Quella ai Galati non è una lettera breve se
la si confronta con la media delle lettere antiche, e anche se la si
confronta con altre lettere paoline come quelle a Filemone - la
più breve -, o quelle ai Tessalonicesi e Filippesi. È
tuttavia molto più breve della lettera ai Romani, delle due ai
Corinzi, e di quella agli Ebrei. Nonostante la sua relativa
brevità è comunque elencata fra le grandi lettere di
Paolo che sono: Rom, 1-2Cor e, appunto, Gal.
La sua importanza è molteplice.
Ininterrottamente per due capitoli Paolo in Gal
parla del suo passato, come non càpita in alcun’altra
lettera. In particolare rievoca: (i) la sua attività di
persecutore di cristiani; (ii) l’evento di Damasco, che
cambiò la sua esistenza; (iii) il successivo soggiorno in
Arabia, poi in Siria e Cilicia; (iv) due visite a Gerusalemme, fra cui
una è probabilmente da identificare con l’assemblea
apostolica di Atti 15; (v) lo scontro con Kefa ad Antiochia di Siria.
Dentro tutti questi episodi noi possiamo leggere il riconoscimento da
parte di Paolo dell’autorità della chiesa di Gerusalemme e
delle sue “colonne”, e, viceversa, il riconoscimento da
parte di Gerusalemme della missione paolina.
«È in questa lettera che Paolo, per il
fatto di non controllare le sue reazioni, si rivela come non mai»
(van den Bussche); «La storia della letteratura, sia
nell’antichità che nei tempi moderni, non offre niente che
le possa essere paragonato: vedute larghe e luminose, dialettica
tagliente, ironia mordace, tutto quanto la logica possiede di
più forte, l’indignazione di più veemente,
l’affetto di più ardente e di più tenero. Tutto si
trova radunato e fuso insieme in un’opera dotata di irresistibile
potenza» (Sabatier); «Nessuna delle altre lettere paoline
mostra una simile fiamma d’ira e di passione. Essa è
l’unica in cui manchi il ringraziamento per i lettori
nell’introduzione, e l’incarico di portare i saluti nella
conclusione. Nella seconda parte però l’amore del suo
cuore amareggiato prende il sopravvento sul corruccio»
(WIKENHAUSER - SCHMID, Introduzione al NT, 464).
Per illustrare queste ultime affermazioni cf. 1,6 «Sono
costernato che così in fretta siate passati ad un altro
Vangelo»; 3,1 «O insensati Galati, chi mai vi ha
stregati…?». Cf. poi 4,19-20: «Figli miei, che di
nuovo partorisco nel dolore (…), vorrei essere vicino a voi in
questo momento e poter cambiare il tono della voce, perché non
so cosa fare a vostro riguardo», e soprattutto l’ultima
frase: «La grazia sia con il vostro spirito, o fratelli».
«La lettera, per larga parte tanto severa, termina con il
vocativo nel quale l’amore inalterato respira ancora» (F.L.
Sieffert).
Gal è forse ancora più importante per
colmare qualche lacuna nella storia del cristianesimo delle origini. Da
essa si ricava che dapprima la missione era fatta senza precisi
programmi sia riguardo le aree geografiche, sia soprattutto riguardo le
condizioni dell’accoglienza nella chiesa. Gal allora ci informa
dell’assemblea apostolica di Gerusalemme alla quale presero parte
tre delegazioni: (a) Paolo, Barnaba e l’incirconciso Tito
rappresentavano la missione tra i pagani; (b) Giacomo, Kefa e Giovanni
rappresentavano la chiesa-madre di Gerusalemme; (c) un gruppo, che
Paolo chiama di “falsi fratelli”, sosteneva la
necessità per i provenienti dal paganesimo, di circoncidersi e
di sottoporsi alla legge mosaica. I primi due gruppi misero a tacere il
terzo (Tito infatti non fu richiesto di circoncidersi, Gal 2,3), e
organizzarono in modo adeguato lo svolgimento della missione: Paolo
avrebbe guidato la missione ai gentili, Pietro quella ai giudei: cf.
H.D. BETZ, «Galatians, Epistle to the», in Anchor Bible
Dictionary, 873.
Nonostante l’intesa, la missione non fu però poi senza
problemi e tentennamenti, come dice l’incidente di Antiochia tra
Paolo e Kefa.
L’importanza della lettera ai Galati è anche controversistica ed ecumenica. Lutero dichiarava: «La lettera ai Galati è la lettera che ho sposato. È la mia Kät von Bor» (testo del 1531, II, 437), e trasse da Gal, oltre che da Rom, le sue tesi sulla giustificazione per la sola fede, «di cui egli fece quasi un canone nel Canone» (CARREZ, in GEORGE-GRELOT, Introduzione al NT, vol. 3, 110).
Nel prescritto di Gal, Paolo rivendica il titolo di
apostolo con insolita insistenza e precisione, specificando che
l’origine del suo apostolato non è umana, ma divina (1,1).
Così anticipa uno dei temi della lettera, quello iniziale, dei
primi due capitoli (1,11-2,21). Come co-mittenti Paolo menziona
genericamente i fratelli che sono con lui, senza fare nessun nome
(1,2a): dunque, come al solito è preoccupato di dare alla sua
lettera una dimensione ecclesiale, ma questa volta sorvola sui nomi.
Quanto ai destinatari, questa è l’unica lettera in cui
Paolo si rivolge non a una singola chiesa (o persona) ma a più
chiese, alle chiese della Galazia (ταις
εκκλησιαις
της
Γαλατιας, 1,2b). Il nome
‘Galazia’, però, ha bisogno di essere a lungo
illustrato e discusso.
I nomi di Celti / Galli / Galati in qualche modo si
corrispondono: «Nella loro lingua essi si chiamano Celti, nella
nostra Galli = Qui ipsorum lingua Keltae, nostra Galli appellantur»,
(Giulio Cesare, De bello gallico 1,1).
Nella prima metà del sec. iii a.C. (280 circa), alcune
tribù celtiche (20.000 persone - 10.000 armati), partendo dalla
Gallia invasero la regione del basso Danubio, attraverso la Macedonia
tentarono di entrare nella penisola greca, ma furono respinti dagli
Ètoli. Essi allora passarono l’Ellesponto ed entrarono
nell’Asia Minore dove trovarono la resistenza del regno di
Pergamo. Il re Attalo I intorno al 240 a.C. li sconfisse con una
vittoria che ebbe valore mitico per la nazione (cf. la statuaria
pergamena giunta fino a noi: il sarcofago dei Galati e il Galata
morente dei Musei Capitolini di Roma; il Galata che si uccide dopo aver
ucciso la moglie nel Museo Altemps di Roma, ecc.) e permise loro di
insediarsi nei territori delimitati dal fiume Halys a est e dal
Sangario all’ovest. E, così, attorno alle città di
Pessinunte sul Sangario, di Ancyra (oggi Ankara) al centro, e di Tavio
sull’Halys si insediarono rispettivamente la tribù dei
Tolistoagi, quella dei Tektosagi e dei Trokmi. – Per distinguerli
dai Galli / Celti europei, gli autori antichi chiamano questi celti Gallograeci
(Cicerone), e la regione Gallograecia,
Γαλλογραικια
(Strabone), o Galazia.
Nel 190 a.C. circa entrarono nell’orbita di Roma, per la quale il
loro regno fungeva da stato-cuscinetto. Nei decenni seguenti il
territorio fu via via allargato con l’annessione di altre regioni
fino a che nel 25 a.C., alla morte del(l’ultimo) re galata,
Aminta, il regno galata fu trasformato in provincia romana col nome di Galatia.
Mentre il territorio abitato dalle tre tribù galate era al nord,
la nuova provincia si estendeva molto a sud e, nonostante il nome di Galatia,
comprendeva regioni - o parti di regioni - e popolazioni non-celtiche,
ma locali, indigene (Pisidia, Licaonia, Panfilia, Isauria, Paflagonia,
Ponto). Di qui il problema molto discusso a partire da Joachim Schmidt
(1748) dei destinatari della lettera di Paolo.
Se Paolo scrisse ai veri e propri Galati,
discendenti delle tre etnie venute dal mondo celtico, allora scrisse a
chiese di cui noi non conosciamo il nome, e che egli deve avere fondato
nel secondo viaggio missionario (cf. Atti 16,6: «Attraversarono
la regione galatica …»), e deve poi aver visitato nel
terzo viaggio (cf. Atti 18,23: «Percorse le regioni galatica e
frigia confermando nella fede tutti i discepoli
(μαθηται = cristiani!)»).
È la teoria ‘nord-galatica’, o
‘dell’etnia’. Se invece Paolo scrisse alle
comunità della provincia romana, allora scrisse alle
comunità di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe,
fondate nel primo viaggio missionario di cui racconta il libro degli
Atti in 13,13-14,23. È la teoria ‘sud-galatica’, o
‘della provincia’.
Le due opinioni si fronteggiano da lungo tempo e non è possibile
dirimere la questione in modo definitivo. In genere si propende per
ritenere che la Galazia di Paolo sia la Galazia vera e propria,
perché l’apostrofe «O stolti Galati!» (Gal
3,1) si adatta meglio alle comunità dell’etnia galatica.
Mentre infatti nelle zone incorporate nella Galazia il nome della
provincia era solo un fatto burocratico e quindi si usava più
che altro nei documenti e atti ufficiali,- è naturale invece che
le etnie non-galate, per orgoglio nazionale, tendessero a conservare le
proprie tradizionali denominazioni.
Dunque è da pensare che Paolo abbia potuto chiamare
“Galati” solo quelli appartenevano all’etnia
galatica. Agli altri avrebbe dovuto dire: «O stolti
Licaónî, Pisidî ecc.»: l’appellativo
‘Galati’ per essi suonava come una offesa, allo stesso modo
che, fino ai tempi dell’Unione Sovietica, era una offesa chiamare
‘russo’ un lituano.
Se scrisse alle comunità fondate nel primo viaggio, allora scrisse nel 49 d.C. circa, prima (o subito dopo) l’assemblea apostolica. In questo caso la lettera ai Galati sarebbe la più antica delle lettere paoline e il documento più antico di tutto il NT. Se invece scrisse alle comunità, per noi senza nome, del nord, allora scrisse durante il lungo soggiorno a Efeso, nel 55-57.
Quando Paolo scrive le sue lettere, lo fa spinto
dalla sollecitudine per le chiese che ha fondato. Essendo scritti
pastorali, le sue lettere contengono dottrina (= annuncio kerygmatico,
approfondimento dogmatico) ed etica (= insegnamento morale, esortazione
e parenesi). Tutto questo è stato espresso in termini
grammaticali: la dottrina è l’indicativo, e
l’etica, invece, l’imperativo. Con
l’indicativo infatti si racconta quello che Dio ha fatto in
Cristo per la salvezza degli uomini, mentre con l’imperativo si
esortano i chiamati alla salvezza perché accolgano la buona
notizia, e perché la loro vita sia una risposta al dono di Dio,
e un rendimento di grazie.
Indicativo della salvezza e imperativo etico sono collegati da un
rapporto di subordinazione. L’imperativo infatti deriva
dall’indicativo, e il collegamento è grammaticalmente
espresso dallo “ουν (= dunque)” che
viene chiamato ουν ‘parenetico’, ma
possono avere lo stesso valore di ουν anche
ωστε (= così che); γαρ
(= infatti); διο,
διοπερ, δια
τουτο (= per cui). In tal modo
l’etica cristiana non è autonoma, ma è conseguenza
e deduzione dalla cristologia e soteriologia. La teologia è
dunque fondante e la morale è teologicamente fondata.
Per la dialettica tra indicativo e imperativo cf. M. ADINOLFI M.,
«La dialettica indicativo-imperativo nelle lettere
paoline», in Antonianum 5 (1977), 626-646; W.D. DENNISON,
«Indicative and Imperative: The Basic Structure of Pauline
Ethics», in Calvin Theological Journal 14 (1979), 55-78;
G. STRECKER, «Indicative and Imperative according to Paul»,
in Australian Biblical Review 35 (1987), 60-72.
Spesso le lettere paoline riflettono questa dualità del Vangelo, cosicché la prima parte è la parte dogmatico-dottrinale, mentre la seconda è etico-parenetica. Cf. Gal 5,1: «Il Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi (= indicativo). State saldi (= imperativo) dunque (ουν parenetico), e non lasciatevi imporre (= altro imperativo) di nuovo il giogo della schiavitù»; Rm 12,1: «… Vi esorto dunque (ουν) ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente»; Rm 6,12: «Non regni più dunque (ουν) il peccato nel vostro corpo mortale, ma offrite voi stessi a Dio».
|
Indicativo
|
Imperativo
|
Galati
|
1 - 4
|
5 - 6
|
Romani
|
1 - 11
|
12 - 15
|
Colossesi
|
1 - 2
|
3 - 4
|
Efesini
|
1 - 3
|
4 - 6
|
Secondo H.D. Betz (1975) nella lettera ai Galati si
riscontrerebbero le caratteristiche tipiche del “discorso di
apologia o autodifesa” (= genere forense). Un gruppo di
oppositori accuserebbe Paolo il quale sarebbe costretto a difendersi di
fronte ai Galati che costituirebbero come i giudici del tribunale,
chiamato a decidere a favore o contro Paolo. La divisione retorica
della lettera sarebbe: prescritto (1,1-5), esordio (1,6-10), narratio
(1,11-2,14), propositio (2,15-21), probatio (3,1-4,31);
exhortatio (5,1-6,10), post-scritto come peroratio
(6,11-18).
In particolare, la narratio riguarderebbe
l’autorità apostolica di Paolo, 1,12; e narrerebbe la
storia del suo lavoro apostolico precedente, 1,13-2,14, in tre sezioni:
(A) inizi giudaici di Paolo, 1,13-14; sua chiamata, 1,15-16a, e suo
primo apostolato in piena indipendenza da Gerusalemme, 1,16b-24; (B)
assemblea apostolica di Gerusalemme, 2,1-10; (C) conflitto con Kefa e
separazione da Barnaba, 2,11-14. Le prove (probationes) portate
da Paolo sarebbero 6 e sarebbero tratte: (i) dall’esperienza
dello Spirito, 1,3,1-5; (ii) dalla Scrittura, 3,6-14; (iii)
dall’istituto giuridico dell’eredità, 3,15-18;
(3,19-25 è una digressione); (iv) dalla tradizione battesimale
cristiana, 3,26-4,11; (v) dal costume dell’amicizia, 4,12-20;
(vi) dalla Scrittura interpretata allegoricamente, 4,21-31. –
G.A. Kennedy (1984) e la sua scuola (D.E. Aune, R.G. Hall, J. Smit,
S.K. Stowers ecc.) considerano invece Gal come discorso deliberativo in
cui Paolo cerca di influire sui Galati perché si decidano a
tornare al suo Vangelo. A. Pitta invece ritiene Gal una lettera
illustrativa, esplicativa, dimostrativa (in termini di retorica antica:
genere ‘epidittico’), richiamando l’attenzione su
biasimi ed elogi, e sulla predominanza del vocabolario gnoseologico
(γνωριζω, 1,11;
ανοητοι, 3,1;
γινωσκετε
αρα, 3,7;
ειδοτες, 4,8;
γνοντες, 4,9a;
γνωσθεντες,
4,9b; φρονησετε, 5,10,
ecc.) e, dunque, l’insistenza di Paolo non su ciò che
è giusto o non giusto, utile o dannoso, ma sulla conoscenza e
sulla consapevolezza.
La divisione di Gal proposta da A. PITTA, Disposizione e messaggio
della Lettera ai Galati. Analisi retorico-letteraria (Roma 1992),
comprende: Prescritto epistolare (1,1-5), Prima apostrofe con funzione
di esordio (1,6-10), propositio per tutta la lettera (1,11-12);
prima dimostrazione con prove (1,13-2,14) e perorazione (2,15-219;
seconda dimostrazione con apostrofe iniziale (3,1-5), prove (3,6-29), e
perorazione (4,1-7); terza dimostrazione con apostrofe iniziale
(4,8-11), elogio dei Galati (4,12-20), e perorazione (5,2-12); quarta
dimostrazione con ammonimento (5,13-6,10), prove (5,16-6,10), e
post-scritto con funzione di perorazione finale (6,11-18)
Prescritto epistolare (1,1-5)
Mittenti: Paolo ‘apostolo’ e tutti i fratelli
Destinatari: le chiese della Galazia
Augurio di grazia e pace
[Nelle amplificazioni si anticipano i temi
dell’apostolato, dell’origine divina del Vangelo di Paolo,
e della liberazione operata dal Cristo].
Apostrofe iniziale con funzione di esordio retorico (1,6-10)
[Nessun ringraziamento né benedizione, ma]
Costernazione di Paolo per quello che sta accadendo nelle chiese di Galazia. In pratica, Paolo rimprovera i Galati perché si sono messi sulla strada dell’apostasia. Il Vangelo di Paolo, che è l’unico, è sul punto di essere abbandonato dai Galati, sotto l’influsso di predicatori che stravolgono l’annuncio cristiano e che quindi Paolo mette sotto l’anatèma.
[Come deve fare ogni esordio, Gal 1,6-10 anticipa i
temi della lettera. Poiché i termini più ricorrenti sono
“Vangelo” ed “evangelizzare”, è facile
comprendere come tema della lettera sia il “Vangelo” di
Paolo].
Tesi generale (=Propositio): origine e natura del Vangelo di
Paolo (1,11-12)
Prima negando e poi affermando, Paolo enuncia il tema di tutta la lettera: l’origine e la natura del Vangelo che egli annuncia. Egli lo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio, nella rivelazione di Damasco. Per evitare ogni ulteriore fraintendimento, mediante questa lettera Paolo si propone di ricominciare l’evangelizzazione dei Galati.
Prima argomentazione: Paolo modello di adesione
al Vangelo (1,13-2,21)
[Nella prima dimostrazione Paolo non illustra ancora il contenuto del
Vangelo, ma ai Galati che stanno distaccandosi da esso egli propone
come esempio la sua costante, fedele e irremovibile adesione personale
a quel Vangelo.]
Dopo essere stato avversario e persecutore nel tempo in cui aderiva al giudaismo (1,13-14), egli ha ricevuto quel Vangelo da Dio per rivelazione, quando Dio gli ha rivelato il suo Figlio (1,15-16). Poi non è andato a Gerusalemme a consultare alcuno, ma in Arabia, in Siria e in Cilicia: il suo Vangelo dunque non viene dagli uomini, neanche dagli apostoli, né dalla chiesa-madre. Anche la prima salita a Gerusalemme, tre anni più tardi, e l’incontro con Pietro di quindici giorni, non sminuiscono l’origine divina del suo Vangelo (1,17-24).
Quattordici anni più tardi Paolo è bensì di nuovo andato a Gerusalemme, ma, mentre alcuni falsi fratelli volevano derubare i pagano-cristiani della loro libertà dalla Legge, egli non ha ceduto neanche per un momento, mentre gli Apostoli: (i) non hanno costretto Tito a circoncidersi; (ii) non hanno imposto nient’altro del genere a Paolo e Barnaba; (iii) hanno affidato a Paolo e Barnaba la missione dei non-circoncisi; (iv) hanno loro stretto la mano in segno di approvazione; (v) soltanto hanno loro chiesto di ricordarsi dei poveri di Gerusalemme (e cioè della loro comunione e dipendenza dalla chiesa-madre). Da quel Vangelo che la chiesa-madre ha approvato e a cui Paolo fu rigorosamente fedele, i Galati ora vogliono staccarsi (2,1-10).
Per difendere il Vangelo di libertà dalla Legge, ad Antiochia Paolo si oppose pubblicamente a Kefa che, cedendo agli inviati di Giacomo, si era messo nel torto, non frequentando più la tavola dei pagano-cristiani, come se essi - secondo pregiudizi giudaici, oramai inconciliabili con la fede nel Cristo - fossero impuri (2,11-14).
[Anche attraverso la rievocazione di questo episodio
imbarazzante, Paolo si presenta come modello di adesione al Vangelo.
Anche qui il punto che interessa a Paolo non è tanto il suo
rapporto con Pietro, ma il rapporto dei Galati con il suo Vangelo:
«Paolo si esprime sempre meno in funzione di Kefa e sempre
più in funzione dei Galati» (VANHOYE, Galati, 13),
«Paolo sta parlando a Pietro, ma rivolgendosi ai Galati»
(PITTA, in Bibbia Piemme, 2802)].
Conclusione riassuntiva (= peroratio) della prima
argomentazione (2,15-21)
Paolo finge di riferire ciò che disse a Kefa, ma in realtà sta ambientando ad Antiochia quello che desidera dire ai Galati. La sua è un’argomentazione a fortiori: se giudei come Paolo o Kefa, pur non essendo pagani, hanno creduto in Gesù, quanto più i pagani non devono in nessun modo “giudaizzare”, assoggettandosi alla Legge e alla circoncisione. Il pagano, peccatore per nascita, e il giudeo, sono l’uno e l’altro giustificati per mezzo della fede nel Cristo, perché dalle opere della Legge non viene giustificato nessuno. Affermare il contrario è affermare che il Cristo è morto invano.
[Giustamente Paolo ha impostato l’inizio della
lettera sull’evento di Damasco: è stato lì che per
lui il Cristo ha preso il posto centrale che per lui e per ogni giudeo
aveva la Legge. Con tutto questo Paolo ha mostrato, soprattutto a
partire dalla prova che viene dal suo comportamento, quali sono le
conseguenze da trarre dal Vangelo, ma non ha ancora spiegato il
contenuto di esso. Lo farà nelle dimostrazioni seguenti].
Seconda argomentazione: si diventa figli con la fede non con la
Legge (3,1-4,7)
3,1-5: Argomentazione basata sull’esperienza dei Galati in
forma di apostrofe
Apostrofe: «O insensati Galati!» (3,1)
Paolo ha concluso la perorazione precedente dicendo che egli non annulla la grazia di Dio (2,21). Poiché questo invece è ciò che i Galati stanno facendo, è del tutto spontaneo il rimprovero o apostrofe dei vv. 3,1-5. Con cinque domande retoriche il cui compito è quello di aumentare l’efficacia espressiva di ciò che si sta dicendo, e che segnano il trapasso tra la sezione autobiografica precedente a quella argomentativa, Paolo sostanzialmente dice ai Galati che avevano cominciato con lo Spirito (quando egli annunciò loro il Vangelo), e ora vogliono regredire alla Legge. Per questo Paolo li chiama «α-νοητοι / senza-νους / senza comprensione». Ciò che preoccupa Paolo non è dunque che essi stiano decidendosi o no a farsi circoncidere: Paolo va ancora più a fondo, perché si colloca al livello del capire. Se capiranno, il problema della circoncisione sarà automaticamente risolto.
[Nella serrata argomentazione che segue, Paolo
ricorre alle prove più disparate che gli riesce di trovare:
prove tratte dalla Scrittura (3,8-14), dalla giurisprudenza (3,15-18),
argomentazioni poste in stile diatribico, e cioè con domanda
fittizia e relativa risposta (3,19-20; 3,21-22), e infine
l’argomentazione basata sulle epoche che si sono succedute nella
storia della salvezza (3,23-29)].
3,6-14: Prima prova biblica
Citando Gen 15,6 (v. 3,6), e Gen 12,3 (v. 3,9), Paolo porta l’esempio di Abramo che fu giustificato per la sua fede, e non perché osservò la Legge che ancora non c’era. In lui, secondo le promesse della Scrittura, avranno la vita tutti quelli che come lui credono (citazione di Abacuc 2,4: «Il giusto vivrà in virtù della fede»), mentre chi rimane fedele alla Legge resta sotto la maledizione (citazione di Deut 27,26 al v. 3,10; e di Deut 21,23, al v. 3,13). Tutto questo perché il Cristo ci ha riscatti dalla maledizione della Legge, proprio essendo divenuto maledizione ad opera della Legge (3,13-14).
[A differenza che nella prima dimostrazione, ora
Paolo sta illustrando il contenuto del suo Vangelo, perché sta
dicendo come, non con la Legge, bensì soltanto credendo come
Abramo, è possibile diventare suoi “figli”.
«Si possono dire figli di Abramo soltanto quelli che credono.
Ecco il centro del Vangelo di Paolo in Gal: la figliolanza. I Galati
desideravano essere figli di Abramo e pensavano di diventarlo con la
circoncisione. Qui Paolo si propone di dimostrare che invece la
circoncisione non serve a nulla: è necessaria la stessa fede di
Abramo per diventare suoi figli»].
3,15-18: Un esempio preso dal diritto testamentario antico
Paolo dice poi di voler portare un argomento κατα ανθρωπον, e cioè un argomento non preso dalla Scrittura. Di fatto lo attinge dalla giurisprudenza, ed è un argomento ancora a fortiori: quando un testamento entra in vigore, nessuno può variarlo (3,15): ma se questo vale per un comune testamento, a maggior ragione vale per le promesse fatte ad Abramo in Gen 12,7 (3,16a).
Da questa premessa Paolo trae due conseguenze: (a) il figlio a favore del quale vanno le promesse che Dio fece ad Abramo è il Cristo (3,16b); (b) a quelle promesse la Legge mosaica non ha contribuito in nulla e non è in grado di variarne lo statuto, perché è venuta 430 anni più tardi. L’irrevocabilità della χαρις divina precede cronologicamente e qualitativamente la Legge (3,17-18).
3,19-29: due domande diatribiche (la Legge fu per le trasgressioni - fu pedagogo)
Alla domanda: «Se la Legge non aggiunge nulla alle promesse fatte ad Abramo, allora ¿a che serve che Dio l’abbia data al popolo?», Paolo risponde: «Per le trasgressioni, e fino alla venuta del Cristo». La Legge è cioè stata data da Dio per rendere l’uomo consapevole delle trasgressioni che da sempre commetteva, spesso senza averne coscienza, ed ha un valore limitato nel tempo (3,19-20).
Alla domanda: «¿La Legge è dunque contro le promesse di Dio?», Paolo risponde che no: il suo limite è soltanto quello di non poter “vivificare”, in quanto la vita è legata alla fede (3,21-22). Il compito della Legge: nella successione cronologica tra (i) la promessa (ad Abramo), e poi (ii) Legge, e infine (iii) il compimento della promessa, non c’è contrapposizione. In quella successione, il compito della Legge fu quello del pedagogo: il compito cioè di rendere consapevole la discendenza di Abramo della sua incompiuta figliolanza, fino a che non fosse venuto il Cristo e, con lui, la fede (3,23-29).
[Il pedagogo infatti sorvegliava il ragazzo
dall’infanzia alla maggiore età e, per quanto potesse
formarlo ed educarlo, non era in suo potere di dargli la
libertà. Così i Galati dalla libertà vorrebbero
tornare sotto il pedagogo. La Legge dunque è immaturità e
tempo di estenuante attesa, mentre la fede è raggiungimento
della promessa: è essere figli di Dio a pieno titolo, ed eredi.
I vv. 3,25-29, di andatura innica, sembrano un canto battesimale che
celebra la liberazione di chi per lungo tempo è stato senza la
fede in Cristo. Il vertice dell’inno è nel v. 3,28 per il
quale non esiste più oramai alcuna differenza religiosa
(«Non c’è più giudeo né
greco…»), sociale («non c’è più
schiavo né libero…») e sessuale («…
non c’è più uomo o donna»). Non è
impossibile che l’ultima affermazione si riferisca alla
circoncisione cui i Galati volevano sottoporsi: poiché la
circoncisione è un fatto che discrimina le donne, negando la
necessità di essa, Paolo sente con ciò stesso di
proclamare la oramai raggiunta parità tra uomo e donna].
4,1-7: Conclusione riassuntiva (= peroratio) della seconda
prova
[Con un nuovo paragone giuridico Paolo torna a rispondere alle molte
domande sollevate e riassume le affermazioni precedenti.]
Fino a che l’uomo è sotto la Legge è come un minorenne che per i propri diritti dipende dagli επιτροποι (= tutori) e per i beni di cui è padrone e di cui però non può disporre dipende dagli οικονομοι(= amministratori). Se sotto la Legge l’uomo è un bambino che, pur essendo erede, non differisce in nulla da uno schiavo, attraverso invece l’invio del suo Figlio, Dio ci ha fatto figli. Ne è prova lo Spirito che in noi grida: «Abbà, Padre». Chi crede, riceve lo Spirito di figlio, è figlio, ed erede (4,1-7).
Terza argomentazione: incompatibilità tra
Legge e promessa (4,8-5,12)
4,8-11: Terza apostrofe: i Galati vogliono regredire alle cose di
prima
Se si è figli con la fede e non con la Legge, i Galati che cercano di regredire alla Legge provocano il terzo rimprovero di Paolo. Ora sono figli e sono liberi, dopo essere stati schiavi degli idoli: eppure fanno di tutto per tornare in schiavitù. Hanno già accettato calendari e feste giudaiche: manca loro solo la circoncisione. In tal modo rendono vana la fatica di Paolo.
[L’affermazione più provocatoria
è quella di mettere sullo stesso piano la sottomissione alla
Legge e la sottomissione agli “elementi del cosmo” (4,3;
4,9). Qualsiasi giudeo si sarebbe ribellato a una tale equiparazione:
essere sotto la Legge non è affatto la stessa cosa che adorare
le divinità pagane. Per Paolo invece, che rilegge tutto a
partire dall’essere in Cristo, le cose non sono dopotutto molto
diverse, in quanto la figliolanza divina non deriva né dalla
Legge, né dagli elementi del mondo, ma dal Cristo].
4,12-20: Elogio dell’accoglienza ricevuta al tempo della
prima evangelizzazione
Nei giorni della prima evangelizzazione, i Galati accolsero Paolo come un angelo, come Cristo stesso, ed erano pronti a cavarsi gli occhi per lui. E ora invece, per il fatto di farsi apostolo della verità, Paolo sembra diventato per loro un nemico. Quella loro generosa accoglienza è in contraddizione con il loro attuale indietreggiamento verso la Legge (4,12-17). Insomma, è il loro stesso passato che mette sotto accusa i Galati, e non solo l’esempio di Paolo (prima dimostrazione) o la fede di Abramo (seconda dimostrazione).
I Galati non hanno compreso la novità che il Vangelo di Paolo rappresenta per loro, e Paolo li deve generare di nuovo, e provare di nuovo le doglie del parto (4,18-20): dopo quella prima evangelizzazione, egli deve ora accingersi a una nuova, seconda evangelizzazione.
4,21-5,1: Argomentazione biblico-allegorica
sulle mogli di Abramo
[Paolo torna poi a parlare della fede e della figliolanza. «Se la
lettera si fosse conclusa in 4,4-7, e cioè con il riconoscimento
che i Galati sono diventati figli per mezzo del dono dello Spirito, che
cosa impediva loro di pensare che Spirito e circoncisione si sarebbero
potuti tenere insieme? La terza dimostrazione serve a porre i Galati
davanti all’“aut-aut”: non si può essere nello
stesso tempo figli della libertà e figli della schiavitù.
Il testo che segue è solitamente ritenuto un’appendice che
potrebbe esserci o non esserci, e invece costituisce il vertice di
tutta l’argomentazione di Gal» (PITTA, in Bibbia Piemme,
2806)].
Come già in Gal 3, anche qui Paolo argomenta a partire dalla storia di Abramo: non però in base alla fede di Abramo, ma in base ai suoi due figli, il primo dei quali era nato da Agar la schiava e il secondo invece da Sara la libera. Per riuscire nell’impresa di vedere in Isacco i cristiani e in Ismaele i giudei, Paolo commenta i testi di Gen con Is 54,1 («Rallegrati sterile, che non partorisci ecc.»). Per Paolo i Galati sono figli sulla linea di Isacco e quindi sono figli della libera, figli di libertà (4,31). Conseguentemente li invita a non lasciarsi imporre nuovamente il giogo della schiavitù: il compromesso che essi cercavano di realizzare, di essere mediante il Cristo figli della libera e, contemporaneamente, mediante la Legge figli della schiava, non è possibile per l’incompatibilità tra schiavitù e libertà.
5,2-12 Conclusione riassuntiva (= peroratio) della terza dimostrazione
Nel concludere la terza argomentazione Paolo prima si rivolge ai Galati che, se si sottopongono alla circoncisione, non avranno più nulla a che fare con il Cristo. In quello che è uno dei vertici della lettera (5,6) Paolo afferma che, per chi vive la vita nuova e la libertà in Cristo, tutto perde valore, sia la circoncisione come la non-circoncisione.
Poi allude a coloro che stavano sconvolgendo la fede dei Galati. I Galati correvano bene (le immagini sportive sono elemento comune a tutte le quattro dimostrazioni: 2,2; 3,3; 4,9; 5,7.16.18.25), ma si sono lasciati bloccare dai giudaizzanti (5,7). Di essi si riesce a ricostruire ben poco: che erano sostenitori della circoncisione e che con quella scelta riuscivano ad evitare la persecuzione a motivo della croce di Cristo.
Quarta argomentazione: il risvolto etico del
Vangelo (5,13-6,10)
[Questa parte è di solito chiamata parte
‘esortativa’ e di fatto è dominata da numerosi
imperativi e dall’elencazione di vizi e di virtù. Tuttavia
non è un insieme di esortazioni qualsiasi, staccate tra di loro
e che potrebbero anche mancare in questa lettera e magari trovarsi in
un’altra. In realtà la fede di cui Paolo ha parlato nelle
argomentazioni seconda e terza deve necessariamente manifestarsi,
esprimersi, ed “essere operante nella carità” (5,6),
così come è lo Spirito a rendere figli (cf.
argomentazioni precedenti) e ad ispirare la vita nuova di colui che
è stato portato dal Cristo alla libertà (cf. le 10
menzioni dello Spirito in questa argomentazione)].
5,13-15: Ammonizione iniziale
Il cristiano è chiamato a libertà, ma libertà non vuol dire libertinismo, bensì amore e servizio vicendevole. La Legge, che ha il radicale limite di non poter vivificare, cf. 3,21, non è però senza valore positivo, tanto è vero che ha nell’amore la sua pienezza (5,14).
5,16-25: Camminare secondo lo Spirito
L’imperativo di camminare secondo lo Spirito ricorre all’inizio (5,16) e alla fine (5,25), mentre al centro si contrappongono le opere delle carne e il frutto dello Spirito (5,19-24). Tutti i commentatori fanno osservare come il plurale di “opere della carne” parla del caos interiore di chi vive secondo la carne e spadroneggiato dalle passioni, mentre il singolare di “frutto dello Spirito” parla dell’unità interiore che lo Spirito produce in chi da esso si lascia guidare.
[Chi è stato liberato dal Cristo è
stato liberato dalla carne (“carne” è l’uomo
non-rigenerato, non-redento). Libertà cristiana dunque non vuol
dire vivere compiendo le opere della carne, ma vuol dire camminare
secondo lo Spirito (che Dio ha mandato nei nostri cuori, cf. 4,6),
nella cui sfera il Cristo ci ha trasferiti. E vuol dire produrre i
frutti dello Spirito].
5,26-6,5: La condotta dei cristiani pneumatici
I primi a dover compiere la legge del Cristo, e cioè il comandamento dell’amore, sono i fratelli / i cristiani, animati dallo Spirito. Il loro impegno è quello di correggere coloro che si sono lasciati irretire dalla colpa, e di portare i pesi degli altri. Il loro rischio invece è di andare in superbia e così di cadere nella tentazione. Questo è il fardello non degli altri, ma quello proprio, per cui bisogna vigilare su se stessi (6,1-5).
6,6-10: Raccomandazioni ai catecumeni
Chi riceve l’annuncio evangelico deve sostentare il suo maestro o catechista (col proprio denaro). Piuttosto che seminare nella carne (= soddisfare le proprie esigenze materiali), è meglio seminare nello Spirito (= contribuendo al mantenimento della chiesa?). Il frutto ci sarà perché a suo tempo si potrà mietere, nella vita eterna (vv 6-10).
Post-scritto epistolare con funzione di peroratio
(6,11-17)
Dopo il saluto autografo (6,11), Paolo riassume i temi centrali della
lettera (6,12-17).
Quello di 6,16 è il versetto più importante di tutta la
lettera perché Paolo stesso lo definisce come “canone
/κανων”, come norma e criterio di
giudizio per ogni questione: «In 6,15 Paolo ricapitola il proprio
Vangelo: non è la circoncisione che conta, né la
non-circoncisione, ma la nuova creazione, che ha avuto inizio con la
morte di Gesù sulla croce».
Augurio finale (6,18) (senza alcun saluto dei co-mittenti)
Quando parla di coloro che avevano sconvolto le
chiese paoline di Galazia, Paolo non parla di “avversari” o
di “oppositori” ecc. come fanno gli studiosi, ma parla di
“agitatori”, “perturbatori”. La lettera ai
Galati che è l’unica fonte che di loro ci parla, non aiuta
molto a ricostruire né la loro identità, né la
loro attività, né la loro dottrina. Sembra che Paolo non
ne conosca neanche il numero perché alterna il singolare al
plurale: «Vi sono alcuni (τινες) che
vi turbano (οι
ταρασσοντες
υμας) e vogliono sovvertire il Vangelo di
Cristo» (1,7); «Chi vi turba (ο δε
ταρασσων
υμας), subirà la sua condanna, chiunque
egli sia (οστις εαν
η)» (5,10); «Quelli che
(οσοι) vogliono fare bella figura nella
carne, costoro (ουτοι) vi costringono
a farvi circoncidere ecc.» (6,12).
È certo che volevano imporre ai cristiano-pagani di Galazia la
circoncisione (5,2; 6,12) ed erano in qualche modo sostenitori della
Legge mosaica (cf. la continua polemica di Paolo contro di essa). Erano
favorevoli alla missione tra i pagani, tanto è vero che erano
attivi in Galazia, ma erano contrari a un annuncio senza la Legge.
Sostenevano dunque che il Cristo non ha abolito la Legge, e che essa
è necessaria anche ai pagani. In altre parole, per essi era
necessario il passaggio attraverso il giudaismo per diventare
cristiani. I sostenitori di questo cristianesimo ancora legato alle
pratiche del giudaismo vengono di solito chiamati
“giudaizzanti” (dal verbo “giudaizzare /
ιουδαιζειν”
che si trova in Gal 2,14).
Erano missionari itineranti venuti da fuori perché Paolo li
distingue e contrappone ai destinatari della lettera (cf. per esempio
4,17), e probabilmente si rifacevano a un leader (5,10:
«… ma colui che vi turba»; cf. anche 6,3 ecc.), il
quale certamente non va identificato né con Pietro né con
Giacomo, perché di essi Paolo parla con grande stima in 1,18-19
e 2,7-9. Appartenevano probabilmente a quei ‘falsi
fratelli’ (2,4) che nell’assemblea apostolica si opposero
alla libertà dalla Legge per i pagani. Dunque appartenevano
all’ala radicale dei giudeo-cristiani di Gerusalemme (o di
Antiochia) che era disapprovata dalle “tre colonne” (2,9).
I Galati si erano lasciati distaccare da Paolo tanto da considerarlo quasi un nemico (4,16). Avevano già accettato un calendario di feste giudaizzanti (4,10), ma non si erano ancora fatti circoncidere (5,2; 6,12). Erano dunque sulla via dell’apostasia ma non avevano ancora compiuto il passo irreparabile. Pur essendo molto preoccupato e irritato, Paolo spera ancora di potere convincere le chiese cui si rivolge con la lettera. – «Convertiti dal paganesimo dall’evangelizzazione paolina, i Galati erano venuti a conoscenza in un secondo momento del valore religioso della circoncisione. Poiché la distinzione tra sinagoga e chiese nel I sec. non era così netta come oggi, i cristiani della Galazia volevano farsi circoncidere, pensando che la circoncisione potesse aggiungere qualcosa alla loro fede e alla loro salvezza» (PITTA, in Bibbia Piemme, 2797).
«…Proprio per contrastare questa convinzione [dei Galati], Paolo scrive per dire come la circoncisione era negativa non in se stessa, bensì in relazione al Vangelo: a che cosa sarebbe servito più il Cristo, se la salvezza derivava dalla circoncisione e dalla Legge?» (PITTA, in Bibbia Piemme, 2797-2798). È dunque riduttivo pensare alla lettera ai Galati come scritta da Paolo per convincere i destinatari a non farsi circoncidere. Il problema è più profondo e consisteva nel fatto che i Galati non comprendevano di essere entrati a far parte della “nuova creazione”» (p. 2812). «Tema centrale di Gal dunque è il Vangelo» (p. 2799); «La sottolineatura fatta da Paolo non è quella della morte e resurrezione del Cristo, ma quella del dono dello Spirito che rende figli. La lettera ai Galati, come quella ai Romani e ai Filippesi, si può denominare come “il Vangelo di Paolo”» (p. 2813)
L’importanza di Gal si misura sulla storia stessa delle religioni e della civiltà. I cristiani giudaizzanti e probabilmente l’intero movimento cristiano (e forse anche le “colonne” di Gerusalemme) non si rendevano conto delle conseguenze di un Vangelo con o senza Legge. Incompreso e anche fatto oggetto di ostilità generale, Paolo combatté e, per merito della sua battaglia, la cultura universale si è arricchita di un nuovo concetto e di una nuova prassi di libertà e di universalismo.
Come nessun altro nel cristianesimo primitivo, Paolo
è lucidamente consapevole che il movimento cristiano si trova
nel momento del non-ritorno, che è in pericolo tutta
l’opera salvifica del Cristo. Paolo «vive l’ora dalla
quale tutto dipende, l’attimo che non torna e che ha un peso
decisivo. Per questo si erge davanti ai Galati fissandoli negli occhi e
parla con tutta l’energia con cui un uomo deve parlare ad altri
uomini che vuole costringere a una scelta» (P. ALTHAUS, Galati,
24).
Con la sua battaglia Paolo fece in modo che il movimento cristiano non
restasse una semplice corrente o gruppo del giudaismo: «La
lettera ai Galati è per la storia delle religioni un importante
documento che testimonia il distacco del cristianesimo dal giudaismo.
Senza questa liberazione, il cristianesimo sarebbe rimasto una setta
giudaica, senza divenire invece la religione dei popoli»
(SCHELKLE, Paolo, 108).
Il concetto paolino di libertà è
innovatore sia nei confronti dell’ellenismo, sia nei confronti
del giudaismo.
Nella Grecia classica la libertà è la libertà del
cittadino (πολιτης, polit?s)
nell’orizzonte della pòlis
(πολις), e cioè della
città-stato greca, quali erano Atene, Corinto, Tebe, Sparta,
Efeso, Siracusa ecc. Si tratta della libertà dei soli cittadini
che godono di pieni diritti (non degli schiavi, di coloro che sono
stati privati di cittadinanza ecc.). Essi dispongono liberamente di
sé, eleggono e sono eletti alle magistrature secondo la Legge
(νομος) che garantisce i diritti
dell’individuo e in base alla quale vive la città / stato.
Chi va contro la legge non può appellarsi alla coscienza e deve
pagare la sua trasgressione con l’esilio (Alcibiade), o con la
morte (Socrate).
Dopo Alessandro Magno, nell’età ellenistica, alla pòlis
si sostituisce il cosmo (κοσμος o
κοσμοπολις),
e il polit?s diventa cosmo- polit?s, cioè
cittadino disperso nell’impero. Per lui il concetto di
libertà non è più politico, ma individuale e
interiore. Libertà è disporre liberamente del proprio
‘io’: è libertà sia da schiavitù
imposte dall’esterno, sia da sé stessi e dalle proprie
passioni. Miravano a un tale dominio su di sé, all’
αρχειν
εαυτον (dominare sé
stessi), per esempio gli stoici: cf. Epitteto, che diceva: «Al
desiderio contrapponi il dominio di te stesso».
Anche a questo riguardo Roma fu erede della Grecia. Dalla Grecia
ereditò anzitutto il concetto politico di libertà. Lo
stesso Paolo si avvale del suo diritto di cittadino romano libero,
quando si sottrae alla giurisdizione palestinese di Agrippa
appellandosi al tribunale dell’imperatore (Atti 22,25ss). Anche
qui la libertà ha un limite nella legge. Per questo i cristiani
saranno giudicati come cattivi cittadini ogni volta che si opporranno
al culto dell’imperatore, simbolo dello Stato e delle sue leggi.
Roma però eredita dalla cultura greca anche il concetto
filosofico di libertà, come pieno dominio di sé (cf. per
esempio la Lettera di Seneca a Lucilio; cf. Marco Aurelio, ecc.).
Il cristianesimo fa dell’uomo, cittadino della pòlis
(polit?s) e cittadino del cosmo (cosmopolit?s), un
cittadino del cielo
(ουρανοπολιτης).
L’esperienza della grazia, l’essere “nuova
creatura” supera e trascende la libertà interiore del
dominio di sé e diventa “lasciare disporre di
sé”, “lasciarsi liberare dal Cristo”. Proprio
in Gal Paolo dice che non è più lui a vivere, ma il
Cristo che vive in lui (Gal 2,20), (H. SCHLIER, «La Legge
perfetta della libertà», in Il tempo della Chiesa,
310-329.
(1) La lettera ai Gal è così paolina che nessuno oggi mette in discussione né l’autenticità, né l’unitarietà. (2) È un caso di lettera circolare, unico nell’epistolario paolino, esplicitamente diretta a più comunità di una stessa regione. (3) Nella lettera mancano notizie circa le fonti (= le persone da cui Paolo è stato informato), e circa i collaboratori e, infine, circa la colletta che, secondo 1Cor 16,1, è stata fatta anche in Galazia. (4) Da nessun documento antico veniamo a sapere se i Galati abbiano o no ascoltato i richiami di Paolo: la partecipazione alla colletta e il fatto che la lettera sia stata conservata, evidentemente dagli stessi Galati, sono segno positivo.
Commentari
J.-M., LAGRANGE (21926), J. A. ALLAN (1951), H.N. RIDDERBOS
(1953), P. ALTHAUS (1962, it 1980), H. SCHLIER (1962, it 1965), A.
VIARD (1964, it 1970), W. BARCLAY (1966), J. BLIGH (1970, it 1972), P.
BONNARD (21972), F. MUSSNER (1974, it 1987), W.K. GROSSOUW
(1974), J. BECKER - H. CONZELMANN (1976), H.D. BETZ (1979), E. COTHENET
(1980), G. EBELING (1981, it 1989), F.F. BRUCE (1982), D. PATTE (1983),
W. RADL (1985), W. EGGER (1985), T.Y.G. FUNG (1988), B. CORSANI (1990),
A. PITTA (1995), A. VANHOYE (1999).
Monografie
Caratteristiche molto esteriori di Rom, e tuttavia significative sono:
Per tutto questo, nel protestantesimo Paolo e le sue lettere hanno sempre avuto uno spazio molto maggiore che non nella chiesa cattolica, sia a livello teologico, sia a livello di vita vissuta. Dell’apostolo Paolo il mondo cattolico si è dato un’immagine che viene dagli Atti e dalle Pastorali, più che dalle sue lettere. In questo secolo tuttavia anche i cattolici hanno studiato e commentato Paolo e la lettera ai Romani (J.-M. Lagrange, L. Cerfaux, K. Prümm, O. Kuss, S. Lyonnet, J. Dupont, J.A. Fitzmyer ecc.), ma sono ancora i protestanti a esercitare l’influsso più forte. Il teologo calvinista svizzero K. Barth ha commentato tre volte Rm (1919, 1922, 1940-41) e, a partire da Rom, ha rotto con le dominanti scuole teologiche liberali razionalizzanti e moralizzanti (affermazione di valori puramente umani, religione fatta solo di nobili principi morali), imponendo un deciso ritorno alla fede come nucleo originario del cristianesimo. Un altro protestante, E. Käsemann, ha studiato la lettera ai Romani per cinquant’anni.
Poiché poco o nulla è detto nella
lettera esplicitamente, ci si chiede perché mai essa sia stata
scritta alla comunità di Roma, dal momento che si trattava di
una comunità non fondata, e neanche mai ancora visitata, da
Paolo (1,13; 15,22), e dal momento che l’apostolo si era imposto
la regola di non interferire nelle chiese fondate da altri (cf. la Nichteinmischungsklausel,
o “clausola della non-interferenza”, di 15,20, come la
chiama G. Klein).
Dalla lettera stessa si può comunque ricavare che:
(a) Paolo, appunto, non ha fondato, né mai visitato la
comunità di Roma, ma da molto tempo desidera visitarla. Fino al
momento in cui scrive però ne è stato impedito:
«Più volte mi sono proposto di venire fino a voi, ma
finora ne sono stato impedito» (Rm 1,13; 15,22). – (b)
Paolo pensa la sua prossima visita come una visita apostolica:
«Ho vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono
spirituale», (1,11); «… per raccogliere qualche
frutto anche tra voi come tra gli altri gentili», (1,13);
«… sono pronto a predicare il Vangelo anche a voi di
Roma», (1,15). – (c) Nei confronti della comunità di
Roma, Paolo si sente in un inconsueto rapporto di reciprocità:
la sua visita è preannunciata in termini di scambio vicendevole:
«… o meglio: per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante
la fede che abbiamo in comune», (1,12). – (d) Roma,
però, non è la meta, bensì solo una tappa
intermedia per andare in Spagna (15,24.28). Sentendo di avere esaurito
il suo apostolato orientale (15,23), Paolo ora vuole dedicarsi
all’evangelizzazione dell’altra metà
dell’impero. Scrivendo, Paolo si sente dunque a un cambio di
epoca. – (d) Prima di tutto questo, però, Paolo deve
recarsi a Gerusalemme per consegnare alla chiesa-madre l’aiuto
economico e il segno di comunione ecclesiale da parte delle chiese di
Macedonia e Acaia (15,25ss), e probabilmente anche di Galazia (cf. 1Cor
16,1). – (e) Al riguardo Paolo nutre due forti timori:
«… lottate con me nelle vostre preghiere perché io
sia liberato dagli infedeli della Giudea [= primo timore: che i giudei
palestinesi vogliano ucciderlo]; e il mio servizio a Gerusalemme torni
gradito a quella comunità [= secondo timore: che la chiesa-madre
rifiuti il segno dell’unità ecclesiale]», (15,30-31).
Rm è stata scritta certamente dopo 1-2
Corinzi perché in quelle due lettere la colletta è ancora
in preparazione. Più che dalla Macedonia - e in particolare da
Filippi (secondo l’opinione di V. Taylor) - o dall’Asia, e
più che da Atene, la lettera per la maggioranza degli autori
è stata scritta da Corinto, durante la sosta di tre mesi che
Paolo fece a Corinto nella terza visita alla città. A Corinto fa
pensare tra l’altro anche il v. 16,23, dove Paolo dice di essere
ospite di Gaio, dal momento che un Gaio corinzio è stato
battezzato da Paolo secondo 1Cor 1,14. Rm dunque è stata scritta
o alla fine del 57 o all’inizio del 58. – Mentre scrivano
fu Terzo (16,22), latore della lettera fu probabilmente Febe,
diaconessa di Cencre (porto orientale di Corinto), che Paolo raccomanda
in Rm 16,1-2.
Secondo il racconto degli Atti, l’ostilità che Paolo
temeva da parte dei giudei di Gerusalemme ci fu già
all’inizio del viaggio, da parte dei giudei di Corinto:
«Trascorsi tre mesi, poiché ci fu un complotto dei giudei
contro di lui mentre si apprestava a salpare per la Siria [= via mare],
decise di fare ritorno [a Gerusalemme] per la Macedonia [= dunque via
terra]», (Atti 20,3). A Gerusalemme poi
quell’ostilità portò a un tentativo di linciaggio
(Atti 21,26ss: soprattutto 21,31), e comunque all’arresto e,
più tardi, al trasferimento in catene a Roma per il processo al
tribunale imperiale.
Dalla lettera si ricavano alcune importanti notizie
su Paolo e il momento storico che viveva, ma «non si può
dedurre nulla o quasi sulla condizione di quella comunità [= di
Roma], tutto all’opposto delle altre lettere
dell’Apostolo» (KUSS, Paolo, 179). Per questa
assenza di riferimenti alla situazione storica molti autori hanno
sostenuto che il genere letterario di Rm più che quello della
lettera è quello di un trattato teologico, di un manifesto
dottrinale, di un compendio della teologia paolina o il testamento
spirituale dell’apostolo: quasi un monologo. Se proprio di
lettera bisogna parlare - si dice -, allora la si potrebbe definire
lettera ‘didattica’, o un’enciclica che Paolo
può aver destinato successivamente a più chiese.
Dai tempi di F.C. Baur († 1860) si è però andati
in cerca di una situazione concreta della comunità romana: per
Baur Paolo scrive ai giudeo-cristiani di Roma che si oppongono
all’evangelizzazione dei pagani fino a che non abbiano aderito
alla fede i giudei. Le discussioni successive hanno mostrato come
invece Paolo si rivolga anche (e forse soprattutto) a pagano-cristiani,
e come i problemi concreti della comunità romana siano marginali
nella lettera, mentre fortemente sentiti dall’apostolo sono i
problemi che lui personalmente sta vivendo.
Anche lo scopo per cui la lettera è stata scritta, è da cercare soprattutto nella situazione personale di Paolo, oltre che nella situazione della comunità di Roma.
Per decifrare l’enigma dello scopo della lettera bisogna dunque tenere conto del fatto che essa è un ‘insieme’ di contenuti e di motivazioni (KUSS, Paolo, 196, e 199).
Nonostante le sue lacune [= non parla dell’Eucaristia, dell’ordinamento comunitario, di molti aspetti della morale cristiana; parla poco della chiesa, poco dell’escatologia e della resurrezione; la cristologia è incompleta ecc.], è la lettera più elaborata, la più sistematica e la più teologicamente ricca di tutte le lettere di Paolo. Nonostante che Paolo proceda anche qui in modo dialettico, quella ai Rm è tuttavia una lettera espositiva e non polemica.
Il vocabolario di Rm è abbastanza ricco (su
circa 7.100 parole 1.068 non si ripetono), e questo rivela quale buona
conoscenza Paolo avesse della lingua, e quindi anche della cultura,
ellenistica. Paolo fa ricorso anche a convenzioni letterarie della
cultura ellenistica: il climax (o serie di affermazioni in
crescendo, 5,3-5; 8,29-30), il chiasmo (o parallelismo in cui
gli elementi si ripetono in ordine inverso, secondo lo schema a-b b1-a1:
cf. 1,17-18; 2,6-11, 6,3; 11,22; 11,33-36); e soprattutto la diatriba
(R. Bultmann 1909; S.K. Stowers 1981; Th. Schmeller 1987). La diatriba
è una lezione filosofica in stile colloquiale, in forma di
dialogo con un interlocutore anonimo e fittizio, vivacizzata da
obiezioni, domande e risposte ecc. In Rm l’interlocutore
immaginario si trova per esempio in 2,1-5; 2,17-24; 9,19-21; 11,17-24
ecc., la replica a obiezioni in 3,1-9; 3,31-4,2a; 6,1-3.13-16 ecc.
I tratti stilistici propri a Paolo sono l’anacoluto, il carattere
disarticolato della frase, sbalzi improvvisi nell’argomentazione,
lo schema triadico a-b-a1. Cf. 3,21-31: Dio giustifica per
fede (= a); 4,1-22: Abramo in Gen 15,6 come prova biblica (= b);
4,23-5,21: Dio giustifica per fede (= a); cf. anche 9,6-29:
incredulità di Israele e i piani di Dio (= a); 9,30-10,21:
colpevolezza di Israele per la sua incredulità (= b); 11,1-36:
incredulità di Israele e i piani di Dio (= a). – I (non
numerosissimi) semitismi, le numerose citazioni dell’AT
soprattutto dalla Septuaginta (65 citazioni), l’impiego
di termini, immagini, concetti dal contenuto antico-testamentario
rivelano la dipendenza di Paolo dall’AT.
Paolo dimostra infine di essere influenzato dalle tradizioni del
cristianesimo primitivo dal momento che sembra incorporare nella sua
lettera frammenti di catechesi (1,3b-4; 4,25; 10,9) o di liturgie
protocristiane (3,25; 6,4-5), e sembra alludere a logia di
Gesù (1,16a; 12,14.17; 13,7; 14,13.14).
Nel suo grande impero, Roma non era solo capitale politica, ma era anche capitale economica: convogliava e monopolizzava tutti i traffici e tutte le ricchezze dell’impero. La popolazione con le sue classi (plebei, aristocratici, schiavi e immigrati) si aggirava sul milione di abitanti. Per la grande mobilità di politici, militari, amministratori e ufficiali pubblici, commercianti ecc., le informazioni da e per Roma erano facili e frequenti. Di qui il fatto che Paolo a Roma conosceva (manda i saluti a poco meno di 30 persone), ed era conosciuto.
Gli inizi del Vangelo a Roma sono immersi nel
più fitto mistero, ma sono molto più antichi della
lettera di Paolo (A. WIKENHAUSER - J. SCHMID, Introduzione al NT,
497). Nel 49 infatti [per altri addirittura nel 41!] l’imperatore
Claudio espulse da Roma gli ebrei per i tumulti scoppiati tra di loro.
All’origine dei tumulti giudaici, secondo lo scrittore latino
Svetonio, ci fu un certo Cresto (impulsore Chresto).
L’editto di espulsione degli ebrei da Roma dunque è stato
emesso dall’imperatore Claudio a motivo dello scontro tra giudei
messianici [= i cristiani, di cui Chrestus non è il
capobanda, ma il Messia-Cristo] e giudei non-messianici o
anti-messianici [= giudei, presenti a Roma con una forte colonia da
tempi lontani, e già espulsi una prima volta nel 139 a.C.].
Il documento più antico sulla comunità cristiana di Roma
è proprio la lettera ai Rom. Dei cristiani di Roma parla, poi,
Atti 28. Al tempo della lettera la comunità romana aveva
già alle sue spalle una certa storia ed era già famosa,
come dice Paolo stesso: «La fama della vostra fede si espande in
tutto il mondo» (1,8); «La fama della vostra obbedienza
è giunta dovunque» (16,19).
Da come Paolo si esprime (1,8.13; 15,20) è
del tutto evidente che fondatore non è Paolo, e nulla nella
lettera è a favore dell’ipotesi che sia stata fondata da
suoi discepoli (come voleva F.A.G. Tholuck, † 1877). Non
è stata fondata neanche da Pietro. Né Rom, né Atti
28 parlano di Pietro. Certamente Pietro è stato a Roma e vi ha
subito il martirio (cf. 1Clem, Ignazio di Antiochia, cf.
l’archeologia), ma, con ogni probabilità è giunto a
Roma dopo la stesura della lettera di Paolo.
La comunità romana ha avuto origine non in seguito a un lavoro
missionario organico, non per opera di un apostolo o di un missionario
famoso, e neanche per opera di un singolo, bensì per opera di
anonimi immigrati, di cristiani semplici di cui nessuno ha conservato
il nome. Soprattutto nel sec. ii (ma anche nel sec. i), infatti, il
cristianesimo è stato diffuso non da singole grandi
personalità, bensì attraverso gli spostamenti di soldati,
schiavi, commercianti ecc. Cf. P. BESKOW, «Mission, Trade and
Emigration in the Second Century», in Svensk Exegetisk
Årsbok 35 (1970), 105-114.
A causa delle molte citazioni bibliche, delle
obiezioni di taglio giudaico cui Paolo risponde in Rom, e per il fatto
che a Roma c’era una forte comunità giudaica [50.000
giudei, - almeno 13 sinagoghe (sinagoga da intendere come
comunità, non come luogo di preghiera) conosciute dalle
iscrizioni delle catacombe giudaiche], alcuni hanno sostenuto che la
comunità romana fosse a maggioranza giudeo-cristiana. Ma Paolo
è pressoché esplicito nel definire i suoi principali
interlocutori come pagano-cristiani: «Tra queste [= tutte le
genti] siete anche voi» (1,5-6); «… per raccogliere
qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri gentili» (1,13);
«Ecco che cosa dico a voi gentili: come apostolo dei gentili, io
ecc.» (11,13); cf. anche 15,15-16.
Originariamente la comunità era nata dalla grande presenza
giudaica, ma l’espulsione di Claudio (49 a.C.) aveva indebolito
la rappresentanza giudeo-cristiana. Nel 54, alla morte di Claudio, gli
espulsi possono anche essere rientrati, ma - come lascia intravedere la
lettera - la maggioranza era probabilmente pagano-cristiana.
Cf. W. WIEFEL, «The Jewish Community in Ancient Rome and the
Origins of Roman Christianity», in K. DONFRIED G., The Romans
Debate (Peabody, MA, 1991), 85-101; PENNA R., «Gli Ebrei a
Roma al tempo dell’Apostolo Paolo», in IDEM, L’Apostolo
Paolo. Studi di esegesi e teologia (Milano 1991), 33-63.
Il gruppo dei deboli (che mangiavano solo legumi 14,2) e quello dei forti (che mangiavano tutto, e coi quali si schiera anche Paolo, cf. 14,14; 15,1) rivelano molto poco della comunità romana. Si potrebbe anche trattare di una generalizzazione fatta da Paolo a partire da sue esperienze (avute per esempio a Corinto, da dove scrive; così pensa J. FITZMYER, «La Lettera ai Romani», in Grande Commentario Biblico, [Jerome Biblical Commentary], 1204). Con Agostino alcuni pensano che i deboli siano giudei, altri con Giovanni Crisostomo che siano giudeo-cristiani, ma non è conosciuta alcuna pratica vegetariana nel giudaismo, mentre si riscontra nel paganesimo antico. – A parte la difficile identificazione dei due gruppi, J. DUPONT, «Appel aux faibles et aux forts», in Analecta Biblica 17, 366, richiama l’attenzione sul fatto che Paolo ha a cuore l’unità e l’accoglienza vicendevole: «Accogliete tra voi chi è debole nella fede», (all’inizio, 14,1); «Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi», (alla fine 15,7).
Gli autori sono sostanzialmente d’accordo nel dividere la lettera in: introduzione (1,1-15), parte dottrinale (1-11) con l’enunciazione programmatica di tutto il contenuto in 1,16-17, parte morale-parenetica (12-15,13), e conclusione (15,14-16,27). Si discute invece sull’ulteriore divisione della parte dottrinale. In particolare non si è d’accordo: (1) nel suddividere Rm 3-11 in due o tre sezioni; (2) nel fare di Rm 5 la conclusione di ciò che precede, l’introduzione di ciò che segue, o tutte e due (= in 5,1-11 conclusione, e in 5,12-21 introduzione); (3) circa il ruolo di Rm 9-11: se sia una appendice o un vertice; se sia parte integrante della lettera (la sua ampiezza lo fa pensare), o se costituisca un blocco a se stante, magari in qualche modo pensato, scritto e utilizzato ripetutamente da Paolo nella sua pratica e attività missionaria. – Data la sua natura di lettera dottrinale, sistematica e programmatica, è da pensare che Rm abbia un piano (contro H. Schlier, W.G. Kümmel ecc.), ed è importante individuarlo in ordine alla comprensione.
La lettura confessionale di Rom, come quella di Gal,
ora è in una fase di superamento. Se nell’interpretazione
tradizionale dei protestanti il discorso di Paolo in Rm ha il suo
centro di gravità nella cristologia e soteriologia
(credendo nel Cristo e nella sua croce si è giustificati senza
le opere ma, appunto, solo con la fede), ora si va mettendo in luce
come invece Rm sia incentrato sulla teologia e cioè
sulla dottrina che riguarda Dio.
A questo proposito è significativo il titolo: «Divine
Impartiality. Paul and a Theological Axiom», del libro di J.M.
Bassler (Chico, CA, 1982). Le affermazioni centrali di Rm riguardano
dunque non la cristologia e, in realtà, Paolo in Rm è
intento a dimostrare l’assioma teologico secondo cui Dio è
imparziale e giusto. Questo cambio di prospettiva è confermato
dallo studio di Rm alla luce della retorica antica: l’analisi
retorica mette in luce che in tutta la lettera Paolo difende
l’agire giusto di Dio e fa comprendere come affermazioni, che
prima sembravano centrali o che sembravano esprimere convinzioni di
Paolo stesso, sono in realtà il rimando a posizioni teologiche
che nel seguito della lettera Paolo poi ridimensiona. Questo è
detto interrogativamente nel titolo di un altro libro: «Comment
Dieu est-il juste? Clefs pour interpréter
l’épître aux Romains» (J.-N. ALETTI, Paris
1991), il quale si ispira alla retorica antica per la dispositio
di tutta la lettera.
Mentre W. Wuellner (1976) e F. Vouga (1988) ricercano in Rm gli elementi della dispositio retorica così come si trova nei manuali, Aletti è convinto (cf. Biblica 1988, 47-62; Biblica 1990,1-24; Comment Dieu, Paris 1991; Biblica 1996, 154-177), che, insieme a una propositio generale, Paolo sviluppi e articoli quella tesi in propositiones secondarie, così che il tema generale viene svolto in quattro sviluppi in qualche modo autonomi e autosufficienti. La tesi generale, come anche molti altri commentatori affermano, si trova in Rm 1,16-17, e le sezioni che la sviluppano sono in 1,18-4,25; 5,1-8,39; 9,1-11,36; 12,1-15,13. Il piano di Rm dunque sarebbe:
1,1-7: Prescritto epistolare
1,8-15: Travelogue epistolare con funzione retorica di esordio
1,16-17: Propositio generale di tutta la lettera
Prima argomentazione: L’imparzialità divina nella collera e nella grazia (1,18-4,25)
Seconda argomentazione: La novità di vita
dei giustificati (5,1-8,39)
Terza argomentazione: Dio, le genti e la salvezza d’Israele
(9,1-11,36)
Quarta argomentaz.: Vita intra-comunitaria e civica come culto
spirituale (12,1-15,13)
Ritorno allo schema epistolare: notizie, esortazioni, saluti
15,14-32: Travelogue epistolare con funzione di perorazione retorica
16,1-24: Esortazioni e saluti epistolari
16,25-27: Dossologia finale
In questa suddivisione della lettera, le difficoltà segnalate sopra vengono risolte come segue: (1) Quanto a Rm 5, pur richiamando le sezioni precedenti soprattutto nella sua seconda parte (5,12-21), introduce Rm 6-8, contenendo l’esordio, l’enunciazione della tesi o propositio, e il confronto su cui si baseranno i confronti della dimostrazione che segue. (2) Quanto poi a Rm 9-11, quei tre capitoli non sono affatto un’appendice o un corpo estraneo, ma riprendono ad un altro livello le domande sollevate in Rm 1-4 dall’equiparazione di giudei e non-giudei affermata da Paolo in Rm 1-4 (cf. in particolare le domande di 3,1-4 circa la superiorità del giudeo), e quelle sollevate in Rm 6-8 dall’attribuzione ai cristiani di ciò che era tradizionale privilegio dei giudei. (3) Anche la sezione chiamata di solito ‘esortativa’ o ‘parenetica’ non contiene esortazioni frammentarie o fine a se stesse, ma traduce in termini di vita vissuta le affermazioni del Vangelo di Paolo sul dono dello Spirito all’uomo giustificato per fede e rinato nel battesimo per camminare in novità di vita.
Prescritto epistolare (1,1-7)
Mittente: Paolo, apostolo, prescelto per annunciare il Vangelo. La buona notizia non può non essere quella circa Gesù, nato dalla stirpe di Davide ma Figlio di Dio e risorto dai morti; Paolo è apostolo per ottenere l’obbedienza della fede (1,1-6)
Destinatari (1,7a): a quanti sono in Roma, amati da Dio e santi per vocazione
Augurio (1,7b) di grazia e pace
Ringraziamento e programmi di viaggio (travelogue), con funzione di esordio (1,8-15)
1,8-14: Paolo visiterà Roma per uno scambio di doni spirituali. Menzione dei tentativi fatti in precedenza di andare a Roma
1,15: Per la sua vocazione apostolica, Paolo si sente debitore del Vangelo a tutti, quindi anche ai Romani
Propositio generale per tutta la lettera (1,16-17)
Il Vangelo è potenza salvifica per chiunque crede, sia giudeo che greco: nel Vangelo si rivela la giustizia (giustificante) di Dio mediante la fede
1a parte: Dio è giusto sia
nella sua collera (1,18-3,20) sia nella sua giustizia (misericordiosa)
(3,21-4,25)
A. Dio è imparziale nella collera (1,18-3,20)
(αποκαλυπτεται
γαρ οργη
θεου επι
πασαν
ασεβειαν
και αδικιαν, 1,18)
1,18-32: Di fronte al giudizio di Dio, i pagani sono inescusabili (αναπολογητοι) perché hanno soffocato la conoscenza di Dio o fermandosi a una conoscenza intellettuale, o dando agli idoli la gloria che dovevano dare a Dio. Per questo Dio, nella sua giustizia retributiva (chiamata da Paolo “ira”, οργη), li ha abbandonati alle passioni più infami (1,24ss, 26ss, 28ss), che vengono descritte ed elencate (1,24-31). C’è addirittura chi non solo fa il male, ma giunge perfino ad approvarlo (1,32).
2,1-29: «A partire da 2,1 Paolo cerca di far saltare convinzioni diffuse come quella d’una misericordia speciale per i giudei nel giorno del giudizio» (ALETTI, «La présence», 6). Per questo prosegue discutendo la posizione di coloro che, giudei inclusi e anzi, loro soprattutto, hanno la Legge, la conoscono, e perfino l’insegnano agli altri, ma non la osservano (2,1-11).
A motivo della sua natura di giudice giusto, Dio giudicherà ciascuno secondo le sue opere, ricompensando il bene e punendo il male, senza distinguere tra giudei e non giudei, «perché presso Dio non c’è parzialità» (2,11). Un giudeo può dunque essere un vero e proprio incirconciso, non nella carne ma nel cuore (2,25), e anche un tale giudeo, non meno dei pagani, è inescusabile (2,1). Ci sono invece dei non-circoncisi che in pratica osservano la legge senza conoscerla (2,25-29).
[Le categorie religiose in cui si divide l’umanità sono dunque meno rigide di quello che può apparire a prima vista e, se davvero Dio conosce i segreti del cuore, quando giudica non può fermarsi a ciò che è esteriore, e cioè ai privilegi storico-religiosi degli Israeliti, ma deve ricompensare il bene dovunque si trovi (nel giudeo come nel non-giudeo) e punire il male dovunque si trovi (nel giudeo come nel non-giudeo). Se non si comportasse così, Dio non sarebbe un giudice giusto (2,6-16).]
3,1-20: Questo è tanto più vero dal momento che la Scrittura dichiara apertamente come non ci sia nessun uomo giusto: neppure uno (3,4.9.12.19): tutti, giudei e pagani (3,9) e perfino il cosmo (3,19) sono sotto il peccato (παντες υπ αμαρτιαν, 3,19). Per questo la sezione cominciava col dire che si sta rivelando l’ira di Dio (οργη θεου) su ogni iniquità (sia dei pagani che dei giudei) e che ad essa nessuno sfugge (1,18).
[Poiché Dio per sua natura è giusto e
imparziale, i giudei non possono sperare in un trattamento di favore,
come il giudeo potrebbe ricavare dai salmi in cui il peccatore si dice
certo del perdono di Dio, e come si affermava nel giudaismo
contemporaneo a Paolo. Ma la giustizia distributiva che premia il bene
e castiga il male, e che in qualche modo è già in azione
nell’abbandono degli idolatri alle passioni, oramai non
ispirerà più le scelte di Dio. La prima argomentazione,
che fino a 3,19 sembra portare a conclusioni negative e tragiche per
tutti senza eccezione, viene infatti completata dalla sua seconda
metà, che è caratterizzata da un annuncio
sorprendentemente positivo. Infatti, dopo avere portato il lettore ad
aspettarsi la condanna di tutti, giudei e non giudei, e dopo avere
fatto ricorso con grande abilità retorica anche a delle
esagerazioni e delle affermazioni che sembrano contraddirsi (secondo
2,6-16 c’è chi fa il bene sia tra i giudei che tra i non
giudei; invece secondo 3,20 tutti sono peccatori), – con una
affermazione a sorpresa Paolo annuncia che non ci sarà per
nessuno il giudizio divino di collera.
Se si volessero esprimere in modo meno paradossale le affermazioni di
Paolo che sono esagerate per esigenze retoriche, dovremmo dire che, se
anche c’è la possibilità teorica di qualche giudeo
irreprensibile (come lo stesso Paolo secondo Fil 3,6) o di qualche
pagano circonciso di cuore (Rm 2,26-29), tuttavia in pratica tutti sono
almeno esposti all’ira imparziale di Dio. E comunque, quelle
affermazioni esagerate e in qualche modo contraddittorie, avevano la
funzione retorica di preparare l’annuncio inaudito e sorprendente
contenuto nella seconda sub-propositio di 3,21-22a, e sviluppato
in Rm 3,22b-4,25].
B. Dio è imparziale, anche e soprattutto, nella misericordia
(3,21-4,25)
Dio giustifica tutti con la fede (νυνι
δε
δικαιοσυνη
θεου
πεφανερωται,
3,21)
3,21-22a: sub-propositio: «Dopo aver mostrato che nessun privilegio poteva essere invocato circa la giustizia distributiva divina (1,18-3,20), Paolo passa ad affermare che questa giustizia si manifesta per tutti, senza discriminazione alcuna, a partire dalla sola fede. Poi dimostra che questo era da molto tempo affermato dalla Torah stessa (3,21-4,25)» (ALETTI, «La présence», 21)
3,22b-26. Illustrazione positiva. Essendo sia il giudeo che il non-giudeo in situazione disperata perché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (3,23), la soluzione è il dono gratuito di Dio. Il nuovo rapporto degli uomini con Dio è stato reso da lui possibile quando Egli ha rinnovato l’umanità nell’ora messianica con la redenzione operata nel sangue di Gesù Cristo, strumento di espiazione (ιλαστηριον, 3,25). Quel nuovo rapporto non si instaura con lo sforzo dell’uomo, e non è ricompensa al suo comportamento o alla sua osservanza della Legge. La giustificazione viene data gratuitamente alla condizione che l’uomo creda in Gesù Cristo nel quale Dio ha ora (= νυνι escatologico) manifestato la sua giustizia. Anche nella giustificazione per fede, sia del giudeo sia del non-giudeo, si rivela la più totale imparzialità divina.
3,27-31. Illustrazione diatribica attraverso domande e risposte. Se basta credere per avere la figliolanza divina, se la Legge non è necessaria, se Dio è Dio non solo dei giudei, ma anche dei pagani, se la fede giustifica sia i circoncisi che i non circoncisi,- ¿qual è l’utilità dell’essere giudeo? In altre parole «se per due millenni Dio ha portato avanti il suo piano salvifico per mezzo d’Israele, e se invece d’ora innanzi la buona novella della salvezza in Gesù Cristo può essere annunciata da tutti i credenti, giudei e non, allora ¿Israele ha perduto il suo ruolo storico?» (ALETTI, «Israele in Rom», 109)
4,1-22: Prova biblica è la giustificazione di Abramo per fede (Gen 15,6). Agli occhi del giudaismo Abramo era grande per le sue opere («… se infatti Abramo è stato giustificato per le sue opere, certo ha di che gloriarsi», (4,2), ma Paolo dimostra che invece lo è per la fede (4,1-8), portando come prova Gen 15,6: «… credette, e ciò gli fu contato come giustizia». Lo conferma il fatto che tutto questo avvenne prima della sua circoncisione (4,9-12), e lo conferma la sua fede nella resurrezione del suo corpo e del seno di Sara, profezia della resurrezione di Gesù (4,13-22).
[In tal modo, «il caso di Abramo permette a Paolo di mostrare: (i) che la giustificazione non è necessariamente legata alla legge mosaica ma solamente alla fede, e che la fede non implica necessariamente l’essere soggetto alla legge mosaica; (ii) che la figliolanza abramitica viene mediante la fede e non è necessariamente legata alla circoncisione, né alla continuità etnica o alla generazione (all’essere giudeo o israelita). Così gli ebrei, se vogliono essere figli di Abramo, devono credere come lui ha creduto quando era ancora nell’incirconcisione (4,10-12). Non ci sono quindi due giustificazioni, una per mezzo della fede per i non-circoncisi, e una per i giudei. La giustificazione è unica perché unica è la fede» (ALETTI, «Israele in Rom», 109)].
4,23-25: riassunto o peroratio. Come Abramo, che è il padre di tutti i credenti, tutti, sia pagani che giudei, saranno giustificati con la fede: se credono nel Cristo morto e risorto.
2a parte: Gli effetti della giustificazione e la novità di vita (5,1-8,39)
5,1-11: Esordio circa gli effetti della giustificazione. Dalla giustificazione per fede (di cui Paolo ha parlato nella seconda parte dell’argomentazione precedente, in 3,21-4,25) vengono pace (v. 1), grazia (v. 2), speranza (v. 2.4), agàpe (vv. 5-8), salvezza (vv. 8-11), pnèuma (v. 5), riconciliazione e accesso a Dio (vv. 10-11). La gratuità è espressa in modo particolare con l’affermazione che il Cristo è morto per noi quando eravamo ancora peccatori (vv. 6-10). Nell’argomentazione che segue Paolo intende dunque illustrare gli effetti universali e sovrabbondanti della redenzione del Cristo. Lo fa richiamando il peccato di Adamo e l’opera del Cristo e mettendoli a confronto e a contrasto.
5,12-21: Confronto tra Adamo e Cristo che prepara il confronto tra sarx e pnèuma
Antitesi tra Adamo e il Cristo - Universalità della salvezza, sua sovrabbondanza sul peccato. Attraverso il confronto tra Adamo e il Cristo, viene ribadito che tutti hanno peccato e che Dio è imparziale nel concedere a tutti non la sua collera, ma la sua grazia in Cristo. Sia Adamo che il Cristo hanno rappresentato davanti a Dio tutta l’umanità e, attraverso l’antitesi tra l’uno e l’altro, Paolo mette in luce la straordinarietà dell’opera del Cristo: come universali sono stati peccato e morte introdotti da Adamo, altrettanto lo è la salvezza portata dal Cristo, ma l’abbondanza del peccato è stata travolta e superata dalla sovrabbondanza della grazia.
[Su questi contrasti si fondano tutti gli altri
contrasti che Paolo metterà in luce tra i due tipi di uomo:
l’uomo sotto la Legge mosso dal principio d’azione che
è la carne (σαρξ), e il battezzato mosso dal
principio d’azione che è lo Spirito
(πνευμα). «La grande enfasi posta
sulla grazia di Dio, il quale gratuitamente riscatta l’uomo dal
peccato e gratuitamente lo giustifica, solleva la questione etica: si
potrebbe pensare che non c’è nulla di male, e che anzi
è necessario continuare a vivere nel peccato con lo scopo di
provocare Dio a fare meraviglie di grazia ancora più grandi. In
altre parole: ¿che posto ha l’impegno etico in
un’economia totalmente basata sulla grazia e bontà di
Dio?» (B. BYRNE, «Living out the righteousness of God
etc.», in The Catholic Biblical Quarterly
43 (1981), 562. Paolo allora afferma e dimostra attraverso domande e
risposte diatribiche che il cristiano, aderendo al Cristo, ha posto le
premesse di una totale incompatibilità con il peccato: con il
battesimo e con lo Spirito].
(A) 6,1-7,6: Camminare in novità di vita a partire dal
battesimo
[«The baptised, being intimately united to Christ cannot remain
in sin: positive situation, described with “we/you”,
grounded Christologically», ALETTI, «Romans 5-8», 4]
Prima obiezione: Se la grazia sovrabbonda dove ha abbondato il peccato, allora «restiamo nel peccato!» (6,1).
Risposta (6,2-14): no!, col battesimo siamo morti al peccato, abbiamo assunto una nuova identità e dobbiamo vivere in novità di vita. Il battesimo, associando alla morte del Cristo, fa morire al peccato. Cf. Rm 6,6-7: «Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocefisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è oramai liberato dal peccato».
Seconda obiezione: Se siamo sotto la grazia e non più sotto la Legge, «allora pecchiamo liberamente!» (6,15).
Risposta (6,16-23): no!, da una schiavitù (quella del peccato che porta alla morte) siamo passati ad un’altra schiavitù, altrettanto esigente, «quella dell’obbedienza che conduce alla giustizia» (6,16). L’immagine della schiavitù è poco attraente (rather unattractive), ma esprime bene come non sia possibile una posizione neutrale (B. BYRNE, «Living out», 564).
7,1-6: Una seconda immagine è quella donna cui muore il marito: essa è libera «dalla legge che la lega al marito» (7,2). Applicata al cristiano, l’immagine (che ‘zoppica’ per molti versi) dice che egli è libero dalla Legge per appartenere al Risorto: «Alla stessa maniera anche voi mediante il Cristo siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere ad un altro: cioè a colui che fu risuscitato dai morti…» e l’aggiunta risponde all’obiezione del v. 15, dicendo: «…affinché noi portiamo frutti per Dio» (7,4).
[I due temi del battesimo (Rm 6) e dello Spirito (Rm
8) sono intercalati dal tema della Legge e della libertà
(introdotto nei vv. 7,1-6 e sviluppato a lungo in Rm 7,7-25): la
liberazione dal peccato del quale la Legge rende consapevoli, e dalla
morte alla quale il peccato conduce, avviene per mezzo di Gesù
Cristo. Nello stile della ‘diatriba’, Paolo ripete le
obiezioni già sollevate in 3,1-4, e risponde in modo diffuso e
disteso].
(B) 7,7-25: Liberazione da Legge-peccato-carne-morte
[«Those imprisoned by sin; negative situation described with
“I”. Paul does not consider the present situation of the
baptised, as though he were ‘simul justus et peccator’ [=
Lutero], but rather that of a person remaining within the frame-work of
the (Mosaic) Law and which, according to Paul, belongs to the past
(“When we were…”», ALETTI, «Romans
5-8», 4].
Terza e quarta obiezione: «Allora la Legge è cattiva, è peccato!» (7,7), «Ciò che è bene (= la Legge) ¿è diventato morte?».
Risposta: La Legge è buona, ma è incapace di farmi operare il bene che pure mi indica. Anzi dà occasione al peccato (αμαρτια) di esplodere, e di condurre alla morte (θανατος). In questo contesto Paolo, parlando in prima persona singolare, dà voce al grido di chiunque ha come aiuto solo la Legge (e dunque dell’uomo pre-cristiano) (7,24): «Sono uno sventurato! ¿Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?». Questa volta Paolo risponde con una dossologia di vittoria (7,25a): «Siano rese grazie a Dio! [Da esso sarò liberato] per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore».
(A1) 8,1-27: Camminare in
novità di vita sospinti dallo Spirito
[«The baptised: positive situation described with
“we/you”, grounded pneumatologically. All that the
receiving of the Holy Spirit has changed and allows them to
hope», ALETTI, «Romans 5-8», 4 – Nel cristiano,
che è stato liberato dal peccato e dalla carne, abita lo
Spirito, ed egli ora vive sotto il dominio dello Spirito (8,9). Se si
tornasse a essere debitori della carne facendo le sue opere, si
tornerebbe alla morte, perdendo la grazia. Cf. Rm 8,12-13:
«Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso
la carne per vivere secondo la carne. Poiché se vivete secondo
la carne, voi morirete. Se invece con l’aiuto dello Spirito voi
fate morire le opere del corpo, vivrete»].
8,1-4: La redenzione nella carne del Cristo: Dopo il grido di disperazione circa il corpo di morte che è sotto il dominio del peccato, Paolo afferma che nella stessa σαρξ, quella del Figlio di Dio, è avvenuta la redenzione, per cui per quelli che sono in Cristo Gesù oramai non c’è più nessuna condanna (8,1-4).
8,5-18: Camminare in novità di vita sospinti dallo Spirito: Tale redenzione ha investito (a) le dimensioni dell’essere [= liberati dalla legge del peccato e della morte (8,2), resi figli, eredi e coeredi con Cristo (16-17)], e (b) le dimensioni etiche dell’agire [= lo Spirito, abitando in noi (8,9.11), ci guida nella lotta contro la carne]: camminiamo dunque secondo lo Spirito (8,4)]. «L’impossibilità etica di fare il bene per chi è sotto la Legge, descritta magistralmente in 7,14-25, si trasforma in possibilità per l’opera dello Spirito che Paolo collega all’evento di Cristo, e quindi all’iniziativa di Dio» (BYRNE, «Living out», 567).
8,19-27: L’aspirazione della natura: La natura è solidale con l’uomo: assoggettata alla schiavitù e corruzione per il peccato di lui, ora anela alla liberazione che l’uomo ha raggiunto «per entrare nella gloria dei figli di Dio» (v. 21).
8,28-39: Inno di vittoria in tre affermazioni, con funzione di peroratio
3a parte: Dio, le genti e la salvezza
d’Israele (Rm 9-11)
[Non c’è alcun appropriato testo di trapasso e di
collegamento tra Rm 8 e Rm 9, e questo rende ancora più acuto il
problema che riguarda Rm 9-11: questi tre capitoli sembrano un corpo
estraneo, slegato e fuori tema. È l’analisi retorica a
spiegare il cambio improvviso di tema e la mancanza di collegamento
come espedienti per far ripartire la discussione con un elemento di
sorpresa, tanto più che, se in superficie Rm 9-11 sembra essere
una digressione, in profondità ha collegamenti sia con la prima
parte (Rm 1-4), sia con la seconda (Rm 5-8).
9,1-5. Esordio: Privilegi dell’Israele
storico
[Rm 9,1-5 come esordio: «Rm 9,1-6 dà l’impressione
di essere in contraddizione con Rm 8, perché attribuisce agli
israeliti i privilegi che Rm 8 ha appena assegnato ai cristiani. Ma la
funzione di un esordio è precisamente quella di stimolare
l’attenzione, indicando chiaramente le difficoltà da
affrontare nello svolgimento dell’argomentazione. A questo
riguardo Rm 9,1-5 è forse l’esordio più forte di
tutto l’epistolario paolino, perché segnala fin dal
principio la posta in gioco… Il modo in cui Paolo descrive gli
israeliti e i loro privilegi in 9,1-5 non va necessariamente
all’essenziale, perché questo fa parte della natura stessa
di un esordio. Non si può per esempio interpretare
l’assenza dell’elezione nell’elenco dei privilegi
d’Israele come un rifiuto, da parte di Paolo, di contare
l’elezione tra questi privilegi. Quell’omissione può
essere, anzi, un buon modo di provocare il suo lettore», ALETTI
«Israele in Rom», 110].
I privilegi d’Israele elencati da Paolo in 9,1-5 sono: 1. il titolo onorifico di Israeliti; 2. l’adozione (prefigurazione della filiazione divina del cristiano); 3. la gloria (e cioè la presenza sensibile di Dio nel tempio); 4. le molteplici alleanze (con Abramo, Giacobbe, Mosè, Giosuè, Davide ecc.); 5. la legislazione (mosaica); 6. il culto (del tempio e della sinagoga); 7. le promesse (ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide ecc.); 8. i padri (i patriarchi e le grandi figure della storia del popolo); 9. (il privilegio più grande): l’aver dato all’umanità il Cristo, secondo la carne. - Paolo esprime tutto il suo dolore constatando il grande al contrasto che c’è fra i privilegi accordati da Dio al suo popolo e la sua presente incredulità. Poi, dopo avere dichiarato tutto il suo dolore per l’incredulità di Israele, nello stile della diatriba Paolo discute come l’Israele che non ha creduto partecipi alla figliolanza e salvezza, all’interno del piano salvifico universale.
(A) 9,6-29: Incredulità di Israele in rapporto al piano divino
9,6-13. Prima obiezione (implicita): «Dio è venuto meno alla sua parola (nei confronti di Israele)», (9,6). Risposta: Israele non si identifica con la discendenza carnale di Abramo ma solo con i figli della promessa (Isacco sì, Ismaele no, 9,7-9), o della elezione (Giacobbe eletto, ed Esaù non-eletto, già prima della nascita). Ecco perché l’elezione non è messa nell’elenco dei privilegi dell’Israele storico: perché non tutti i suoi singoli membri sono eletti, come riconosce la stessa Scrittura.
9,14-18. Seconda obiezione: «Ma allora, scegliendo chi vuole, Dio è ingiusto?», (9,14). Risposta: la misericordia non è dovuta, e Dio non è ingiusto se l’uomo non ha alcun diritto alla vocazione cristiana, e se la non-chiamata ha dei fini degni di lui (A. FEUILLET, DBSuppl, X, 783).
9,19-29. Terza obiezione: «Ma allora perché rimprovera [se finalizza tutto ai suoi progetti, così che tutto dipende da lui e non dall’uomo]?» (9,19). Risposta: l’uomo non può farsi giudice di Dio: da lui invece dipende come la creta dal vasaio che la usa per i suoi fini (= il piano di salvezza), per fare un vaso nobile, o uno ignobile. In altre parole l’uomo non ha nulla da dire se, nel realizzare i suoi piani, Dio dispensa vocazioni diverse (9,20-29).
[Dunque Paolo parte chiedendosi se Dio e la sua
parola hanno o no fallito, dal momento che gran parte d’Israele
non ha creduto. La risposta è che Dio non ha fallito
perché da sempre non ha eletto tutti, ma solo un resto. Non
tutti i discendenti carnali d’Israele sono l’Israele
eletto, ma solo quelli che credono, e l’elezione di Dio è
totalmente libera, gratuita e, precedendo la risposta umana, non
dipende da essa. In Rm 9 resta aperto il problema di tutta la
moltitudine che si indurisce nel non-credere e di qual è il
ruolo del Resto che ha creduto nei suoi confronti. Paolo darà
risposta a queste questioni in Rm 11.]
(B) 9,30-10,21: Incredulità d’Israele e sua
responsabilità nel non avere creduto
9,30-10,3 (a). Israele ha rifiutato la via di salvezza scelta da Dio. Nella sua assoluta libertà Dio ha chiamato alla salvezza pochi giudei e molti gentili, proprio mentre i gentili non ne erano in ricerca, a differenza dei giudei (9,30-31). I giudei sono colpevoli, essendosi sottratti all’opera salvifica del Cristo per cercare la giustizia dalla Legge, dunque una propria giustizia. La giustizia di fatto raggiunta dai gentili è invece quella della fede (10,1-3).
10,4-13 (b). «Ora, il termine della Legge è il Cristo (τελος γαρ νομου Χριστος», che forse significa: “Fine della dominazione della Legge sul credente è Cristo”, ALETTI, Comment Dieu, 124-127). Comparando le due giustizie (Torah e Evangelo), Paolo mostra come quella che si vorrebbe ottenere con l’osservanza della Legge è una giustificazione difficile, anzi impossibile senza l’aiuto di Dio. La Legge stessa riconosce d’essere incapace di dare la salvezza e profetizza in Deut 30,11-14 la salvezza del Cristo (10,6-8). Quella della fede invece è facile perché basta confessare con la bocca e credere col cuore che «Gesù è il Signore» (10,9-13).
10,14-21 (a1). I Giudei sono colpevoli. In una lunga serie di domande (10,14-17), Paolo prima stabilisce le condizioni di colpevolezza (esempio: «Come potranno credere senza averne sentito parlare?», v. 14), e poi incolpa i giudei i quali non possono dire di non aver udito (vv. 19-21). Israele continua a rifiutare la via di salvezza proposta da Dio.
(A1) 11,1-36: Incredulità di
Israele in rapporto al piano divino e sua salvezza finale
[In Rm 11 Paolo dà risposta alle domande che potevano nascere
dalle affermazioni di Rm 9: che ne sarà dell’Israele
incredulo? Quale sarà nei suoi confronti la funzione
dell’Israele credente, sia di origine giudaica sia di origine
pagana? L’argomentazione, articolata in tre momenti, porta alla
conclusione che l’elezione del piccolo Resto credente era per far
maturare il progetto divino a riguardo di tutta l’umanità,
le nazioni prima, e poi anche l’Israele indurito. In tal modo
l’elezione divina non dipende dalla risposta umana, ma precede la
colpa e la assolve in anticipo].
11,1-10. Esiste un resto d’Israele che ha creduto: dunque Israele non è rigettato da Dio.
Domanda diatribica: «Ma, Dio ha forse ripudiato il suo popolo?» (11,1). Risposta: no, Paolo, che è giudeo, ne è una prova. È normale che le promesse fatte a una collettività finiscano con il riguardare solo una parte di essa, solo “un resto”.
11,11-24. Quanto alla gran parte d’Israele che non ha creduto, l’Israele “indurito”, attraverso l’immagine dei rami tagliati dell’ulivo buono che possono essere di nuovo innestati, Paolo dice che la separazione di gran parte d’Israele dalla fede e dal Vangelo non è definitiva, ma solo provvisoria
Domanda diatribica: «Ma la caduta di Israele è definitiva?» (11,11a). Risposta: no. Anzitutto, se essa è una catastrofe, è però una catastrofe feconda. Al rifiuto di Israele, infatti, i missionari si sono rivolti ai gentili, così che la caduta di Israele è causa della fede dei pagani (= nei piani di Dio l’incredulità dei giudei è finalizzata alla conversione dei gentili) (11,11b-12). In secondo luogo, la fede dei pagani a sua volta susciterà la gelosia dei giudei così che, quando tutte le genti siano giunte alla fede, allora l’intero Israele che non ha creduto si convertirà (11,13-15). Malgrado la sua incredulità, Israele resta un popolo santo, perché le sue primizie si sono convertite (11,16), e perché i padri di Israele sono la radice santa su cui anche i Gentili che hanno creduto sono stati innestati (11,17-24). Dunque è escluso il vanto dei Gentili (11,18-20).
11,25-32: Rivelazione di un mistero (μυστηριον)
[Questo testo, che annuncia la sorte positiva di tutto Israele e calcola il tempo della sua salvezza, costituisce il culmine di tutta la sezione di Rm 9-11].
Israele sarà incredulo fino a che tutte le genti non avranno creduto. Poi anche tutto Israele sarà salvato e la sua salvezza, come già ora quella dei pagano-cristiani, passa attraverso la disobbedienza. Tale mistero toglie a tutti motivo di vanto: «Dio ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per usare a tutti misericordia» (11,32).
11,33-36: Inno alla sapienza di Dio con funzione di peroratio
Tutto questo porta Paolo ad alzare un inno alla sapienza di Dio: «O profondità della conoscenza ecc.» (11,33-35), concluso da una dossologia (11,36), conclusiva, a sua volta, di tutta la parte dottrinale.
[«I vv. 33-36 di Romani 11, chiaramente innici
nello stile e nei temi, sono un riconoscimento dell’insondabile
saggezza divina: vi si ritrovano tutte le caratteristiche della
perorazione. Se di tutta l’argomentazione la peroratio
non ritiene se non l’inaudito della saggezza divina, tanto
potente da trarre profitto dall’inciampo sia dei pagani che dei
giudei e salvandoli tutti, questo è perché la sezione non
insiste tanto sul responsabilità o sulla ribellione
d’Israele: la pointe è teologica. Nella
dinamica dell’argomentazione, tutto conduce verso
quest’esclamazione finale piena di meraviglia e di lode»
ALETTI, Comment Dieu, 147-148].
4a parte. La vita di ogni giorno come culto spirituale
(12,1-15,14)
[Dopo avere illustrato la giustizia misericordiosa di Dio (Rm 1-4), la
novità di vita dei redenti (Rm 6-8), e la giustizia di Dio sia
verso i popoli sia verso Israele (Rm 9-11), Paolo indica ai Romani come
manifestare il rinnovamento della mente
(ανακαιονωσις
του νοος) nella vita sia
intra-comunitaria sia civica, così che tutta la vita sia un
culto spirituale (λατρεια
λογικη). Questo è detto in
una esortazione o paraklèsi (cf. il verbo
παρακαλω che, in 12,1,
introduce tutta la lunga sezione) di quasi ben 4 capitoli, aperta dalla
propositio di 12,1-2, conclusa da una perorazione finale
(15,5-13), e articolata in tre sotto-sezioni (12,3-21; 13,1-7;
13,8-15,4), che riguardano:
- 12,1-2: Propositio dell’ultima argomentazione circa la vita quotidiana come culto spirituale
«Vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente ecc., come culto λογικος. Non conformatevi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio ecc.». La vita intra-comunitaria ispirata all’αγαπη (prima e terza sotto-sezione), e la lealtà nei confronti delle autorità costituite (seconda sotto-sezione), sono dunque presentate da Paolo come culto spirituale, come segno della conversione della mente, e come docilità alla volontà di Dio.
- Esortazioni per la vita intra-comunitaria (12,1-21)
- Esortazioni circa il rapporto con le autorità civiche (13,1-7)
- Esortazione circa il debito vicendevole dell’amore (13,8-15,4)
- 15,5-13: Perorazione con epìklesi (invocazione)
Invocazione iniziale (15,5) e finale (15,13) dei doni di Dio sui lettori; ripetizione per esempio dell’imperativo dell’accoglienza vicendevole con motivazione cristologica («Accoglietevi come il Cristo vi ha accolti» (v. 7) e biblica (vv. 9-12).
- 15,14-31: Notizie circa i viaggi e le intenzioni di Paolo (= peroratio)
- 16,1-24: Saluti per i gruppi e per i singoli, e saluti dei collaboratori
- 16,25-27: Dossologia finale
«Anche se fu scritta in occasione della visita che Paolo contava di fare a Roma di passaggio verso la Spagna, la lettera ai Romani non è soltanto un documento di circostanza: essa merita il titolo di “trattato sul Vangelo”» (ALETTI, Comment Dieu, 202). – Ma il contenuto del Vangelo che Rm illustra non è principalmente quello che riguarda «Gesù, Figlio di Dio, nato dalla stirpe di Davide», come dice il prescritto della lettera (1,3-4). Essa svolge invece le affermazioni di 1,16-17, e cioè della propositio generale, secondo cui il Vangelo è forza salvifica di Dio per la salvezza universale. Gli sviluppi di Rm 1-4 e di Rm 9-11 mettono l’accento - e quanto! - sulle questioni teo-logiche (giustizia di Dio, fermezza della sua parola, coerenza del suo piano di salvezza…). Insomma, la lettera ai Romani non è anzitutto una cristo-logia, ma una teo-logia», ALETTI, «La présence», 16-17.
«Io infatti non mi vergogno del Vangelo (ευαγγελιον), poiché è potenza di Dio (δυναμις γαρ θεου εστιν) per la salvezza (εις σωτηριαν) di chiunque crede (παντι τω πιστευοντι), del Giudeo prima (πρωτον), e poi del Greco. È in esso che si rivela (αποκαλυπτεται) la giustizia di Dio (δικαιοσυνη θεου) di fede in fede, come sta scritto: “Il giusto vivrà mediante la fede” (Abacuc 2,4)».
In 1,16-17 Paolo dà una definizione del “Vangelo” che è fondamentale per tutta la lettera e riassuntiva di essa: tutta la lettera è infatti l’esposizione dell’Evangelo, o buona notizia, secondo la formulazione paolina, protesa all’annuncio di esso tra i non-Israeliti. Tale buona notizia è caratterizzata da un duplice aspetto: noetico-conoscitivo (annuncia, fa conoscere, come si può ricavare dalla radice αγγελλ-), ed efficace-dinamico (realizza con potenza la salvezza che annuncia, cf. il termine δυναμις). La buona notizia data dagli apostoli cristiani, dunque, non è soltanto una parola, una notificazione dell’evento di Cristo, ma è una δυναμις, e cioè una potenza, una energia, una parola efficace, creatrice, ‘performante’.
«… per la salvezza di chiunque crede»: il Vangelo è potenza divina che, trovando l’uomo nel peccato, lo salva alla sola condizione che egli creda: lo salva, cioè, se l’ακοη (= l’ascolto della predicazione) diventa υπακοη πιστεως (= sottomissione, accoglienza, obbedienza di fede a quell’annuncio; cf. 1,5 16,26). – La buona notizia consiste dunque nel fatto che Dio intende “giustificare” tutti gli uomini senza distinzione, al di là di veri o presunti privilegi storici, e al di là di ogni merito o demerito. Come condizione per essere giustificati e salvati, Dio pone la fede (e non l’osservanza di qualche legge e, in particolare, della Legge mosaica). Gli Israeliti hanno un diritto di precedenza («… del Giudeo prima ecc.») nel ricevere l’annuncio escatologico (cf. il vocabolario della rivelazione in αποκαλυπτεται) della salvezza, ma i Greci (= i non-Israeliti, o pagani, o gentili) non sono affatto esclusi. Paolo trova l’annuncio di questo piano nel profeta Abacuc.
Scrivendo «… di chiunque crede»,
Paolo introduce di colpo il tema dell’universalità della
salvezza. Da buon giudeo, Paolo divideva istintivamente
l’umanità in quelle due categorie: i Giudei con i loro
privilegi della rivelazione storico-salvifica, e i non-Giudei che ne
erano esclusi. Per questo Paolo precisa: «… del Giudeo
prima e del Greco poi». Oramai però le due categorie sono
diventate un’unica categoria, quella dei credenti che, attraverso
la fede, sono salvati dalla potenza di Dio in Cristo, potenza che si
attua con la predicazione evangelica. – Per questo, in Rm
1,18-3,20 Paolo dimostra che sia i pagani (1,18-32) sia i Giudei
(2,1-29) sono sotto il giudizio di Dio e sotto il suo castigo, nel caso
che Dio giudichi secondo le opere. Ma Dio non ha scelto questa via, la
via della “collera”. Di conseguenza non ha scelto la via
della Legge mosaica, la quale, in fondo, non si rivela strumento di
salvezza: al contrario, da una parte essa spesso porta il Giudeo al
peccato e alla collera divina, e d’altra parte potrebbe essere
osservata da un pagano senza che egli la conosca. Sorprendentemente Dio
ha scelto una via completamente diversa, quella della giustizia
(misericordiosa) e della grazia: egli giustifica (= rende giusto, mette
nel giusto rapporto con sé) attraverso la morte salvatrice del
suo Figlio, a patto che si creda in Lui.
Tutti dunque sono sotto l’amore, la misericordia e il dono
gratuito di Dio. In tal modo, anche se resta il diritto di prelazione
del giudeo ( Ιουδαιω
τε πρωτον), il suo vanto
è escluso: cf. Rm 3,27: «Dove sta dunque il vanto [del
Giudeo]? Esso è stato escluso!».
Sono due i complessi della lettera che trattano del rapporto tra Israele e il mondo dei popoli e sulla priorità, non assoluta ma storica, del giudeo: Rm 1,18-20 e Rm 9-11. In Rm 1,18-3,20 Paolo dimostra che non c’è motivo per il Giudeo di vantarsi nei confronti del non-Giudeo perché sia l’uno che l’altro di per sé sono sotto la collera, e Dio gratuitamente ha messo l’uno e l’altro sotto la misericordia. In Rm 1-3 il vanto che viene escluso è soprattutto quello del giudeo. In Rm 9-11, poi, Paolo afferma che, se i pagani hanno creduto e Israele è incredulo, questo è vero solo per il presente, perché Israele, dopo un indurimento parziale e provvisorio, giungerà alla fede. Infatti le promesse di Dio sono senza pentimento e i privilegi (storici, non soteriologici, cf. 9,4-5) di Israele permangono. Nonostante il rovesciamento dei tempi (infatti si potrebbe dire: «Ha creduto prima il Greco e poi crederà il Giudeo»), anche il vanto dei Gentili è dunque da escludere. Cf. Rm 11,18.20b: «Se sei stato innestato al loro posto, diventando partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non vantarti contro i rami (…). Non montare dunque in superbia, ma piuttosto abbi timore». In Rm 9-11, dunque, Paolo mostra che non c’è motivo di vantarsi questa volta da parte del non-Israelita, perché è Israele che resta la radice santa sulla quale anche lui è stato innestato, e perché l’Israele, che non ha creduto ora, alla fine crederà.
Dall’ottimismo che viene dalla fede, e che
viene espresso con la catena di termini:
ευαγγελιον→
πιστις→
δικαιουσθαι→
πνευμα→ ζωη, Paolo
ricava la prospettiva pessimistica per chi non è “in
Cristo”, espressa a sua volta con un’altra catena di
termini antropologici: σαρξ→
νομος→
αμαρτια→
θανατος. – L’uomo
“non redento in Cristo” è chiamato da Paolo
σαρξ (= carne, essere carnale): per lui la stessa
Legge divina (quella del Sinai o quella scritta nei cuori), più
che un aiuto, è una occasione di trasgressioni. La Legge (=
νομος) infatti, dando all’uomo la
conoscenza del bene e del male, ma non la capacità di fare il
primo e di vincere il secondo, pur essendo buona e spirituale, finisce
col consegnare l’uomo in potere del peccato e quindi della morte.
Il peccato (= αμαρτια) non consiste
nelle singole trasgressioni. I singoli peccati Paolo li chiama
παραβασεις (=
trasgressioni), oppure
παραπτωματα (=
cadute), e li considera castigo di Dio per il vero peccato che è
quello del non-riconoscimento e della non-adorazione di Dio. Per Paolo
il “Peccato / Αμαρτια”
è una forza immane che abita nell’uomo e, più forte
del suo “io”, lo domina e lo tiranneggia. È un
dinamismo perverso che stravolge la sua relazionalità con Dio:
l’uomo nega allora di avere un Creatore, non si riconosce
creatura, si auto-deifica. Ed è un dinamismo che stravolge le
sue relazioni con gli altri: e allora l’uomo non vive la
solidarietà, ma strumentalizza dispoticamente l’altro
uomo. È, infine, un dinamismo che stravolge le relazioni con le
creature: l’uomo allora diventa idolatra e schiavo delle cose del
mondo, della ricchezza, del potere ecc. Un tale uomo carnale (=
σαρκικος), assoggettato
al dominio della σαρξ e di
Αμαρτια, è un essere
sventurato e infelice: è “un corpo votato alla
morte” (7,24). Morte, o
Θανατος, è anche la
morte fisica, ma è molto più: è la rovina totale
dell’uomo fuori di ogni giusta relazionalità e di ogni
salvezza.
Alla domanda: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla
morte?», Paolo risponde «Siano rese grazie a Dio! (La
liberazione avviene) per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore!» (7,25a), perché è attraverso la fede nel
Cristo che Dio salva. [Per la traduzione di Rm 7,25 cf. la discussione
nei commentari e, per esempio, in B. BYRNE, «Living out»,
566-567].
Commentari
W. SANDAY - A.C. HEADLAM (51902), K. BARTH (1919, 1922,
1940-41, it 1962, 1982), A. NYGREN (1949), H. LIETZMANN (1928), M.-J.
LAGRANGE (1950), V. JACONO (1951), A. SCHLATTER (21952), V.
TAYLOR (1955), S. LYONNET (1959), F. LEENHARDT (1961), H. W. SCHMIDT
(1962), O. KUSS (1963-1978, mai completato; it 1962, 1969, 1981), O.
MICHEL (1966), P. ALTHAUS (1966, it 1970), C.K. BARRETT (1967, ingl
1971), K. KERTELGE (1972), E. KÄSEMANN (1974, ingl 1980), A. VIARD
(1975), C.E.B. CRANFIELD (1975. 1979), H. SCHLIER (1977, it 1982), U.
WILKENS (1978. 1982), J.A.T. ROBINSON (1979), P.J. ACHTEMEIER (1985),
R. PESCH (1985), P. STUHLMACHER (1989), G. BARBAGLIO (21990),
FITZMYER (1993, it 1999). Cf. l’elenco di commentari in A.
FEUILLET, «Romains, Épître aux», in DBSuppl,
X, 741, 739-863, e, soprattutto la pressoché completa
bibliografia di Fitzmyer).
Monografie
Filippi deve il suo nome a Filippo II, re di Macedonia, padre di Alessandro Magno, che la fondò sul luogo dell’antica Krenides nel 358 a.C. Nel 168 a.C. quando la regione passò sotto i Romani, Filippi fu fatta capitale del primo distretto di Macedonia. Nel 41 a.C. dopo la battaglia di Filippi, e nel 31 a.C. dopo quella di Azio, furono insediati sul luogo come coloni i veterani dell’esercito romano. Per questo Filippi aveva una popolazione mista di Macedoni, Traci e di Romani (le iscrizioni in latino sono in maggioranza). – Circondata per tre lati dai monti, la città era collegata a sud con il porto di Neapolis (Atti 16,11 - a distanza di 16 Km) e a ovest con Tessalonica, per mezzo della via Egnazia.
La comunità di Filippi fu fondata da Paolo
con Silvano e Timoteo nel secondo viaggio. Paolo e i suoi
accompagnatori poterono fermarsi a Filippi solo per poco tempo, per le
difficoltà avute con le autorità romane. Lo si ricava da
Atti 16,19ss, da 1Tess 2,2 («Dopo aver prima sofferto e subito
oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio
ecc.»), e da Fil 1,30 («… sostenendo la stessa lotta
che mi avete veduto sostenere»). Paolo tornò a Filippi nel
terzo viaggio per andare incontro a Tito che veniva da Corinto, e che
portava buone notizie. È possibile e probabile che a Filippi
abbia scritto la 2Cor. Infine, dopo avere visitato Corinto, mentre
andava a Gerusalemme a portare la colletta, passò a Filippi
l’ultima Pasqua in libertà (Atti 20,6).
Nonostante le scarse visite, Paolo mantenne con i cristiani di Filippi
intense relazioni, e da essi accettò ripetutamente sovvenzioni
finanziarie: cf. Fil 4,15-16 per il tempo in cui stava a Tessalonica;
2Cor 11,8-9 per il tempo in cui stava a Corinto; Fil 2,25 4,18 per la
prigionia dalla quale scrive la lettera.
Le circostanze riguardano: (i) Paolo, il suo carcere e il suo processo; (ii) Epafrodito, inviato dei Filippesi a Paolo che è in carcere; (iii) Timoteo, che Paolo invia ai Filippesi; (iv) la comunità filippese; e, infine, (v) certi missionari venuti a Filippi dal di fuori.
Il v. 3,1 sembra un verso conclusivo. Il v. 3,2,
poi, segna un trapasso brusco e inaspettato (“un fulmine a ciel
sereno” (PITTA, in Bibbia Piemme, 2846), e introduce una
durissima invettiva che nella lettera serena e gioiosa di Fil sembra
fuori posto, e che si conclude in 4,1 o 4,4 o 4,9. Tra 3,1 e 3,2 dunque
- dicono alcuni critici (cf. la lista riportata da D.F. WATSON,
«A Rhetorical Analysis of Philippians and its Implications for
the Unity Question», in Novum Testamentum 30 (1988), 80,
nota 107) - c’è il segno che due differenti lettere sono
state fuse insieme in un’unica lettera. In secondo luogo, i vv.
4,10-20 contengono il ringraziamento di Paolo per l’aiuto
economico che i Filippesi gli hanno fatto pervenire. I critici allora
si chiedono come mai Paolo abbia tardato tanto a ringraziare sia nella
lettera (si ringrazia in principio, non alla fine), sia nel passare dei
mesi (= la lettera presuppone circa cinque viaggi di ‘andata e
ritorno’ tra Filippi e il luogo della prigionia di Paolo)!
– Da tutto ciò spesso si conclude che in Fil sono state
unite insieme (due o) tre lettere: (i) Lettera A (= 4,10-20,
lettera del ringraziamento, spedita subito dopo l’arrivo di
Epafrodito e delle sovvenzioni); (ii) Lettera B (= 1,1-3,1 +
4,21-23, lettera della prigionia e del processo, della malattia e della
guarigione di Epafrodito); (iii) Lettera C (= 3,2-4,1.4-9, Kampfbrief,
lettera polemica, in cui non si fa parola della prigionia; lettera
scritta per ultima, quando Paolo ricevette notizie supplementari, tra
cui anche quelle circa i ‘cattivi operai’). A conferma di
questa ipotesi si porta il fatto che Policarpo di Smirne nella sua
lettera ai Filippesi 3,2, parlando di lettere al plurale
(απων υμιν
εγραψεν
επιστολας),
dà l’impressione di conoscere più di una lettera ai
Filippesi
Ma i passaggi bruschi in Paolo sono frequenti (cf. Rm 16,17; 1Tess
2,15; 1Cor 15,58 …); la gratitudine di Paolo, poi, non è
solo alla fine della lettera perché già traspare dalle
precedenti menzioni di Epafrodito 2,25 ecc.; infine, a parte il fatto
che alcuni manoscritti della lettera di Policarpo hanno il singolare,
Policarpo potrebbe avere frainteso 3,1 («… a me non pesa
scrivervi circa le stesse cose»). Se anche sono esistite
più lettere ai Fil, non è poi affatto scontato che ora
esse si trovino riunite in Fil.
Nel 1988, seguendo la metodologia suggerita da G.
Kennedy (New Testament Interpretation through Rhetorical Criticism,
Chapel Hill 1984), D.F. Watson ha cercato di mostrare come la retorica
antica spieghi la frammentarietà del discorso di Fil e come
dunque la lettera si possa considerare unitaria. In secondo luogo
Watson ha proposto di identificare gli elementi retorici come segue:
esordio (1,3-26), narratio (1,27-30), probationes
(2,1-3,21: = prima prova in 2,1-11; seconda prova in 2,12-18;
digressione in 2,19-30; terza prova in 3,1-21), peroratio
(4,1-20).
Pitta invece (in Bibbia Piemme, 2837-2852) individua le
parti retoriche come segue: esordio (1,3-11), prima
‘autobiografia’ (1,12-30), esortazione ed
‘elogio’ di Cristo (2,1-11), apousìa e parousìa
epistolare (2,12-3,1), seconda ‘autobiografia’ (3,2-4,1),
esortazione o paraklèsi (da
παρακαλεω, =
consolo, esorto) conclusiva (4,2-9), ringraziamenti ed elogio dei
Filippesi (4,10-20).
Prescritto epistolare (1,1-2)
Rendimento di grazie e preghiera come esordio retorico (1,3-11)
Paolo rende grazie perché i Filippesi collaborano attivamente nella diffusione del Vangelo e perché gli sono stati vicini nella carcerazione e nel processo (1,3-8). E prega perché la loro fede si arricchisca in vista del giorno di Cristo (1,9-11).
[Il ringraziamento è chiaramente aperto dalla
formula: «Ringrazio il mio Dio ecc.», ed è
chiaramente concluso dalla dossologia: «… a gloria e lode
di Dio», e si caratterizza come esordio per i seguenti elementi:
(i.) anticipa i temi della lettera: gioia, comunione, prigionia di
Paolo, escatologia ecc.; (ii.) contiene la “captatio
benevolentiae” negli elogi diretti ai Filippesi; (iii.) il suo
tono è elevato e solenne; (iv.) L’enfasi è espressa
col ricorso a parole generalizzanti come: ‘tutto’,
‘ogni’, ‘sempre’]
Sezione I: Notizie epistolari ed esortazioni (1,12-3,1)
[Aperta dalla formula: «Non voglio che ignoriate, o fratelli
ecc.», la prima sezione dapprima rievoca in chiave autobiografica
la presente situazione di Paolo e cioè la sua carcerazione
(1,12-26) e poi si trasforma in esortazione a imitare Paolo (1,27-30).
Paolo parla di sé e invita i Filippesi a imitarlo non spinto da
vanagloria, ma per suscitare nei Corinzi l’amore al Vangelo e lo
zelo nel diffonderlo.]
- Prima parte autobiografica (1,12-26)
- Esortazioni e invito all’imitazione, esemplarità del Cristo (1,27-2,11)
– Esortazioni e informazioni su Timoteo ed Epafrodito (2,12-3,1)
Sezione II: Duro attacco contro i ‘cattivi operai’ e la 2a sezione autobiografica (3,2-21)
[Disposto a sopportare che qualcuno, anche se con
spirito di rivalità, predichi il Vangelo, purché il
Cristo sia annunciato (1,15-18), Paolo non tollera che invece al posto
del Cristo sia annunciata la circoncisione. «È bene
precisare comunque che al centro della sezione non si trova il rapporto
tra Paolo e questi propagandisti giudaizzanti (in definitiva, di loro
Paolo non riporta né il nome né la dottrina),
bensì quello tra Paolo e i Filippesi. A lui stanno a cuore i
suoi cristiani, non gli avversari» (PITTA, in Bibbia Piemme,
2847)].
Sezione III: Esortazioni e ringraziamento per l’aiuto
economico e per l’affetto (4,2-20)
[Per chi ritrova in Fil la fusione di tre lettere,
un argomento è quello del ritardo di Paolo nel ringraziare per
l’aiuto economico ricevuto dai Filippesi. In realtà la
collocazione dei ringraziamenti alla fine e non in principio è
del tutto comprensibile: se avesse parlato subito dei soldi ricevuti,
Paolo poteva dare l’impressione che era quelli a cui mirava,
mentre l’interesse di Paolo, come dice tutta la lettera, andava
al Vangelo e alla sua diffusione].
Saluti epistolari e benedizione finale (4,21-23)
Saluti di Paolo (4,21), dei fratelli, in particolare dei fratelli della casa del Cesare [= la servitù dell’imperatore, schiavi o liberti imperiali (4,22)]. Invocazione finale della grazia sui Filippesi (4,23).
Temi ricorrenti di Fil sono quello della comunione (cf. 1,5.7; 2,1; 3,10, 4,1.4), e quello della gioia: cf. 1,4.17.18.25; 2,2.17.18.28.29; 3,1; 4,1.4bis.14. La gioia di cui Paolo parla non viene dagli uomini, la quale sarebbe una gioia destinata a scomparire di fronte alla prima difficoltà, ma quella che viene dal Cristo e dal Vangelo. – Tuttavia il tema unificante della lettera è quello del Vangelo, anche se in Fil Paolo non si occupa tanto del contenuto del Vangelo come fa in Gal e Rom, bensì del suo annuncio e della sua diffusione in tutti gli ambienti (nel carcere, nella casa del Cesare ecc.), in tutti i modi (anche in una penosa rivalità tra missionari cristiani), nonostante tutti gli ostacoli (carcere, attività dei cattivi operai), e in mezzo alle difficoltà in cui c’è da combattere come soldati o atleti.
- Genere letterario e origine dell’inno.
– I motivi per pensare che il testo di Fil 2,6-11 sia un inno
sono: (i) Fil 2,6-11 è un testo cristologico abbastanza estraneo
nel contesto parenetico in cui si trova; (ii) l’andamento ritmico
delle frasi; (iii) il parallelismo e le antitesi che sono
caratteristici per esempio dei Salmi; (iv) espressioni rare (non
paoline: κενοω = svuotarsi;
αρπαργμος = rapina;
υπερυψοω =
sovra-esaltare, ecc.); (v) la frequenza di inni cristiani in Asia (cf.
Apoc passim; Col 1,15-20; Ef 1,13-14; 1Pt 2,21-25; cf. perfino
Plinio il Giovane, Ep. 10,96,7: “carmen Christo quasi
deo”). – Circa l’origine, si possono fare solo
ipotesi. Se si tratta di un inno, esso è pre-paolino o è
stato composto da Paolo? Se è paolino, Paolo lo ha composto al
momento di scrivere Fil, o precedentemente? L’inno è di
origine liturgica e, più in particolare, è di origine
battesimale, eucaristica, o pasquale?
– Vocabolario cristologico. – Tutto l’inno
è costruito sui contrasti che vengono stabiliti: tra forma
divina (μορφη
θεου, v. 6) e forma di schiavo
(μορφη
δουλου, v. 7); tra
uguaglianza con Dio (ισα θεω, v.
6), e apparenza di uomo (ομοιωμα
ανθρωπων, v. 7), tra essere Dio
(v. 6) e morire di morte di croce (v. 9). La morte di croce era per la
cultura greco-romana il massimo della vergogna, e, per la cultura
giudaica, era maledizione divina e castigo divino (Deut 21,23; Gal
3,13). – I termini che parlano di ‘forma’ e di
‘apparenza’ non sono da interpretare secondo la nostra
mentalità per la quale ‘apparenza’ è il
contrario di realtà. Nel linguaggio biblico infatti quei termini
indicano ciò che davvero uno è. Allo stesso modo le
espressioni: «Sarà chiamato Figlio
dell’Altissimo» (Lc 1,32), oppure «Rivestitevi del
Cristo» (3,27), significano: «Sarà chiamato Figlio
di Dio perché lo è», e «Lasciatevi
intimamente e totalmente trasformare nel Cristo».
– Struttura dell’inno. – L’inno si
compone di due grandi proposizioni: nella prima il soggetto è il
Cristo, nella seconda sono soggetto Dio che innalza il Cristo, e gli
uomini che lo adorano e lo proclamano ‘Signore’. Si
può parlare dunque di due strofe: una è la strofa
dell’abbassamento fino alla morte e alla morte di croce, la
seconda è la strofa dell’innalzamento. Anche se soltanto
nella prima strofa il Cristo è soggetto grammaticale, egli
è protagonista assolutamente centrale dunque anche nella
seconda. L’inno dunque celebra la kènosi o
svuotamento, e la tapeinophrosýne o umiltà, del
Cristo. – Ognuna delle due strofe contiene tre affermazioni, la
prima parte sull’umiliazione del Cristo, la seconda sulla sua
esaltazione come Κυριος, Signore
universale:
Il contrasto tra umiliazione ed esaltazione del Cristo che fornisce il
soggetto dell’inno è ispirato al canto del servo di Adonay
(Is 52,13-53,12): ogni strofa contiene contatti letterari con quel
passo. Per esempio: il verbo semplice
υψωθησεται che
si trova in Is, è ripreso nell’inno cristiano per mezzo
del composto
υπερ-υψωσεν.
L’inno vuol rimarcare fin dall’inizio che
l’esaltazione del Cristo oltrepasserà i cieli e si
imporrà alle Potenze celesti, terresti e quelle degli Inferi.
L’adorazione abbraccia il cosmo e l’esaltazione è
escatologica (L. CERFAUX, «L’hymne au Christ - Serviteur de
Dieu», in Recueil Cerfaux, II, 430-431).
L’inno «è ‘giovanneo’ nel suo passaggio
immediato dalla croce alla esaltazione, e non-paolino nella mancata
menzione della resurrezione» (J. FITZMYER, «La Lettera ai
Filippesi», in Grande Commentario Biblico [Jerome
Biblical Commentary], 1150, e nella mancata finalizzazione della
croce alla redenzione, dal momento che manca il «per noi e per i
nostri peccati». – L’inno poi è importante per
lo sviluppo che ha avuto nella teologia ‘Kenotica’
[εαυτον
εκενωσεν (v. 7) =
svuotò / spogliò se stesso]; «Facendosi uomo,
Gesù rinunciò al privilegio della gloria divina;
l’abisso più profondo dell’umiliazione fu la croce.
Ma egli non si privò della divinità, bensì dello
stato di gloria che era di suo diritto e che gli sarebbe stato
restituito al momento della sua esaltazione (FITZMYER, «La
Lettera ai Filippesi», 1150).
A. La kenosi | |
1. Preesistenza divina |
6 … il quale, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio |
2. Umiliazione nell’Incarnazione |
7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, |
3. Umiliazione della Morte di croce |
8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. |
B. L’innalzamento | |
1. Innalzamento celeste |
9 Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; |
2. Adorazione cosmica del nome |
10 perché nel nome di
Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; |
3. Proclamazione universale del Κυριοσ |
11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. |
A Filippi, per ora quegli avversari costituiscono
solo una minaccia. Quello che Paolo sente il bisogno di dire ai
Filippesi è: «Guardatevi da loro!» (3,2ter).
Paolo li chiama sarcasticamente con il termine
κατατομη (= mutilazione,
castrazione) ed essi si vantano dei loro privilegi giudaici. E allora
si pone la questione se siano giudei o giudeo-cristiani. E se siano
identici ai libertini di cui Paolo parla in 3,18ss (= «…
nemici della croce di Cristo, hanno come dio il loro ventre, tutti
intenti alle cose della terra»), o se non invece Paolo combatta
su due fronti diversi.
L’espressione ‘cattivi operai’ fa pensare a
missionari cristiani itineranti, che sarebbero provenienti dal
giudaismo, dal momento che propagandano la circoncisione. Probabilmente
erano sostenitori entusiasti della circoncisione (come se essa rendesse
perfetti e impeccabili) così da vivere nel libertinismo (H.
KOESTER, «The Purpose of the Polemic of a Pauline Fragment
(Philippians III)», in New Testament Studies 8
(1961-1962), 331). In polemica con loro, Paolo dice che sì,
è stato giustificato, ma non è perfetto, e come nella
corsa gli atleti tendono al traguardo, così lui è proteso
verso l’escatologia, dove il Cristo renderà perfetti.
Dunque sul luogo di composizione (e quindi sul tempo di composizione) si possono fare solo problematiche ipotesi. Bisogna tenere presente tra l’altro che Paolo parla spesso di prigionie, e lo fa con il plurale: cf. per esempio 2Cor 6,5 («…in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio: … nelle percosse, nelle prigionie (εν φυλακαις), nei tumulti ecc.»), e 2Cor 11,23 («Sono ministri di Cristo? Io lo sono più di loro! Molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie (εν φυλακαις) ecc.»).
Commentari
J.B. LIGHTFOOT (1891), E. LOHMEYER (1928), M. DIBELIUS (31937),
P. BONNARD 1950; P. BENOIT (31959), G. BORNKAMM (1962), G.
BARTH (1969), G. FRIEDRICH (1967), J. ERNST (1974), G.B. CAIRD (1976),
J.-E. COLLANGE (1979), J. GNILKA (31980, it 1972), R.P.
MARTIN (1980), R. FABRIS (1983), W. SCHENK (1984), W. EGGER (1985), R.
PESCH (1985), G. BARBAGLIO (21990)
Monografie
Dal tempo di Lutero le lettere ai Galati e ai Romani
sono al centro delle controversie confessionali tra protestanti e
cattolici, e la loro lettura e interpretazione è rimasta a lungo
bloccata attorno a posizioni ferme che, dall’una e
dall’altra parte, si tramandavano come postulati. Così,
sotto l’influsso di Lutero, il mondo protestante anzitutto vedeva
nella “giustificazione per sola fede” l’affermazione
centrale e principale di Gal e Rom, e poi affermava che queste due
lettere con quella loro affermazione costituivano il nucleo centrale
della fede cristiana, una specie di “canone nel canone”.
A partire dall’inizio del secolo xx la lettura confessionale di
Paolo è in via di superamento. «L’affermazione
secondo cui la dottrina della giustificazione costituirebbe il centro
della teologia dell’apostolo non è rimasta incontestata
nei recenti studi sul paolinismo, ed è stata avanzata
l’opinione che essa sia soltanto un elemento particolare e
secondario, che sia stata elaborata come “dottrina di lotta
antigiudaica”, e non vada affatto sopravvalutata né
collocata in posizione centrale, come hanno fatto i riformatori del
secolo xvi» (W. Wrede). Analogamente A. Schweitzer l’ha
chiamata un “cratere secondario accanto al cratere
principale” (Nebenkrater) della mistica paolinica della
redenzione», citato in G. BORNKAMM, Paolo (Torino 1977
[Stuttgart 1969]), 121. È con Wrede che, secondo H.-J. SCHOEPS, Paulus,
206-207, è iniziata la “deluteranizzazione di
Paolo”, ma essa è stata portata avanti da altri studiosi
protestanti come W.D. Davies, K. Stendhal, N.A. Dahl, E.P. Sanders,
J.C. Becker, R.P. Martin, N.T. Wright, L. Gaston, D.G. Dunn.
Cf. l’ampio status quaestionis fatto da PLEVNIK,
«The Center of Pauline Theology», in The Catholic
Biblical Quarterly 51 (1989), 461-478, e da A. GIENIUSZ, «Identity
markers o solus Christus. Quale posta in gioco
nella dottrina della giustificazione per fede in Paolo?», in Euntes
Docete 54 (2001). – Circa l’espressione “opere
della Legge” finora ricorrente soltanto nelle opere di Paolo, cf.
ora 4QMMT (Miq*at Ma‘a?e ha-Torah = Alcune opere della
Legge), pubblicato in edizione ancora provvisoria in DJD,
Oxford 1994.
Nella sua oramai classica monografia “Paul and
Palestinian Judaism” (1977), E.P. Sanders ha mostrato che il
giudaismo del tempo di Paolo non era affatto un giudaismo legalistico,
orgoglioso della sua osservanza della Legge e delle opere fatte nello
sforzo di obbedire alla Legge. In netto contrasto con la caricatura
fatta da molti protestanti, Sanders mostra proprio a partire dai testi
del giudaismo che il giudaismo palestinese era invece soprattutto una
religione di grazia e che intendeva l’obbedienza umana alla Legge
soltanto come risposta alla grazia. Sia l’elezione che la
salvezza erano iniziativa di Dio e dono della sua misericordia, e non
una conquista umana di cui l’uomo potesse vantarsi davanti a lui.
L’osservanza della Legge non fondava dunque la giustificazione,
ma costituiva il requisito necessario per rimanere nel patto con Dio (staying
in), non per entrarci (getting in).
Le “opere della Legge”, cui Paolo nega la capacità
di giustificare, sono tutto ciò che la legge mosaica prescrive e
soprattutto i mezzi da essa previsti per ottenere il perdono dei
peccati (= i riti dell’espiazione sacrificale, i digiuni, le
preghiere): di esse Paolo parla in Gal e in Rm da due prospettive
diverse. (a) In Gal esclude che esse diano la giustificazione
perché gli preme di affermare che, a chi proviene dal paganesimo
come i Galati, il Cristo è necessario e sufficiente. In tal modo
la situazione argomentativa in Gal è quella di un conflitto
interno alla chiesa: non hanno ragione i giudaizzanti a richiedere e
imporre ai Galati, provenienti dal paganesimo, la circoncisione e la
Legge. (b) In Rm invece la giustificazione “per fede”
è affermata in prospettiva più generale, in riferimento
all’umanità intera: essa è l’unica via per
tutti, anche per i giudei che inutilmente cercano la giustificazione
nelle opere della Legge: «Riconosco che i giudei hanno zelo per
Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Trascurando infatti la
giustizia di Dio [= quella che viene dalla fede], cercano di far
sussistere la propria [= quella che verrebbe dalle opere della
legge]» (Rm 10,2-4). In vista della giustificazione, Paolo dunque
afferma da un lato l’inutilità della Legge per i Galati e,
dall’altro, afferma la necessità della fede per i giudei.
In seguito a questa evoluzione, ora è possibile studiare le lettere di Paolo senza privilegiare nessuno scritto paolino, è possibile mettere in luce altri capitoli teologici oltre alla cristologia, e ridimensionare la pretesa centralità della giustificazione sia nel pensiero di Paolo sia nella fede cristiana in generale. Quanto a Rm, Gal e Fil, che sono le lettere della “giustificazione per fede”, si va sempre più mettendo in luce come problema centrale non sia affatto l’alternativa tra giustificazione per fede o per Legge, bensì il Vangelo, “il Vangelo di Paolo”. – «Più volte nelle lettere paoline si incontra la formula “Vangelo nostro / ημων” (2Cor 4,3; 1Tess 1,5; 2Tess 2,14) e “Vangelo mio / μου,” (Rm 2,16; 16,25; 2Tm 2,8), a cui si aggiungono espressioni quali “il Vangelo che annunciammo / annunciai a voi / ai pagani” (1Cor 15,1; Gal 1,11; Gal 2,2) ecc. Queste espressioni non significano che Paolo predichi un Vangelo particolare, in contrasto con gli altri apostoli; per lui c’è un solo Vangelo (Gal 1,6), il Vangelo di Cristo. Se lo chiama “suo” Vangelo, è perché come apostolo sente la predicazione quale impegno personale: esso è affidato a lui come un bene prezioso (1Tess 2,4; 1Tm 1,11; Gal 2,7). La sua vocazione di apostolo è consistita nell’incarico di recare il messaggio ai gentili (Gal 1,16)», G. FRIEDRICH, ευαγγελιον, in Grande Lessico del NT, II, 1093.
Dopo lunghi lavori preparatori, il 31 ottobre 1999
è stata firmata e pubblicata una “dichiarazione
comune” sulla giustificazione tra il Pontificio Consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani e la Federazione
Luterana mondiale. Il documento è stato firmato ad Augsburg,
Germania, nella città e nella chiesa nelle quali nell’anno
1530, durante la Dieta imperiale voluta da Carlo V, si consumò
la lacerazione della cristianità occidentale fra cattolici e
luterani. La dichiarazione elenca i punti dottrinali su cui
c’è oramai sostanziale accordo tra le due parti, anche
spesso si aggiungono i dettagli nei quali ci si esprime in modo
diverso. La conclusione non poco importante è che le condanne
vicendevoli del sec xvi riguardano i contrasti di quel tempo e non
riguardano invece i luterani e i cattolici di oggi (cf. nn. 13 e 41):
«La contrapposta interpretazione e applicazione del messaggio
biblico della giustificazione è stata nel secolo xvi una delle
principali cause della divisione della chiesa occidentale e ha trovato
espressione nelle condanne dottrinali. Una comune comprensione della
giustificazione è quindi fondamentale e irrinunciabile per il
superamento della divisione nella chiesa. La ricezione dei dati forniti
dalle scienze bibliche e dalla storia della teologia e della dogmatica,
hanno fatto registrare (…), a partire dal Concilio Vaticano II,
un evidente avvicinamento delle posizioni, per cui in questa
dichiarazione congiunta è possibile formulare sulle
verità di fondo della dottrina della giustificazione un consenso
tale da rendere oggi inapplicabili alla controparte le rispettive
condanne dottrinali del xvi secolo» (Dichiarazione congiunta, n.
13).
Il documento è rilevante più per la teologia che non per
l’esegesi. È certo che l’esegesi ha preparato
l’evento di Augsburg, e bisogna aggiunge che l’esegesi
è già andata molto più avanti della dichiarazione,
ma il documento parla della giustificazione appunto con il linguaggio
delle antiche controversie e non con quello dell’esegesi
più recente. In ogni caso «ringraziamo il Signore per
questo passo decisivo verso il superamento della divisione della
chiesa, e preghiamo lo Spirito Santo di continuare a condurci verso
quell’unità visibile che è la volontà dio
Cristo» (n. 44).
L’intervento misericordioso di Dio, chiamato da Paolo “giustizia di Dio”, significa contemporaneamente: (a) severità con cui Dio afferma il suo primordiale e irrinunciabile diritto a essere riconosciuto e adorato; (b) fedeltà alle promesse di realizzare dell’alleanza; (c) intervento di misericordia compiuto nella persona del Cristo per giustificare l’uomo peccatore. – Il verbo δικαιοω di cui Dio è soggetto, in questo contesto significa che Dio conduce il peccatore allo stato di giustizia, a un rapporto giusto, di pace e amicizia. La “giustizia” di Dio, dunque, non è da identificare con l’ira, ma con la misericordia di Dio. È infatti l’attività salvifica di Dio per la quale Israele nell’AT, e tutti gli uomini ora, vengono collocati nei beni promessi da Dio; cf. S. LYONNET, La storia della salvezza nella lettera ai Romani (Napoli 1966), 47. – Il pessimismo di Paolo, non circa la natura dell’uomo [= può risalire al creatore attraverso le creature!] ma circa la sua condizione di fatto, è una conseguenza che Paolo ricava, ragionando all’indietro, dal suo cristocentrismo: ciò che è bene e ciò che è male si definisce solo in rapporto al Cristo. Nel Cristo morto e risorto chi crede (πιστευω, πιστις) viene giustificato (δικαιοομαι) dalla giustizia di Dio (δικαιοσυνη θεου), muore al peccato (Θανατος), è liberato dalla Legge (Νομος), riceve lo Spirito, caparra della salvezza (Πνευμα), ed è salvato in speranza (σωτηρια, ζωη).
La giustificazione si iscrive nel più vasto
processo della salvezza, e in esso è il primo di tre momenti
successivi e complementari. (Cf. comunque le precisazioni di B. BYRNE,
«Living out», 577-578):
(a) C’è l’inizio storico di essa nella giustificazione,
quando Dio da peccatori gratuitamente ci rende giusti. – (c)
C’è la piena salvezza escatologica che sarà
quella che raggiungeremo nella resurrezione. Ora possiamo partecipare
alla morte del Signore con il battesimo (6,3-4), ma non alla sua
resurrezione, per cui siamo salvi e risorti solo «in
speranza» (8,24). – (b) Nel tempo presente, partecipando
alla morte del Cristo, nuovo Adamo, fine della Legge, vincitore di
Αμαρτια e di
Θανατος, siamo riconciliati con
Dio e riceviamo il nuovo Principio di Azione, lo Spirito, per cui
possiamo camminare in novità di vita.
«L’alternativa fatale è ancora aperta. (…) Nella nuova situazione (quella dell’uomo oramai giustificato) è ancora possibile camminare secondo la carne e raccoglierne la conseguenza: la morte. È ancora possibile, non però necessario. Questa è la differenza dalla situazione descritta in Rm 7. Nella situazione che precede la grazia del Cristo la carne era “venduta sotto il dominio del peccato” (7,14), e il dilagare del peccato, messo in gioco dalla Legge, produceva un’ineluttabile necessità di seguire la carne. Nella nuova situazione i cristiani in qualche modo sono ancora “nella carne”, ma non sono più in essa nel senso che non sono più completamente e solamente determinati da essa. Questa libertà dalla necessità di peccare è (…) fondata sull’inabitazione dello Spirito di Dio nel cristiano (8,9-11)» B. BYRNE, «Living out», 569.
Senza legge si è nella sregolatezza, nel
disordine, e si è nel conflitto e nello scontro tra i propri
interessi e quelli degli altri. La legge regola i rapporti e
potenzialmente porta alla pace dentro se stessi e nella convivenza.
Paolo però fa la constatazione che la legge, e in particolare
“la Legge (= mosaica)”, dimostra l’immaturità
e la presunzione di chi ad essa si affida come a principio di salvezza.
In se stessa infatti la Legge non rappresenta la situazione di
maturità e perfezione. Essa, come fa un pedagogo, è
surrogato delle scelte mature dell’uomo adulto, di colui che
è figlio a pieno titolo. «La legge mosaica indica
certamente l’esigenza di mettere in pratica le sue norme come
espressione della volontà divina, ma nello stesso tempo indica
anche la fondamentale impotenza del peccatore nel mettere in pratica
effettivamente la legge: il che rende solo evidente all’uomo il
suo fallimento (Rm 3,20b). Questa, però, non è solo la
funzione storico-salvifica della Legge prima di Cristo, perché
essa mantiene questa funzione anche per i cristiani, stando lì a
ricordare che il cristiano certamente è giustificato per la
fede, ma resta pur sempre un peccatore davanti a Dio. Il cristiano
è “simul justus et peccator”», KERTELGE,
«La giustificazione per la fede”, 91.
La fede e il conseguente dono dello Spirito sono del tutto superiori
alla Legge. Sono principi di vita posti nell’intimo
dell’uomo, lo rendono figlio ed erede. In tal modo la
libertà che viene al cristiano dalla fede in Gesù non
è libertinismo (fase già superata dalla legge), e non
è immatura dipendenza da un codice esteriore (fase della legge),
ma è risanamento dell’uomo - dato da Dio in virtù
della salvezza operata nel Cristo -, interiore e radicale, di tutti i
rapporti.
Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici