da una qualche città
d’Italia e aggiunge i saluti dei cristiani del luogo: «(Se
non scrivesse dall’Italia), non si spiegherebbe come lo scrivente
abbia selezionato nella comunità in cui risiede un gruppo
ristretto di Italici e che non abbia associato ai loro saluti i
cristiani delle altre nazionalità. Questo razzismo o questo
nazionalismo sarebbe senza paragoni nel NT» (Spicq, 1966, p. 21).
Ma, dal momento che difficilmente gli abitanti di una città si
denominano con il nome della nazione, è più probabile che
gli “Italici” di Ebr 13,24 siano un gruppetto fuori patria
che salutano la comunità destinataria che, magari essa
sì, si trova appunto in Italia. «È difficile capire
come si potrebbero trasmettere i saluti dei cristiani italici in
generale» (Westcott, p. xliii). Se davvero la comunità
destinataria è da collocare in Italia, allora un nutrito gruppo
di giudeo-cristiani potrebbe essere pensato a Roma, dove si calcola che
i giudei potevano essere 30.000 o 40.0000. – A favore di Roma
è per esempio il fatto che la 1Clem, scritta a Roma intorno al
95 d.C., citi Ebr o attinga dalla stessa fonte da cui ha attinto Ebr.
– Forse è meglio dire con Bonsirven (p. 130):
«Dobbiamo rassegnarci a non sapere».
Per la datazione di Ebr il punto di riferimento
più preciso è, appunto, il contatto letterario tra Ebr e
1Clem. Se c’è dipendenza diretta e non soltanto
derivazione delle due opere da una fonte comune, Ebr è anteriore
a 1Clem che fu scritta intorno al 95. La menzione di Timoteo presuppone
che quel discepolo di Paolo, se di lui si tratta come è
probabile, sia ancora in vita e che sia in grado di intraprendere
viaggi.
Secondo alcuni autori, non si può fare riferimento alla
distruzione del tempio del 70 d.C., perché l’Autore quando
parla dei riti e dei sacrifici giudaici parla sempre del culto offerto
nella Tenda del deserto, e mai del tempio erodiano del sec. i d.C.
– Tuttavia «dopo la distruzione del tempio, ogni
argomentazione contro il tempio di Gerusalemme, il suo sacerdozio e il
suo culto non avrebbe più ragion d’essere» (Spicq,
1977, p. 31); «La lettera risulterebbe più viva e attuale
se il culto giudaico era ancora praticato quando l’Autore
scriveva, rappresentando come un pericolo persistente di seduzione per
i convertiti al Cristianesimo, se il sommo sacerdote esercitava ancora
quelle funzioni che erano esclusivamente sue, se il sacerdozio levitico
esplicava le proprie mansioni, così da escludere la
possibilità di un sacerdozio terreno di Cristo» (Teodorico
Ballarini, p. 22); «La ripetuta insistenza
sull’obsolescenza dell’apparato sacrificale rende quasi
inconcepibile che la lettera agli Ebrei non citi, se già aveva
avuto luogo, la distruzione del tempio» (LINDARS, La Teologia,
p. 36); «Numerosi passi dell’epistola diventano
anacronistici e addirittura non hanno senso se a Gerusalemme non si
offrissero più sacrifici: ‘Se Gesù fosse sulla
terra, egli non sarebbe neanche sacerdote, perché ci sono
già sacerdoti che offrono sacrifici, e che celebrano un culto
ecc.’; ‘Questi sacrifici, sempre gli stessi, che si offrono
di anno in anno ecc. Essi sono incapaci di purificare, altrimenti si
sarebbe cessato di offrirli’» (Spicq, 1966, p. 19).
«Quindi il testo sarebbe stato scritto prima dell’anno 70,
che è l’anno della sua [= di Gerusalemme] distruzione e
della fine storica del culto giudaico» (Casalini, p. 55).
A proposito della lingua greca di Ebr gli autori parlano di “estrema cura”, di “lingua estremamente corretta”, nonostante i “periodi ampi e lunghi”. – Ebr non è scritta nella lingua del popolo come lo sono per esempio i Vangeli, ma in “una κοινη elevata”; è «il primo documento di letteratura cristiana elevata a noi pervenuto» (A. Deißmann). Il greco di Ebr è “il migliore greco del NT” (H. Conzelmann), “che non trova uguali nel NT” (A. Wikenhauser). – Non solo per lingua e stile, ma anche e soprattutto per lo “splendore spirituale”, questo documento «rappresenta un capolavoro senza uguali nel NT» (WIKENHAUSER - SCHMID, Introduzione al NT, p. 592), ed è «difficile ma affascinante» (A. VANHOYE, in GEORGE - GRELOT, Introduzione al NT, vol. 3, p. 185).
«La lettera è redatta secondo le regole
della retorica più raffinata del primo secolo della nostra
era» (Spicq, 1977, p. 10). «Lo stile greco
dell’Autore è il più accurato del NT. Certamente,
come Paolo, egli ha potuto trarre in qualche misura beneficio
dall’educazione greca, la quale comportava una certa
dimestichezza con l’arte della retorica. In questa lettera
l’Autore ricorre a tutte le risorse di cui dispone per ottenere
il massimo risultato possibile. La retorica è l’arte della
persuasione, e la lettera agli Ebrei è dall’inizio alla
fine un’opera di persuasione» (LINDARS, La teologia,
p. 16)
Nel sec. i a.C. erano in voga tre stili retorici: quello
‘barocco’ degli oratori alessandrino-ellenistici definiti
“Asiani”, quello sobrio e neo-classico degli
“Atticisti” che volevano far rivivere la grande retorica
ateniese, e quello intermedio detto “rodiano”
(perché avrebbe avuto origine nell’isola di Rodi), che
tentava una sintesi dei primi due. L’Autore di Ebrei si
collocherebbe nella terza corrente, quella dei rodiani, con un
risultato eccellente se il confronto viene fatto con gli altri autori
neotestamentari, e invece di medio livello se si fa il confronto con la
grande letteratura dell’epoca (P. GARUTI, Alle origini
dell’omiletica cristiana. La Lettera agli Ebrei. Note di
analisi retorica, Jerusalem 1995)
La chiesa greca, e in genere quelle orientali, attribuivano
la lettera a Paolo. Così fa anche il P6 che colloca Ebr tra
Rm e 1/2Cor, ma la discussione sull’autore è più che legittima
dal momento che in Ebr non compare mai il nome di Paolo.
Argomenti a favore dell’origine paolina sono: la menzione
di Timoteo, i temi teologici paolini come “nuova alleanza”,
“morte espiatrice”, “la preesistenza”, e poi i
titoli cristologici di “Figlio”, “Immagine di
Dio”, ecc. – Argomenti contrari sono anzitutto
l’assenza del nome di Paolo, della forma epistolare paolina,
dello stile di Paolo. E poi mancano i temi paolini più
importanti (giustificazione, carne, Spirito), mentre il concetto di
fede, di “legge” … sono diversi (in Ebr = solo la
legge levitica); manca il problema dei rapporti tra ebrei e
pagani; manca la rivendicazione del titolo e dell’autorità
di Apostolo e della rivelazione diretta a Damasco: cf. 2,3, dove si
dice il contrario: «… la salvezza è stata
confermata in mezzo a noi da quelli che l’avevano udita».
In Ebr manca la formula paolina εν
Χριστω e diverso è il modo di
introdurre le citazioni bibliche, mentre l’unico cenno alla
Resurrezione è quello di 13,20 (in una dossologia, e con
linguaggio non paolino).
Ebr è stata di volta in volta attribuita a
Luca (così Clemente alessandrino), Barnaba (così
Tertulliano), Clemente romano (così Origene), e poi Filippo,
Sila/Silvano, Aristione, Marco ecc. – A. von Harnack (ZNW
1900, pp. 16-41, e altrove) attribuì Ebr a una donna: a Prisca,
moglie di Aquilàs (cf. At 18,2 e Rm 16,23; Prisca conosceva bene
Timoteo; era interessata all’infanzia e all’educazione, cf.
5,12; 9,23; 12,5-11; era interessata alla tenda, dal momento che era
costruttrice di tende ecc.); e Josephine Massingberd Ford nel 1975
l’ha attribuita a Maria, madre di Gesù, che
l’avrebbe ispirata a Giovanni e Luca. – Ma in 11,32 un
participio maschile esclude ogni ipotesi al femminile: cf. «E che
dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo, se volessi narrare
(… με
διηγουμενον)
di Gedeone ecc.». – Dai tempi di Lutero in poi, si è
fatto ripetutamente l’ipotesi di Apollo, il quale anche oggi
è colui che ha più argomenti a proprio favore: contatto
con Paolo ma autonomia da lui, buona preparazione retorica, e
conoscenza delle Scritture (cf. At 18,24). Sostenitore convinto di
questa attribuzione è Spicq, 1977, pp. 25-28, che commenta a
lungo ciò che di Apollo dicono gli Atti (18,24ss), trovando in
Ebr la conferma delle doti attribuite ad Apollo da Luca. Ma
nell’antichità nessuno ha fatto il nome di Apollo, neanche
ad Alessandria d’Egitto, da dove egli era originario.
Meglio, comunque, stare con Origene secondo il quale solo Dio sa chi
è l’Autore: «τις δε
ο γραψας την
επιστολην
το μεν
αληθες
θεος
οιδεν» (Ex homiliis in
epistulam ad Hebraeos, PG 14, 1309.B).
Chi si occupa della lettera agli Ebrei non
può ignorare la tesi di laurea di A. Vanhoye sulla struttura di
Ebr. Perfezionandone il metodo, nella sostanza egli ha confermato le
divisioni che L. Vaganay aveva proposto («Le plan de
l’Épître aux Hébreux», in Mémorial
Lagrange, Paris 1940, pp. 269-277), seguito in parte da C. Spicq
nel suo fondamentale commentario a Ebr del 1952-1953 (due volumi, poi
compendiati nel 1966 per la cosiddetta Bibbia di Gerusalemme, e
nel 1977 per la collana Sources Bibliques). – Secondo
Vaganay e Vanhoye, Ebr è divisa in 5 parti, rispettivamente di
1-2-3-2-1 sezioni, che si succedono in disposizione concentrica:
* |
1,1-4 |
Introduzione |
I |
1,5-2,18 |
Un nome superiore a quello degli angeli |
II.A |
3,1-4,14 |
Gesù, degno di fede |
II.B |
4,15-5,10 |
Gesù, capace di compassione |
- |
5,11-6,20 |
Esortazione preliminare |
III.A |
7,1-28 |
Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec |
III.B |
8,1-9,28 |
Sommo Sacerdote giunto alla perfezione |
III.C |
10,1-18 |
Causa di salvezza eterna |
- |
10,19-39 |
Esortazione finale |
IV.A |
11,1-40 |
La fede dei Padri |
IV.B |
12,1-13 |
La perseveranza necessaria |
V |
12,14-3,18 |
Vie diritte verso il frutto pacifico della giustizia |
* |
13,20-21 |
Conclusione |
Il ritocco consiste nel trasformare la “quinta
parte” di Vanhoye nella “terza sezione della quarta
parte”. – In altre parole Ebr 12,14-13,18 completa le due
esortazioni della quarta precisando verso quale mèta si debba
camminare (IV.C), nella fede (IV.A) e nella perseveranza (IV.B): verso
il regno che non crolla (12,28) e verso la città che rimane:
«Usciamo dunque verso di lui (= verso il Cristo, che fu
crocefisso fuori porta) fuori dell’accampamento, portando il suo
obbrobrio, perché non abbiamo quaggiù una città
stabile, ma siamo in cerca di quella futura» (13,14).
Come suggerisce il titolo dato da Vanhoye alla presunta quinta parte
(«Vie diritte verso il frutto pacifico della giustizia»),
l’annuncio della sezione dovrebbe essere in
καρπον
ειρηνικον di 12,11 e la
ripresa nel termine ειρηνην di 12,14. Ma
il tema della pace è assolutamente marginale in 12,14-13,18 e
quel titolo non rende conto del dramma che è avvertibile nei
molti imperativi, nelle discrete ma reali minacce e nei castighi
ventilati, di questi capitoli conclusivi. Se in Ebr 8-10
c’è il centro dogmatico del documento, il vertice retorico
con tutti i suoi risvolti dolenti e drammatici si trova qui:
l’Autore voleva, sì!, spiegare e insegnare, ma quello che
più di tutto perseguiva era che i suoi interlocutori non
facessero il passo sbagliato dell’apostasia. – In ogni caso
è difficile che un autore possa collocare il vertice del suo
libro nel centro e non alla fine.
In conclusione Ebr 12-13 non è una finale debole e fiacca di un
testo dogmatico di grandissima levatura, perché, al contrario,
le speculazioni sul sacerdozio di Cristo sono proposte in Ebr 8-10 per
sbarrare la strada a chi ripiegava all’indietro verso i pasti
cultuali giudaici, e per trascinarli di nuovo nella corsa in avanti di
cui parla 12,1. Per cui in 12,11-13 non c’è bisogno di
alcun annuncio di alcuna quinta parte di Ebr, perché 12,14-13,17
costituisce la terza sezione della quarta parte (IV.C), dopo quella
dedicata alla fede dei Padri (IV.A), e quella dedicata alla
perseveranza di cui Gesù è esempio (IV.C).
Gli antichi maestri di retorica ritenevano che «l’argomento più forte fosse da porre alla fine, quello forte all’inizio, quelli più deboli in mezzo, poiché la chiusa è decisiva per l’atteggiamento del giudice» (Garuti, p. 195), e se anche «le differenti parti [in una struttura a chiasmo] si bilanciano in una simmetria appagante per l’occhio, [tuttavia] per l’uditore non hanno alcun senso: a lui interessa seguire il filo del ragionamento» (Garuti, p. 311). – «L’analisi più conosciuta della composizione è quella di Vanhoye, che trovò quanto egli considerava una perfetta struttura chiastica con il cardine al centro, in 8,1-9,28, sul sacrificio di Cristo. (…) Ma, indipendentemente dal fatto che il chiasmo è ben lungi dall’essere perfetto, dal momento che le corrispondenze non sono esatte su nessuno dei due lati di questa sezione centrale, sotto il profilo retorico il culmine effettivo si trova alla conclusione del cap. 12, con il suo travolgente appello ai lettori» (LINDARS, La teologia, p. 44). «Il climax della trattazione non deve essere cercato nei capitoli centrali sul sacrificio di Cristo (7,1-10,18), come è implicato dalla strutturazione chiastica di Vanhoye, bensì nella grande sezione sulla fede che segue (10,19-12,19)» (LINDARS, NTS 1989, p. 384). – Spicq, 1952, p. 37: «Questo paragrafo (= Ebr 12,14-29), che mette a contrasto l’imperfezione dell’antica alleanza e i terrori del Sinai con gli splendori della Gerusalemme celeste, è di una magnifica eloquenza, ed è la vera conclusione dell’epistola». Lo stesso Spicq, 1977, p. 222, (nonostante definisca molto impropriamente 13,1-19 come ‘appendice’) indica il culmine della Lettera in Ebr 13,14, scrivendo: «C’est le sommet de l’Épître / E’ il vertice della lettera».
Ebr 1,1-4: Esordio
Nei primi due versetti il soggetto è Dio: il Dio della
rivelazione. Dio ha parlato a molte riprese e in modi diversi, lungo
tutta un’intera storia: prima parlò nei profeti, e poi ha
parlato nel Figlio. Il rivelatore è unico, ma il modo della
rivelazione è molto diverso: la prima rivelazione fu
frammentaria e parziale, quella nel Figlio invece fu piena e
definitiva.
Nei vv. 3-4 il soggetto è il Figlio. Di questo Figlio si
elencano i titoli che lo mettono in relazione con Dio
(«irradiazione della sua gloria ecc.»), con il creato
(«… per mezzo del quale ha fatto anche il mondo»),
con gli uomini («… dopo aver compiuto la purificazione dei
peccati»), e con gli angeli («… è diventato
superiore agli angeli, ereditando un nome superiore al loro»).
– Tutto il peso del discorso gravita sul confronto [il primo di
molti] con gli angeli e sulla superiorità nei loro confronti.
*** Il confronto con gli angeli del v. 4 annuncia il tema della prima
parte («… è diventato di tanto superiore agli
angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha
ereditato»).
i. Confronto con gli angeli quanto a vicinanza con Dio (1,5-14)
Il confronto avviene attraverso una catena di 7 prove bibliche che illustrano i quattro momenti di una cerimonia d’investitura e accessione al trono:
1,5: Notificazione solenne del titolo filiale (2 citazioni),
1,6: Presentazione dell’eletto al cosmo (nuova formula d’introduzione e una citazione),
1,7-12: Consegna dei simboli regali (trono, scettro), unzione ed eternità (nuova formula e 3 citazioni),
1,13-14: Accessione al trono: «Siedi alla mia destra» (nuova formula e 1 citazione).
ii. Esortazione a non staccarsi dal Vangelo, superiore alla parola mediata dagli angeli (2,1-4)
2,1: Bisogna restare attaccati alla catechesi ricevuta agli inizi
2,2-4: Argomento a fortiori: se le trasgressioni alla legge hanno avuto severa sanzione, quanto più l’avrà l’abbandono del Vangelo.
iii. Confronto con gli angeli quanto a vicinanza con gli uomini (2,5-18)
Secondo il Sal 8 il Cristo fu fatto per poco (tempo) inferiore agli angeli. Fu così che si fece più vicino agli uomini che non gli angeli. Il conseguimento di quella prossimità è delineato in quattro tappe:
2,5-9: Argomento tratto dal Sal 8: introduzione della citazione (v. 5); la citazione (vv. 6b-8a); tre applicazioni al Cristo (vv. 8b-9). Poi le quattro tappe:
2,10: Il piano divino («Conveniva a Dio di rendere perfetto…»),
2,11-13: La disponibilità da parte del Figlio verso Dio, verso i fratelli (3 citazioni),
2,14-16: La comunione raggiunta con gli uomini attraverso la morte,
2,17-18: L’assimilazione agli uomini nella morte e il conseguimento del sacerdozio.
La situazione mediatrice del Cristo è messa
in luce attraverso il confronto con gli angeli, anzitutto riguardo alla
vicinanza con Dio. Nella Scrittura gli angeli sono dichiarati ministri
di Dio, mentre a un altro, al Cristo, Dio si rivolge chiamandolo
“Figlio” (1,5bis), “Dio” (1,8),
“Signore” (1,10), e lo fa sedere alla sua destra (1,13). Il
Cristo è dunque più vicino a Dio che non gli angeli.
Anche quanto alla relazione con gli uomini, il Cristo è
superiore agli angeli: fatto inferiore ad essi per poco tempo, quello
della passione (Sal 8), più di loro è vicino agli uomini,
avendo sofferto la morte (2,9). La sofferenza lo ha reso perfetto nel
guidare alla salvezza (2,10) coloro che non si vergogna di chiamare
fratelli (2,11) e che erano tenuti in schiavitù (2,15).
*** Nei vv. 2,17-18 viene annunciato il tema della parte seconda: il
Cristo doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, soffrendo
personalmente per poter essere Sommo Sacerdote degno di fede
(πιστος) e capace di compatire
(ελεημων).
i. Gesù, πιστος (degno di fede) sopra la casa di Dio più di Mosè (3,1-6a)
3,1: Invito a riflettere sul ruolo di Gesù nel popolo di Dio.
3,2-4: In quel popolo godette agli occhi di Dio di maggior gloria e onore che non Mosè.
3,5-6a: perché Mosè vi fu preposto come servo, Gesù invece in qualità di figlio.
ii. Casa di Dio siamo noi a patto che manteniamo salda la speranza (3,6b)
3,6a: Affermazione che opera il trapasso all’esortazione basata sul Sal 95.
iii. La casa di Dio e il riposo promesso dal Sal 95 (3,7-4,13)
3,7-11: Citazione di Sal 95,7-11, come invito ad ascoltare la voce di Dio.
3,12-19: 1a riflessione circa gli Israeliti dell’esodo
- Dopo due imperativi («Guardatevi dall’apostatare dal Dio vivente», v. 12; «Esortatevi a vicenda», v. 13), nel v. 14 viene ripreso l’invito a stare saldi, del v. 6a.
- Poi, tre domande retoriche (vv. 16.17.18) portano alla constatazione che gli Israeliti furono esclusi dal riposo di cui parla il Salmo, a causa della loro mancanza di fede, v. 19.
4,1-5: 2a riflessione: «Anche noi al pari di quelli»
- Dopo un imperativo iniziale («Dobbiamo temere che qualcuno resti escluso da quel riposo», v. 1), si applica ai Destinatari l’invito del Salmo, rivolto appunto «anche a noi al pari di quelli», precisando però che bisogna restare uniti a quelli che credono, poiché Dio qualcuno lo esclude, addirittura sotto giuramento (vv. 2-5)
4,6-11: 3a riflessione che precisa come mai l’invito sia ancora in vigore
- Poiché Giosuè non introdusse nel riposo la generazione dell’esodo (v. 8), e poiché il Salmo fu scritto da Davide molto tempo dopo (vv. 6-7), l’invito al riposo sabbatico è ancora in vigore (6-10)
- Un imperativo finale invita a evitare la disobbedienza, perché si possa entrare nel riposo (v. 11).
iv. Monito conclusivo: la parola di Dio è tagliente e penetrante (4,12-13)
Anche Mosè fu fedele nella casa di
Dio come servo (θεραπων,
3,5, termine più nobile di
δουλος, schiavo), in ordine
alle rivelazioni che Dio avrebbe fatto attraverso di lui. Il Cristo
invece lo è stato sopra la casa in qualità di figlio
del padrone di casa (3,6).
Questo confronto di Gesù con Mosè aveva grande presa
sugli interlocutori sensibili a tutto ciò che era giudaico, ma
la superiorità di Gesù su di lui doveva convincerli a
perseverare (3,6b; 3,14) e a non a disobbedire (4,6.11),
mancando di fede (3,19), o ancor peggio ad apostatare (3,12), come
è detto nell’esortazione seguente.
L’esortazione (3,7-4,14) è costruita come un commento a
tre riprese del Sal 95, di cui vengono citati per esteso 5 vv. Il salmo
esortava gli Israeliti a non indurire il cuore alla voce di Dio, se
volevano essere accolti nel suo riposo. Per il fatto di essersi
ribellati e di avere peccato, essi sono stati esclusi dal riposo
promesso (3,17-19). Ma il Salmo, composto da Davide e quindi dopo
l’epoca dell’esodo, ripropone quell’invito a entrare
nel riposo che gli Israeliti dell’esodo hanno lasciato cadere
(4,7): c’è ancora un “oggi”, dunque;
c’è una dilazione di cui possiamo approfittare noi che
abbiamo creduto (in Gesù): «Affrettiamoci dunque ad
entrare in quel riposo!» (4,11).
In tutta questa lunga parenesi, l’Autore dice una prima volta
quello che dirà nell’ultima parte della lettera: di non
apostatare, ma di marciare in avanti verso la terra promessa e verso
quel riposo che costituiscono l’oggetto della speranza cristiana.
L’invito a non indurire il cuore di fronte alla parola di Dio, in
particolare alla parola del Sal 95, è riproposto con il famoso
testo che dice: «Viva ed efficace è la parola di Dio,
più di una spada affilata» (4,12-13)
i. Invito ad accostarsi al trono di grazia di Gesù Sommo Sacerdote (4,14-16)
4,14-16: L’invito è motivato con il fatto che egli è capace di com-patire (… συμ-παθησαι)
ii. Definizione teorica di ‘sacerdote’ (5,1-4)
5,1: Estrazione, ruolo, e finalità di ogni sacerdote (tratto dagli uomini, per loro).
5,2-3: Requisiti (capacità di compatire) del sacerdote, e sua condizione di peccatore.
5,4: Chiamata al sacerdozio, e non usurpazione.
iii. Applicazione della definizione al Cristo (5,5-10)
5,5-6: Il Cristo non usurpò il sacerdozio, ma ad esso fu chiamato nel Sal 110,4.
5,7-8: Avendo offerto suppliche fra grida e lacrime, imparò l’obbedienza.
5,9 Divenuto perfetto per quell’obbedienza, divenne causa di salvezza eterna…
5,10: … lui, che Dio aveva proclamato Sommo Sacerdote secondo Melchisedec.
Gesù è sacerdote misericordioso
(ελεημων, 2,17) e capace di
compatire (…
δυναμενον
συμπαθησαι),
perché, essendo stato messo alla prova in ogni cosa come noi -
escluso il peccato -, sa compatire le nostre infermità (4,15)
[Il verbo greco συμ-πασχω
significa “soffrire con”, “avere eguali
sentimenti”, “esperimentare la stessa sofferenza”].
Tutto ciò realizza in qualche modo la definizione astratta di
‘sacerdote’ di 5,1-4. Ogni sacerdote è mediatore:
preso dagli uomini, li deve mettere in relazione con Dio. Se gli uomini
hanno peccato, li deve riconciliare a Dio offrendo doni e sacrifici
(5,1). Il sacerdote deve saper capire e scusare
(μετριοπασχειν
= “essere moderato / ragionevole”) coloro che sbagliano a
partire dal fatto che anche lui è vittima di debolezza e di
peccato.
Su questo punto però Gesù si differenzia dagli altri
sacerdoti: egli ha imparato a compatire gli uomini, non perché
come loro ha esperimentato il peccato, ma perché come loro
è stato soggetto alla debolezza e alla prova: «Infatti non
abbiamo un Sommo Sacerdote che non sappia compatire le nostre
infermità, essendo lui stesso provato in ogni cosa, come noi,
escluso il peccato» (4,15).
Se il contributo umano al sacerdozio è il sentire il bisogno
della purificazione dal peccato, l’iniziativa è di Dio: un
uomo non può arrogarsi quel ruolo, ma è Dio che deve
prendere di tra gli uomini il sacerdote (5,1), chiamandolo (5,4).
Persone cresciute nel giudaismo avrebbero obiettato che Gesù non
era stato sacerdote, e che secondo le Scritture solo Aronne lo era, per
esplicita volontà di Dio, come diceva Es 28,1: «Tu (=
Mosè) fa avvicinare a te, tra gli Israeliti, Aronne tuo fratello
e i suoi figli come lui, perché siano miei sacerdoti». Per
potere affermare che Gesù invece era sacerdote, e di un
sacerdozio superiore a quello aronitico, l’Autore valorizza
allora il Sal 110,4 in cui il Messia è definito sacerdote di un
misterioso sacerdozio “secondo Melchisedec”.
*** Le frasi principali (= non dipendenti) dei vv. 5,5-10 contengono
l’annuncio della terza parte:
- «… imparò l’obbedienza in mezzo alle
sofferenze e alle lacrime» (5,8, preceduto da tre frasi
participiali che parlano della passione = annuncio della sezione III.C)
- «… è divenuto causa di salvezza eterna
…» (5,9, dopo che la sofferenza lo ha reso perfetto =
annuncio della sezione III.B)
- «… lui che fu proclamato sacerdote secondo
l’ordine di Melchisedec» (le due frasi principali di 5,5-6,
e quella participiale di 5,10 = annuncio della sezione III.A).
i. Difficoltà del discorso - Disposizioni richieste per seguirlo (5,11-6,12)
5,11-14: Difficoltà e complessità per il duplice livello possibile e i due tipi di credenti.
6,1-6: Invito all’insegnamento superiore e minacce per gli apostati.
6,7-8: Allegoria agricola di giudizio: terra fertile e terra infruttuosa.
6,9-12: Dichiarazione di stima per gli interlocutori, e auspicio che possano raggiungere la promessa.
ii. Abramo, esempio di tenacia e di perseveranza per noi (6,13-20)
6,13-15: La perseveranza di Abramo di fronte alle promesse giurate di Dio.
6,16-18: Il giuramento di Dio è fondamento di speranza per noi.
6,19-20: La speranza è fissata, come àncora, nel cielo dove Gesù è entrato quale precursore e Sommo Sacerdote.
Questa introduzione è uno dei testi
più contorti della Lettera. L’Autore prima dice che non ci
si può fermare alla catechesi iniziale, che è latte e non
cibo solido (5,12-14): poi invece parla dell’iniziazione
cristiana come di uno splendore che ha illuminato i suoi interlocutori
(6,4). E ancora: prima mette in guardia dal crocefiggere di nuovo il
Signore con l’apostasia (6,6), poi elogia i suoi interlocutori
dicendo che essi hanno reso, anzi rendono ancora, preziosi servizi ai
‘santi’ (6,10). Poi li critica di nuovo, chiedendo loro di
tornare al fervore degli inizi (6,11). Come se non bastasse, la
metafora agricola dei vv. 7-8 è piena di approssimazioni:
benedizione e maledizioni sono più facilmente causa che non
ricompensa della fruttuosità o non-fruttuosità, e
ciò che viene bruciato sono i rovi e non la terra che li
produce.
Insieme con le dichiarazioni esplicite dell’Autore
(«… abbiamo da dire cose difficili da spiegare»,
5,11), anche la concitazione psicologica che si legge tra le righe,
dice che l’Autore sta arrivando al momento più delicato
del suo intervento. – «Finora i suoi [= dell’Autore]
ammonimenti sono stati moderati, miranti a conservare la benevolenza
dei lettori. Ma, se vuole che le sue parole vengano prese seriamente,
è per lui essenziale mettere in chiaro che la situazione
effettiva gli è nota. Ed è ciò che avviene in
6,4-12. L’Autore innanzitutto mostra le terribili conseguenze
dell’apostasia (vv. 4-6), aggiungendo una metafora agricola per
esprimere il giudizio divino (vv. 7-8). Poi cambia tono, rassicurando i
lettori di sapere che in realtà essi non hanno commesso
apostasia, e raccomandando loro di rammentare lo zelo originario e di
conservarlo sino alla fine (vv. 9-12). Questi due consigli
contraddittori accrescono l’impressione che il pericolo di
apostasia sia reale e che la lettera agli Ebrei cerchi di salvarli dal
precipizio» (LINDARS, La teologia, pp. 89-90).
Anche l’esortazione alla speranza, che nel mondo in tempesta
è come un’àncora gettata in cielo, chiede ai
lettori di Ebr di guardare in avanti e non all’indietro, verso le
vecchie pratiche giudaiche. D’altra parte la strada per andare
avanti è già stata aperta da Gesù che per noi
è un pre-cursore
(προδρομος), oltre
che “sacerdote secondo Melchisedec”, di cui parlerà
la sezione seguente.
i. Melchisedec e il suo sacerdozio, secondo Gen 14,17-20 (7,1-10)
7,1-3: Grandezza di Melchisedec.
- Nome di Melchisedec, titolo regale e sacerdotale, incontro con Abramo, benedizione data e decime ricevute, silenzio della Scrittura sulla sua origine e sulla sua morte, somiglianza col figlio di Dio, sacerdozio eterno.
7,4-10: Superiorità di Melchisedec su Abramo e sui sacerdoti levitici.
- Confronto di Melchisedec con Abramo e Levi su: decime (vv. 4-6a), benedizione (v. 6b-7), e ancora decime (vv. 9-10).
Tutto parla della superiorità del sacerdozio di Melchisedec su quello levitico.
ii. Inutilità e inferiorità del sacerdozio levitico secondo Sal 110,4 (7,11-17)
7,11-17: Il Sal 110,4 sostituisce il sacerdozio levitico
Il sacerdozio secondo Melchisedec ritratta e sostituisce (μεταθεσις, v. 12) quello levitico (v. 11), e la sostituzione del sacerdozio levitico necessariamente è sostituzione anche della legge che lo istituiva e lo regolava (v. 12).
Due prove dal Sal 110: il Salmo è rivolto a uno della tribù non-sacerdotale di Giuda (vv. 13-14): il Salmo istituisce un sacerdozio che non muore («…in eterno»), mentre quello levitico è basato su di una legge carnale (vv. 16-17).
7,18-25: Il Sal 110 abroga la legge levitica e fonda una speranza migliore
La legge levitica è abrogata (α-θετησις, v. 18) perché, debole e inefficace, non ha mai portato nulla a perfezione, mentre il Salmo introduce una speranza migliore, che è in grado davvero di avvicinarci a Dio (vv. 18-19).
Altre due prove dal Sal 110: il Salmo istituisce il sacerdozio secondo Melchisedec con un giuramento («Il Signore ha giurato e non si pente…»), a differenza di quello levitico (vv. 20-22) / Mentre la morte impedisce ai sacerdoti levitici di durare, il Salmo istituisce un sacerdozio eterno («… in eterno»), così che il Cristo è sempre vivente per intercedere a nostro favore (vv. 23-25).
[Cf. altre deduzioni dal Sal 110,4: in Ebr 5,5-6 (= Il Cristo non si è arrogato il titolo di sacerdote ma gli è stato dato da Dio nel Salmo); in 6,10 (= istituzione dell’ordine sacerdotale secondo Melchisedec); in 6,20 (= l’ordine sacerdotale di Melchisedec, l’eternità di quel sacerdozio); in 10,12 (= i sacerdoti levitici in piedi ripetono continuamente i loro sacrifici; dopo il suo sacrificio il Cristo, invece, si è seduto alla destra di Dio].
iii. Esclamazione conclusiva di stupore e di compiacimento (7,26-28)
7,26-28: La soddisfazione che l’Autore prova di fronte a Gesù come Sommo Sacerdote è motivata da:
- le sue caratteristiche personali (santo, innocente, incontaminato),
- la posizione che si conquistata (separato dai peccatori, elevato al di sopra dei cieli),
- l’efficacia della sua azione (una volta per tutte ha offerto se stesso).
Dopo avere abilmente accennato più volte nel
suo discorso al fatto che secondo il Sal 110,4 il Messia sarebbe
sacerdote secondo Melchisedec (cf. 5,6; 5,10; 6,20), ora l’Autore
ne elabora la teologia, che è assolutamente originale e unica
all’interno sia dell’AT come del NT, ricavandola dai due
brevissimi testi che nell’AT menzionano Melchisedec: Gen 14,17-20
e Sal 110,4.
L’Autore fa parlare in tutti i modi il testo di Gen 14,17-20,
giungendo a ricavare prove e argomentazioni anche da ciò che
esso non dice, per esempio ricavando la caratteristica
dell’eternità del suo sacerdozio dal silenzio di Gen 17
sui genitori di Melchisedec, sulla sua discendenza ecc.: «Egli,
senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni,
né fine di vita ecc. resta sacerdote in eterno».
Dall’incontro di Melchisedec con Abramo, l’Autore ricava la
superiorità di Melchisedec, basandosi sul fatto che prese da
Abramo la decima e, da una posizione di superiorità, benedisse
Abramo, il depositario delle promesse! (7,4-10). – Ma in Abramo
anche Levi, che era ancora nei suoi lombi, pagò la decima a
Melchisedec, e riconobbe d’essergli inferiore (7,9-10): «Lo
stesso Levi ha versato la decima in Abramo: egli si trovava infatti
ancora nei lombi del suo antenato quando gli venne incontro
Melchisedec».
Sotto la penna dell’Autore di Ebrei, poi, il brevissimo testo di
Sal 110,4 diventa una miniera inesauribile di argomenti a favore del
sacerdozio del Cristo: «L’Autore è sbigottito da
quanto riesce a trovare in questo testo, e sa che probabilmente esso
esercita un richiamo altrettanto forte sui suoi lettori»
(LINDARS, La teologia, p. 96). – L’argomentazione
è a tre passi successivi: nel primo (vv. 11-17), attraverso
un’ipotesi dell’impossibilità («Se la
perfezione ci fosse stata ecc.»), il sacerdozio levitico è
dichiarato incapace di perfezione, ed è ritrattato, mentre di
quello secondo Melchisedec si dice che viene da «potenza di
vita». Nel secondo, attraverso affermazioni positive e negative
molto nette (vv. 18-25), del sacerdozio levitico si dice che è
stato abrogato perché debole ed inefficace, mentre quello
secondo Melchisedec è eterno ed è efficace perché
avvicina realmente a Dio. Nel terzo, attraverso una esclamazione di
meraviglia e di compiacimento (26-27), si definiscono deboli e
peccatori i sacerdoti levitici e il Cristo, invece, è definito
come sacerdote santo, innocente, senza macchia, perfetto ed eterno.
i. Gesù, mediatore di un’alleanza migliore (8,3-13)
8,1-2: Introduzione retorico-didattica: «Siamo al punto capitale».
8,3-6: Regola del sacerdote il cui dovere è di offrire doni o sacrifici, e applicazione al Cristo. Per il Cristo però è impraticabile l’ipotesi del sacerdozio terrestre che è solo l’ombra di quello celeste (vv. 4-5): egli è mediatore di un’alleanza basata su migliori promesse (v. **6).
8,7-13: Ger 31 promette un’alleanza nuova e dice che la prima è soggetta al rimprovero di Dio (vv. 7-8) e da lui è dichiarata antiquata (v. 13).
ii. Confronto tra le 2 alleanze, i relativi santuari e riti (9,1-14)
9,1-10: All’affermazione che anche la prima alleanza ebbe le sue disposizioni legali (9,1), segue la descrizioni dei suoi luoghi e oggetti di culto (Santo, Santo dei Santi, altare, arca, 9,2-5), e poi la descrizione dei riti quotidiani dei sacerdoti, e di quello annuale del Sommo Sac. (9,6-7).
Constatazione finale critica (9,8-10).
9,11-14: Il Cristo è sacerdote invece dei beni futuri (9,11b): è entrato in un tempio non-manufatto (9,11b), non con il sangue di capri e vitelli ma con il proprio sangue, conseguendo una redenzione eterna (9,12).
Valutazione positiva espressa con argomento a fortiori: se già il sangue e le ceneri di animali danno la purità della carne, quanto più il sangue del Cristo purifica la coscienza dalle opere morte, così che si serva al Dio vivente (9,13-14).
iii. Gesù, mediatore di un’alleanza nuova (9,15-27)
9,15: Ritorno al tema del mediatore, tema elaborato in base a 3 aforismi.
9,16-21: Aforisma della necessità della morte del testatore perché il testamento sia operante, e applicazione alla 1a alleanza, con descrizione di 4 momenti del rito di Es 24 (proclamazione della legge - aspersione con il sangue - parole dell’alleanza nel sangue pronunciate da Mosè - aspersione della tenda con il sangue dei sacrifici).
9,22-26: Aforisma della necessità del sangue per la purificazione, e applicazione al Cristo: egli entrò non in un santuario manufatto, ma nello steso cielo; non molte volte come i sacerdoti levitici, ma una volta sola; non con sangue altrui, ma con l’offerta di se stesso.
9,27-28: Aforisma dell’unica morte per ogni uomo, e applicazione al Cristo: egli si è offerto una volta soltanto. La sua seconda venuta non sarà per il peccato di coloro che lo attendono, ma per la loro salvezza.
L’Autore stesso dichiara che qui si è
al κεφαλαιον, al
punto capitale del discorso. Le affermazioni e gli argomenti portati
sono importanti in sé, ma soprattutto devono parlare ai lettori
e mostrare loro come non abbia senso nutrire nostalgia per il culto
giudaico dopo avere conosciuto il Cristo, il suo sacrificio e la sua
redenzione. Tra l’altro è interessante notare come,
accanto alle Scritture, l’Autore faccia ricorso ad aforismi o
postulati presi dagli ambiti sia giuridico («Dove
c’è un testamento, è necessaria la morte del
testatore», 9,16), che cultuale («Ogni sacerdote
c’è per offrire doni e sacrifici», 8,3; «Senza
versamento di sangue non c’è perdono dei peccati, 9,22),
che religioso in generale («L’uomo muore una sola volta,
poi viene giudicato», 9,27). Anche questo rimanda a un gruppo di
persone imbevute di una cultura sacrificale che pervade tutte le
dimensioni della vita.
Ai suoi interlocutori comunque l’Autore mostra puntigliosamente,
punto dopo punto, come il tempio e la sua suppellettile, i sacrifici
quotidiani e il sacrificio annuale del Kippur siano soltanto
malacopia e ombra
(υποδειγμα
και σκια) di ciò che
è nei cieli, secondo la testimonianza della stessa Scrittura (Es
25,39-40, citato in 8,5); e come, ancora secondo la Scrittura (Ger 31
citato a lungo in 8,8-12), l’alleanza sigillata da Mosè
sia stata non solo violata (8,9b), ma da Dio sostituita con una nuova
(8,13), di cui mediatore è il Cristo (8,6; 9,15) mediante il suo
sangue (9,25-26) e la sua morte (9,27-28).
Quanto ai riti del Kippur e al giudizio su di essi in 9,8:
«Le prescrizioni cerimoniali di Mosè, interdicendo
l’accesso verso il santo dei santi a tutti, con la sola eccezione
del sommo sacerdote e in condizioni del tutto eccezionali, mostrano che
la via verso il santuario non era ancora conosciuta: la via
-s’intende- non solo verso il santuario terrestre, residenza
simbolica di Dio, ma verso il santuario celeste, di cui il santo dei
santi era simbolo. Quella via sarà rivelata soltanto con il
Cristo» (Spicq, 1977 p. 150).
Il titolo della sezione, che Ebr 5,9 annunciava nell’espressione
«divenne causa di salvezza eterna», viene
illustrato soprattutto dalla combinazione delle affermazioni di Ebr
9,11-14: «… entrò una volta sola nel Santuario
avendo conseguito una redenzione eterna» (v. 12b), e
«… purifica la nostra coscienza dalle opere morte
mettendoci in grado di servire il Dio vivente» (v. 14b).
i. Inefficacia dei ripetitivi sacrifici levitici (10-1-4)
10,1: I sacrifici del Kippur, ripetuti ogni anno, sono inefficaci perché la legge levitica ha l’ombra, non la realtà dei beni futuri.
10,2-3: Se raggiungessero il loro scopo, quello di purificare la coscienza, si cesserebbe di offrirli; e invece ogni anno, con il loro ripetersi, costituiscono un’anamnesi continua dei peccati.
10,4: Il motivo è che, per la sua stessa natura, il sangue degli animali non può togliere il peccato del peccatore.
ii. I sacrifici animali sostituiti dal Cristo col compimento della volontà di Dio (10,5-10)
10,5-6.8: Ecco perché (Διο = per l’impossibilità che il sangue degli animali tolga il peccato) il Sal 40 dice come Dio non gradisca sacrifici e offerte.
10,7.9-10: A quei sacrifici lo stesso salmo sostituisce il fare la volontà di Dio. Entrando nel mondo il Cristo è venuto per fare quella volontà, ed è in quella volontà di Dio da lui compiuta, che noi siamo stati e restiamo santificati.
iii. L’unico sacrificio del Cristo a contrasto con le molte volte dei sacerdoti (10,11-14)
10,11: Il sacerdoti levitici offrono ogni giorno i loro sacrifici stando in piedi, senza togliere i peccati.
10,12-14: Il Cristo invece, dopo aver offerto il suo unico sacrificio con effetto perenne, si è seduto alla destra di Dio; per il futuro altro non fa se non aspettare che i suoi nemici siano posti sotto i suoi piedi [= altra deduzione del Sal 110, da aggiungere a quelle di 7,11-25].
iv. Attestazione dello Spirito circa l’inutilità dei sacrifici espiatori (10,15-18)
10,15: Formula che introduce due affermazioni di Ger 31 come parola dello Spirito.
10,16-17: Dopo aver detto che i precetti della nuova alleanza saranno scritti sul cuore e cioè interiorizzati, lo Spirito (o Dio?) aggiunge che non ricorderà peccati e trasgressioni (nb il netto contrasto con i sacrifici levitici, che invece sono continua anamnesi del peccato, 10,3).
10,18: Conclusione e punto d’arrivo cui mirava la citazione: se c’è perdono dei peccati, non c’è più bisogno di nessun sacrificio per toglierli.
Il tema dell’obbedienza (cf. l’annuncio
della sezione in 5,8: «imparò l’obbedienza da quello
che patì») o del compimento della volontà di Dio
(10,7.9), segna il vertice sia di questa sezione, sia di tutta la terza
parte.
All’interno della sezione i vv. 4-6.8 affermano la costituzionale
inadeguatezza del sangue animale a togliere il peccato, e dei sacrifici
ad ottenere il compiacimento di Dio: il sacrificio della propria
volontà compiuto dal Cristo, con cui aderisce totalmente alla
volontà di Dio, raggiunge tutti e due quegli scopi che il sangue
animale manca di raggiungere.
Le due sezioni precedenti sembravano aver raggiunto affermazioni piene
e soddisfacenti, per esempio nel versetto conclusivo di III.A:
«Perciò Gesù può salvare perfettamente
quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio» (7,25), o nel v.
9,26, a conclusione di III.B: «… e invece una volta sola,
nella pienezza dei tempi, ha annullato il peccato mediante il
sacrificio di sé stesso» (9,26). In realtà non era
ancora mai stato detto come e perché la morte cruenta del Cristo
annulla il peccato e salva perfettamente. Anzi, si sarebbe potuto
estendere al sangue degli uomini quello che 10,4 dice
dell’incapacità del sangue animale di togliere il peccato.
Ora, invece, tutto ha spiegazione nell’obbedienza del Figlio al
Padre, ed è oramai perfettamente elaborato e illustrato
l’annuncio di 5,7-8 che diceva: «Avendo offerto preghiere e
suppliche a Dio tra forti grida e lacrime nei giorni della propria
carne, ed essendo stato esaudito per la sua pietà, imparò
l’obbedienza dalle cose che patì in qualità di
Figlio».
In quell’obbedienza sta la spiegazione anche del contrasto tra le
molte volte dei sacerdoti levitici e l’unico atto di obbedienza
totale del Cristo, tra l’esteriorità dei comandamenti
della prima alleanza e quelli interiorizzati della nuova alleanza, e
tra il bisogno di perdono risorgente dopo i sacrifici levitici di ogni
giorno e di ogni anno da una parte, e l’affermazione che, nella
nuova alleanza, Dio non si ricorderà più dei peccati.
L’obbedienza infatti mantiene nella volontà a Dio ed
è di per se stessa il contrario della ribellione a Dio con il
peccato (= nessuna necessità di perdono, nessuna
necessità di sacrifici ripetuti), ed è consumata nella
punta più interiore della persona (= interiorità dei
comandamenti nella nuova alleanza),.
i. Gli imperativi: fede, speranza, carità (10,19-25)
10,19: Grande premessa ai tre imperativi, che viene dalle considerazioni precedenti: Gesù ha inaugurato un via nuova per accostarci a Dio.
10,20-24: I tre imperativi: circa la fede («Accostiamoci in pienezza di fede, essendo stati lavati e purificati», v. 22), circa la speranza («Manteniamo ferma la speranza, perché colui che fa le promesse è fedele», v. 23), e circa la carità («Stimoliamoci a vicenda alla carità e alle opere buone», v. 24).
10,25: Invito a non disertare le riunioni, e motivazione escatologica.
ii. Severo monito circa l’apostasia (10,26-31)
10,26-27: Per gli apostati non c’è più sacrificio che tenga, ma solo un terribile giudizio.
10,28-29: Argomento a fortiori: se i trasgressori della legge di Mosè sono condannati a morte, quanto più dura sarà la fine degli apostati.
Viene poi configurato un triplice peccato di apostasia: (a) calpestare (= disprezzare) il sangue del Figlio di Dio, (b) non credere più nella capacità espiatoria e redentrice di quel sangue, (c) disprezzare lo Spirito della grazia (attribuendo a Satana quello che viene da Dio, come in Mc 3,29?).
10,30: Per giustificare il «Quale peggiore castigo ecc.!» del v. 29, vengono citati Deut 32,35, secondo cui Dio rivendica il diritto del rendiconto finale, e Deut 32,36, che annuncia il giudizio di Dio per il suo popolo.
10,31: Esclamazione improvvisa, che è come un grido di spavento (Spicq, 1977, p. 176).
iii. Invito a ricordare l’entusiasmo degli inizi (10,32-34)
Si rievocano la partecipazione dei Destinatari alle sofferenze di chi soffrì il carcere (vv. 33b.34a), e le sofferenze che subirono personalmente (per esempio la confisca dei beni, vv. 33a.34b), sostenuti dalla speranza («… sapendo di possedere beni migliori e più duraturi», v. 34b).
iv. Invito alla perseveranza e alla fede in vista della promessa (10,35-39)
10,35-36: Invito a non gettare via il coraggio (παρρησια) dei primi tempi; invito alla resistenza (υπομονη) senza la quale non si consegue la promessa (επαγγελια).
10,37-38: In collegamento con il tema della perseveranza, due testi della Scrittura parlano di venuta imminente di Dio (Is 20,26) e del ruolo della fede (πιστις) per non disertare (υπο-στελλειν) ma resistere.
10,39: Insistenza sulla fede (πιστις): «Noi non siamo della diserzione, ma della fede».
Il testo esortativo di 10,19-39 non è di
difficile comprensione e non contiene dottrine importanti: ma
ciò non significa che non sia molto importante per la lettera.
La sua importanza sta nella sua funzione retorica: deve raccogliere i
frutti concreti del grande sforzo di riflessione dei capitoli
precedenti.
Come all’inizio del cap. 6, vi si alternano esortazioni
(10,19-25; 10,32-39), minacce contro gli apostati (10,26-31), ed elogi
circa il comportamento dei lettori nei primi tempi dopo il battesimo
(10,32-34). In particolare, le esortazioni mirano a ottenere la
perseveranza dei lettori: perché camminino in avanti verso il
trono della grazia (10,22), perché mantengano la professione di
fede (10,24), perché non disertino le riunioni (10,25),
perché non gettino via il coraggio e lo zelo dei primi tempi
(10,35), perché non siano disertori (10,39), ma si
caratterizzino per la loro capacità di resistenza protesa al
raggiungimento delle promesse (10,36) e per la fede protesa al
raggiungimento della salvezza (10,39).
*** I vv. 10,36-39 annunciano le tre sezioni della IV parte, parlando
di Perseveranza (= annuncio della sezione IV.B, nel v. 10,36a), di
Promessa (= annuncio della sezione IV.C, nel v. 10,36b), e di Fede (=
annuncio della sezione IV.A, nei vv. 10,38.39).
i. Introduzione: noi e la fede (11,1-3)
11,1: Definizione di fede come tensione a ciò che è promesso e non si vede.
11,2: Fede dei Padri, ricompensata con l’approvazione divina.
11,3: La nostra fede e le cose visibili tratte dalle non visibili.
ii. La fede nella storia da Abele all’epoca dei Maccabei (11,4-38)
11,4-4-7: Fede di Abele, di Enoc (regola dell’impossibilità di piacere a Dio senza fede, v. 6), e di Noè.
11,8-22: Fede di Abramo (proteso verso la città di cui Dio è architetto, vv. 9-10) e dei discendenti (loro tensione verso la patria celeste, intravista e salutata da lontano, vv. 13-16).
11,23-31: Fede di Mosè (per il quale l’invisibile era visibile, v. 27c) e dei Padri, nell’esodo e nella conquista della terra.
11,32-38: Fede di eroi vincitori (11,32-35a) e vinti (11,35b-38), dall’epoca dei giudici ai Maccabei.
iii. Conclusione: noi e la fede (11,39-40)
11,39: Pur approvati da Dio, i Padri non raggiunsero la promessa.
11,40: Dio non volle portarli alla perfezione senza di noi, a cui ha destinato i beni escatologici.
Dopo una definizione di fede (= fondamento di
ciò che, pur non vedendosi, è reale, e che quindi si
spera, v. 11,1), l’Autore esorta alla fede elencando gli esempi
lasciati dai grandi personaggi dell’AT, chiamati in 12,1
«una così grande folla di testimoni».
Tutto il capitolo è incluso tra due riferimenti al
«noi» dell’Autore e dei Destinatari: «Per fede
noi sappiamo che da cose non-visibili ha preso origine quello che si
vede» (11,2); «I Padri non conseguirono la perfezione senza
di noi, perché è per noi che Dio ha predisposto le cose
migliori» (11,40). Sia prima di noi (nella creazione) che dopo di
noi (nell’escatologia) c’è qualcosa che sfugge al
nostro sguardo ma è reale, anzi è più reale delle
cose visibili. È qualcosa dunque cui dobbiamo essere protesi con
tutto il nostro essere e con tutta la nostra vita. In una parola: con
la fede.
Ancora una volta, anche con l’esortazione alla fede,
l’Autore di Ebr esorta coloro cui scrive a restare fedeli al
Cristo e a non regredire nel giudaismo. La maggiore visibilità
di certe cose del giudaismo non comporta in nessun modo
superiorità sulla “salvezza eterna” conseguita e
offerta dal Cristo.
i. Esortazione alla perseveranza di cui Gesù è l’archetipo: «Corriamo con perseveranza» (12,1-3)
12,1: La fede dei Padri, numerosi tanto da formare non una nube (νεφελη), ma una nuvolaglia (νεφος), sfocia spontaneamente nel primo di tre imperativi, che è un’esortazione alla perseveranza (12,1a).
12,2-3: La vita cristiana è presentata come una «gigantesca corsa di resistenza» (Montefiore) in vista della quale bisogna buttare via la zavorra (12,1b) e durante la quale, per non stancarsi e scoraggiarsi, bisogna tenere fisso lo sguardo su Gesù, che ha fatto la sua corsa attraverso la passione, ma è poi giunto a sedersi alla destra di Dio (12,2-3).
ii. Ogni prova rientra nella pedagogia di Dio: «Perseverate per la vostra paideia» (12,4-11)
12,4-6: Premessa: «Non avete ancora lottato fino al sangue, e dimenticate che la Scrittura presenta Dio come un padre che educa i suoi figli mettendoli alla prova (citaz. di Prov 3,11)».
12,7-8: Dopo la premessa viene il secondo imperativo: «In vista della vostra paideia, perseverate!».
Seguono tre motivazioni espresse con: (a) un’affermazione («Dio si comporta con voi come un padre», v. 12,7b); (b) un interrogativo che estende l’affermazione a tutti i figli e tutti i padri («Quale è quel figlio che un padre non sottopone a paideia?», v. 12,7c); (c) l’ipotesi del bastardo («Se uno non è sottoposto a paideia, non è figlio ma bastardo», v. 12,8).
12,9-11: Seguono due confronti tra pedagogia umana e pedagogia divina, e un aforisma.
Il primo confronto è circa gli effetti («L’educazione umana fa cambiare; quella divina fa vivere, v. 12,9). Il secondo è circa il metodo pedagogico (I padri umani educano i figli solo nell’adolescenza, e come a loro sembra bene; Dio lo fa in vista del vero bene, v. 12,10). Aforisma finale (L’educazione all’inizio è dolorosa, ma poi si constata che porta frutto, v. 12,11)
iii. Due metafore per esortare a riprendersi (12,7-11)
Riprendendo e perfezionando l’immagine della corsa, nel terzo imperativo l’Autore esorta a raddrizzare (= mettere in posizione atta alla corsa) le mani (= braccia) rilassate e le ginocchia paralizzate (12,12), e a raddrizzare il passo, perché il (piede?, il cristiano?) zoppicante migliori e non peggiori (12,13).
Attraverso tre imperativi l’Autore esorta alla
perseveranza (υπομονη).
Il termine greco è composto della preposizione
υπο- che significa «sotto», e dalla
radice del verbo μενειν, che significa
«rimanere», per cui il significato complessivo è
quello del «rimanere sotto» le difficoltà con
perseveranza. I termini italiani più vicini sono forse
«re-sistere», «re-sistenza», composti di re
(= indietro) e sistere (= stare).
La resistenza (υπομονη) di Ebr 12
è molto simile alla fede (πιστις)
di Ebr 11. Come essa, è proiezione in avanti, attraverso ogni
difficoltà, costi quello che costi.
Si distingue anzitutto per una più marcata esplicitazione della
sofferenza e dell’obbrobrio che la vita cristiana comporta, e in
secondo luogo perché ha il suo archetipo non nei protagonisti
dell’AT, ma in Gesù (13,12-13) che è passato
esemplarmente attraverso e oltre la vergogna della passione e della
croce (12,2,b).
i. Essendoci avvicinati alla Gerus. celeste, siamo destinati al regno incrollabile (12,14-29)
12,14: Esortazioni generiche (a pace e santità).
12,15-17: Esortazione circostanziale (= legata alla situazione dei Destinatari) contro l’apostasia: «Guardatevi (a) dal separarvi dalla grazia di Dio, v, 15a; (b) dalla radice amara e nociva, v. 15b; dal peccato di Esaù, che svendette la primogenitura per un cibo, vv. 16-17».
12,18-29: Esortazione anagogica (= proiettata verso l’escatologia): «Non vi siete avvicinati al Sinai che mise nel panico anche Mosè (12,18-21), ma al Sion, alla Gerusalemme celeste, e al Cristo, mediatore dell’alleanza nuova (12,22-29).
Configurata ognuna delle due alleanze, l’Autore parla dell’accoglienza che fu riservata alla prima (12, 19b-21) e di quella che si può riservare alla seconda: come essi rifiutarono Dio che parlava dalla terra, così noi potremmo rifiutare la sua parola che viene dal cielo (12,25). Conclusione a fortiori: il rischio che corriamo noi è tanto maggiore, quanto più grande è la grazia che possiamo rifiutare, e perché quello cui saremo sottoposti non è un giudizio interlocutorio, bensì quello finale (12,25-26).
Citando Aggeo 2,6, l’Autore evoca il giudizio di Dio che scosse la terra con uno scuotimento parziale, ma nel giudizio escatologico Dio scuoterà tutto, cielo e terra (12,26-27).
Noi comunque siamo destinati al regno che non può essere scosso neanche da quel giudizio (12,28).
ii. Usciamo fuori dell’accampamento verso la città futura (13,1-17)
13,1-6: Esortazioni generiche (a fraternità, ospitalità, compassione, castità, e sobrietà).
13,7-8: Esortazione circa i capi che hanno lasciato un bell’esempio di vita.
13, 9-12: Esortazione circostanziale circa dottrine estranee e cibi: «Non lasciatevi sviare da dottrine varie e peregrine…; è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia e non da cibi…».
13,13-16: Esortazione anagogica: «Usciamo fuori dall’accampamento (= dal giudaismo) verso il Cristo: perché non abbiamo qui una città permanente, ma siamo incamminati alla volta di quella futura».
13,17: Esortazione a obbedire ai capi.
Ebr 13 parla della separazione oramai invalicabile
tra giudaismo e il «noi» dell’Autore e dei
Destinatari. Da un lato l’Autore chiede ai suoi interlocutori di
essere fedeli all’esempio e all’insegnamento dei capi che
hanno guidato la comunità sulle vie del Vangelo e mette alla
base della sua richiesta la perennità del Cristo:
«Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e
sempre!», v. 13,8. Dall’altro, chiede loro una separazione
netta dal giudaismo, anche per pratiche tutto sommato secondarie, e che
magari erano in uso in questo o quel gruppo di giudeo-cristiani.
In 13,10, dopo aver detto che ci si astenga da dottrine estranee e
cibi, l’Autore parla dell’altare dei cristiani di cui non
hanno facoltà di cibarsi “quelli della Tenda”. Non
possono, perché è intervenuta una separazione, quella
vissuta dal Cristo sulla sua carne quando è morto “fuori
porta” (13,12), così come fuori dell’accampamento
venivano portati, secondo le prescrizioni della legge, le carni di
certi sacrifici (13,11).
Quella grande separazione ne ha operate altre due: la separazione di
“quelli della Tenda” dal nostro altare (13,10), e la nostra
dal loro accampamento (13,13) per raggiungere il Cristo: «Per
cui, usciamo verso di lui fuori dell’accampamento…».
13,18-19: Richiesta di preghiera
13,20-21: Augurio e dossologia
22-25: Post-scritto autografo con informazioni, saluti, augurio di grazia
Ebr è l’unico documento del NT che attribuisce a Gesù i titoli di ιερευς - αρχιερευς (= Sacerdote, Sommo Sacerdote). – Questo costituisce una vera impresa teologica, perché Gesù non era stato sacerdote e non aveva mai rivendicato quei titoli e, a differenza del Battista (Lc 1,5ss), non discendeva da famiglia sacerdotale (cosa ben conosciuta dall’Autore di Ebr; cf. 7,14). La predicazione primitiva aveva solo per accenni interpretato la Pasqua del Cristo come sacrificio: cf. le parole dell’istituzione dell’Eucarestia; cf. 1Cor 5,7; Rm 3,25; Ef 5,2 ecc. – L’originalità di Ebr sta nell’andare oltre, parlando esplicitamente di ‘sacerdozio’, e nel farlo in una maniera estesa e sistematica. Per potere attribuire al Cristo il titolo di ‘Sommo Sacerdote’, l’Autore dovette agire in due direzioni: (a) sottoporre a critica il concetto di sacerdozio che, così com’era, a lui non poteva essere applicato; e (b) esplorare e approfondire il mistero di Cristo.
Nelle prime due parti di Ebr (1,5-2,18; 3,1-5,10) si
pongono le basi, definendo il sacerdote (pur senza nominarlo)
essenzialmente come mediatore tra Dio e gli uomini: (a) Nei
confronti con Dio, egli deve avere accesso presso di lui; deve essergli
gradito per potere intervenire presso di lui e stabilire comunione con
lui; (b) Nei confronti con gli uomini, deve avere con essi una reale
solidarietà per poterli rappresentare presso Dio.
L’Autore dimostra allora che il Cristo è in una tale
situazione di mediatore, infinitamente più che non gli angeli.
Egli è πιστος / degno di fede
(= Dio si fida di lui), ed è
ελεημων / misericordioso verso i
fratelli (= è in grado di com-patire). – Questa situazione
gli è venuta non dalla pre-esistenza, né
dall’incarnazione, ma dalla Pasqua, nella quale ha solidarizzato
con gli uomini assumendone la morte (= vicino agli uomini), e nella
quale poi è stato intronizzato alla destra di Dio (= vicino a
Dio).
Nelle tre sezioni della parte centrale l’Autore sottopone a critica il concetto di sacerdozio e di sacrificio, e ne scopre la vera essenza nella rimeditazione della cristologia in chiave sacerdotale e sacrificale. – Il sacerdote giudaico veniva costituito come tale proprio per mezzo della separazione dal popolo voluta dalle leggi levitiche: in tal modo egli non era vicino agli uomini. Ma non era vicino neanche a Dio, dovendo offrire sacrifici anche per i propri peccati. Il Cristo invece è sacerdote proprio nel momento in cui è assimilato agli uomini attraverso la sofferenza e la morte. – La sofferenza di tori e capri non aveva nessuna rilevanza nei sacrifici giudaici, mentre la sofferenza del Cristo avvicina a Dio, perché egli muore per distruggere i peccati degli uomini, e perché egli è personalmente vicino a Dio, essendo senza macchia e senza alcuna necessità di espiare per sé stesso.
I sacrifici giudaici erano inefficaci per l’inadeguatezza delle offerte (il sangue di animali non può purificare la coscienza dei peccatori), e per l’inadeguatezza dei sacerdoti (che erano peccatori e, come tali, non erano in comunione con Dio). – La prova della inefficacia era la ripetizione indefinita dei loro sacrifici, riproposti sempre di nuovo ogni giorno e ogni anno. Il sacrificio del Cristo invece fu unico. – L’umanità risuscitata del Cristo non muore più; il Cristo non ha bisogno di successori che prendano il suo posto e che continuino il suo compito, come al contrario accadeva ai Sacerdoti del giudaismo. Il sacerdozio del Cristo è eterno, non ha fine. Il sacrificio del Cristo fu interiore: non offrì sangue non suo, sangue animale, e quindi inconsapevole, ma il suo sangue. Dunque offrì se stesso, avvicinando così a Dio non animali ma l’umanità.
Se fu unico ed efficace, il sacrificio del Cristo,
di conseguenza, fu perfetto. – La perfezione di tale
sacrificio sta nel fatto che nella sua umanità, e per tutta
l’umanità egli «ha imparato
l’obbedienza» (5,8). Nella morte del Cristo
l’umanità dunque non è più ribelle, ma
è ri-orientata a Dio. Nel Cristo, venuto «per fare la tua
(= di Dio) volontà», tutta l’umanità fa, o
è in grado di fare la volontà di Dio, non solo nel
momento del rito, ma in tutta l’esistenza. Perfino, anzi,
soprattutto nella sofferenza e nella morte.
Essendo pienamente solidale con gli uomini e avendone espiato la
disobbedienza con l’obbedienza, il Cristo è poi
intronizzato alla destra di Dio. Dio cioè gradisce e rende
perfetto ed eterno il sacrificio del Cristo di cui quelli giudaici
erano solo copia, ombra imperfetta ed inefficace.
Commentari:
GIOVANNI CRISOSTOMO (it 1967), J. BONSIRVEN (1943, it 1961), C. SPICQ
(1952-1953; 1966; 1977), Teodorico BALLARINI da Castel S. Pietro
(1952), H. STRATHMANN (1963), H. MONTEFIORE (1964), O. MICHEL (121966),
O. KUSS (1953, it 1966), G.W. BUCHANAN (1972), H.W. ATTRIDGE (1989, it.
1999), R. FABRIS (21990), E. GRÄSSER (1990), N.
CASALINI (1992).
Monografie:
Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici