Colosse si trova nella valle del fiume Lico, affluente del Meandro, nella Frigia del sud, in Asia Minore. Nel sec. iv a.C. era una città di un certo rilievo, trovandosi sulla strada commerciale che congiungeva l’occidente con l’oriente. Gli storici greci dei secoli v-iv definiscono ‘grande’ la città di Colosse: «Oltrepassando una città dei Frigi chiamata Anawa e un lago da cui si trae sale, (Serse) giunse a Colosse, grande città di Frigia, dove il fiume Lico scompare precipitando in una voragine, e poi, ricomparendo ad una distanza di cinque stadi, sbocca anch’esso nel Meandro», (Erodoto, Storie, 7,30); «Superato il Meandro, Ciro continua la marcia attraverso la Frigia (…), arriva a Colosse, grande città, fiorente, con molti abitanti» (Senofonte, Anabasi, 1,2,6). Poi la città era decaduta per lo spostamento delle vie di comunicazione e la fondazione più a valle delle città di Laodicea e di Gerapoli. – Nel 129 a.C., con gran parte della Frigia e con altre regioni, Colosse divenne parte della provincia romana di Asia, gravitando sulla città di Efeso, distante 180 km circa.
La comunità non era stata fondata da Paolo, bensì da Epafra (1,7), (abbreviazione di Epafrodito, ma da un Epafrodito probabilmente diverso da quello nominato in Fil 2,25; 4,18). Epafra era comunque collaboratore di Paolo (cf. 1,7: «… come avete appreso da Epafra, nostro caro compagno nel ministero, che è fedele servitore di Cristo al posto nostro / υπερ ημων»), così che Paolo considera la chiesa di Colosse una chiesa ‘paolina’ e non ha esitazione alcuna ad intervenire nella sua vita. – La comunità era composta di pagano-cristiani (cf. 1,21: «Voi un tempo eravate stranieri e nemici», cf. anche 1,27; 2,11-13), ed era organizzata attorno almeno a due chiese-domestiche, quella di Ninfa nominata in 4,15, e quella di Filemone menzionata in Flm 2. La comunità colossese era in stretti rapporti con quelle di Laodicea (cf. lo scambio delle lettere che Paolo chiede alle due chiese in 4,16) e di Gerapoli (4,13), anch’esse fondate da Epafra e mai visitate da Paolo: cf. «… quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicea e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona», 2,1.
Quando scrive ai Colossesi, Paolo è in carcere (4,3.10.18). Epafra gli ha fatto visita per informarlo sulla situazione della comunità colossese (1,4, e 1,8). Paolo allora scrive la lettera soprattutto per difendere la comunità dall’eresia che la minaccia, e affida la lettera a Tichico (4,7-8) e Onesimo (4,9).
Nella lettera si intrecciano parti epistolari e di
argomentazione retorica (secondo Aletti 1993, it 1994), come segue:
Prescritto epistolare (1,1-2), esordio che si conclude con la partitio
o annuncio delle parti (1,3-23), probatio in tre argomentazioni
(1,24-2,5; 2,6-23; 3,1-4,1), peroratio (4,2-6), e conclusione
epistolare (4,7-18).
Prescritto epistolare (1,1-2)
Ringraziamento e ‘prayer report’ con funzione di esordio e di partitio (1,3-23)
L’esordio termina con una frase che introduce i temi di tutta la lettera. In termini retorici questo si chiama “partitio”. In pratica, dopo avere affermato il primato del Cristo nell’inno (1,15-20), nei vv. 1,21-23 Paolo parla dei tre argomenti che nella lettera svilupperà in ordine inverso:
Prima prova: La lotta di Paolo per il Vangelo (1,24-2,5)
1,24-2,3: Dopo gli anticipi cristologici dell’esordio, ci si aspetterebbe che Paolo parli del Cristo, e invece Paolo sorprendentemente parla delle sue fatiche apostoliche: egli soffre nella sua carne e lotta, per annunciare ad ogni uomo il mystèrion
Tutto questo ha una funzione retorica: le sofferenze e le lotte di Paolo sono come una prova tratta dai fatti (= narratio). Provano quanto grande sia il valore del Vangelo che Paolo annuncia: «Se Paolo sostiene una tale lotta, se passa attraverso tali tribolazioni, non è forse perché ne va del Vangelo e della sua capacità di strutturare l’esistenza dei suoi destinatari?
2,4-5: poi, «viene detto qual è l’urgenza della lotta di Paolo: perché a Colosse la verità del Vangelo è minacciata» (ALETTI, Colossesi, 119).
Seconda argomentazione: i Colossesi devono essere fedeli al Vangelo (2,6-23)
[Con la seconda argomentazione, dunque, Paolo cerca
di affrontare l’alternativa davanti alla quale si trovano i
Colossesi, e di orientare la loro scelta nel senso di restare fedeli al
Vangelo ricevuto. Il punto in discussione è a chi o a che cosa
sentirsi legato e sottomesso: agli elementi del mondo (probabilmente i
cibi e le bevande di cui si parla al v. 2,16.21), o al Cristo? lui che
ha la pienezza e la comunica ai credenti, così che essi, da lui
già fatti risorgere, in lui hanno già ricevuto tutto
così che non hanno bisogno di dedicarsi ad alcuna di quelle
pratiche ascetiche o cultuali che vengono loro suggerite, né di
sentirsi soggetti alle Potenze.]
Terza argomentazione: L’adesione al Cristo va espressa in
tutta l’esistenza (3,1-4,6)
Dopo aver detto ai Colossesi che devono respingere le pressione dei maestri eterodossi, Paolo estende l’esortazione a tutte le dimensioni dell’esistenza cristiana: il motivo è che il Cristo ha invaso e coinvolto tutta la vita cristiana. L’ ουν che introduce la parte esortativa anche qui rivela il collegamento che c’è tra il credere e il vivere. Non è solo questione di derivazione (ciò che si crede determina il come si vive), ma anche di inevitabile irradiazione: nel modo di vivere non può non manifestarsi ciò che si è ricevuto e ciò che si è diventati.
Conclusione epistolare: Notizie e saluti (4,7-18)
Notizie su Tichico e Onesimo (4,7-9) probabilmente latori della lettera; saluti dei collaboratori di Paolo: Aristarco, Marco, Gesù Giusto, Epafra, Luca, Dema (4,7-14); saluti di Paolo ai Laodicesi con cui i Colossesi devono scambiarsi le relative lettere e messaggio per Archippo (4,15-17). Saluto autografo (4,18a) e augurio finale (4,18b).
Per molte versioni e commentatori Col 1,24 sembra
affermare che le sofferenze affrontate dal Cristo per la Chiesa siano
incomplete e che Paolo debba aggiungere ad esse qualche cosa. Cf. la
versione CEI («… completo nella mia carne quello che manca
ai patimenti di Cristo», e di “The Jerusalem Bible”
(London 1967): «It makes me happy … in my own body to do
what I can to make up all that has still to be undergone by Christ for
the sake of his body, the Church». – Per Aletti la chiave
di soluzione è nella fedeltà all’ordine delle
parole del testo greco: bisogna dunque collegare sia «nella mia
carne / εν τη σαρκι
μου», sia «per la chiesa» sempre
con le sofferenze di Paolo. In altre parole, nel versetto che dice:
ανταπληρω τα
υστερηματα
των θλιψεων
του Χριστου
εν τη σαρκι
μου υπερ
του σωματος
αυτου ο
εστιν η
εκκλησια, le sofferenze
incomplete sono quelle che Paolo soffre, e che egli soffre nella sua
carne. In altre parole ancora, l’interpretazione di Aletti chiede
di intendere il του
Χριστου come un genitivo
aggettivale: il genitivo non è un genitivo soggettivo (Le
sofferenze che Cristo soffre), ma le sofferenze cristologiche: simili a
quelle del Cristo, sofferente per lui, con la forza che egli comunica
ogni giorno a Paolo.
«Le sofferenze del Cristo sono oramai finite: Col insiste troppo
sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo
glorificato, al quale non manca niente, per poterla dimenticare. Non
dice né che il Cristo non abbia compiuto tutto ciò che
doveva compiere, né che non abbia sofferto abbastanza,
così che l’apostolo debba portare a compimento le
sofferenze redentrici per la chiesa, perché allora la mediazione
del Cristo non sarebbe perfetta, mentre la lettera continuamente dire
il contrario. Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve
condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama
“tribolazioni del Cristo nella mia carne”, e che riproduce
quello del Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire mediante e per
l’annuncio del vangelo e per la Chiesa (…).
L’apostolo non intende dire che egli aggiunge qualcos’altro
all’opera mediatrice e salvifica del Cristo, perché tutta
la lettera ricorda ai Colossesi che c’è un solo
mediatore» (ALETTI, Colossesi, 122)
μηδεις υμας
καταβραβευετω
θελων εν ταπεινοφροσυνη
και θρεσκεια
των αγγελων α εωρακεν
εμβατευωνPoiché i
termini βραβευς e βραβειον,
imparentati con κατα-βραβευειν
significano “arbitro” e rispettivamente “premio assegnato
dall’arbitro”, si deve pensare che quello di Col 2,18 sia un contesto
di rivalità: alcuni credenti, come se fossero i giudici in materia di
vita cristiana e come se si trattasse di una gara, giudicano gli altri inferiori
in base alla pratica o alla non-pratica di certe regole alimentari e cultuali.
– Pur professando di cercare l’umiltà (εν ταπεινοφροσυνη),
contemporaneamente e contraddittoriamente, quelle persone vanno in cerca di
(θελων εν) qualcosa che invece li distingue
e li dovrebbe mettere al di sopra degli altri. Una prima cosa di cui andavano
in cerca era la θρεσκεια των
αγγελων.
Nell’espressione
“θρεσκεια
των
αγγελων” si usava
intendere il genitivo
θρεσκεια
των αγγελων come
un genitivo oggettivo (adorazione degli angeli, nel senso di adorazione
data agli angeli), ma che molti ora si orientano ad intendere come
genitivo soggettivo (adorazione che gli angeli in cielo rendono a Dio).
«L’espressione indica qui, molto probabilmente, che non si
tratta di un culto reso agli angeli (Col avrebbe usato allora i termini
“potenze” “autorità”), ma
dell’adorazione di Dio da parte dei suoi angeli. Certo, molti
commentatori pensano il contrario, per esempio E. Lohse, F.F. Bruce, E.
Schweizer. Ma per un numero crescente di esegeti, per esempio F.O.
Francis, W.A. Weeks, A.J. Blandstra, T.G. Sappington,
l’espressione non rimanda a un culto in onore degli angeli, non
attestato nel giudaismo e nelle comunità cristiane
dell’epoca, ma piuttosto a quello reso dagli angeli stessi
davanti a Dio e contemplato dai visionari di Colosse» (ALETTI, Colossesi,
168, che, circa il desiderio di partecipare al culto reso dagli angeli
a Dio, in nota cita Apoc Sofonia, 4QSirSabb, Apoc Abramo 17; 1QH 11,13;
Asc. Isaia 7,37; 8,17; 9,28.31.33 9,34.37.42).
L’espressione α εωρακεν
εμβατευων veniva interpretata
come se parlasse dei riti di iniziazione delle religioni misteriche (= «…
le cose che ha visto al momento della sua iniziazione»), ma ora si tende
a interpretarla in senso visionario-apocalittico come se dicesse: «…
continuando a scrutare / compiacendosi delle cose che ha veduto nelle sue pretese
visioni».
«Col 2 mostra che queste pratiche dovevano costituire, secondo i
maestri colossesi, un mezzo indispensabile per avere delle visioni, -
in altri termini per essere ammessi al santuario celeste e partecipare
al culto reso dagli angeli. Questo viaggio verso il cielo doveva a sua
volta essere considerato come primizia della salvezza. Non si spiega
altrimenti l’accentuazione posta da Col
sull’essere-con-Cristo di ogni battezzato fin d’ora e senza
visione, precisamente per dire il contrario di ciò che dicevano
i maestri colossesi. Se abbiamo già ricevuto tutto in Cristo,
perché abbandonarsi a pratiche che si ritiene favoriscano e
preparino la comunione con Dio, ma che in realtà negano gli
effetti già presenti della mediazione del Cristo?»
(ALETTI, Colossesi, 180-181)
L’eresia che stava infiltrandosi nella chiesa di Colosse non è descritta nella lettera ed è quindi da dedurre dalla risposta di Paolo: cosa difficile perché, fra l’altro, tra quelli che si possono chiamare i “maestri colossesi” e la nostra lettera ci sono le mediazioni di Epafra (potrebbe aver inteso il fenomeno a modo suo) e di Paolo: tra l’altro non si sa se nella lettera Paolo usi la terminologia della setta o una sua terminologia. – Quello dei maestri di Colosse sembra essere stato un tentativo non di sostituire il Vangelo di Cristo, ma di integrarlo con elementi giudaici (la lettera infatti parla di celebrazione di sabati e feste, 2,16; e di circoncisione, 2,11) e, secondo parecchi commentatori, anche con elementi pagani. Si trattava dunque di un movimento sincretistico, probabilmente esteso anche al di là della cittadina di Colosse.
L’eresia aveva una sua dottrina anche
se di essa si riesce a ricostruire poco sia per la scarsezza dei dati
forniti dalla lettera, sia per la difficoltà dei testi che ad
essa sembrano alludere. Sembra che secondo essa la mediazione tra Dio,
il cosmo e il mondo umano fosse condizionata da Potenze, Principati,
ecc. Esseri celesti superiori all’uomo avevano in
quell’insegnamento un ruolo importante forse
nell’introdurre all’adorazione celeste e nel far conoscere
i disegni divini, nel farli eseguire, e nel punire i trasgressori. Non
si comprenderebbe altrimenti il modo in cui Col 1,15-20 e Col 2,9.15
sottolineano il primato del Cristo a scapito degli esseri celesti.
– È chiaro che l’autore di Col ha percepito i
pericoli di una tale dottrina per la cristologia e di conseguenza per
la soteriologia. Non si può, a partire da Col, dire se i maestri
dichiarassero il Cristo inferiore alle potenze o, al contrario, lo
ponessero al di sopra. Si può pensare che, anche dopo la
resurrezione, il Cristo avesse una gloria inferiore alla loro,
perché gloria di un uomo, di un essere corporeo, e perché
le potenze spirituali erano da sempre davanti al trono divino. O
potevano magari ammettere il primato del Cristo, ma lasciare agli
Esseri celesti un potere residuo, senza rendersi conto che ciò
intaccava la mediazione salvifica del Cristo» (ALETTI, Colossesi,
179-180).
I maestri colossesi insegnavano, poi, una prassi ascetica e
cultuale che, secondo loro, consentiva negativamente di neutralizzare
la minaccia rappresentata dal giudizio attuato da quelle Potenze, e
positivamente di entrare in comunione con loro e con il loro culto
celeste, attraverso visioni. A tutto questo erano finalizzati riti di
purificazione, osservanze di tabù («… perché
lasciarvi imporre comandamenti come: ‘Non prendere!’,
‘Non gustare!’, ‘Non toccare!’» (2,21), o
astinenze («Nessuno vi condanni più in fatto di cibo o di
bevanda…»), o festività («…o riguardo
a feste, noviluni e a sabati», 2,16). I termini con cui Paolo
chiama queste cose sono:
φιλοσοφια, 2,8 (=
speculazioni dogmatiche);
θρησκεια των
αγγελων 2,18 (= culto degli
angeli); α εορακεν
εμβατευων 2,18 (=
esperienze estatiche?); εν
αφειδια
σωματος, 2,23 (=
austerità corporale).
Quando si cerca di delineare i contorni della dottrina combattuta in Col cominciano le difficoltà: il carattere generico ed ellittico del vocabolario rende difficile stabilire l’origine e la natura della “filosofia” colossese.
«L’ambiente vitale delle pratiche ascetiche e del culto degli angeli di cui parla Col 2 è chiaramente giudaico, e più probabilmente apocalittico. Ciò non significa che i maestri fossero di origine giudaica o cristiani giudaizzanti, anzitutto perché in Col è del tutto assente la problematica della legge» Cf. ALETTI, Colossesi 16-22; 179-181.
La dottrina dei maestri colossesi portava, in pratica, a negare il ruolo unico del Cristo sia nella creazione che nella redenzione. Non bastava affermare che egli era il più grande dei mediatori, e bisognava invece rivendicare, insieme al primato, anche l’unicità. – Ma, anzitutto Paolo sottopone a critica la dottrina e la prassi dei sincretisti: si tratta di insegnamenti umani (2,8.22) che porterebbero i Colossesi indietro («…come se viveste ancora nel mondo», 2,20) e che non servono se non a soddisfare la carne (= l’uomo non redento) (2,23). In ogni caso si tratta di cose destinate a scomparire (2,22): sono l’ombra, mentre solo il Cristo è la realtà (2,17).
Paolo, poi, afferma con fermezza che la pienezza
della divinità non è da spartire tra molti mediatori, ma
è tutta nel Cristo. Cf. 1,19: «Piacque a Dio di fare
abitare in lui tutta la pienezza
(πληρωμα)»; e 2,9:
«È nel Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza
della divinità». Gli Angeli e le Potenze sono stati da Lui
vinti, privati della loro forza e portati dietro di sé, nel suo
corteo trionfale, come principi ridotti in servitù (2,15), e di
essi ora Egli è il Capo
(κεφαλη, 2,10).
Paolo dunque afferma l’assoluta unicità del Cristo. Come
preesistente, il Cristo è mediatore della creazione (1,15-16);
come crocefisso, risorto e glorificato è autore, attraverso il
suo sangue, di riconciliazione (1,20) e redenzione universale: per
tutto, per quello che è sulla terra e per quello che è
nei cieli (1,20). Egli è dunque Capo del cosmo (2,10) e della
chiesa suo corpo (1,18.24). Da un tale Capo «tutto il corpo
riceve sostentamento e coesione», (2,19). Coloro che sono stati
circoncisi con la circoncisione fatta non da mano umana e che sono
morti con il Cristo nel battesimo, sono stati liberati dalle Potenze
(2,11.12; 2,20). Ora dunque non debbono sottomettersi a quelle Potenze,
ma restare stretti al Cristo, loro capo (2,18-19).
Per Col chi nel battesimo è morto con il
Cristo, con lui è anche già risorto (2,12). E chi
è risorto con il Cristo non pensa alle cose della terra, ma a
quelle «di lassù» (3,1-3). – In queste
affermazioni di Col devono essere notate due particolarità: (a)
la formulazione spaziale dell’escatologia
(‘quaggiù’ significa ‘non-escatologico’;
‘lassù’ significa ‘escatologico’),
più che temporale (‘questo tempo’ =
non-escatologico; il tempo che sarà inaugurato dalla
parusìa = escatologico); (b) la sottolineatura del
‘già’, più che quella del ‘non
ancora’. Secondo altre lettere paoline infatti il credente per
ora partecipa totalmente solo alla morte del Cristo. In Rm 6,3, per
esempio, il battezzato è soltanto morto con Cristo, non anche
“già” risorto, se non nella dimensione etica,
dovendo camminare in novità di vita.
La differenza tra Col secondo cui il battezzato è
“già” risorto con Cristo mentre per Rm 6 non lo
è ancora, è richiesta dalla logica del discorso: contro
chi va in cerca di visioni e di liturgie celesti, all’Autore di
Col conviene appunto accentuare il “già”, per dire
che il battezzato ha tutto nel Cristo e non ha bisogno di andare in
cerca di surrogati. Per il resto, «chiaramente l’autore non
intende dire che i credenti hanno già il corpo glorioso che la
resurrezione assicurerà loro alla fine dei tempi; d’altra
parte anche Col distingue tra il “già” e la
manifestazione finale dove i credenti saranno nella gloria con il loro
salvatore» (ALETTI, Colossesi, 150)
Ciò che colpisce è la ripetizione in Col 2-4 del termine μυστηριον che sostituisce, sembra senza alcuna ragione, quello di Vangelo che ricorreva in 1,5 e 1,23. – Tra l’altro per la notificazione del ‘mistero’ viene usato il verbo φανεροω (manifestare) e non il vocabolario della rivelazione (αποκαλυπτω, αποκαλυψις), che invece ricorre nel parallelo di Ef 3,3.5 («… per rivelazione / κατα αποκαλυψιν, mi è stato fatto conoscere il mistero di cui più sopra vi ho scritto brevemente (…). Questo mistero non è stato fatto conoscere agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato / απεκαλυφθη, ai suoi santi apostoli e profeti ecc.»). Dopotutto, senza rivelazione, nessuno può conoscere i misteri divini. – Probabilmente αποκαλυψις è un termine evitato perché i maestri colossesi inducevano a desiderare le visioni e le rivelazioni, e la lettera vuole dimostrare che le visioni sono inutili, poiché al momento del battesimo i credenti hanno già ricevuto tutto (ALETTI, Colossesi, 119, 125-126).
Gli elementi che configurano il mistero sono: i. la
manifestazione a Paolo (e agli altri apostoli); ii. l’annuncio
che comporta un lungo processo perché è fatto di
esortazioni e di istruzioni (…); iii. l’oggetto
dell’annuncio che è il Cristo e non una verità
astratta; iv. l’universalità dei destinatari senza riserve
né discriminazioni, anche se il mistero è annunciato
soprattutto ai non-giudei,; v. il fine salvifico detto in termini di
perfezionamento (per rendere perfetto…), e vi. un elemento
sorprendente: fino a Gesù ad alcuni era tenuto nascosto, ora
invece è rivolto a tutti i popoli.
Il mistero, non solo è annunciato alle nazioni che non lo
attendevano, ma resterà tra di loro come le rivelazioni
anticotestamentarie erano rimaste in Israele. Col adopera il linguaggio
che per il futuro e per un pagano viene usato in Dan 2,29-30: «O
re [= Nabucodonosor], i pensieri che ti sono venuti in mente riguardano
il futuro e Colui che svela i misteri
(μυστηρια) ha voluto svelarti
ciò che dovrà avvenire. Se a me è stato svelato
questo mistero (το
μυστηριον
τουτο), non è perché
ecc.». Mentre però per Dan 2 la manifestazione dei misteri
è attesa per il futuro, in Col mistero designa la morte in croce
del Cristo e la sua resurrezione, che sono nel passato. Poi come in Rm
11,25; 1Cor 2,1.7; 4,1; 13,2; 14,2; 15,51, “mistero”
è rivelazione di ciò che non è stato annunciato
dai profeti, né consegnato nelle Scritture. E questo si applica
precisamente all’inatteso disegno di Dio che ora viene rivelato:
le nazioni sono destinatarie del Vangelo senza che debbano diventare
membra di Israele. Un tale Vangelo non è screditato per il fatto
di non essere predetto nelle Scritture, perché la Scrittura
stessa, con la parola del profeta Daniele, riconosceva che non avrebbe
annunciato tutto quello che riguarda la fine dei tempi, (adattamento da
ALETTI, Colossesi, 135, 137).
L’autenticità della lettera fu negata
la prima volta da E. Mayerhoff nel 1838 che vi trovò una
teologia non-paolina e una battaglia contro eresie del sec. ii d.C., e
ora molti sono gli autori secondo i quali Col non è stata
scritta da Paolo.
Argomenti contro l’autenticità sono anzitutto il
vocabolario non-paolino: molti termini di Col non sono mai usati
altrove da Paolo, mentre mancano termini caratteristici di Paolo come
‘giustizia’, ‘giustificazione’,
‘Legge’, ‘libertà’,
‘salvezza’, ‘vanto’, ‘rivelazione’
ecc. W.G. Kümmel, però, fa notare che questo accade anche
in altre lettere certamente autentiche. In secondo luogo, sarebbe
contro l’autenticità lo stile non-paolino: frasi lunghe,
ridonanti, scritte in stile liturgico; cumulo di genitivi, molte frasi
relative, infinitive, participiali; molti sinonimi. – Altrettanto
è da dire della teologia che, anch’essa sarebbe
non-paolina. L’argomento più forte è quello
dell’ampiezza cosmica del ruolo del Cristo: in Col il Cristo non
solo ha redento gli uomini, ma ha vinto anche le Potenze cosmiche, e
del cosmo è divenuto capo. La chiesa, poi, in Col è quasi
esclusivamente pensata come chiesa universale (e non più come
comunità locale), ed è definita come corpo del
Cristo-Capo. L’escatologia, infine, come si è visto, non
è più pensata come futura bensì come presenziale
(= chi è battezzato è già morto e risorto con il
Cristo, 2,12); e non è pensata come escatologia temporale,
bensì spaziale («… cercate le cose di lassù,
non quelle della terra», 3,1ss).
Dagli Annali di Tacito (14, 27,1), secondo cui un terremoto nel 60-61 d.C. distrusse la vicina Laodicea («In quello stesso anno una delle città famose dell’Asia, Laodicea, distrutta dal terremoto, non ebbe bisogno del nostro aiuto [= di Roma], ma si risollevò coi propri mezzi»), si può concludere che anche Colosse sia stata distrutta nel 60-61. E poiché Plinio il Vecchio, descrivendo verso il 70 la valle del Lico non menziona Colosse, se ne può concludere che la città non fu ricostruita subito. – «Questo terremoto è stato utilizzato dalla critica in direzioni opposte, sia per provare l’autenticità di Col, perché allora Paolo dovette scriverla prima della distruzione della città, sia per sostenere il carattere pseudeprigrafico, perché indirizzare una lettera come se venisse da Paolo a una comunità già scomparsa, che non poteva quindi protestare contro la non autenticità, costituisce il metodo migliore per accreditare una lettera come autentica. Potendo, quindi, essere usato nei due sensi, l’argomento del terremoto non è decisivo» (ALETTI, Colossesi, 15). Tuttavia, se l’argomento del terremoto ha valore (non necessariamente fu distrutta anche Colosse dal terremoto che distrusse Laodicea), è a favore dell’autenticità con più naturalezza che non per la tesi della non autenticità.
Non Paolo, ma un discepolo di Paolo ha scritto Col, per combattere una nuova dottrina che si stava diffondendo in epoca successiva alla morte di Paolo. Quel discepolo si è richiamato all’autorità di Paolo e ha preso dalla lettera a Filemone i nomi di Epafra, Aristarco, Marco, Luca, Dema, e soprattutto quelli di Archippo (cf. Col 4,17, con Flm 2) e di Onesimo (cf. Col 4,9, con Flm 12).
Una reale lettera di Paolo sarebbe stata rielaborata più tardi in funzione antieretica ad opera per esempio dell’autore tardivo della lettera agli Efesini, la quale infatti ha molti versetti in comune con quella ai Colossesi. Oppure Paolo avrebbe incaricato di scrivere la lettera un segretario il quale ha segnato la lettera col suo proprio stile, il suo vocabolario preferito, la sua teologia. In quest’ultimo caso la lettera sarebbe contemporanea a Paolo e da lui ispirata e voluta.
Il linguaggio non sarebbe non-paolino, ma
rivelerebbe il tentativo fatto da Paolo di combattere gli eretici con
le loro stesse armi e il loro stesso linguaggio. L’eresia
colossese avrebbe costituito per Paolo uno stimolo per indagare
ulteriormente il mistero di Cristo e della chiesa, e questo
spiegherebbe l’evoluzione teologica di Col rispetto alle altre
lettere. D’altra parte nelle altre lettere ci sono le premesse
per gli sviluppi di Col, sia nel campo cristologico (ruolo cosmico del
Cristo in 1Cor 8,6; Fil 2,9-11; menzione delle Potenze cosmiche in Gal
4,3.9, e 1Cor 2,8), sia nel campo ecclesiologico (la chiesa è
detta ‘corpo’ in Rm 12,4s, 1Cor 12,12ss; ‘corpo di
Cristo’ in 1Cor 12,27), sia nel campo escatologico (anche in Col
c’è escatologia futura, cf. 3,4: «Quando il Cristo
si manifesterà, allora anche voi sarete manifestati con lui
nella gloria»; e quindi c’è escatologia temporale e
non solo spaziale).
A favore della paolinicità di Col sta per esempio la strategia
retorica di Col: i problemi della comunità cui viene rivolta la
lettera sono bensì affrontati, ma l’Autore tende ad
allargare la prospettiva del discorso, per sottrarre la discussione al
contingente, per dare una risposta totalizzante, sottraendosi alla pura
polemica e approfittando per proporre una catechesi positiva.
«Paolo si preoccupa poco di sviluppare e di entrare nella
mentalità di coloro che professano idee da lui giudicate nocive
(…). Descrive in modo abbastanza sfumato o schematizzato
l’errore che stigmatizza (…). L’apostolo cerca
sempre di ampliare il dibattito, perché le sue osservazioni
possano applicarsi a parecchie situazioni e ambienti di vita. Dunque a
livello retorico, l’ipotesi pseudepigrafica resta fragile per
Col, dove il modo di ragionare è tipicamente paolino»
«L’incapacità in cui si trovano i critici di
ricostruire esattamente lo sfondo religioso e culturale
dell’errore dipende meno dalla loro mancanza di sagacia che dal
modo in cui procede l’autore, il quale amplia il campo delle sue
osservazioni perché possano valere in situazioni diverse.
È per motivi retorici che l’autore resta discreto
sull’origine o l’ambiente dell’errore che
combatte»; «La maniera in cui l’autore amplia senza
sosta i problemi per renderli universali spiega anche perché sia
difficile ed esegeticamente poco interessante ricostruire con esattezza
l’ambiente vitale dell’‘eresia’ nata o
trapianta a Colosse» (ALETTI, Colossesi, 177, 179, e 231)
Una variante di questa opinione è quella secondo cui, prima di
scrivere una lettera, Paolo ne discuteva la disposizione e il contenuto
con i suoi collaboratori. Poi magari affidava a qualcuno il compito di
farne la stesura (E. Schweizer, W.H. Ollrog, J.-N. Aletti). La
novità di situazioni e di problemi posti dalla chiesa di Colosse
da una parte, e l’ipotesi di un’elaborazione collettiva di
Col dall’altra, spiegherebbero gli elementi nuovi ed inconsueti
della lettera. «Essendosi evoluta in questi ultimi anni la nostra
comprensione dell’autenticità, si può non solo
affermare che la lettera è paolina ma che, molto probabilmente,
è di Paolo» (ALETTI, Colossesi, 234)
Siccome Paolo dice di essere in catene (4,3.18) si
pone il problema della città in cui Paolo era carcerato quando
scrisse (La questione accomuna le quattro lettere ‘della
prigionia’ che sono: Col, Fil, Flm, Ef). – Per Col si sono
fatte, come per Fil, le ipotesi di Cesarea di Palestina (data = 58-60,
e di Roma (data = 61-63): per tali due città l’argomento
principale in contrario è quello della lontananza da Colosse per
cui non si spiegano bene i viaggi fatti o quelli messi in programma. Si
è fatta, infine, l’ipotesi di Efeso, con le
difficoltà che una prigionia efesina non è documentata, e
che Col è troppo diversa da 1-2 Cor, da Rm, e da Gal che furono
scritte appunto da Efeso.
Se si accetta la non-autenticità di Col, la prigionia di Paolo
sarebbe fittizia e non sarebbe quindi da spiegare. La data dovrebbe
essere posta tra 80 e 100 d.C., prima della composizione della lettera
agli Efesini.
Commentari
E. LOHMEYER (1928), C. MASSON (1950), M. DIBELIUS - H. GREEVEN (31953),
P. BENOIT (1959), F. MUSSNER (1966), N. HUGEDÉ (1968), E. LOHSE
(1971, it 1979), J. ERNST (1974), E. SCHWEIZER (1976), G.B. CAIRD
(1976), H. CONZELMANN (1976), J. GNILKA (1980), A. LINDEMANN (1983),
F.F-. BRUCE (1984), R. FABRIS (21990), M.J. HARRIS (1991),
J.-N. ALETTI (1993, it 1994).
Monografie
J. Knox (Philemon among the Letters of Paul, Chicago 1935), seguito per esempio da H. Greeven (Theologische Literaturzeitung 1954, 373-378), P. Harrison (Anglican Theological Review, 1950, 268-274), S. Winter (New Testament Studies 1987, 1-15), e soprattutto da L. Cope (Biblical Research 1985, 45-50), ha sostenuto che destinatario della lettera è l’Archippo menzionato al v. 2 e in Col 4,17. – Cope ripropone la tesi di Knox in questi termini: «In favor of Philemon (= come padrone di Onesimo) is the natural presumption that the first person mentioned in the address is the subject of the content of the letter. That is the only foundation for the Philemon hypothesis. In favor of Archippus, however, stand three factors. Grammatically, Archippus is the correct antecedent for the singular pronoun “you”; and no other indication suggestions a reason for suspension of the rule. Second, the connection with Col 4,17-17 suggests that not only the company with Paul, but also now the Colossians know of a diakonia that Archippus is called to perform. In the only other reference to Archippus that we know of, Philemon, there is a barely veiled request for the freeing of Onesimus. And finally, the situation presupposed in Philemon is that the letter is to be read to the house church by the beloved fellow worker, Philemon. It is at least more likely that Archippus owns that house, and some slaves, than that one of Paul’s fellow Christian worker does». Interessante è quanto Cope aggiunge: «If the slave owner were Philemon, nothing keeps Philemon from destroying the letter and punishing Onesimus. Only if the letter to Philemon is read to the slave owner’s house church and is also read to the Colossians, is the pressure effectively raised» (COPE, «On Rethinking the Philemon-Colossians Connection», 47).
La lettura più ovvia della lettera
però vuole che proprietario dello schiavo Onesimo sia Filemone.
L’origine colossese di Filemone si ricava dal fatto che Archippo
(Flm 2) è di Colosse, essendo menzionato in Col 4,17, e dal
fatto che di Onesimo, personaggio centrale della lettera (Flm 11), si
dice in Col 4,9: «… che è dei vostri», e dal
fatto che, in Flm 23, Paolo manda saluti a Filemone da parte di Epafra,
nominato in Col come principale collaboratore di Paolo a Colosse. Come
colossese, Filemone potrebbe essere sconosciuto di persona a Paolo (cf.
Col 2,1), ma è possibile che gli sia noto perché potrebbe
essere stato convertito alla fede da Paolo a Efeso. – Nella casa
di Filemone si raduna la comunità locale (v. 2). Poiché
la lettera, oltre che a Flm, è indirizzata anche a quella
comunità, e poiché Paolo dice a Filemone che potrebbe far
uso della sua autorità apostolica anche se non lo fa (v. 8),
anche questa lettera non è privata, ma
ecclesiale-apostolica. Quanto ad Appia (o Apfia) e Archippo, fin
dall’antichità sono stati ritenuti moglie e figlio di
Filemone (così pensava Teodoro di Mopsuestia), ma tale rapporto
non è dimostrabile.
Di particolare interesse è il collegamento tra questa lettera e
Col: in tutte e due le lettere sono menzionati: Epafra, Aristarco,
Marco, Luca, Dema, Archippo e Onesimo. Se Col è autentica,
bisogna concludere che Col e Flm sono state scritte insieme e mandate a
Colosse attraverso Tichico e Onesimo, come è detto in Col 4,7-10.
Prescritto (vv. 1-3)
Ringraziamento (vv. 4-7)
Paolo ringrazia Dio per la fede e la carità di Filemone che sono stati a lui di conforto.
Paolo, Onesimo e Filemone (vv. 8-21)
La questione di Onesimo di cui tratta la lettera è duplice:
Soluzione prospettata da Paolo, e suoi programmi: Onesimo da qualche tempo si trova presso Paolo, e Paolo lo ha conquistato alla fede. Pur potendo trattenere Onesimo per la propria utilità, Paolo lo rimanda però a Filemone. Egli lo deve accogliere non più come schiavo, ma come suo (= di Paolo) cuore (σπλαγχνα, = viscere di amore), e come fratello nel Signore (v. 16).
Poi, Paolo, che è in carcere (vv. 1.9.10.13), evidentemente convinto di esser presto liberato, prenota un alloggio in casa di Filemone: «Preparami un alloggio perché spero, grazie alle vostre preghiere, di esservi restituito», (v. 22).
Saluti per Filemone da parte dei collaboratori,
(vv. 23-24)
Augurio finale, (v. 25)
Tutta la lettera è autografa, (v. 19)
F.F. CHURCH, «Rhetorical Structure» (1978), identifica come parti retoriche di Flm: Esordio (vv. 4-7), probatio (vv. 8-16); peroratio (vv. 17-22); e invece A. PITTA: (1995): Prescritto (vv. 1-3), Esordio (vv. 4-9); propositio (v. 10); probationes (vv. 11-18); peroratio (vv. 19-20), Postscritto (vv. 21-25).
B.M. Rapske (New Testament Studies 1991) elenca sei possibili ricostruzioni della vicenda di Onesimo nei confronti sia di Paolo che del suo padrone, ma è sufficiente riferire tre ipotesi.
La terza ipotesi è quella dell’“amicus domini”.
Per questa terza ipotesi, Onesimo è fuggito
ma nella sua intenzione e anche per la legge romana non è un
‘fugitivus’. È fuggito in cerca di un protettore (=
‘amicus domini’, ‘amico del padrone’) che lo
aiuti a tornare e a essere ri-accettato senza essere sottoposto alle
sanzioni prevedibili per il danno recato al padrone. In altre parole
Onesimo, dopo aver fatto un grave torto al padrone, temendo di essere
punito, è ricorso a Paolo perché, in qualità di
‘amico del padrone’, interceda a suo favore. Quanto al
danno economico, Paolo dice che pagherà lui di sua tasca; quanto
poi alla richiesta di Onesimo che Paolo faccia da intermediario tra lui
e il suo padrone, Paolo la accetta in pieno e di fatto con la lettera
che scrive si mette in quel ruolo, esercitando a favore di Onesimo la
sua autorità e autorevolezza. Questo costume giuridico è
attestato nel sec. i d.C. per esempio dal giurista Proculo il quale
scrive: «Qui ad amicum domini deprecaturus confugit non est
fugitivus - Non è fugitivus chi ricorre a un amico e lo prega di
far da mediatore presso il suo padrone».
L’ipotesi dell’ “amico del padrone” spiega in
modo soddisfacente sia il danno di cui parla il v. 18, sia la
‘separazione’ di cui parla il v. 15, sia l’incontro,
ricercato da Onesimo fin dal principio, tra lui e Paolo. –
L’ipotesi dell’«amicus domini» è stata
fatta da P. LAMPE, «Keine Sklavenflucht des Onesimus», in Zeitschrift
für die Neutestamentliche Wissenschaft 76 (1985), 135-137; ed
è stata accolta prontamente per esempio da: B.M. RAPSKE,
«The prisoner Paul in the eyes of Onesimus», in New
Testament Studies 37 (1991), 187-203; S.S. BARTCHY,
«Philemon, Epistle to», in Anchor Bible Dictionary,
V, 305-310.
Siccome Paolo è in carcere, e siccome Flm non può non essere messa in rapporto con Col, la lettera può essere stata scritta a Cesarea, o Roma. Le ragioni contrarie a queste soluzioni sono le solite: Cesarea e Roma sono troppo lontane; Paolo prenota un alloggio! e, per quanto riguarda Roma, egli rinuncerebbe al viaggio in Spagna. – Resta l’ipotesi di Efeso, che non è distante da Colosse (solo 180 Km), ma non è documentata alcuna prigionia efesina, e Col dovrebbe essere posteriore a 1-2 Cor, Rm, Gal.
Alcuni autori (Overbeck, 1875; Kehnscherper, 1957; Schulz, 1972, ecc.) rimproverano a Paolo di non avere lottato per l’abolizione della schiavitù. – L’accusa probabilmente ha senso solo per noi: per i tempi di Paolo era anacronistica, come oggi sarebbe impossibile pensare di abolire il lavoro dipendente che pone il lavoratore al di sotto del datore di lavoro. Per altri, Paolo attendeva come imminente la parusìa: di conseguenza non ha molto senso per lui fare progetti per rabberciare questo mondo che non ha futuro. Ma, soprattutto, Paolo è interessato non a discutere-riformare-abolire la schiavitù, bensì a costruire la ‘fratellanza nel Signore’: «… non più però come schiavo, ma molto più che schiavo: come un fratello carissimo in primo luogo a me. Ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore», (v. 16). – La fratellanza cristiana non abolisce i legami giuridici, e tuttavia nella casa cristiana di Filemone cambia realmente i rapporti anche sociali. Cf. Gal 3,28: «… non c’è più schiavo né libero».
«Che alla critica sia venuto in mente di mettere in questione l’autenticità di queste ingenue righe, dimostra soltanto che proprio essa (= la critica) non è autentica» (E. REUSS, 61887, citato da KUSS, Paolo, 272, nota 316). – Flm è «Un chef d’oeuvre de la littérature universelle», (P. Benoit, in DBSuppl); «One of the most skilful letters even written», (J. Knox); «A gem unique», (P.N. Harrison); «Infinitely precious», (R.H. Lightfoot).
Commentari
P. BENOIT (1959), H.M. CARSON (1960), E. LOHSE (1968, it 1979), J.
ERNST (1974), P. STUHLMACHER (1975), G. FRIEDRICH (141976),
G.B. CAIRD (1976), R. LEHMANN (1978), A. SUHL (1981), J. GNILKA (1982),
J.F. COLLANGE (1987), M. SORDI (1987), A. PITTA (1995).
Monografie
La lettera agli Efesini è stata definita “il più grande documento ecumenico del NT”, “il documento ecumenico per eccellenza” (G. JOHNSTON, «Ephesians, letter to the», in IDB, II, Nashville, TN, 1962, 108, 111). È infatti la lettera del muro abbattuto: «Egli [= il Cristo] è la nostra pace, lui che ha fatto dei due un (popolo) solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo» (2,14). È per questo che la lettera, «in tempi di crescente dialogo ecumenico, non corre rischi di essere dimenticata» (G. Johnston, 112). Efesini è in ogni caso uno dei maggiori documenti del NT, soprattutto per la sua ecclesiologia, e uno studioso protestante a ragione lamenta che la teologia protestante abbia oscurato Ef mettendo eccessiva enfasi sulle lettere ai Galati e ai Romani (M. BARTH, Ephesians, I, Garden City, NY, 1974, 3). – Ma, come è noto, non è per nulla accertato a chi sia rivolto il discorso ecumenico del muro abbattuto.
L’intestazione “(Lettera) agli Efesini, Προς
Εφεσιους” non è
dell’autore bensì di coloro che, tra il primo e il secondo secolo,
riunirono in raccolte omogenee gli scritti del NT e, per distinguere un rotolo
dall’altro nei loro scaffali, scrissero sul dorso esterno dei rotoli i
titoli appropriati. L’intestazione “Agli Efesini” è
in tutti i manoscritti che contengono la lettera, il più antico dei quali
è il papiro 46 (= P46, circa 200 d.C.) ma, ancora prima di
quella data, il canone Muratoriano (180 d.C.), Ireneo (180 d.C.), e Tertulliano
(200 d.C.) ecc., sono convinti della destinazione efesina della lettera.
Se la tradizione ecclesiastica più antica cui possiamo risalire ritiene
che questa lettera sia destinata a Efeso, il testo stesso della lettera è
molto più problematico. L’indicazione locale “in Efeso, εν
Εφεσω” nel testo del prescritto manca
in tutti i manoscritti fino al sec. iv: manca per esempio nel P46,
nei codici maiuscoli Vaticano e Sinaitico (sec. iv), e manca poi in Tertulliano,
Origene, e in Basilio il quale dice esplicitamente: «Così ci hanno
trasmesso i nostri antecessori e così abbiamo trovato nei manoscritti
antichi» (PG 29, 612-613). “In Efeso” si trova invece nella
grande maggioranza dei manoscritti più recenti, in particolare nel codice
alessandrino (sec. v, conservato a Londra), nel codice D (sec. vi, conservato
a Parigi), nei codici maiuscoli F, G, 0278, nei minuscoli 33, 1881…,
nelle versioni latine, siriache, copte, e poi in Giovanni Crisostomo (PG 62,
9), ecc.
L’indirizzo, dunque, così come compare nei manoscritti
più antichi della lettera, dice stranamente e in modo
sgrammaticato: «… ai santi che sono e fedeli…
». Si è cercato di emendare il testo in vario modo,
sostituendo o inserendo per esempio: «… agli Ionii»
(W.C. Shearer, 1882); «… ai Laodicesi» (A. von
Harnack, 1910); «… ai santi di Asia» (R.A. Batey,
1963); «… ai santi che sono in Gerapoli e in
Laodicea» (A. van Roon, 1974), «… in Colosse»
(N.A. Dahl, 1951). Si è pensato anche che Ef sia una lettera
circolare mandata a più chiese e che le prime copie avessero uno
spazio bianco dopo l’espressione «ai santi che
sono…», per aggiungere questo o quel nome delle alcune
località a cui la lettera sarebbe stata destinata.
I problemi di Ef non si fermano qui, perché
tutta la lettera è per esempio caratterizzata dalla
atemporalità: si presenta cioè come un documento
non legato ad alcuna precisa situazione o chiesa, come invece ci si
aspetterebbe da una lettera e come avviene nelle altre lettere
dell’epistolario paolino.
Le notizie epistolari in Ef si riducono solo a due: (i) Paolo è
in carcere (3,1; 4,1; 6,20). Manca però qualsiasi informazione
che assomigli a quelle delle altre lettere della prigionia: nella
lettera a Filemone per esempio Paolo chiede che gli si prepari una
stanza perché ha fiducia di essere rimesso presto in
libertà (Fm 22), e nella lettera ai Filippesi parla del pretorio
in cui si trova in detenzione, parla dei fratelli che si sono sentiti
incoraggiati dalle sue catene per diffondere il Vangelo,
dell’incertezza sull’esito del processo per cui non sa se
potrà rivedere i Filippesi, ecc. (Fil 1,12-26); (ii) Tichico
è latore della lettera. Ma i vv. che lo riguardano,
sorprendentemente ricalcano alla lettera Col 4,7-8.
Un ulteriore elemento che complica lo studio della
lettera agli Efesini, è proprio la sua somiglianza a volte anche
verbale con quella ai Colossesi: «La parentela letteraria tra Ef
e Col è grandissima: un terzo delle parole di Col si ritrova in
Ef; 73 vv. di Ef su 115 sono in Col; soltanto Ef 2,6-9; 4,5-13; 5,29-33
non hanno parallelo in Col», M. CARREZ, «La lettera agli
Efesini», in A. George - P. Grelot, ed., Introduzione al NT,
III, Roma 1978 (Paris 1977), 155.
Eppure si possono elencare molte differenze teologiche tra le due
lettere. Per esempio: (i) il “mistero” in Col è
rivelato ai santi (1,26) e ha come contenuto il Cristo, ricapitolazione
del cosmo (1,27b-28), mentre in Ef è rivelato solo ad apostoli e
profeti (3,5) e ha come contenuto l’unico uomo nuovo in Cristo,
fatto di giudei e gentili (3,6); (ii) la chiesa, poi, in Col è
radicata e fondata in Cristo (2,7), mentre in Ef lo è sugli
apostoli e sui profeti (2,20); e, infine, (iii) il ‘munus’
apostolico di Paolo in Col è di annunciare il Vangelo ai pagani
(1,27), mentre in Ef è quello di annunciare l’unificazione
nel Cristo di giudei e gentili (3,2-12). – La dipendenza,
probabilmente indiretta, tra le due lettere è dunque innegabile,
e tuttavia esse sembrano essere non-contemporanee.
Per tutti questi risvolti misteriosi di Ef, almeno tre commentatori hanno significativamente messo nei loro titoli l’espressione: “Il dilemma / enigma, di Ef”, cf. H.J. CADBURY, «The Dilemma of Ephesians», in NTS 5 (1958-1959), 91-102; J.H. ROBERTS, «The Enigma of Ephesians», in Neotestamentica 27 (1993), 93-106; M.-E. BOISMARD, L’énigme de la Lettre aux Ephésiens, Paris 1999. Uno di essi poi aggiunge che «il dilemma di Ef è un problema [su cui] uno ha poca speranza di gettare nuova luce», mentre un ulteriore interprete scrive a sua volta: «Gli studiosi accatastano congetture su congetture» (H.J. Cadbury, 91, e, rispettivamente, V.P. FURNISH, «Ephesians, Letter to the», in ADB, II, New York 1992, 109.)
La lettera è scritta in uno stile solenne e ornato. Le frasi sono di lunghezza insolita: la benedizione iniziale è fatta di un solo interminabile periodo di 12 versetti in cui trovano posto ben 17 proposizioni (1,3-14; ma cf. per esempio anche 4,11-16): molte sono le frasi relative (1,6.7.8; 2,2.3), participiali (2,14-16; 4,18-19), o infinitive (4,22-24). L’autore ama accumulare sinonimi, espressioni tautologiche, aggettivi, o costruire catene di genitivi: «… il piano della sua volontà» (1,11); «.. uno spirito di sapienza e di rivelazione nella conoscenza di lui, essendo gli occhi della vostra mente stati illuminati per conoscere…» (1,17-18); «… la grandezza della sua potenza … secondo l’energia del potere della sua forza» (1,19); «… noi tutti una volta vivevamo nelle passioni della carne, seguendo le brame del corpo e della mente» (2,3); «… lo spirito della vostra mente» (4,23); «rafforzatevi nella forza della sua potenza» (6,10). – Il pensiero si sviluppa lentamente in lunghe frasi che procedono appesantite da parentesi e da pleonasmi davanti ai quali il lettore non sa se ha letto bene o capito male: «… è un’esposizione d’andamento maestoso, un fiume dai calmi meandri, piuttosto che un torrente impetuoso» (J. HUBY, L’epistola agli Efesini, 125). Anche i sostenitori dell’autenticità della lettera riconoscono che lo stile di Ef è insolito per Paolo.
La divisione della lettera non offre particolari
difficoltà, essendo ben evidenti e ben rimarcati le parti di cui
si compone: il prescritto, una lunga benedizione iniziale, poi la parte
dottrinale e, infine, quella esortativa, cui fanno seguito le poche
notizie finali e i saluti.
Prescritto (1,1-2)
Mittente: Paolo [Nessun collaboratore viene menzionato, né qui né altrove]
Destinatari: i santi e fedeli [“In Efeso” manca nei manoscritti dei primi secoli]
Augurio: grazia e pace.
Benedizione (1,3-14)
La benedizione è divisa in due parti dalla formula: «... tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (v. 10); ognuna delle due parti è divisa dalla formula: «... a lode della sua gloria» (vv. 6; 12; 14).
Formula iniziale (1,3).
Prima strofa: l’elezione e la predestinazione (vv. 4-6). Dio ci ha eletti in Cristo e ci ha predestinati a essere figli «a lode e gloria della sua grazia».
Seconda strofa: l’universale ricapitolazione in Cristo (vv. 7-10). Nel Cristo abbiamo la redenzione che è realizzazione del mistero, «il disegno, cioè, di ricapitolare in Cristo (= Cristo capo cosmico) tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra».
Terza strofa: la chiamata dei giudei in Cristo (vv. 11-12). Nel Cristo sono chiamati i giudei che per primi hanno avuto la speranza messianica, «a lode della sua gloria».
Quarta strofa: la chiamata dei pagani in Cristo (vv. 13-14). I pagani hanno accolto l’annuncio, hanno creduto, e sono stati illuminati [nel battesimo]. Tutti, giudei e pagani, sono «a lode della sua gloria».
I. Parte dottrinale (1,15-3,21)
A. RENDIMENTO DI GRAZIE (1,15-23)
Paolo rende grazie per la fede e l’amore dei suoi interlocutori (vv. 15-16)
Paolo passa poi a intercedere per i destinatari (vv. 17-19): chiede che Dio dia loro la conoscenza della propria chiamata, per cui evoca:
La signoria del Risorto (vv. 20-22): Dio lo ha fatto risorgere da morte, lo ha insediato alla sua destra, e lo ha costituito sopra tutte le cose, capo delle Potenze cosmiche, del cosmo e della Chiesa
La chiesa, corpo del Cristo (v. 23) «la quale è il suo corpo e pienezza».
B. SALVATI PER GRAZIA E NON DALLE PROPRIE OPERE (2,1-10)
Passato di morte di pagani e giudei (vv. 1-3): i gentili un tempo erano morti, soggetti al peccato, al principe delle potenze dell’aria (vv. 1-2), ma anche i giudei erano ribelli e meritevoli dell’ira, come gli altri (v. 3)
Intervento di Dio nel Cristo (vv. 4-7): Dio tutti ha fatto rivivere in Cristo, e con Lui ha già fatto sedere tutti nei cieli
La gratuità della salvezza (vv. 8-10): tutto è grazia, tutto è dato per la fede, non per le opere «perché nessuno possa vantarsene», e tutti sono stati creati in Gesù «per [produrre] le opere buone» (2,10). Con l’insistenza su ‘tutti’ si prepara il discorso sull’unica Chiesa, di 2,11-20.
C. RICONCILIATI IN CRISTO, NOSTRA PACE (2,11-22)
Il passato di marginalità degli etnico-cristiani (vv. 11-12): i pagani un tempo erano senza Messia, esclusi dalla cittadinanza d’Israele e dalla promessa, senza speranza messianica, e senza Dio, ma il Cristo ha compiuto la riconciliazione
«Egli è la nostra pace avendo abbattuto il muro» (vv. 13-18): ma ora in Cristo Gesù, da lontani che erano, sono diventati vicini perché, abbattendo il muro di divisione, annullando cioè la Legge fatta di precetti, da due popoli egli ha fatto un solo popolo, un solo uomo nuovo, e per lui tutti hanno accesso al Padre in un solo Spirito
La nuova situazione degli etnico-cristiani (vv. 19-22): è così che i pagani non sono più stranieri o ospiti, ma sono edificati insieme coi giudei sul fondamento degli apostoli «per essere tempio santo nel Signore» [= tema e testo centrale della lettera: l’unità di pagani e giudei nella Chiesa].
D. IL MUNUS APOSTOLICO DI PAOLO (3,1-21)
Paolo, il carcerato per le genti (v. 1) [la frase è lasciata in sospeso]
Paolo, apostolo delle genti, e il “mistero” (vv. 2-12): a Paolo, l’infimo fra tutti i santi, per rivelazione (= a Damasco) è stato fatto conoscere il mistero «… che, cioè, i gentili sono chiamati in Cristo Gesù a essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo». Quel mistero era nascosto da secoli nella mente di Dio e ora, attraverso il servizio apostolico di Paolo, risplende agli occhi di tutti e soprattutto alle potenze celesti
Paolo prega per i destinatari (vv. 13-19) [la frase lasciata in sospeso in 3,1, è ripresa]: l’Apostolo prega per la crescita dell’uomo nuovo nei destinatari, perché essi possano conoscere la vastità incommensurabile dell’amore di Cristo.
Dossologia (vv. 20-21), che conclude la prima parte della lettera.
II. Parte esortativa (4,1-6,20)
A. VIVERE L’UNITÀ NELL’ACCOGLIENZA VICENDEVOLE (4,1-16)
Accogliersi a vicenda (vv. 1-6): Paolo esorta i suoi lettori a comportarsi secondo la loro vocazione col conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace, accogliendosi a vicenda. Poi elenca, come motivazione fondante, sette realtà che sono “uniche” e sono dunque fondamento e motivo di unità perché sono in comune (tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani): un solo corpo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio, Padre di tutti.
Anche i ministeri sono al servizio dell’unità (vv. 7-16): apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri sono al servizio dei credenti (letteralmente: dei santi) così che ognuno contribuisca all’edificazione dell’unico corpo di Cristo (fatto di giudeo-cristiani e di pagano-cristiani) affinché tutti insieme si raggiunga l’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio
B. DALL’UOMO VECCHIO ALL’UOMO NUOVO (4,17-5,2)
Stile di vita dei pagani (vv. 17-19): Paolo esorta a non comportarsi più come i pagani, i quali «si sono abbandonati a ogni dissolutezza commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile» (cf. Rm 1).
«Deporre l’uomo vecchio, rivestire l’uomo nuovo» (vv. 20-24): Paolo esorta a deporre l’uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e a rivestire invece l’uomo nuovo (cf. Col 3,9-10)
Cosa è conveniente o sconveniente per i santi (vv. 4,25-5,5): esortazioni circa menzogna, ira, furti, parole cattive, asprezza, sdegno, e maldicenza, e soprattutto esortazione a non contristare lo Spirito (v. 30).
C. VIVERE COME FIGLI DELLA LUCE (5,6-20)
Prendere le distanze dai figli della disobbedienza (vv. 6-8a), e dalle loro vuote parole. Piuttosto – dice Paolo –:
«Camminate come figli della luce» (vv. 8b-14), non partecipando alle opere infruttuose delle tenebre, ma contestandole perché, «se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore». Lo dice anche “il grido del risveglio” (= un frammento di inno battesimale?).
Invito alla saggezza e a lodare del Signore (vv. 15-20), con inni, salmi e cantici (cf. Col 3,16).
D. CODICE DI COMPORTAMENTO IN FAMIGLIA (5,21-6,9)
Esortazione alla sottomissione vicendevole (5,21)
Esortazione a mogli e mariti (5,22-33) che si conclude con il famoso testo sul matrimonio quale grande mistero in riferimento a(ll’amore di) Cristo per la Chiesa (5,32-33).
Esortazione a figli e padri (6,1-4)
Esortazione a schiavi e padroni (6,5-9)
E. LA LOTTA E LE ARMI DEL CRISTIANO (6,10-20)
La battaglia del cristiano (vv. 10-13): il cristiano ha bisogno della “panoplìa (= armatura completa) di Dio”, perché la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male
Le armi del cristiano (vv. 14-17): (i) cintura è la verità; (ii) corazza è la giustizia; (iii) calzatura è lo zelo apostolico; (iv) scudo è la fede; (v) elmo è la salvezza, e (vi) spada è la parola di Dio
Esortazione alla preghiera incessante (6,18-20) (da molti considerata come la settima arma della ‘panoplìa’) e alla preghiera per l’Apostolo e per la sua missione.
Notizie e saluti finali (6,21-24)
Notizie epistolari: il compito affidato a Tichico (6,21-22, cf. Col 4,7-8)
e augurio finale di pace e grazia (6,23-24).
La lettura di Ef mette di fronte alla netta
impressione che essa anzitutto non possa essere destinata ai cristiani
di Efeso. Infatti: (i) Paolo, fondatore della comunità efesina e
attivo in essa per circa tre anni (At 20,31, cf. anche 19,10), non
conosce per conoscenza diretta i suoi interlocutori (cf. Ef 1,15 e
4,21); (ii) Paolo non è conosciuto dai destinatari della
lettera, tanto è vero che deve spiegare loro per la prima volta
di essere apostolo dei gentili (cf. Ef 3,2-4); (iii) mentre da At 18-20
risulta che la comunità efesina era mista, composta di
giudeo-cristiani e di gentili, Ef è un documento diretto
esclusivamente a cristiani provenienti dal paganesimo: in molto testi
l’autore usa un “voi” che significa “voi,
provenienti dal paganesimo”, e un “noi” che significa
“io, scrivente, e quanti come me sono provenienti dal
giudaismo” (cf. 2,1-3.11-12.17; 3,1).
Il fatto che l’autore si rivolga a interlocutori etnico-cristiani
esclude non soltanto la destinazione efesina, ma anche una destinazione
ad altre chiese singole, perché Paolo cominciava
l’evangelizzazione dalla sinagoga e, di conseguenza, tutte le
chiese paoline non erano mai costituite di soli etnico-cristiani. Come
si esclude la sola Efeso, così bisogna escludere la sola Colosse
o la sola Laodicea (così nell’antichità Marcione, e
tra i moderni J.-J. Wettstein, 1752; J.B. Lightfoot, 1875; A. von
Harnack, 1910, 1926 Huby, 151947; Ch. Masson, 1953; H.K.
Moulton, 1963), ed è troppo poco forse anche parlare di sole 2
chiese, come quelle di Gerapoli e Laodicea (A. van Roon, 1974). La
lettera dev’essere stata indirizzata, invece, agli
etnico-cristiani delle chiese di tutta una regione.
Vanno probabilmente molto vicino al vero, dunque, i
molti che ritengono Ef una lettera circolare, destinata a molte chiese
(Così Teodoro Beza, 1598; J.-M. Lagrange, 1929; H. Schlier,
1930; G. Ricciotti, 1949) e coloro che ipotizzano per il prescritto
epistolare la formula «… ai santi che sono pagani
e fedeli» (A. KIENE, «Der Epheserbrief», in ThStKrit
1869, 316). Più che col dativo del nome
(τοις ουσιν
εθνεσιν), però, la
formula dev’essere stata costruita con uno εκ di
provenienza e il genitivo: «… ai santi provenienti dalle
genti – τοις
ουσιν εξ
εθνων». Tra l’altro, come molti
fanno osservare, l’ipotesi della lettera a più chiese
spiegherebbe perché essa sia così povera di elementi
epistolari e di notizie personali, e perché abbia il tono e il
contenuto di un trattato più che di una vera lettera. Il
contenuto della lettera suggerisce di ricostruire la vicenda, sia
dell’intestazione esterna sia dell’indirizzo interno, come
segue:
(i) nell’indirizzo interno della lettera doveva essere scritto:
«… a coloro che sono etnici e credenti», con
il significato di: «ai credenti [che provengono] dagli
etnici»; (ii) gli editori dell’epistolario paolino
avrebbero dovuto intitolare la lettera «Agli etnico-cristiani,
προς
εθνικους»,
così come nell’intestazione di un altro documento
neotestamentario scrissero “Agli Ebrei,
προς
εβραιους”;
(iii) e invece – probabilmente – addirittura tolsero
quell’indicazione anche dal prescritto interno, e scrissero sul
dorso esterno del rotolo “Agli Efesini”, forse per
uniformare la titolatura di questo documento con quella degli altri
scritti paolini; (vi) più tardi il tardivo rimando a Efeso fu
trasferito dal titolo esterno anche nel testo del prescritto, ed
è così che poi l’inesatta destinazione efesina
è divenuta convenzionale nei secoli; (v) non è per nulla
impossibile che Efeso sia stata tra le chiese destinatarie, ma
certamente non lo fu da sola e, se proprio lo fu, lo fu soltanto per
quanto riguardava la sua componente etnico-cristiana.
In tutto lo scritto non compare nessun elemento che
configuri una situazione epistolare, e cioè non si trova alcun
accenno a problemi legati a persone, a gruppi, a un luogo o a una
comunità. La situazione è atemporale e scolastica, e la
lettera è impersonale, generica, distaccata. Sembra scritta
«nella Terra di nessuno» (K.M. FISCHER, Tendenz und
Absicht des Epheserbriefes, Göttingen 1973, 202) e tuttavia,
per una sua più adeguata comprensione bisogna mettersi in cerca
delle circostanze della sua origine.
L’esortazione a rivestirsi dell’armatura di Dio che si
trova in Ef 5,10-19 ha suggerito a P. Beatrice l’ipotesi che i
destinatari della lettera si trovassero in forte contrasto e tensione
con i giudaizzanti: la lettera combatterebbe il loro tentativo di
restaurare i precetti della Legge e rialzare il muro divisorio e
l’inimicizia. Anche A. Lindemann ricostruisce la situazione che
ha provocato la lettera partendo dall’invito a indossare
l’armatura di Dio: il contesto storico sarebbe quello della
persecuzione di Domiziano in Asia Minore intorno all’anno 96 d.C.
Infine, R. Penna ritiene che il motivo di fondo di Ef sia nel tema
dell’“uomo nuovo” (2,15 e 4,24). Poiché la
lettera non fa riferimento ad alcun oppositore e non è
all’orizzonte alcuna dottrina eretica, e poiché invece
spesso si ripete la contrapposizione tra “una volta” e
“ora invece”, la lettera sarebbe stata scritta per
scongiurare il rischio a cui erano esposti i destinatari, di essere
totalmente riassorbiti nello stile pagano della vita.
Questi tentativi non spiegano a pieno le affermazioni sul Cristo
pacificatore di etnico-cristiani e giudeo-cristiani, né la
contrapposizione tra “noi” e “voi” che circonda
quelle affermazioni, né il fatto che anche la parte esortativa
prolunga il tema dell’unità e dell’accoglienza
vicendevole.
Tutta la lettera è scritta in tono pacato e irenico. Eppure, per chi è in cerca di indizi circa la situazione che provocò la stesura della lettera, non possono passare inosservati alcuni sintomi di tensione: una tensione che doveva esistere tra i giudeo-cristiani dei quali l’autore dice di far parte, e gli etnico-cristiani cui scrive.
Oltre alle repliche irritate degli etnico-cristiani, forse si possono individuare anche alcune riserve dell’autore nei loro confronti, anch’esse espresse in modo sempre indiretto e mai aspro. In questo modo:
L’autore, dunque, è un giudeo-cristiano che ammette alcune intemperanze di quelli della sua parte, ne rivendica però con molta delicatezza la priorità storico-salvifica («… noi che per primi abbiamo sperato nel Cristo», 1,12), e soprattutto vuole convincere gli etnico-cristiani, presenti trasversalmente nelle comunità paoline, a superare il loro risentimento e il loro distacco dalla controparte giudeo-cristiana. Le ipotesi circa l’autore della lettera e gli interrogativi che, date queste premesse, si possono sollevare, sono:
Il documento fu redatto dopo Col (pochi sostengono la priorità cronologica di Ef), e prima di Ignazio di Antiochia che sembra conoscerla: dunque prima del 110 d.C. È lontano il tempo in cui Paolo doveva combattere per l’ammissione dei gentili nella Chiesa senza circoncisione e senza legge mosaica (cf. Gal, Rm, Fil), o il tempo in cui Paolo vedeva la fede dei gentili come strumento per ingelosire i giudei (cf. Rm 9-11). Ora bisogna darsi da fare perché nessuna delle due componenti vada per conto suo, e bisogna ribadire con insistenza che si è tutti un solo corpo (2,16; 3,6; 4,4), che c’è un solo battesimo, e una sola fede (4,4-5). Se l’autore della lettera è Paolo, l’Apostolo dovrebbe averla scritta nei suoi ultimi anni. Se la lettera è di un discepolo, dev’essere datata agli ultimi due decenni del sec. i, all’epoca delle Pastorali, con le quali ha certi punti di contatto. – Probabilmente un tale documento si rese necessario in Asia: lo fanno pensare i contatti letterari e teologici con Col, la menzione di Tichico, originario dell’Asia (At 20,4) e collegato con Colosse (Col 4,7), con Efeso (2Tm 4,12), e infine la convinzione tradizionale che la lettera fosse indirizzata “agli Efesini”.
Quello dei rapporti tra le chiese provenienti dal
giudaismo da una parte e dal paganesimo dall’altra, fu il
problema più grave delle origini cristiane. Il cristianesimo non
poteva essere la stessa e medesima cosa del giudaismo e, d’altra
parte però, il giudaismo era la sua premessa: che cosa allora
doveva continuare dall’uno nell’altro, e che cosa doveva
essere lasciato cadere? In che modo i due tronconi dovevano convivere,
e quali erano le legittime differenze che gli uni e gli altri potevano
permettersi, pur costituendo una sola chiesa? Paolo contribuì in
modo acuto e unico a porre il problema anche dal punto di vista
teologico, e non solo dal punto di vista pratico della convivenza. Per
gli Atti degli apostoli il problema sorge con la conversione di
Cornelio (At 10-11) e poi esplode alla conclusione del primo viaggio
missionario, provocando l’assemblea apostolica di Gerusalemme (At
15). La lettera ai Galati sembra porre posteriormente a
quell’assemblea lo scontro tra Paolo e Pietro ad Antiochia di
Siria (Gal 2,11ss) e, comunque, insieme con la lettera ai Romani e con
quella ai Filippesi, discute le ragioni degli etnico-cristiani contro
la pretesa dei giudaizzanti di imporre loro la circoncisione e
l’osservanza della Legge.
Al di fuori del paolinismo, il vangelo di Matteo difende la perdurante
validità del tempio (Mt 23,16-22) e della legge mosaica di cui
nessuno iota o apice cadrà e della quale bisogna osservare anche
il più piccolo dei comandamenti (5,17-20), mentre, sempre da
posizione giudeo-cristiana, la lettera di Giacomo difende con forza il
valore delle opere senza le quali la fede sarebbe morta (2,14-26).
Sull’altra sponda, nella lettera agli Ebrei si documenta in modo
preciso e puntiglioso la superiorità della nuova alleanza
sull’antica, mentre nelle lettere Pastorali si avverte una
diffusa idiosincrasia nei confronti delle interminabili genealogie (1Tm
1,4), dei miti giudaici (1Tm 1,4; Tt 1,14; 3,9), e degli insegnamenti
eterodossi di stampo giudaico: «Soprattutto tra quelli che
provengono dalla circoncisione, vi sono molti spiriti insubordinati,
chiacchieroni e ingannatori. A questi tali bisogna chiudere la bocca
ecc.» (Tt 1,10-11).
Agli inizi del sec. ii la lettera di Barnaba (cap.
9) e Ignazio nella lettera agli smirnioti (3,2-3) polemizzano contro le
usanze dei giudeo-cristiani, così come alla fine del secolo
farà la lettera a Diogneto (cap. 4). Nel “Dialogo con
Trifone”, a metà del secolo, Giustino si batte
perché i giudeo-cristiani non impongano agli etnico-cristiani
quelle prescrizioni che erano date ai giudei “per la loro durezza
di cuore”, ma lo fa dopo avere detto che essi sbagliano nel
giudicare peccaminose le pratiche giudaiche: «Vi sono degli
etnico-cristiani che giudicano peccaminosa l’osservanza di molte
prescrizioni della legge mosaica. Questi tali non parlano né
prendono cibo con i giudeo-cristiani, e per parte mia io non li
approvo. Ma non approvo nemmeno i giudeo-cristiani che fanno
altrettanto con gli etnico-cristiani» (Dial. 47,1-2). Il
punto più acuto di crisi si ebbe con Marcione, venuto dal Ponto
a Roma intorno al 140: egli rifiutava in blocco l’AT e mutilava
il NT di ciò che gli sembrava troppo filo-giudaico,
perché era contrario ad ogni tentativo teso ad armonizzare la
tradizione giudaica con quella cristiana, che riteneva un’impresa
impossibile. Dopo che nel 144 ebbe esposto pubblicamente ai presbiteri
romani le sue convinzioni fortemente anti-giudaiche, fu espulso dal
seno della chiesa di Roma.
Un altro terreno di scontro tra i due tronconi della chiesa fu quello
della data della Pasqua con tutte le conseguenze che comportava –
soprattutto nelle comunità miste – per il ciclo delle
feste cristiane che in quel tempo era in formazione:
l’alternativa era tra la data fissa del 14 di Nisan come volevano
i giudeo-cristiani, e la data mobile della prima domenica dopo il
plenilunio primaverile, come volevano gli etnico-cristiani. Per
risolvere la controversia si ricorse a papa Vittore (189-199 d.C.) e si
celebrarono sinodi, ma per esempio a quello importante di Cesarea di
Palestina (195 d.C.) non parteciparono i vescovi giudeo-cristiani. La
forte divergenza non fu superata e il problema si ripropose al concilio
di Nicea (325 d.C.) nel quale fu decisa la celebrazione domenicale
della Pasqua ma ancora una volta senza efficacia, se è vero che
nel sinodo tenutosi ad Antiochia nel 341 fu necessario scomunicare chi
celebrava la pasqua quartodecimana e digiunava insieme con i giudei (PG
137, 182.C; 1276.C).
La chiesa giudeo-cristiana ebbe dunque una sua vita autonoma e
parallela, soprattutto in Palestina fino a Costantino, restando fedele
a uno stretto radicamento nell’AT, all’osservanza della
Legge, alla pratica della circoncisione, e avendo poi una propria
teologia, una propria gerarchia, e una propria liturgia. Con Costantino
la grande chiesa etnico-cristiana invase la Palestina, spossessò
e sostituì i giudeo-cristiani in casa loro, e ne avviò
l’estinzione che si ebbe nel sec. vi. Il segno più
evidente di questa conquista fu la sostituzione delle grotte mistiche e
delle chiese-sinagoga dei giudeo-cristiani con le basiliche
costantiniane e bizantine: a Betlemme con la basilica della
Natività, a Gerusalemme con la basilica del Santo Sepolcro e
quella dell’Eleona sul Monte degli ulivi, a Nazaret con il
convento e la basilica in cui fu incorporata la grotta
dell’annunciazione, a Cafarnao con la chiesa ottagonale costruita
sulla casa venerata, probabilmente di Pietro.
La misteriosa lettera del muro abbattuto si colloca
all’interno di queste drammatiche origini cristiane. (Per una
succinta storia della chiesa giudeo-cristiana cf. L. RANDELLINI, La
chiesa dei giudeo-cristiani, Brescia 1968) Il suo intento era
quello di arrestare la divaricazione crescente tra le due parti.
Già durante l’esistenza di Paolo o, nel suo nome, dopo di
lui, Ef dice infatti che i credenti da Israele e quelli dal paganesimo,
conciliati in un solo corpo dal Cristo, devono ora nella pratica
«accogliersi a vicenda nell’agape» (4,2).
Il tentativo di conciliazione non riuscì, ma ha dato alla
cristianità il manifesto dell’unità della chiesa e
della ricostituzione dell’unità, quando essa viene
infranta.
Commentari
M. DIBELIUS - H. GREEVEN (1953), F.W. BEARE - T.A.O. WEDEL (1953), E.J.
GOODSPEED (1956), P. BENOIT (1959), K. STAAB (1959, it 1961), J.A.
ALLAN (1959), H. SCHLIER (21962, it 1965, ingl 1969), M.
ZERWICK (1962, it 1965), H. CONZELMANN (1962, it 1980), J. CAMBIER
(1966, it 1968), J. GNILKA (1971), M. BARTH (1974), J. ERNST (1974, it
1986), C. L MITTON (1976), G.B. CAIRD (1976), F.F. BRUCE (1984), R.
FABRIS (21990), R. SCHNACKENBURG (1982); R. PENNA (1988).
Monografie
Il tema del “corpo di Cristo” compare già in 1Cor e Rm, ma soltanto in forma episodica, mentre in Col ed Ef tiene un posto centrale. – L’espressione “corpo di Cristo” si trova 6 volte, con o senza articolo; a queste ricorrenze vanno aggiunte 5 ricorrenze di σωμα con il possessivo “mio” e “suo”. Infine, la formula “un solo corpo” compare complessivamente 10 volte, come risulta da quanto segue:
το σωμα του Χριστου: 1Cor 10,16; 11,27; Rm 7,4; Col 2,17; Ef 4,12
σωμα Χριστου: 1Cor 12,27
τουτο μου εστιν το σωμα: 1Cor 11,24
σωμα αυτου: Fil 3,21; Col 1,24; Ef 1,23; 5,30
εν σωμα: 1Cor 6,15; 10,17,12,12.13.20; Rm 12,4.5; Col 3,15; Ef 2,16; 4,4
Le espressioni non hanno un senso univoco e di fatto parlano sia del corpo personale di Gesù, sia del suo corpo eucaristico, sia del suo corpo ecclesiale.
Informato su casi di prostituzione che si verificavano nella comunità cristiana di Corinto, Paolo parla dell’uso del «corpo / σωμα» dei credenti nella loro legittima e non-legittima pratica sessuale. Poiché in 6,13b-14 è intercambiabile con «noi / ημεις», il «corpo / σωμα» è in qualche modo la persona del credente: «Il corpo non è per l’impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo: Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi / ημεις». Dal contesto poi si ricava che σωμα è la persona in quanto redenta e trasformata dal Cristo sia nella suo essere, sia nelle sue relazioni. Da tutto questo Paolo ricava le conseguenze sul piano etico che anche i suoi interlocutori dovrebbero trarre. Come ultima cosa Paolo richiama ciò che sta all’origine di tutto, sia della novità dell’essere cristiano, sia delle sue nuove relazioni, sia delle conseguenze etiche: con un linguaggio molto particolare, quello della compravendita degli schiavi, Paolo dice che i credenti nella Pasqua del Signore furono da lui “comperati a (giusto) prezzo” (v. 20).
In tutto questo:
Nelle parole dell’istituzione Gesù afferma l’identità del pane eucaristico con il suo corpo (σωμα) personale, che egli dà per gli uomini (11,24). In 10,17 Paolo afferma che, essendo unico il pane (eucaristico), noi (Paolo e i corinzi, e quindi qualunque chiesa domestica che celebri la cena) diventiamo un solo corpo ecclesiale (εν σωμα). – Qui il discorso della comunione (κοινωνια, cf. 10,16bis; μετεχειν 10,17.21; κοινωνος, 10,18.20) è ancora più esplicito. Ogni altare, dice Paolo, mette in comunione: questo era vero per gli Israeliti (v. 18), questo è vero anche per gli altari idolatrici che mettono in comunione non con gli idoli che sono nulla, bensì coi demoni (v. 19-20). Anche il pane e il calice della cena mettono in comunione con il corpo e con il sangue personali del Cristo (v. 16-21), e con gli altri credenti che partecipano dello stesso pane con i quali si diventa un solo corpo (v. 17). – In 1Cor 10-11 si diventa un solo corpo ecclesiale partecipando al corpo eucaristico del Cristo che mette in comunione con il corpo personale offerto per gli uomini nella Pasqua. «In questo contesto nasce l’originale definizione paolina della chiesa come “corpo” di Cristo», (E. Franco, p. 182).
In 1Cor 12 il termine σωμα
ricorre 18 volte e 13 volte invece il termine membro /
μελος. Con questo vocabolario una
terza volta nella stessa lettera Paolo torna dunque a parlare del corpo
ecclesiale quando deve affrontare il problema di chi a Corinto soffriva
del complesso di superiorità («Non può
l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”,
né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di
voi”», 12,21), e di chi soffriva invece del complesso di
inferiorità («Se il piede dicesse; “Poiché io
non sono mano, non appartengo al corpo ecc. E se l’orecchio
dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al
corpo ecc.”», 12,15-16). Con il paragone del corpo
(καθαπερ γαρ
το σωμα κτλ) Paolo
dice ai primi che è necessaria la distinzione delle membra e che
essa viene da Dio, mentre agli altri dice che ciascun membro deve
servire al bene di tutto l’unico corpo. – Artefice
dell’unità nella diversità è lo Spirito alla
cui effusione si partecipa mediante la partecipazione al battesimo,
così che si è coinvolti nella edificazione
dell’unico corpo: «In realtà noi tutti siano stati
battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo») 12,13.
– D’improvviso poi Paolo abbandona il paragone e, mettendo
il verbo all’indicativo (εστε), passa a
parlare della realtà, definendo i cristiani di Corinto con
l’espressione “corpo di Cristo”:
υμεις δε
εστε σωμα
Χριστου, (12,27). Paolo dice ai
Corinzi: «Voi siete corpo [senza articolo] di Cristo», e
non: «Voi siete il corpo di Cristo», perché
la comunità corinzia non esaurisce la realtà ben
più ampia del corpo di Cristo.
In 1Cor 12 il riferimento al corpo personale del Risorto
è implicito nel tema dello Spirito, che è dono pasquale.
Lo Spirito poi, diffuso in ogni membro, crea il corpo ecclesiale
del Cristo.
In Rm 12 Paolo si rivolge a chi si sopravvaluta, rischiando di disprezzare, di creare rivalità nella chiesa romana. Anche qui Paolo mostra come l’unica via percorribile è quella di tenere insieme la diversità delle funzioni e l’unità del corpo. Anche qui Paolo parte dal paragone del corpo («Come nel nostro corpo, che è unico, abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione…»), per poi parlare della realtà («… così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi», Rm 4-6). – Qui tuttavia il corpo di cui Paolo parla non è il corpo di Cristo: Paolo non dice che i credenti sono “corpo di Cristo”, ma che in lui formano un corpo. Quello che Paolo afferma dunque come realtà è la comunione ecclesiale, non il suo sussistere come corpo di Cristo.
Col ed Ef introducono nel tema teologico del corpo ecclesiale del Cristo termini e prospettive molto nuovi.
Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici