Le due lettere a Timoteo e quella a Tito formano un gruppo omogeneo all’interno degli scritti del NT a motivo di lingua, vocabolario, destinatari, contenuto, e dello stesso tipo di situazione ecclesiale che presuppongono. Difficilmente questa convinzione sarà abbandonata, nonostante il tentativo per esempio di J. Murphy-O’Connor di presentare 2Tm come diversa dalle altre due Pastorali su circa trenta punti; cf. J. MURPHY-O’CONNOR, «2 Timothy Contrasted with 1 Timothy and Titus», in Revue Biblique, 98 (1991), 403-418. È molto più vicino al vero C. Spicq, uno dei più grandi commentatori delle Pastorali, il quale per le tre lettere parla di “somiglianza totale (similitude totale)”; cf. C. SPICQ, Les Épîtres Pastorales, Paris 1947, cxix.
La denominazione di “Lettere Pastorali” fu data da B.N. Berdot (1703) a Tt e da P. Anton (1753, in opera postuma) a tutte e tre le lettere. Quel titolo esprime bene la loro caratteristica fondamentale che è quella di contenere istruzioni e direttive di un pastore a due pastori. Ma già il Canone Muratoriano (lista di libri sacri del 180 d.C. circa) dice che le tre lettere sono santificate (ispirate?) «in vista dell’ordinamento della disciplina ecclesiastica - … in ordinationem ecclesiasticae disciplinae», mentre per s. Tommaso d’Aquino nelle tre lettere vengono istruiti coloro che guidano le chiese: «Hic instruit ipsos rectores Ecclesiae», Prolog. in 1Tim.
Le tre ‘pastorali’ contengono in successione, spesso non molto logica, elementi di natura disparata: (i) elementi epistolari: prescritto, saluti, disposizioni, richieste, preannunci di visite o di viaggi; (ii) notizie e ricordi personali, che vengono chiamati dai commentatori ‘personalia’ e che riguardano soprattutto Paolo, Timoteo, e Tito; (iii) esortazioni personali: «Fuggi le passioni giovanili», «Sii mite, dolce, paziente, fedele alla parola», «Non bere soltanto acqua, ma bevi un po’ di vino a causa dello stomaco e dei tuoi frequenti disturbi»; (iv) esortazioni per la guida della comunità: come trattare le diverse categorie di credenti, come scegliere i ministri; (v) imperativi e raccomandazioni contro i falsi dottori e le false dottrine; (vi) frammenti teologici o liturgici che vengono inseriti qua e là come motivazione e fondamento alle esortazioni: cf. i testi circa la volontà salvifica universale di Dio (1Tm 2,5-7), circa incarnazione e glorificazione del Cristo (1Tm 3,16; 6,13-16), circa le Scritture ispirate (2Tm 3,16), circa il battesimo (Tito 3,5), circa la bontà, ma limitata utilità della Legge (1Tm 1,8), circa la salvezza per grazia e non per le opere (Tito 3,5-7), ecc.
1Tm e Tt contengono un abbondante materiale tradizionale già ben configurato: per esempio inni, dossologie, costituzioni, proverbi, codici di morale domestica, catalogo di doveri ecc. Le fonti da cui le tre lettere attingono sono la predicazione e le lettere di Paolo, la liturgia proto-cristiana (cf. per esempio i frammenti liturgici di 1Tm 3,16; 4,15-16; 2Tm 2,11-13; Tt 2,12-14; 3,4-8; 2Tm 1,9-11; e le cf. le dossologie di 1Tm 1,17; 6,15-16; 2Tm 4,18b), e la cultura ellenistica (cf. le liste di qualità da richiedere ai candidati per i ministeri, derivati dalla amministrazione greco-romana). Anche la formula «πιστος ο λογος /Questa parola è certa», che per cinque volte (1Tm 1,15; 3,1; 4,9; Tt 3,8; 2Tm 2,11) introduce o conclude citazioni da testi proto-cristiani, è di origine ellenistica (C. Spicq, p. 42).
Si hanno citazioni inequivocabili di queste lettere
solo alla fine del sec. ii: in Ireneo di Lione (180 d.C.), nel Canone
Muratoriano (180 d.C.), in Clemente alessandrino († 215 circa),
in Tertulliano († dopo il 220) ecc. Tale antica tradizione era
convinta dell’origine paolina delle tre lettere. A partire da
J.E.C. Schmidt (1804), F. Schleiermacher (1807), ecc., ci si è
andati invece sempre più convincendo delle grandi
difficoltà che si oppongono all’origine paolina.
I difensori dell’autenticità hanno allora parlato di autenticità
parziale, sostenendo che frammenti di reali lettere paoline sono
stati ampliati da un discepolo (P.N. Harrison, ecc.). Oppure si
è parlato di autenticità indiretta: un segretario
di Paolo, da lui incaricato, scriverebbe con il proprio stile, e non
con quello di Paolo. L’ipotesi però spiega solo la
differenza di stile, non le molte altre, e richiede un segretario fisso
accanto a Paolo per circa due anni. Le tre lettere presuppongono
infatti due inverni: «… cerca di venire subito da me a
Nicopoli, perché ho deciso di passare là il prossimo
inverno» (Tt 3,12); e «Affrettati a venire (a Roma), prima
dell’inverno» (2Tm 4,21).
Le difficoltà vengono dalla lingua, dallo
stile, dal vocabolario, dai dati biografici in quanto a volte sono
contraddittori e altre volte sono difficili da concordare con quelli
degli altri documenti del NT, e infine soprattutto dalla struttura
ministeriale presupposta dalle tre lettere, dalla loro teologia, e
dalle “eresie” in esse combattute.
(1) Informazioni impossibili in vere lettere perché
incompatibili
A titolo di esempio: (a) Paolo trasmette regole per i tempi lunghi, ma
poi, contraddicendosi, convoca a sé i due collaboratori, o
promette di raggiungerli presto; (b) Timoteo e Tito, come fedeli
collaboratori, dovrebbero ben sapere già tutto quello che viene
loro detto sui ministeri; (c) Paolo dice che nessuno è con lui
se non Luca, poi manda i saluti di più di quattro persone di cui
fornisce anche il nome, aggiungendo «… e da parte di tutti
i fratelli» (2Tm 4,21); (d) Dopo più di un anno, e
cioè incredibilmente molto tardi, da Roma Paolo, che tra
l’altro sente imminente la propria morte, manda a prendere il
mantello e le pergamene a Troade, distante più di una decina di
settimane di viaggio da Roma; (e) A Efeso e a Creta, nonostante le
distanze, ci sono gli stessi problemi e le stesse “eresie”
da combattere, ecc.
(2) Gli itinerari non sono concordabili con quelli del resto del
NT
Partendo da Efeso per la Macedonia, Paolo non ha mai lasciato
Timoteo a Efeso, e nel viaggio della prigionia la nave costeggiò
bensì Creta, ma fece poi naufragio senza mai approdare
nell’isola. Bisogna allora supporre che Paolo, giunto a Roma in
catene, sia poi stato liberato, che abbia fatto un viaggio a Creta,
Asia, Macedonia, Dalmazia ecc., scrivendo 1Tm e Tito in tali
circostanze; e che poi sia stato di nuovo arrestato, che abbia
subìto una seconda prigionia romana (durante la quale avrebbe
scritto 2Tm), conclusasi poi con il martirio dell’apostolo.
– Questa è la ricostruzione dei fatti secondo
l’interpretazione tradizionale. Ma è difficile pensare che
dopo la prigionia romana Paolo abbia potuto fare un viaggio in oriente.
Un viaggio in occidente in Spagna (cf. Rm 15,24.28) – anche se
tutt’altro che certo – è già più
probabile. Infatti, da una parte la 1Clem (scritta da Roma nel 95 d.C.,
pochi decenni dopo!) e il Canone Muratoriano (180 d.C.) sembrano
affermare che Paolo è stato nell’estremo occidente e,
dall’altra, sembra si debba escludere invece che Paolo sia
tornato a Efeso perché negli Atti Luca fa dire a Paolo nel suo
discorso di addio ai capi della chiesa di Efeso: «Non vedrete
più il mio volto» (At 20,35.38).
(3) La lingua, il vocabolario, lo stile
Le Pastorali sono scritte in un greco ellenistico elevato, che assimila
il linguaggio del culto imperiale usato a corte
(επιφανεια,
φιλανθρωπια
– Σωτηρ,
μονος,
μακαριος,
μεγας come titoli) e nelle epigrafi
ufficiali del tempo. Lo stile è lento, monotono, fiacco,
disadorno, ripetitivo, ben diverso da quello vivace e nervoso di Paolo.
Molti termini caratteristici di Paolo mancano (‘carne’,
‘corpo’, ‘liberare’, ‘vantarsi’,
‘giustizia di Dio’ ecc.). Molti termini cambiano
significato: “πιστις / fede”,
non è più atto di abbandono a Dio in Cristo, ma è
la virtù dell’ortodossia;
“δικαιοσυνη
/ giustizia”, non è più lo stato di giusto rapporto
con Dio, frutto della giustificazione, ma è una virtù
(cf. Tt 3,5); “νομος /legge”,
è spesso la norma morale, non la legge mosaica. Tutti questi
cambiamenti non hanno una spiegazione sufficiente
nell’età avanzata di Paolo (solo 5 o 6 anni dopo le grandi
lettere!), o nella sofferenza di un carcere duro, o per
l’influsso del latino parlato a Roma, come qualcuno ha affermato.
(4) La struttura ministeriale delle chiese
Mentre a Corinto Paolo doveva intervenire a regolare la ricchezza
prorompente dei carismi, nelle Pastorali si menziona un unico carisma,
quello della profezia (1Tm 1,18; 4,1.14), a parte il “carisma
/grazia” che viene dall’imposizione delle mani. Al tempo in
cui si scrivono le Pastorali, i carismi sono dunque in estinzione,
mentre esse contengono un vero e proprio ordinamento circa
‘presbiteri’, ‘episcopi’,
‘diaconi’, ‘vedove’, sia come singoli sia come
“collegi”. I compiti sono abbastanza precisi ma diversi da
quelli documentati dal resto dell’epistolario del NT: difendere
la sana dottrina e il «depositum fidei», e cioè la
tradizione apostolica ortodossa, costituire presbiteri sulle
comunità, promuovere la disciplina. Ancora non è emersa
la figura dell’episcopato monarchico quale sarà in Ignazio
di Antiochia, ma ci sono gli inizi della giurisdizione ecclesiastica.
– Ancora: mentre nelle lettere paoline all’autorità
apostolica di Paolo si accompagnava la corresponsabilità di
ognuno nella chiesa locale, nelle Pastorali Paolo non dà un solo
comando alle comunità di Efeso e di Creta, né i membri di
quelle comunità sono responsabilizzati, bensì i soli
Timoteo e Tito, e i ministri da loro selezionati e insediati. Tanto
è vero che A. WIKENHAUSER – J. SCHMID, Introduzione al
NT, 578, possono scrivere: «I ministeri ecclesiastici sono il
vero tema delle Pastorali».
Anche i ministeri sono di natura pneumatica (cf. 1Tm 4,14; 2Tm 1,6), e
non vanno dunque contrapposti ai carismi, ma è evidente che
l’ecclesiologia delle Pastorali è diversa da quella
presupposta dal resto dell’epistolario paolino: ora
c’è il rito dell’imposizione delle mani (1Tm 4,14;
5,22; 2Tm 1,6), c’è una catena gerarchica, e
c’è una successione ministeriale a tre gradini: (i) da
Paolo a Timoteo, e Tito (che sono a capo di zone metropolitane, allo
stesso modo di governatori di province ellenistiche); e poi (ii) da
Timoteo e Tito ai ‘presbiteri’, agli
‘episcopi’, ai ‘diaconi’, alle
‘vedove’; e, infine, (iii) da questi alla comunità
coi suoi diversi stati di vita. Cf. soprattutto 2Tm 2,2: «Affida
queste cose a persone fidate che siano capaci di trasmettere questi
insegnamenti ad altri». – L’ecclesiologia propria
delle Pastorali è oramai formulata “in termini di
struttura”, cf. BROWN R.E., «L’eredità paolina
nelle lettere pastorali: l’importanza della struttura
ecclesiale», in Le chiese degli Apostoli, Casale
Monferrato 1992, 36. – Tutto questo non si spiega con
l’età avanzata di Paolo, né con la necessità
che egli avrebbe avvertito di dare strutture permanenti, in vista della
sua scomparsa.
(5) Gli errori dottrinali combattuti nelle Pastorali
I maestri combattuti nelle Pastorali mettono insieme elementi giudaici
(Legge, genealogie, tabù alimentari, forse la circoncisione) e
– forse – ellenistici (tabù alimentari, disprezzo
per il corpo e per il matrimonio, e quindi negazione della resurrezione
corporale, e affermazione di quella già attuale dello spirito).
I motivi e il metodo della lotta anti-eretica non è più
quello di Paolo: quello cioè di accumulare creativamente
argomenti su argomenti: Qui c’è una condanna in blocco,
fatta con il richiamo alla dottrina codificata dalla tradizione e con
frasi fatte: “dottrine diaboliche” (1Tm 4,1); “fatue
verbosità” (1Tm 1,6); “favole profane”,
“roba da vecchierelle” (1Tm 4,7) ecc. Gli eterodossi sono
collocati a volte nel presente, a volte nel futuro degli “ultimi
tempi”: ma in realtà sono tutti contemporanei. Coloro che
sono presi di mira in 2Tm 3,1, per esempio, prima sono ambientati nel
futuro: «Negli ultimi giorni verranno momenti difficili. Gli
uomini infatti saranno egoisti ecc.» (vv. 1-2), e poi, invece, di
essi si parla al presente: «Tra questi ci sono
(εισιν, al presente) quelli che
…» (v. 6), e nel presente è ambientata la ferma
azione che Timoteo ad essi deve contrapporre: «Guàrdati
bene da costoro» (v. 5); «Tu però fai opera di
evangelista» (4,5) ecc., cf. P.H. TOWNER, «The Present Age
in the Eschatology of the Pastoral Epistles», in New
Testament Studies 32 (1986), 431-433.
Il peso di questi argomenti e soprattutto il loro
cumulo e la loro convergenza rendono improbabile
l’autenticità paolina delle Pastorali. Il nome di Paolo
figura bensì nei tre prescritti, ma le sue lettere contengono
una teologia ben più vigorosa e creativa, sono scritte in ben
altro linguaggio, presuppongono una situazione ecclesiale diversa,
hanno avversari diversi, e li combattono in modo diverso. «Se le
Pastorali sono di Paolo, allora rappresentano una conclusione pietosa
(“a dismal conclusion”) agli scritti di Paolo. Se invece
sono post-paoline, allora costituiscono una mirabile e indispensabile
illustrazione della situazione della chiesa alla fine del primo
secolo»; così scrive A.T. HANSON, Studies in the
Pastoral Epistles, London, 1968, 120. – Con ogni
probabilità, le tre lettere sono dunque pseudepigrafiche
(cf. il titolo «Paul après Paul» di Y.
Redalié (Genève 1994). –
Se in passato si avvertiva la pseudepigrafia (= attribuzione a un
autore di ciò che lui non ha scritto) come opera di
falsificazione, condannabile moralmente come plagio e inganno, ora
invece è divenuto evidente che nell’antichità essa
era intesa positivamente. La pseudepigrafia è un fenomeno molto
diffuso sia nella letteratura greco-latina, sia in quella biblica. A
Mosè, per esempio, è attribuito il Pentateuco con
addirittura la narrazione della morte dello stesso Mosè; a
Davide sono attribuiti Salmi che sono certamente del tempo
dell’esilio o del dopo-esilio; e a Salomone sono attribuite opere
sapienziali che sono state scritte in epoca ellenistica. –
Nell’ambito di una scuola antica era normale, era anzi motivo di
elogio, che un discepolo attribuisse la sua opera al suo maestro, per
prolungare il suo spirito, per attualizzare il suo insegnamento, e per
tramandare la sua eredità. Cf. R. PENNA, «Anonimia e
pseudepigrafia nel NT. Comparatismo e regioni di una prassi
letteraria», in Rivista Biblica 33 (1985) 319-344; K.
SCHELKLE, Paolo. Vita, lettere, teologia, Brescia 1990
(Darmstadt 21988), 34-39.
In particolare, per le Pastorali «oggi si fa come un parallelo
tra il redattore delle Pastorali e uno dei personaggi della parabola
della costruzione della chiesa sviluppata da Paolo: “Secondo la
grazia di Dio chi è stata data, da buon architetto, io ho posto
il fondamento. Un altro ha sopraedificato. Ma ciascuno si
preoccupi di non porre altro fondamento che non sia Gesù
Cristo”», cf. A. LEMAIRE, «Épîtres
Pastorales: Rédaction et Théologie», in Bulletin
de Théologie Biblique 2 (1972), 41. –
L’imitazione di Paolo fu richiesta o stimolata da una situazione
nuova, caratterizzata dal vuoto lasciato dalla scomparsa dello
stesso Paolo, dal tramonto dell’epoca creativa dei carismi, e dal
bisogno di un ordinamento ecclesiale duraturo (cf. l’introduzione
al commentario di R.J. KARRIS, The Pastoral Epistles, Dublin
1979).
A partire da H.A. Schott (1830) le Pastorali sono
state attribuite a Luca, e l’ipotesi è stata ripresa e
documentata da molti commentatori (R. Scott, C.F.D. Moule, A. Strobel,
J.D. Quinn, A. Feuillet, G.S. Wilson). E tuttavia il confronto delle
Pastorali con il terzo Vangelo e con il libro degli Atti mette in luce
diversità non conciliabili sia di linguaggio che di contenuto. A
modo di esempio: (i) Luca non attribuisce a Paolo il titolo di
“apostolo”, che invece gli si trova attribuito 5 volte
nelle Pastorali (1Tm 1,1; 2,7; 2Tm 1,1.11; Tt 1,1) nelle quali anzi
Paolo è l’unico Apostolo; (ii) Il ruolo ecclesiale
riconosciuto da Luca alla donna è ben diverso da quello che
s’incontra nelle Pastorali; (iii) Luca non è solito
mettere, uno dietro l’altro, 15 o 20 tipi di peccatori come si ha
in 1Tm 1,9-10 e rispettivamente in 2Tm 3,2-5; e non è solito
elencare 17 qualità di chi dev’essere costituito in
qualche ministero, come si ha in 1Tm 3,2-7, o in Tt 1,6-9; e (iv) a
differenza dell’Autore delle Pastorali, Luca non mostra di
conoscere le lettere di Paolo. Non basta: (v) il centro
geografico-teologico per Luca è Gerusalemme, mentre questo
Autore non menziona mai Gerusalemme, e invece allude 5 volte a Efeso
(1Tm 1,3; 2Tm 1,18; 4,12; e cf. 1Tm 3,14; 4,13) e a molte altre
località dell’area egea evangelizzata da Paolo, oltre che
della costa adriatica.
I nomi proposti in alternativa a quello di Luca sono quelli di Sila, di
Tichico, o addirittura quello di Policarpo (morto martire il 23
febbraio 167 d.C.), ecc. Di Sila e Tichico non abbiamo alcuna opera e
ogni ipotesi che li chiami in causa è puro esercizio di
fantasia, perché lo stile e la teologia delle Pastorali non
possono essere confrontati con quelli di nessuno scritto. La
candidatura di Policarpo di Smirne, avanzata a più riprese da H.
von Campenhausen, incontra le stesse difficoltà che quella di
Luca, perché anche la lettera di Policarpo ai Filippesi parla un
linguaggio diverso da quello delle Pastorali.
L’Autore delle Pastorali è scarsamente
interessato alla biografia di Tito. Tutto quello che dice di lui
è che Paolo lo ha lasciato a Creta per stabilire presbiteri in
ogni città (Tt 1,5) e che, all’arrivo a Creta di Artema o
di Tichico, dovrà raggiungere l’Apostolo a Nicopoli prima
dell’inverno (3,12). In secondo luogo, l’Autore non
presenta il rapporto tra Paolo e Tito come particolarmente caloroso:
per esempio, Paolo non rievoca nulla del proprio passato né di
quello di Tito, e non dice nulla delle difficoltà e sofferenze
che vengono all’uno o all’altro dalla vita apostolica.
Particolarmente avulso da ogni situazione è poi il prescritto di
Tt, nonostante il “genuino figlio” detto di Tito, anche
perché Tito è chiamato “figlio” non in base a
un qualche motivo personale, ma – dice il testo ponendo
stranamente la “figliolanza” sul piano della parità
– «secondo la comune fede /κατα
κοινην
πιστιν» (1,4).
L’Autore delle Pastorali è invece molto interessato a
Timoteo: da 1Tm e 2Tm si possono ricavare un ritratto di lui sia
psicologico che apostolico abbastanza particolareggiato, e una
biografia quasi completa. Le notizie personali o personalia di
1-2Tm riguardano Timoteo da almeno sette prospettive:
I personalia delle Pastorali, dunque, sono
abbastanza numerosi per Paolo, numerosissimi per Timoteo, e
praticamente inesistenti per Tito. Una tale, diversa distribuzione dei personalia
nelle tre lettere Pastorali depone contro l’opinione secondo cui
essi sono costruiti a tavolino per accreditare le tre lettere
Pastorali: così pensa N. BROX, «Zu den persönlichen
Notizen der Pastoralbriefe», in Biblische Zeitschrift 13
(1969), 76-94. In altre parole, per poter negare
l’autenticità dei personalia delle Pastorali
bisognerebbe spiegare perché lo scrittore pseudepigrafico
avrebbe disseminato di essi le due lettere a Timoteo, e perché
sarebbe stato tanto sobrio, invece, al momento di confezionare la
lettera a Tito. – Il fatto è che centro psicologico e
nucleo genetico delle Pastorali e dei loro personalia è
Timoteo: l’Autore delle Pastorali mostra di conoscere a fondo la
sua persona e la sua storia; conosce da vicino i rapporti di
collaborazione, improntati a particolare intimità e affetto, tra
lui e Paolo e, delicatamente ma anche sinceramente e impietosamente,
denuncia le sue debolezze personali e apostoliche.
Per tutto questo, è difficile sottrarsi all’impressione e
alla conclusione che un particolarissimo rapporto leghi l’Autore
e Timoteo. Se l’Autore delle Pastorali è in grado di
riferire tanti particolari della vicenda personale di Timoteo
così da fare di lui una delle figure più conosciute del
NT dal punto di vista biografico, e se lo conosce anche
dall’interno e in risvolti della sua personalità in
qualche misura umilianti, ci sono tutte le premesse per affermare che
l’Autore delle Pastorali è grande conoscitore di Timoteo
perché è Timoteo.
I testi in cui si parla della giovane età di Timoteo e delle sue
passioni giovanili costituiscono un’ulteriore, stringente
argomento a prova dell’ipotesi.
Le due esortazioni che fanno riferimento
all’età giovanile di Timoteo (1Tm 4,12; 2Tm 2,22), sono
tra i pochi testi databili delle Pastorali: in essi l’Autore
delle Pastorali chiede di vedere in Timoteo un collaboratore di Paolo
tanto giovane che qualcuno gli manca di rispetto a motivo della sua
giovane età («Nessuno ti disprezzi per la tua giovane
età»), e tanto adolescente e instabile da essere ancora
esposto a passioni giovanili («Fuggi le passioni
giovanili»). A dire il vero, nelle Pastorali è databile
con ancora maggiore precisione il “testamento spirituale”
di Paolo in 2Tm 4,6-8 che – non importa se realmente o solo
pseudepigraficamente – colloca 2Tm nell’imminenza del
martirio dell’Apostolo. – Ma allora, però, le due
situazioni personali, di Timoteo giovane e di Paolo vicino alla morte,
non possono essere contemporanee: al momento in cui Paolo scriverebbe
la sua ultima lettera, e cioè nel 66-67 d.C., sarebbero
trascorsi circa 20 anni da quando Timoteo, nel corso del primo viaggio
missionario di Paolo, lo aveva conosciuto; e due decenni passati
all’esigente scuola di Paolo lo avevano certamente maturato e
reso capace sia di dominare le passioni giovanili, sia di farsi
rispettare.
J.P. ALEXANDER, «The Character of Timothy», in Expository
Times, 1914, 426, fa osservare che a Listra Paolo non esitò
a prendere con sé Timoteo come collaboratore dopo essere stato
invece inflessibile nel rifiutare Marco (At 15,38), e fa osservare che,
da parte sua, Timoteo accettò di accompagnare l’Apostolo
pur essendo stato testimone (o, almeno, dopo aver sentito il racconto)
della lapidazione di Paolo che nella stessa Listra lo aveva ridotto in
fin di vita (At 14,19). Le due scelte, di Paolo e di Timoteo, non fanno
in alcun modo pensare a un Timoteo timido, pavido e imbelle. –
Molto presto, poi, Paolo affidò a Timoteo incarichi da svolgere
da solo: noi siamo a conoscenza delle missioni tessalonicese (1Ts
3,2.6), corinzia (1Cor 4,17; 16,10) e filippese (Fil 2,19). In ogni
caso, poi, anche se registrando insuccessi e forse soffrendo complessi
d’inferiorità, Timoteo si è sempre dimostrato
tutt’altro che un eterno adolescente, dal momento che non si
è mai fatto spaventare dallo stile e dal ritmo di vita
dell’Apostolo, e ne ha condiviso fino in fondo l’avventura
missionaria con fedeltà e tenacia.
La conclusione difficilmente evitabile è che le esortazioni di
1Tm 4,12 sul farsi rispettare nonostante la giovani età, e di
2Tm 2,22 sul controllare le passioni giovanili, non possono essere
state scritte da Paolo a pochi mesi dalla sua morte.
Nel quadro dell’ipotesi di Timoteo-Autore, si
può proporre la seguente ricostruzione dei fatti. Le esortazioni
“della giovane età” sono state realmente rivolte da
Paolo a Timoteo. Quella di 2Tm 2,22 («Fuggi le passioni
giovanili») può risalire addirittura ai giorni della prima
adesione di Timoteo alla fede. Quella invece di 1Tm 4,12
(«Nessuno ti disprezzi per la tua giovane età») deve
essere più tardiva, perché può ambientarsi solo
nel tempo in cui Timoteo già affiancava Paolo
nell’attività apostolica, e già portava avanti
qualche incarico per volontà dell’Apostolo. Sottratto
d’improvviso al suo ambiente di provincia e ancora alle prime
armi, inizialmente Timoteo deve aver avuto più d’una
difficoltà a imporsi sulle chiese delle città
metropolitane dove Paolo aveva fondato le sue comunità. –
Se questo è il quadro entro cui Paolo può aver
pronunciato i due imperativi, quello in cui Timoteo li mise per
iscritto è da cercare nelle chiese paoline del
“dopo-Paolo” che certamente non fu facile. Timoteo
scriverebbe qualche decennio dopo la morte di Paolo, forse negli anni
80 o 90. Sarebbe un Timoteo avanti nell’età che, prima di
morire, vuole salvare dall’oblio i ricordi dei circa 20 anni
trascorsi alla scuola dell’Apostolo.
Se l’ipotesi di Timoteo-Autore è giusta, allora le due
esortazioni “della giovane età” e molte altre
contenute nelle Pastorali, ci fanno probabilmente riudire la viva voce
di Paolo, così come fanno le lettere autentiche. Anzi, ci
mettono a contatto con il Paolo che parla e non, come fanno le altre
lettere, con il Paolo più riflesso e artificiale che scrive dopo
avere riflettuto e studiato la strategia retorica da seguire.
D’altra parte, però, l’Autore delle Pastorali,
preoccupato di consegnare i ricordi paolini, non è però
preoccupato di disporli nel giusto ordine. Nelle Pastorali tutto
è messo alla rinfusa, in una successione che non è
né logica, né cronologica, con connessioni stabilite tra
un testo e l’altro attraverso dei “dunque
/ουν” poco pertinenti (cf. il
“dunque” di 1Tm 2,1, di 1Tm 1,20 ecc.), con accostamenti
impensabili, con difetti di logica e di coerenza epistolare. – Le
Pastorali sono insomma tre contenitori di ricordi disarticolati, e a
ragione C. Spicq le definisce “un pasticcio /un pastiche”.
Sono come un album fotografico in cui le diverse foto fissano momenti
di vita reali, ma ordinati – per esempio – in base alle
persone che ritraggono, più che in base alla successione
cronologica, così che il valore dell’album non è
quello cronistorico, bensì soprattutto quello affettivo e ideale.
Come ben si vede, l’importanza di Timoteo per
il cristianesimo delle origini è enorme, e la sua figura non
è affatto di secondo piano, come di solito si dà per
scontato che sia. – Il Nuovo Testamento fa il nome di un
centinaio di persone che sono state in relazione con Paolo. Di esse una
cinquantina sono state certamente collaboratori e collaboratrici
dell’Apostolo nella sua attività missionaria, anche se a
vario titolo: i termini usati sono “fratello”,
“apostolo”, “ministro”,
“con-servo”, “patrona (e cioè sponsor)”,
“collaboratore”, “commilitone” ecc. Ebbene, tra
tutti il più vicino all’Apostolo è stato certamente
Timoteo. Non per nulla è a lui che, secondo le lettere
Pastorali, Paolo affida il suo testamento (2Tm 4,6-8), ed è a
lui che trasmette il deposito della fede (1Tm 6,20; 2Tm 1,14), in
qualità di collaboratore più fidato e di erede
spirituale.
Vicinissimo come nessun altro all’Apostolo mentre era vivo, e suo
successore nella guida di tutto l’immenso cantiere apostolico da
lui aperto, Timoteo dev’essere considerato il “numero
due” del movimento paolino e uno degli uomini più
importanti nel difficile trapasso dall’epoca apostolica a quella
sub-apostolica.
Se tutto questo è vero, se cioè nelle
Pastorali le singole ambientazioni geografiche sono messe alla rinfusa,
allora ognuna di esse, potrebbe liberamente essere inquadrata in questo
o quello dei 4 “viaggi” paolini narrati dagli Atti degli
Apostoli. Di conseguenza diventerebbe pressoché inutile tutta la
discussione sull’unica o duplice prigionia romana di Paolo e sui
suoi possibili viaggi in Spagna e in Oriente. Dopotutto, come molti
commentatori fanno osservare, le Pastorali conoscono una sola prigionia
di Paolo (2Tm 1,8.16; 2,9; 4,16), e si è supposto che essa sia
diversa da quella di cui parla At 28,16ss solo perché, prendendo
sul serio gli (inattendibili) itinerari delle Pastorali, sembra
inevitabile ipotizzare un ultimo viaggio di Paolo in Oriente. E allora
è a ragione che W. MARXSEN, Einleitung in das NT,
Gütersloh 31964 (11963), 183, parla di
circolo vizioso. – Insomma, l’ipotesi di Timoteo quale
autore delle Pastorali stempera, se proprio non dissolve,
l’alternativa che dagli inizi del sec. xix ha dominato la ricerca
sulle Pastorali, per cui esse sono inevitabilmente o opera autentica o
opera pseudepigrafica.
Nell’ipotesi proposta, Timoteo talvolta riferirebbe spezzoni di
ciò che Paolo gli aveva detto o scritto nel corso di un
ventennio, e altre volte invece attualizzerebbe l’eredità
paolina per le chiese di fine secolo, nella veste di autorevole
interprete dell’insegnamento di Paolo e di redattore. I vantaggi
più sensibili sarebbero quello di potere affermare
l’origine paolina di molti testi e, contemporaneamente, quello di
sottrarsi al “presupposto della contemporaneità” (C.
MARCHESELLI-CASALE, Le lettere Pastorali, Bologna 1995, 33) tra
Paolo e l’Autore, di cui non ci si libera per esempio neanche con
l’ipotesi del segretario.
Di fatto, certe sentenze delle Pastorali, se estrapolate dal contesto
attuale, darebbero facilmente l’impressione del ritrovamento di
brani autentici usciti dalla penna di Paolo, per la loro
lapidarietà e per la potenza del pensiero. Basti qualche
esempio: «Fine dell’esortazione è l’agàpe
che [viene] da cuore puro, da buona coscienza, e da fede sincera»
(1Tm 1,5); «Sappiamo che la Legge è buona» (1Tm
1,8); «… ma la parola di Dio non si incatena» (2Tm
2,9); «Se infatti con-moriamo, anche con-vivremo» (2Tm
2,11) «… amanti dell’edonismo, più che amanti
di Dio» (2Tm 3,4), «… sempre [nella smania] di
imparare, e mai capaci di giungere alla conoscenza della
verità» (2Tm 3,7); «Coloro che sono decisi a vivere
in Cristo, incontreranno persecuzione» (2Tm 3,12), «Ogni
Scrittura ispirata è utile all’insegnamento, alla
correzione ecc.» (2Tm 3,16), «Sto per esser versato in
libagione ed è giunto per me il tempo di sciogliere le vele
ecc.» (2Tm 4,6ss), «Tutto è puro per i puri; per i
contaminati invece e per gli infedeli nulla è puro, e va
contaminandosi sia la loro mente, che la loro coscienza» (Tt
1,15), «Dicono di conoscere Dio, ma con le opere lo
rinnegano» (1Tt 1,16).
Scrivendo, Timoteo comunque non si limiterebbe a fare opera di anamnesi e di trascrizione ma, in tempi mutati e di fronte a nuovi problemi, egli vuole equipaggiare le chiese paoline con il deposito che l’Apostolo ha ricevuto (2Tm 1,12) e ha trasmesso a lui, Timoteo, come suo collaboratore più fidato (1Tm 6,20; 2Tm 1,14). – La lettura delle tre lettere consente di ricostruire la situazione, non poco drammatica, in cui i ricordi paolini sono stati d’aiuto e d’ispirazione all’Autore delle Pastorali, chiunque egli sia, e che per comodità si può chiamare “il Pastore”.
Le lettere Pastorali rivelano che il loro Autore era
nella trepidazione, se non proprio nel panico. Due delle tre lettere
esordiscono con preoccupate raccomandazioni a riguardo di
un’evidente crisi dottrinale: Timoteo a Efeso deve comandare
(ινα
παραγγειλης)
di farla finita con etero-didascalie (μη
ετεροδιδασκαλειν),
con i miti (giudaici, Tt 1,14) e le genealogie interminabili, e di
dedicarsi invece alla “economia di Dio nella fede” (1Tm
1,3-4), mentre Tito a Creta deve letteralmente mettere a tacere
(επιστομιζειν)
i parolai
(ματαιολογοι)
e gli imbroglioni
(φρεναπαται) (Tt
1,10-11). La terza lettera esordisce invece – positivamente, ma
sempre a riguardo della stessa crisi dottrinale – con
l’accorato e perentorio imperativo dato a Timoteo di
“custodire il deposito” (2Tm 1,14).
Insieme alla crisi dottrinale, nelle comunità paoline si viveva
in secondo luogo una crisi d’autorità. L’Autore
è preoccupato di una generalizzata insubordinazione e ribellione
(“insubordinati,
ανυποτακτοι”,
1Tm 1,9;
ανυποτακτοι,
Tt 1,10; απειθεις, 2Tm
3,1-2) ed esige che “insubordinati” non siano i presbiteri
e i diaconi
(ανυποτακτος,
Tt 1,6), o le donne giovani (Tt 2,5). Soprattutto poi chiede di pregare
per chi è in autorità (1Tm 2,1), e che Tito insegni ai
credenti di tutte le categorie di stare soggetti e obbedire alle
autorità (Tt 3,1). Gli schiavi poi devono stare sottomessi ai
padroni (1Tm 6,2; Tt 2,9), non devono contraddirli né derubarli
(Tt 2,9-10). La stessa autorità ecclesiale è contestata:
qualcuno manca di rispetto sia a Timoteo (1Tm 4,12) che a Tito (2,15),
e i presbiteri di Efeso sono bersaglio di accuse che Timoteo deve
vagliare prudentemente, con l’escussione di due o tre testimoni
(1Tm 5,19).
Da ultimo, una vera e propria crisi d’identità scuoteva la
donna cristiana. Le tre lettere lasciano intendere che le donne erano
smaniose di imparare (1Tm 5,13; 2Tm 3,7), di insegnare (1Tm 2,12), di
comandare (αυθεντεω,
“comandare dispoticamente”, 2,12), e soprattutto volevano
essere libere dai legami del matrimonio e della famiglia (1Tm 5,14),
dalla cura dei figli (1Tm 5,14; Tt 2,4), e dal legame con il marito (Tt
2,4). Per correre dietro alle ultime novità (1Tm 5,13; 2Tm 3,7),
esse girano di casa in casa e perdono il tempo in inutili chiacchiere
(1Tm 5,13), oppure si fanno accalappiare nelle loro stesse case da
“maestri” senza scrupoli che, andando di casa in casa,
hanno nelle casalinghe facile preda (2Tm 3,6-7). Tra l’altro
c’era chi proibiva il matrimonio
(κωλυοντων
γαμειν, 4,3) e, di conseguenza, la cura
dei figli e della casa; – per l’Autore si trattava di gente
oramai apostata dalla vera fede e vittima di insegnamenti demoniaci,
falsi e ingannevoli (1Tm 4,1-2).
L’inquietudine riguardava dunque tutti i campi, e tutto veniva
probabilmente dedotto dalla nuova fede e magari dall’insegnamento
stesso di Paolo: dopotutto, nella catechesi battesimale egli aveva
insegnato e nelle lettere aveva scritto che «non c’è
più giudeo né greco, non c’è più
schiavo né libero, maschio o donna» (Gal 3,28). Il
messaggio cristiano era un messaggio di liberazione ed era inevitabile
che prima o poi mettesse in questione anche quei rapporti sociali
inveterati che erano in contrasto con l’uguaglianza e la
libertà cristiana. Per il Pastore che scrisse le tre lettere,
però, si stava procedendo in modo squilibrato e devastante,
così che tutto finiva con l’essere compromesso in modo
irreparabile.
Dalle tre lettere il Pastore appare preoccupato anche per l’immagine negativa che le comunità davano o potevano dare all’esterno. – Egli infatti per esempio circa l’episcopo scrive: «… è necessario che egli goda di buona stima presso quelli che sono fuori della comunità per non cadere in discredito ecc.» (1Tm 3,7); e circa i giovani: «… perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo nulla di male da dire contro di noi» (Tt 2,8). Ovviamente anche gli schiavi e le donne potevano contribuire a squalificare la comunità cristiana. Di fatto il Pastore scrive circa gli schiavi: «… perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina» (1Tm 6,1); «… per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore» (Tt 2,10); e circa le giovani vedove: «… per non dare a chi è avversario alcun motivo di biasimo» (1Tm 5,14); e, infine, circa le donne giovani: «… perché la parola di Dio non venga screditata» (Tt 2,5).
È possibile che il Pastore sopravvalutasse e
drammatizzasse episodi non così gravi e non così
generalizzati come appare dalle lettere, ma è pur vero che non
si può attribuire le molte cose che le lettere contengono alla
apprensività del loro Autore: troppo concreti e precisi sono
infatti i riferimenti che egli fa all’insubordinazione contro le
autorità dello stato, della famiglia e della chiesa, e poi i
riferimenti alla fuga generalizzata dalla famiglia, alla condanna
ideologica del matrimonio (1Tm 4,3), e all’affermazione –
gravida di implicazioni – che la resurrezione si è
già realizzata (2Tm 2,18).
Il dopo-Paolo aveva dunque esasperato sul piano sociologico il rapporto
per esempio tra uomo e donna e tra schiavi e padroni e, contro le
tentazioni anarchiche che serpeggiavano nelle comunità, il
Pastore esige anzitutto che Tito e Timoteo si impongano con
autorevolezza (1Tm 4,12; Tt 2,15), che stabiliscano sulle
comunità leaders i quali abbiano saputo educare figli
non ribelli (1Tm 3,4; Tt 1,5-6) e che diano prova di saper condurre
bene la propria famiglia (1Tm 3,4-5; 3,12; Tt 1,6). Contro ogni
disfattismo circa il ruolo dell’autorità, il Pastore
precisa poi che aspirare all’episcopè è
aspirare a un servizio buono (1Tm 3,1), e che le accuse contro i
presbiteri vanno vagliate attentamente (1Tm 5,19). Ma soprattutto le
tre lettere invitano alla preghiera per tutti coloro che sono
costituiti in autorità (1Tm 2,1), e alla sottomissione e
obbedienza ad esse (Tt 3,1). – Un capitolo a parte è
quello dedicato agli schiavi: non devono prendere a pretesto il fatto
che i loro padroni «oramai sono fratelli /οτι
αδελφοι
εισιν» per comportarsi con loro come
non si deve (1 Tm 6,1-2; cf. Tt 2,9).
Quanto al problema del tutto particolare delle donne, l’Autore
sembra fare spazio ad esse nelle strutture dirigenziali elencando per
esempio i requisiti che “le donne /αι
γυναικες” devono
avere (1Tm 3,11), così come fa per episcopo, presbiteri e
diaconi. E dà regole precise anche per l’iscrizione delle
vedove nell’ordo viduarum (1Tm 5,9-16), ed esige che le
vedove giovani, se fanno promessa al Cristo di non risposarsi, siano
poi fedeli alla loro parola (vv. 11-12). – Poi fa quadrato
attorno ai valori della famiglia: le donne non devono andare oziando di
casa in casa, né debbono farsi accalappiare da chi si insinua
nelle loro case approfittando del loro desiderio d’imparare. La
donna poi si salva solo se si mantiene nel ruolo che la natura le ha
dato: nel generare e nell’allevare i figli (1Tm 2,15). In
particolare, siano accettate nell’ordine delle vedove solo quelle
che hanno ben allevato i loro figli (1Tm 5,10), mentre quelle giovani
devono piuttosto pensare a ri-sposarsi, ad avere figli, e ad
amministrare bene la casa (1Tm 5,14). – Infine, quanto al loro
diritto attivo e passivo nei confronti della parola, le donne debbono
imparare nella calma e nell’ordine all’interno delle
assemblee comunitarie (1Tm 2,11-12), invece che agitarsi dietro a
maestri e ad insegnamenti che seminano lo scompiglio. E non è a
partire dalle frottole imparate in giro per le case che possono ergersi
a maestre dell’uomo e, tanto meno, a loro dominatrici (v. 12):
non dimentichino il precedente biblico di Eva che fu ingannata e
ingannò (v. 14). Molto da insegnare hanno invece soprattutto le
donne più anziane: con il loro giusto contegno (εν
καταστηματι), con
il loro santo equilibrio
(ιεροπρεπεις),
col il loro buon uso della parola (μη
διαβολοι): esse hanno
un bell’insegnamento da offrire
(καλο-διδασκαλοι),
e trasmettano dunque alle più giovani i valori della famiglia
(Tt 2,3-4).
Il Pastore chiede alle donne insomma che, con il ritorno alla
ησυχια (1Tm 2,11.12) e alla
υποταγη (v. 11), diano il loro
contributo alla pacificazione nelle comunità. Questo il Pastore
chiede alle donne solo dopo aver chiesto agli uomini –
anch’essi in un atteggiamento nient’affatto approvabile
– che si presentino alla preghiera comune e in ogni luogo
(εν παντι τοπω)
con mani sante, senza lasciarsi andare all’ira e a una estenuante
litigiosità.
R.J. Karris (Dublin 1979), che studia e interpreta
le Pastorali come documenti segnati dal disorientamento in seguito alla
perdita di Paolo e dalla difficoltà del trapasso all’epoca
post-apostolica, mette l’immagine di Paolo come primo degli
“strumenti” con cui il Pastore affronta la transizione. Gli
altri sono: la creazione di strutture ecclesiali, la trasmissione e
difesa del “deposito”, l’insistenza sulla condotta
irreprensibile o l’ortoprassi, e la flessibilità sia circa
le strutture sia riguardo al deposito. Quanto all’immagine di
Paolo che le Pastorali presentano, così importante
nell’intervento del Pastore appunto per far fronte alla nuova
situazione, si possono individuare tre nuclei d’interesse: (1)
l’evento di Damasco, (2) la vita apostolica, (3) il martirio e il
testamento spirituale.
Secondo 1Tm 1,11-15 a Damasco Paolo anzitutto è stato posto come
“diacono” del Vangelo (non “apostolo” come in
1Cor 9,1 e 15,8-9), da bestemmiatore, persecutore e violento che era
(1Tm 1,11b-13). Nelle Pastorali la “conversione” di Paolo
non è dunque trapasso da un giudaismo-non-messianico a un
giudaismo messianico come era in Gal 1,16, e Fil 3,3-14, ma dalle
parole e dall’attività di prima
(“bestemmiatore”, “persecutore”,
“violento”) che erano ispirate dall’odio per il
Vangelo, al servizio ad esso a cui poi Paolo si è consacrato (v.
13). Paolo infine è il peccatore che è stato salvato dai
suoi peccati per essere specchio e prototipo della misericordia del
Cristo per tutti i peccatori che giungeranno alla fede (vv. 15-16).
In secondo luogo Paolo è presentato come
“l’apostolo”, anzi come apostolo “unico”,
mentre nelle lettere autentiche egli si colloca sempre
all’interno di una pluralità di apostoli (G. BARBAGLIO, Paolo,
290), i quali, per di più, lo erano “prima di lui”
(Gal 1,17). È per questo che i commentatori parlano di
“esclusivismo paolino” (N. BROX, Le lettere pastorali,
Brescia 1970, 114;), o di “riduzionismo paolino” (R.F.
COLLINS, «The image of Paul in the Pastorals», in Laval
Théologique et Philosophique 1975, 172). –
L’attività apostolica di Paolo nelle Pastorali consiste
poi non più nel fondare chiese e nel dirigerle mediante lettere,
bensì nell’assicurarsi che in futuro qualcuno continui la
sua opera: è per questo che nelle Pastorali l’Apostolo
destina le sue lettere a Timoteo e Tito e in esse dà loro regole
per episcopi, presbiteri, diaconi, e vedove, e chiedendo un serrato
impegno nel combattere l’etero-didascalia, in difesa soprattutto
della bontà della creazione e del matrimonio. Il futuro di Paolo
dunque non è più quello in cui programmava di andare a
Gerusalemme, Roma e in Spagna (Rm 1; Rm 15), ma il futuro nel quale
Timoteo e Tito si inoltreranno, al suo posto. L’area geografica
evocata nelle Pastorali, poi, non è mai quella gerosolimitana o
palestinese, perché l’Apostolo si muove invece da Creta
(Tt 1,5), e da Efeso (1Tm 1,3), verso la Macedonia, l’Acaia, la
Dalmazia, e Roma. L’attività apostolica di Paolo, infine,
è amareggiata da sofferenze (2Tm 1,12; 2,9), da apostasie di
collaboratori (1Tm 1 19-20; 2Tm 2,17), e dal loro abbandono o
tradimento (2Tm 1,15; 2Tm 4,10.16).
Contrariamente ai testi della vita apostolica che sono segnati
dall’amarezza, quello del martirio di Paolo (2Tm 4,6-8) è
inaspettatamente segnato dalla serenità e dalla sazietà
spirituale. Paolo vi appare come sacrificio di libazione, come colui
che è pronto a sciogliere le vele, come l’atleta che ha
condotto a termine la sua corsa, come l’apostolo che ha
conservato la fede e che è in attesa della corona della
vittoria. Mentre nelle catene e nel carcere si sentiva “come un
malfattore” (2Tm 2,9), di fronte alla morte egli è invece
pio e devoto sacrificio, discepolo fedele, e atleta in attesa del
premio.
Nel difficile trapasso d’epoca della fine del primo secolo
l’immagine di Paolo serve dunque all’Autore delle Pastorali
come arma contro l’etero-didascalia, come autorità garante
delle strutture ministeriali che si vanno elaborando, e come esempio di
convertito e di martire da additare nelle difficoltà e
persecuzioni. È un’immagine forse di profilo meno alto di
quella che si ricava dalle lettere autentiche, ma per tempi nuovi
servono strumenti nuovi.
1,1-2
Mittente (Paolo, apostolo),
Destinatario (Timoteo, diletto figlio),
Augurio triplice (grazia, misericordia, pace).
b. Crisi d’autorità - «Si preghi per chi è costituito in autorità»1,3-7: Partendo per la Macedonia Paolo ha lasciato Timoteo a Efeso per far fronte ai nomo-didascali eterodossi.
1,8-11: I “maestri delle Legge” o “nomisti” pretendono di essere «dottori della Legge» – che di per sé è utile –, ma in realtà sono sostenitori di favole, genealogie interminabili, fatue verbosità.
1,12-14: Paolo rende grazie per essere stato ritenuto degno del ministero evangelico pur essendo stato un bestemmiatore, un persecutore, e un violento.
1,15-16: Paolo, il primo dei peccatori e il primo dei graziati – in lui il Cristo ha dimostrato misericordia per tutti i peccatori.
1,17: Dossologia.
1,18-20 Paolo rievoca la vocazione di Timoteo e il naufragio di Imeneo e Alessandro.
c. Crisi d’identità della donna - «Allo stesso modo le donne …»2,1: Invito alla preghiera universale per tutti gli uomini.
2,2: (In particolare) per i sovrani e per tutti coloro che sono costituiti in autorità. Una tale preghiera deve ottenere tranquillità e quiete e permettere una vita fatta di pietà e dignità.
2,4-6: La preghiera universale ha la sua ultima motivazione nella volontà salvifica universale di Dio.
2,7: Di tutto questo Paolo è stato costituito banditore, apostolo e didascalo.
2,8: La preghiera degli uomini sia senz’ira e senza litigiosità.
2,9-15: La preghiera della donne sia nella calma e nella soggezione. Non devono pretendere d’insegnare e di spadroneggiare sugli uomini.
Motivazione tratta dall’inganno di Eva in Gen 3. La via della salvezza per la donna passa per la cura dei figli nel matrimonio.
b. Ministero dei diaconi e delle donne, e requisiti3,1: È bene aspirare al ministero dell’episcopè.
3,2-7: Requisiti per l’episcopo.
c. La Chiesa, ’Casa’ di Dio, e il Mistero di pietà3,8-10: Requisiti per i diaconi.
3,11: Requisiti per le donne (Le donne in generale? Le mogli dei diaconi?, Le diaconesse?).
3,12-13: Altri requisiti per i diaconi.
3,14-15: Paolo conta di recarsi dove si trova Timoteo molto presto, ma dà istruzioni, nel caso che debba tardare, circa la Chiesa, “casa di Dio, colonna e sostegno della Verità”.
3,16: Frammento di inno liturgico circa il mistero cristologico, “Mistero della pietà”.
b. Esortazioni a Timoteo: cosa deve praticare e insegnare4,1-2: [I profeti mossi dal]lo Spirito annuncia[no] il diffondersi di insegnamenti che vengono da spiriti d’inganno e da dottrine demoniache.
4,3-5: Mentre tutto ciò che Dio ha creato è buono, qualche eretico spiritualista, in odio al corpo, proibirà il matrimonio e imporrà tabù alimentari.
4,6-7: Timoteo deve nutrirsi di sana dottrina ed evitare invece miti profani.
4,8-10: Timoteo deve tenersi in esercizio, come un atleta, nell’ambito della pietà in vista della vita sia presente che futura.
4,11-13: Timoteo deve insegnare, fare rispettare la propria autorità, ed essere punto di riferimento per i credenti in ogni virtù.
4,14-16: Timoteo non deve trascurare il carisma ricevuto al momento dell’imposizione delle mani, ma dev’essere in continuo progresso.
b. Timoteo e le vedove5,1-2: Come Timoteo deve comportarsi con anziani e giovani, con donne anziane e giovani.
5,3-4: Le vedove e il loro mantenimento: quelle che bisogna sostenere e quelle che possono esser sostenute dalla famiglia.
5,5-8: Colei che è vera vedova, e la vedova che, invece, pur vivendo è morta.
5,9-10: Requisiti che deve avere una vedova per poter essere iscritta nell’ordine delle vedove.
5,11-15: Come Timoteo deve comportarsi con le vedove giovani, che rischiano di essere infedeli alle loro promesse.
5,16: Le credenti che mantengono vedove .
b. Ammonizioni per gli schiavi con padroni credenti e non-credenti5,17-18: Il ‘doppio onore’ ai presbiteri didascali.
5,20-24: I presbiteri sotto accusa e quelli trovati colpevoli.
6,1: Schiavi con padroni non-credenti.
6,2b: Schiavi con padroni credenti.
b. La vera ricchezza e i danni dell’attaccamento al denaro6,2c: Due imperativi per Timoteo: «Questo raccomanda e insegna».
6,3-5: Dall’etero-didascalia vengono orgoglio, battaglie verbali, e ogni sorta di degenerazione, tra cui la strumentalizzazione della pietà a scopo di lucro.
c. Timoteo e la buona battaglia della fede6,6: Vera ricchezza è la pietà.
6,7-8: Essere soddisfatti del necessario perché nulla abbiamo portato e nulla porteremo via.
6,9-10: L’amore al denaro è radice di ogni male.
d. Cosa Timoteo deve dire ai ricchi6,11: Cosa Timoteo deve fuggire, cosa deve perseguire.
6,12: «Combatti la buona battaglia della fede».
6,13-14: «Ti ordino di conservare intatto il Comandamento», e cioè il Vangelo di Gesù che rese la sua buona testimonianza sotto Pilato.
6,15-16: Grande dossologia a Dio, Re dei re, Signore dei Signori, unico immortale.
6,17-19: I ricchi non devono essere arroganti, confidando sulle ricchezze, ma generosi.
6,20a: «O Timoteo, custodisci il deposito».
6, 20b-21a: «Evita le parole vuote e le ‘antitesi’ che portano lontano dalla fede».
6,21b: Augurio finale di grazia.
1,1-4
Mittente (Paolo, servo di Dio, apostolo di Gesù Cristo),
Destinatario (Tito, diletto figlio nella comune fede),
Augurio duplice (grazia e pace).
1,5: Paolo ha lasciato Tito a Creta «dopo avere affidato a lui una missione dottrinale e amministrativa ben precisa» (Spicq, 229): egli deve colmare le lacune sul piano della fede e porre rimedio a ciò che è disordinato («… perché tu metta ordine in quello che rimane da fare»), e deve costituire dei presbiteri sulle molte comunità cretesi («… e stabilisca presbiteri in ogni città»).
In effetti la lettera contiene poi istruzioni sulla scelta di presbiteri e di episcopi perché sia combattuta l’etero-disdascalia (I), e considerazioni sulle diverse categorie di credenti e sui problemi che pongono sia sul piano dottrinale, sia sul piano dell’ordine sociale (II). Anche la perorazione finale insite sul retto insegnamento e cerca di contrastare l’“uomo eretico /fazioso”.
b. Come Tito deve trattare i cretesi etero-didascali1,6: Requisiti per il candidato a essere presbitero. Tra i requisiti, che sono 5 di numero, l’ultimo è quello che il presbitero non sia un insubordinato.
1,7-9: Requisiti per il candidato a essere episcopo. Tra i 13 requisiti, alcuni al negativo («Non sia arrogante ecc.»), altri al positivo («Sia ospitale ecc.»), il più importante è che l’episcopo sia «attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono».
1,10-11: A Creta ci sono infatti molti spiriti insubordinati e ingannatori, soprattutto provenienti dalla circoncisione: «A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono a soqquadro intere famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto, cose che non si devono insegnare».
1,12-14: Un profeta cretese [Epimenide di Festo], giustamente ha definito i cretesi come «bugiardi, male bestie, ventri pigri». Di questi si deve occupare con fermezza lo stesso Tito «perché rimangano nella sana dottrina e non diano più retta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità».
1,15-16: Il loro insegnamento deve riguardare le leggi di purità /impurità perché Paolo assicura che «tutto è puro per i puri», aggiungendo: «… ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro, essendo contaminate la loro mente e la loro coscienza».
2,1: «Quanto a te, tu insegna ciò che è secondo la sana dottrina».
b. Motivazione cristologica2,2-5: Istruzioni circa gli uomini anziani, e soprattutto circa le donne anziane. Ad esse Paolo chiede di saper «ben insegnare per formare le donne giovani all’amore del marito e dei figli, ad essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non debba diventare oggetto di biasimo».
2,6-8: Tito deve poi esortare i più giovani e offrirsi loro come modello perché chiunque è del campo avverso non abbia nulla da ridire sulla comunità cristiana.
2,9-10: Tito deve esortare gli schiavi a esser sottomessi in tutto ai loro padroni, senza contraddirli e senza derubarli.
c. Tito deve invitare all’ordine sociale2,11-15: Il fondamento teologico di queste esortazioni è nella manifestazione (“epifania”) della grazia di Dio salvatore, la quale infatti «ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo». Noi siamo oramai nell’attesa della beata speranza e per noi il Cristo ha dato se stesso: ma tutto è sempre finalizzato a «riscattarci da ogni iniquità», e perché siamo «un popolo puro zelante nelle opere buone».
d. Motivazione teologico-sacramentale3,1-2: Tito deve ricordare a tutte le diverse categorie di credenti «di essere sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini». [Probabilmente nelle comunità cristiane serpeggiava qualche forma di anarchia, soprattutto tra le donne giovani, tra i giovani e tra gli schiavi].
3,3-7: Nessuno deve disprezzare nessuno, o combattere nessuno (v. 2), e cioè: chi è cristiano non deve disprezzare chi non lo è.
Perché – dice Paolo – «anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda». Anche se il battesimo è stato per noi un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, Dio ci ha salvati però non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia.
3,8: Sulla base di questa dottrina, i credenti devono distinguersi nell’operare il bene.
3,9-11: Con gli ultimi due imperativi, Paolo riassume in poche parole le disposizioni più importanti della lettera. Il primo imperativo riguarda le dottrine inutili o dannose, e il secondo coloro che le diffondono. «Guàrdati dalle questioni sciocche, dalle genealogie, dalle contese intorno alla Legge, perché sono cose inutili e vane» (v. 9); «Sta’ lontano dall’uomo fazioso, che è ormai fuori strada» (v. 10).
3,12-14: Paolo manderà a Creta Artema o Tichico perché Tito per il prossimo inverno possa venire da lui a Nicopoli (in Epiro, sul mare Adriatico?). Tito deve mandargli Zena e Apollo, equipaggiandoli del necessario.
3,15: Saluti e augurio finale di grazia.
1,1-2
Mittente (Paolo, apostolo),
Destinatario (Timoteo, diletto figlio),
Augurio triplice (grazia, misericordia, pace).
b. Esortazione a ravvivare il dono di Dio e a non vergognarsi di Paolo1,3-4: Paolo rende grazie a Dio quando pensa a Timoteo, che ha grande desiderio di rivedere.
1,5: Di lui ricorda la fede schietta che la nonna Loide e la madre Eunice gli trasmisero.
c. Raccomandazione a «conservare il deposito»1,6-8: Dai ricordi nasce l’esortazione a Timoteo perché ravvivi il dono sacramentale dell’imposizione delle mani e perché renda una testimonianza non paurosa e perché non si vergogni delle catene di Paolo.
1,9-12: L’esortazione alla perseveranza viene motivata con il richiamo al Vangelo e dalla dedizione di Paolo ad esso. Dio nel Cristo ci ha salvati non in base alle nostre opere, ma per grazia: di questa buona notizia Paolo è stato costituito messaggero, apostolo e maestro. Per quel Vangelo Paolo sta soffrendo e di esso non si vergogna, certo che Dio intende custodire fino all’ultimo giorno il deposito di fede che gli ha consegnato.
1,13-14: Dopo avere delineato tutta la corsa che il deposito della fede deve percorrere (da Dio a Paolo, e poi fino all’ultimo giorno), Paolo coinvolge Timoteo nella responsabilità per esso, con altri due imperativi programmatici: «Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me», e soprattutto: «Custodisci il deposito!».
b. Tre immagini e l’esortazione al duro lavoro apostolico1,15-18: Con la formula «Tu sai che…», Paolo rievoca due defezioni recenti, quella di Figelo e di Ermogene da una parte e, dall’altra, la testimonianza di fedeltà di Onesiforo, che, venuto a Roma, ha cercato Paolo, l’ha trovato e lo ha assistito generosamente senza vergognarsi delle sue catene.
2,1-2: Con la formula «Tu dunque, o figlio mio» (che ricorrerà altre volte nella lettera), Paolo esorta Timoteo a reagire non con lo scoraggiamento, ma attingendo forza dalla grazia del Cristo e dalle parole udite da Paolo. E ciò che ha ricevuto da Paolo, lo deve trasmettere a chi è capace di trasmettere lo stesso insegnamento ad altri e, quindi, di prolungare indefinitamente la catena della trasmissione della fede.
c. Imeneo e Fileto: raccomandazioni circa la parola di verità2,3-7: Timoteo deve soffrire insieme con Paolo. Dev’essere come un soldato che si dedica al suo capitano, come un atleta che tende al premio, come un agricoltore che potrà godere dei frutti del suo lavoro.
2,8-13: Paolo, con le sue sofferenze e con le sue catene, ripropone ancora a Timoteo il suo esempio e il suo Vangelo, assicurandogli che chi soffre, vivrà, regnerà, e che il Cristo è fedele.
2,14-16: Con la formula «Questo ricorda», Paolo introduce altri imperativi riguardanti, ora, la vera e la falsa dottrina: «Scongiura di evitare le vane discussioni che portano alla rovina» (v. 14), «Evita le chiacchiere vuote e contrarie alla fede» (v. 16).
2,17-21: Il caso increscioso che dà lo spunto a queste preoccupate raccomandazioni di Paolo è quello di Imeneo e di Fileto secondo i quali la resurrezione è già avvenuta. Ma, secondo la testimonianza stessa della Scrittura, Dio conosce bene coloro che gli appartengono e invita ad allontanarsi dall’iniquità chi invoca il suo nome.
Immagine dei vasi domestici: chi si mantiene puro dagli insegnamenti eterodossi è come un vaso nobile, santificato, utile.
2,22-26: Gli imperativi continuano insistenti. “Fuggi”, “Cerca”, “Evita le discussioni sciocche”.
Paolo propone a Timoteo una definizione descrittiva del “servo del Signore”: non litigioso, mite, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare.
b. «Sempre più gli impostori… Ma tu rimani saldo…»3,1: Dopo avere esortato in base al passato e alla situazione presente, Paolo si volge al futuro: «Questo poi devi sapere: che negli ultimi tempi verranno momenti difficili». Per tre volte Paolo dice poi che cosa potrà accadere nel futuro (3,2: «Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro…»; 3,13: «Uomini malvagi e ingannatori andranno avanti sempre più …»; 4,3 «Ci sarà un tempo in cui …»), e per tre volte egli dice a Timoteo: «Tu però…» (3,10.14; 4,5).
3,2-9: «Gli uomini saranno egoisti…». Dopo la qualifica di “egoisti”, seguono altre 18 qualifiche degli uomini del futuro. La lunga lista deve portare alla condanna soprattutto di coloro che (con il verbo al presente «sono»: εκ τουτων γαρ εισιν κτλ) «entrano nelle case e circuiscono certe donne … sempre pronte a imparare ma incapaci di giungere mai alla conoscenza della verità» (3,6). Paolo paragona questi insubordinati, che si oppongono alla verità e ai rappresentanti di Dio, a Iannes e di Iambres – due maghi egizi di cui parla molta letteratura extrabiblica – che si opposero a Mosè.
3,10-12: «Tu però … sai bene che …». Timoteo, che nel primo viaggio missionario di Paolo seguì da vicino l’Apostolo e fu testimone delle persecuzioni da lui affrontate in quell’occasione, sa bene che il Signore ha liberato Paolo da tutte. Per questo, anche se la persecuzione è inevitabile (v. 12), Timoteo non deve avere paura.
c. «Verrà un tempo in cui… Ma tu fa’ opera di evangelista…»3,13: «Gli uomini malvagi e impostori inganneranno sempre più…».
3,14-16 «Tu, però, rimani saldo!». I motivi per non vacillare sono gli insegnamenti ricevuti, le persone che glieli hanno trasmessi, e le Scritture che egli ha imparato a conoscere fin dall’infanzia.
Segue l’elogio della Scrittura e della sua molteplice utilità.
d. Il testamento di Paolo: «… io sto per essere versato in libagione»4,1-4: L’ultima raccomandazione per il futuro è addirittura introdotta con parole di giuramento: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno, … insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna …». Il futuro è poi dipinto anche questa terza volta a tinte fosche: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole».
4,5: Un terzo «Tu però …», introduce altri accorati imperativi, tra i quali il più importante è: «… Fai opera di evangelista». Il motivo di questo comando è che Paolo se ne va, e Timoteo deve subentrare a lui come suo erede spirituale.
4,6-8: «Questo addio e questo testamento di Paolo sono da accostare al discorso del Cristo alla cena secondo Giovanni. Vi si trova la stessa serenità, la stessa psicologia di vittoria, la stessa certezza di gloria celeste e, d’altra parte, la stessa preoccupazione di trasmettere ai discepoli le ultime volontà del morente. Come il Cristo, infine, l’Apostolo vede e concepisce la sua morte come un sacrificio e, insieme, come una gloria» (Spicq, 387).
Le immagini della libagione, del togliere le àncore, della corsa nello stadio, e della corona con cui si premia il vincitore, servono ad esprimere tutta l’impresa apostolica di Paolo (« …ho combattuto … ho conservato la fede») fino al dono estremo («Il mio sangue sta per essere versato…») nella prospettiva dell’ultimo giorno («… la corona che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, e non solo per me ma anche per quelli che vivono nell’attesa della sua manifestazione»).
b. Saluti finali4,9-16: Paolo ha inviato Tichico a Efeso, e Timoteo deve quanto prima andare da Paolo con Marco. Dema e Alessandro hanno tradito Paolo, mentre Crescente e Tito sono dovuti partire: così nella prima udienza Paolo ha avuto l’assistenza del solo Luca. Venendo, Timoteo deve prelevare da Carpo a Troade il mantello, i rotoli e le pergamene che vi ha lasciato.
4,17-18: Di fronte all’infedeltà di qualche discepolo, Paolo non si sente però mai abbandonato dal Signore che lo ha «liberato dalla bocca del leone». A lui l’Apostolo eleva una riconoscente dossologia: «A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen».
4,19-21: Saluti ai cristiani di Efeso. Saluti da parte dei fratelli, di cui quattro sono nominati.
Altre notizie e altre disposizioni: Timoteo venga prima dell’inverno.
Augurio conclusivo (ripreso nel “Dominus vobiscum” della liturgia latina): «Il Signore Gesù sia con il tuo spirito. La grazia sia con voi!».
La teologia e la spiritualità delle Pastorali
sono visibilmente di livello più modesto che non quelle di Paolo
di Tarso. Paolo era un teologo creativo e vulcanico, il Pastore invece
cita e ripete. Il Paolo delle Pastorali è, in tal modo, un Paolo
più accessibile, e le sue parole sono più facili e
più comprensibili. – Questa debolezza delle Pastorali
è stata anche la loro forza. L’immagine di Paolo che
soprattutto la chiesa cattolica ha coltivato nei secoli non è
tanto quella desumibile dalle lettere autentiche, quanto piuttosto
quella che si ricava appunto dalle Pastorali (e dagli Atti):
l’immagine del grande Apostolo, dell’Esortatore, del
Difensore dell’ortodossia, del Carcerato, del Martire, del grande
Convertito e grande Santo. Ciò che in particolare si è
imposto è l’ecclesiologia delle Pastorali, la loro
struttura ministeriale della chiesa, il loro tipo di
spiritualità, il formarsi della tradizione, del
“deposito”, e della “sana dottrina”.
Dal punto di vista storico, le Pastorali sono utili anche per farsi
un’idea di che cosa successe nel cristianesimo della terza o
quarta generazione, dopo la scomparsa dei grandi protagonisti della
prima ora e, in particolare, di come si cercò di riempire il
vuoto lasciato da Paolo nelle chiese da lui fondate e in quelle che
comunque si richiamavano alla sua eredità.
Infine, secondo C.K. BARRETT, «Pauline Controversies in the
Post-Pauline Period», in New Testament Studies 1973-1974,
229-245, sono state proprio le Pastorali e l’immagine accessibile
ed “accettabile” che esse propongono di Paolo, a fare in
modo che fossero accolte nel canone del NT le lettere autentiche, la
cui radicalità suscitava altrimenti diffidenza.
Un motivo non indifferente di attualità per
le Pastorali consiste nel fatto che esse affrontano situazioni e
problemi molto simili a quelli del nostro tempo: la libertà di
pensiero e d’interpretazione circa il patrimonio di fede che
veniva dall’epoca di Gesù e degli apostoli, la crisi dei
concetti di autorità e di responsabilità, e
l’emancipazione femminile perseguita con metodi dirompenti invece
che costruttivi. Le Pastorali danno l’impressione di essere
frutto di una mentalità vecchia e repressiva, ma
l’apparenza inganna, ed esse sono documenti più attuali di
quanto sembra.
L’attualità delle Pastorali sta anche nel fatto che sono
documenti di un tempo di transizione, come lo è il nostro tempo,
che lo è come nessun altro lo è stato. – «Le
Pastorali hanno molto da dire a chi esperimenta la transizione. Esse
dicono l’importanza della fedeltà. Se le chiese delle
Pastorali che si sono inoltrate nell’età post-apostolica
non fossero state fedeli al Vangelo, in quel processo esse avrebbero
perso l’anima. Ma fedeltà non significa rigidità.
L’Autore delle Pastorali non seppellisce i talenti della
tradizione paolina fino a che la burrasca della transizione non sia
passata (…). “Questo non s’è mai fatto”
non è un principio del suo vocabolario di transizione. Egli
può, sì, combattere l’andazzo del suo tempo, ma poi
reagisce dando vita a un’istituzione che incarna la sua fede e il
suo modo di vedere…», «La gente che sta dietro le
Pastorali sta vivendo la transizione dall’età apostolica a
quella post-apostolica. Sono persone che si vanno chiedendo che cosa
prendere dal passato, mentre muovono verso il futuro. Sono persone
deboli e che hanno fatto sbagli. Ma ora, in un tempo nuovo, cercano di
rinnovare il loro impegno con il Cristo e con Paolo…»
(R.J. KARRIS, Dublin 1979, xi, xvii). «La posta in gioco nella
pseudepigrafia è l’attualizzazione e non la nostalgia di
una rievocazione. Si deve agire anche senza Paolo. Mandato e compiti di
Timoteo sono legati alla sua assenza», Y. REDALIÉ,
«“Discernere i tempi” nelle Pastorali», in G.
DE VIRGILIO, a cura di, Il deposito della fede (Bologna 1998),
250.
Il Pastore propone ad ogni passo affermazioni di
stampo paolino ma, lontano dall’avere la capacità
speculativa di Paolo, procede invece per formule fatte, così
che, mentre Paolo inesauribilmente esplicitava dall’annuncio
cristiano insospettate ricchezze, le Pastorali riprendono di peso frasi
prefabbricate e luoghi comuni. – Interessate maggiormente alla
prassi, dal punto di vista dottrinale le tre lettere più che
altro si preoccupano di difendere e tramandare il patrimonio di fede
ricevuto: il ‘depositum fidei’
(παραθηκη, cf. 1Tm 6,20; 2Tm
1,12.14). Il concetto è preso dal diritto greco-romano nel quale
il “deposito” rappresentava una particolare forma di
contratto: per esso il depositario si impegnava a custodire tale e
quale il bene affidatogli, e a riconsegnarlo intatto dietro richiesta
del proprietario. In 2Tm 1,12 Paolo sente di avere custodito fedelmente
il tesoro che Dio gli ha affidato così come la legge chiedeva ai
cittadini che si legavano con quell’impegno giuridico, mentre in
1Tm 6,20 e 2Tm 1,14 egli chiede a Timoteo di essere, dopo di lui,
custode altrettanto fedele. In quei tre testi «… il
contenuto della παραθηκη altro
non è che l’evangelo fissato nel ‘credo’ e
contestato dagli eretici. (…) Colui al quale è stata
affidata la sana tradizione ha obblighi e responsabilità
particolari. (…) Cristo è in grado di proteggere e
preservare l’evangelo affidato alla comunità non solo
durante la vita dei primi apostoli ma, anche oltre
quell’età che sta per chiudersi, nelle tempeste che le
generazioni a venire dovranno attraversare e fino al giorno del
giudizio», C. MAURER,
«παραθηκη», in GLNT,
ad v. 1253 e 1257-1258.
Circa il ‘depositum fidei’, oltre a C. Maurer, cf. S.
CIPRIANI, «La dottrina del ‘depositum’ nelle lettere
pastorali», in Studiorum paulinorum congressus
internationalis catholicus 1961, II, (Analecta Biblica 18; Romae
1963), 128-142
Il concetto di “deposito” comunque dev’essere inteso
in senso non statico ma dinamico. Non si tratta infatti di custodire
qualcosa di inanimato, di inerte, ma di qualcosa che è vivo e
vitale e che, come una persona, se non crescesse ogni giorno,
morirebbe. Lo stesso Pastore è il primo per esempio ad
aggiornare – certo nella fedeltà – il deposito: egli
riformula la dottrina paolina della giustificazione (2Tm 1,9) e il
concetto di “legge” (1Tm 1,8-11a) in termini meno tecnici;
con il termine “carisma” intende i doni suscitati non tanto
dallo Spirito, ma dall’imposizione delle mani (1Tm 4,14),
fornisce le chiese di nuove strutture organizzative, quali il collegio
dei presbiteri o l’ordine delle vedove ecc.; rielabora per la sua
epoca un diversa immagine di Paolo: polemica, moralistica, agiografica
ed edificante.
A commento di 1Tm 2,2 («… affinché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio»), M. Dibelius (Tübingen 1931) ha scritto un ‘excursus’ parlando di “christliche Bürgerlichkeit”, concetto che poi è stato preso come chiave d’interpretazione globale delle Pastorali in due direzioni diverse. Secondo alcuni si può parlare di “cristianesimo borghese o imborghesito” delle tre lettere: dopo il cristianesimo “eroico” di Paolo (cf. per esempio 2Cor 11,23-33), ora si andrebbe in cerca di una vita borghese, agiata e indisturbata (così M. Dibelius, S. Schulz, R. Schnackenburg, J. Roloff). Se però davvero il Pastore doveva fronteggiare lacerazioni come quelle ipotizzate più sopra, allora egli, quando parlava di “vita calma e tranquilla”, non sognava tanto una vita borghese, agiata e indisturbata, ma chiedeva a tutti di deporre lo spirito d’anarchia, d’insubordinazione e di litigiosità. Tanto è vero che, subito dopo, egli chiede agli uomini di presentarsi alla preghiera “senza collera e senza polemica” (2,8). Più giustamente, allora, per altri (Ph. H. Towner, R.M. Kidds, J.J. Wainwright, M. Reiser, Y. Redalié) il testo di 1Tm 2 parlerebbe invece di “civismo cristiano”, e cioè della consapevolezza dei cristiani della fine del primo secolo di essere cittadini (“Bürger”) di questo mondo, per cui non ci si deve estraniare dalla storia e dalle responsabilità della vita quotidiana familiare e sociale.
Le Pastorali lasciano capire che al tempo della loro
composizione c’era chi nelle chiese paoline aveva con
l’ambiente un rapporto conflittuale, e, a parte le tendenze
anarchiche cui si oppone, l’Autore sembra qua e là
combattere un certo atteggiamento di superiorità e di disprezzo
verso chi non è cristiano. Per rendersene conto, basta leggere
Tt 3,2: «Ricorda loro (= a tutte le categorie di credenti) di non
parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti,
mostrando ogni dolcezza verso tutti gli altri». L’Autore
motiva questa richiesta di apertura e di comprensione verso i
non-credenti evocando il passato da cui solo la bontà di Dio
salvatore ha liberato quelli che ora credono: «Anche noi un tempo
eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di
passioni e di piaceri ecc. Ma quando apparvero la bontà di Dio,
nostro salvatore, e il suo amore per gli uomini ecc.» (Tt 3,3-6).
Soprattutto poi c’erano coloro che disprezzavano come cattiva la
creazione, il matrimonio, e la famiglia. Fu così che il Pastore
avvertì il bisogno di affermare la bontà
dell’ordine sociale e, prima ancora, della creazione, scrivendo
tra l’altro: «Tutto ciò che Dio ha creato è
buono e nulla dev’essere disprezzato, ma essere preso con
rendimento di grazie, perché è santificato dalla parola
di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4,4-5).
La teologia e la religiosità delle Pastorali sono visibilmente
di livello più modesto che non quelle di Paolo di Tarso. Da
profetico, eroico, ed escatologico quale era ai tempi di Paolo, il
cristianesimo diventa quotidiano, pre-escatologico, preoccupato anche
delle realtà penultime. – L’attesa escatologica non
scompare (cf. 1Tm 6,14 2Tm 4,1.8), ma l’interesse a “questo
tempo”, del quale le tre lettere tornano spesso a parlare (1Tm
4,8; 6,17; 2Tm 4,10; Tt 2,12), dice il desiderio di un rapporto stabile
con il mondo ambientale, del quale Paolo non si era molto preoccupato
dal momento che “è passeggera la scena di questo
mondo” (1Cor 7,31).
Commentari
J. FREUNDORFER (1959, it 1961), J.N.D. KELLY (1963), C.K. BARRETT
(1963), F.J. SCHIERSE (1968), G. HOLTZ (1965), P. DORNIER (1969), N.
BROX (41969, it 1970), C. SPICQ (1969), M: DIBELIUS - H.
CONZELMANN (1972), J. JEREMIAS - A. STROBEL (1975), R.J. KARRIS (1979),
R. FABRIS (21990), C. CASALE MARCHESELLI (1995), L.
OBERLINNER, 3 vol. (1994, 1995, 1996; it 1999).
Monografie
Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici