«La chiesa di Dio che è pellegrina a Smirne alla chiesa di Dio che è pellegrina a Filomelio e a tutte le comunità della santa Chiesa universale, ovunque siano: pietà, pace e amore di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo vi siano moltiplicati… Fu Gaio a trascrivere quanto si legge fin qui dalla copia di Ireneo, discepolo di Policarpo, col quale egli aveva dimestichezza. Io, Socrate, ho a mia volta riprodotto, a Corinto, la copia di Gaio. La grazia sia con tutti voi. Ed io, Pionio, ho esteso un nuovo apografo del materiale manoscritto precedente. Dopo che avevo cercato a lungo quelle carte, mi fu dato rinvenirle per rivelazione del beato Policarpo, come narrerò qui di seguito, ed io le raccolsi insieme che erano ormai quasi polverizzate dal tempo, nella speranza che il Signore Gesù Cristo raccolga anche me fra gli eletti suoi nel regno celeste. A Lui sia gloria insieme col Padre e con lo Spirito Santo per i secoli dei secoli. Amen».
dal Martirio di san Policarpo, Prescritto e 22,2-3
«[Paolo] appartiene a tre mondi e a tre
culture: ebraica, greca e romana, e tuttavia emerge da ciascuna di esse
con il vigore della sua individualità, e trova un punto di
riferimento soltanto nella persona di Cristo. (…) Questa
comunicazione viva e personale con Cristo gli ha dato la
possibilità di uscire dalle culture alle quali apparteneva senza
rinnegarle» (P. ROSSANO, «Introduzione generale», in
IDEM, a cura di, Le Lettere di S. Paolo, 9).
J. Jeremias in uno scritto brevissimo (= Per comprendere la
teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo
incisivo quella che è la convinzione comune, che cioè non
Tarso, città dove è nato, non Gerusalemme, dove è
stato educato, non Antiochia di Siria, dove è stato coinvolto
nel movimento cristiano in modo decisivo,- riescono a spiegare Paolo,
la sua opera e il suo pensiero. Ma soltanto Damasco. Su tutte le
componenti della personalità di Paolo (ellenismo, giudaismo,
chiesa primitiva), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente
detto ‘conversione’.
Al tempo di Paolo, Tarso era capoluogo della
provincia romana di Cilicia, con circa 300.000 abitanti. Senofonte la
dice una città ricca e molto popolosa: «[Nella loro
marcia, i soldati di Ciro] avanzano per la pianura, senza sosta.
Giungono a Tarso, città ricca e molto popolosa della Cilicia: la
città racchiude la reggia del re di Cilicia, ed è
percorsa dal fiume Cidno», (Anabasi I, 2,23). La posizione
della città era favorevole sia per l’agricoltura, sia per
il commercio: era infatti al punto d’incontro delle vie di
comunicazione da Ovest (Efeso, Smirne, Pergamo, Mileto, città
della costa egea) a Est (Siria, Palestina), e dal Mediterraneo verso
Nord attraverso il passo delle “porte cilicie” che
permetteva di valicare la catena montuosa del Tauro. Tra l’altro
Tarso era un centro di formazione greca, essendo per esempio sede di
scuole filosofiche e di retorica.
Anche se Paolo non vi ha frequentato la scuola ellenistica ma quella
della numerosa colonia di giudei, Paolo ha appreso molto bene il greco
comune (= κοινη
διαλεκτος)
tanto che molti ritengono che il greco fosse la sua lingua materna. Di
fatto egli cita pochissime volte la Bibbia ebraica (2 volte) e quasi
sempre la traduzione greca della Lxx (34 citazioni esatte, 36 con
qualche variazione, 10 con variazioni sensibili). La morale paolina,
poi, ha qualche punto in comune con quella dei filosofi stoici (in
maggioranza, in quel tempo, anche a Tarso), ma da essi potrebbe essere
stato influenzato da adulto. Paolo fa uso della diatriba (= metodo
dialogico di insegnamento usato nelle scuole filosofiche degli Stoici e
dei Cinici), delle figure della retorica e, come s’è
visto, della sua dispositio. Paolo infine è creativo
nell’uso della lingua greca: egli crea dei neologismi,
soprattutto servendosi di preposizioni che esprimono la partecipazione
al mistero di Cristo; cf. per esempio: «Per mezzo del battesimo
siamo stati sepolti con lui
(συν-εταφημεν)
nella morte…» (Rm 6,4); «… coeredi
(συγ-κληρονομοι)
di Cristo se soffriamo con
(συμ-πασχομεν)
lui affinché anche siamo conglorificati
(συν-δοξασθωμεν)»
(Rm 8,17).
Il fatto di essere nato in una grande città
ellenistica ha segnato Paolo. A differenza di Gesù, non gli
viene spontaneo prendere le sue immagini dalla natura o dalla vita dei
campi. «Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue
relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia»
(F. PRAT, La teologia, I, 15); Paolo «è un
introverso per il quale la vera realtà è quella
interiore, spirituale» (ROSSANO, Le lettere, 24).
Così egli ricava le sue immagini, non dalla natura ma dalla vita
dell’uomo (nascere, morire, generare) o dalle attività
sportive (lo stadio, il pugilato, la corsa, il premio, la corona; cf.
1Tess 2,1-2; 1Cor 9,24-27; Gal 2,2; 5,7; Fil 2,16; 3,12-14; 4,1; Rm
9,16), commerciali (il dare, l’avere, il guadagno, il comperare,
il riscattare; cf. Fil 4,15-18; Flm 17; 1Cor 6,20; 2Cor 2,17; Gal
3,6.13; 4,5; Rm 1,27; 7,14), militari (corazza, guerra, pace, armi; cf.
1Tess 5,8 2Cor 2,14; 6,7; 10,3.4; 11,8, Rm 13,12); o dalla vita urbana
(teatro, corteo per la visita dell’imperatore, i tribunali, i
templi).
Nonostante tutto questo, Paolo non fa mai riferimento alle città ellenistiche e ai loro monumenti i cui ruderi noi guardiamo con ammirazione, e un solo libro profano ha lasciato il segno nelle sue lettere: prendendola dalla commedia Taide di Menandro (sec. iii a.C.) in 1Cor 15,33 cita la sentenza: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi». Cf. anche la citazione dagli Oracoli di Epimenide in Tt 1,12, e di Arato di Soli e Cleante di Asso in At 17,28. Il pensiero paolino circa l’uomo non è quello greco, basato sul dualismo antropologico: «L’antropologia [unitaria] di Paolo è la prova che egli non è un ellenista, ma un ebreo al cento per cento» (L. CERFAUX, Il cristiano nella teologia di S. Paolo, 23).
Da sempre, comunque, si è discusso a riguardo
di Paolo se egli sia ebreo o piuttosto ellenista. Lo dice già la
battaglia condotta contro di lui dai giudaizzanti che lo ritenevano
troppo ellenizzato, nemico della tradizione giudaica. Nel secolo scorso
la scuola neotestamentaria di Tübingen (fondata da F.C. Baur,
1860) lo riteneva rappresentante del partito ellenista-universalista
contro il partito petrino-gerosolimitano legato al giudaismo. Lo stesso
hanno fatto gli studiosi del comparatismo delle religioni, per esempio
A. Deißmann, W. Bousset ecc., e in questo secolo R. Bultmann.
«Ma dalla formazione culturale di Paolo non si può
annullare la complessità: Paolo è un giudeo che scrive in
greco, che cita la Bibbia greca della Lxx più che il testo
ebraico. La sua origine giudaica non si può certo negare, e
tuttavia bisogna tenere in conto le molteplici relazioni di Paolo con
l’ellenismo. Per questo è sbagliato e scolastico il
dilemma delle due opposte scuole esegetiche, tra il Paolo giudeo (Cf.
J.-M. Lagrange, S. Lyonnet, ecc.) e quello greco (Cf. R. Bultmann, L.
Cerfaux, ecc.). Paolo, come molti giudei della diaspora, appartiene al
giudaismo ricco anche di influssi ellenistici (cf. E.P. Sanders, M.
Hengel). La sua formazione non è molto diversa da quella del
grande giudeo di Alessandria, Filone, né da quella del
più importante storico giudeo romanizzato, Giuseppe
Flavio», (PITTA, in Bibbia Piemme, 2661).
Paolo, comunque, rivendica ripetutamente un’identità di
israelita: «Io sono israelita, della discendenza di Abramo, della
tribù di Beniamino» (Rm 11,1); «…circonciso
l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di
Beniamino, ebreo da ebrei, quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3,5;
cf. anche 2Cor 11,22 ecc.), e sempre più gli studiosi mettono in
luce l’eredità giudaica, anche se non esclusiva, in Paolo:
«La maggior parte della sua teologia (= dottrina su Dio) e della
sua antropologia (= dottrina sull’uomo) rivela chiaramente il suo
sfondo ebraico» (J. FITZMYER, «Teologia paolina», in Grande
Commentario Biblico [Jerome Biblical Commentary], 1868);
«Tarso è la sua patria civile dove riceve la lingua
ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma
Gerusalemme è la patria dell’anima sua. Verso Gerusalemme
egli convergerà sempre» (PRAT, La teologia, I, 19)
Essendo stato circonciso scrupolosamente all’ottavo giorno, deve
poi essere stato avviato già a Tarso non alle scuole
ellenistiche, ma a quella della colonia ebraica che fin dal 171 a.C.
aveva potuto costituirsi come tribù
(φυλη), con il diritto di organizzare la propria
vita e il proprio culto autonomo. Dalle scuole ebraiche erano esclusi i
libri pagani e l’unico testo era la Bibbia – a Tarso nella
traduzione greca della Lxx. Per la scuola superiore, in At 22,3 Paolo
afferma di essere stato educato a Gerusalemme «ai piedi di
Gamaliele, nelle più rigide norme della Legge»: Gamaliele
il vecchio, nipote di Rabbi Hillel, guidò una scuola rabbinica
tra il 25 e il 50 d.C.
Segno dell’educazione rabbinica di Paolo sono
i metodi esegetici da lui praticati. Come i rabbini, per esempio Paolo
si serve della prova a fortiori: «Sta scritto nella Legge
di Mosè: ‘Non metterai la museruola al bue che
trebbia’. Forse Dio si dà pensiero dei buoi?…
Certamente fu scritto per noi» (1Cor 9,9-10). Altri metodi
rabbinici impiegati da Paolo sono l’analogia, il senso
conseguente, l’analisi, l’uso del contesto, dei luoghi
paralleli. E si serve della regola chiamata gezerah-shawa:,
quella per cui due testi biblici possono essere spiegati l’uno
con l’altro se hanno in comune un termine (ALETTI, Comment
Dieu, 100, nota 2, e passim).
Ancora come i rabbini Paolo cerca il senso tipico: «Adamo
è τυπος di colui che doveva
venire» (Rm 5,14; cf. anche 1Cor 15,22.45.49). E gli Israeliti
nel deserto erano ‘tipo’ della chiesa: «Ora
ciò [= il passaggio del mare? /la morte degli idolatri?] avvenne
come esempio (τυποι) per noi», (1Cor
10,6); «Tutte queste cose accaddero a loro come esempio
(τυπικως), e sono state scritte
per ammonimento nostro», (1Cor 10,11). – Come i rabbini
Paolo ha usato il senso accomodatizio: «Fino ad oggi quando si
legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci
sarà la conversione al Signore, quel velo sarà
tolto», (2Cor 3,15-16): nell’AT-Lxx è Mosè
che ritorna a parlare al Signore (ηνικα δ
αν
εισπορευετο
Μωυσης
εναντι κυριω
λαλειν
αυτω, Es 34,34), mentre in 2Cor sono gli
israeliti che si convertiranno (ηνικα
δε εαν
επιστρεψη
προς κυριον)
alla fede nel Signore Gesù. – In Paolo «la formula
‘come-sta-scritto’ non indica sempre
un’argomentazione propriamente detta» (PRAT, La teologia,
I, 23); «l’uso che Paolo fa dell’AT non si accorda
con le nostre moderne idee di citazione della Scrittura, ma è
conforme al modo ebraico a lui contemporaneo e deve essere accettato
come tale» (FITZMYER, «Teologia paolina», 1868).
In Fil 3,5-6 Paolo dice di se stesso: «Quanto
alla Legge, fariseo; quanto a zelo, persecutore della chiesa;
irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza
della Legge». All’interno del giudaismo Paolo dunque scelse
la corrente farisea, dalla pratica religiosa severa, e a quel tempo non
ancora chiusa e aggressiva come si fece dopo la fine della nazione nel
70.
Probabilmente Paolo si era dedicato alla missione giudaica fra i pagani
ai quali chiedeva la circoncisione. Cf. Gal 5,11: «Quanto a me,
fratelli, se io predico ancora (ετι) la circoncisione,
perché sono tuttora perseguitato?». Di qui si comprende
come da fariseo rigorista perseguitasse i cristiani come Stefano (At
7,58; 9,1ss ecc.), aperti all’ellenismo che erano in posizione
critica verso la Legge e rigettavano tempio e circoncisione.
Interessato soprattutto al Cristo glorioso, Paolo fa
continuamente riferimento alla sua Pasqua. Tuttavia L. Cerfaux
rivendica una sostanziale continuità tra il Gesù storico
e Paolo, soprattutto a riguardo della critica alla Legge, al
fariseismo, ai sacrifici e al particolarismo giudaico (CERFAUX, Il
cristiano, 15-21).
Di Gesù, Paolo cita qualche rara parola: sulla sorte dei morti
alla parusìa (1Tess 4,15), sul matrimonio indissolubile (1Cor
7,10), sul sostentamento degli evangelizzatori (1Cor 9,14). Altre
volte, come in 1Cor 13,2; Rm 12,14; 13,9; 16,19 ecc., si avvicina alle
formulazioni sinottiche delle parole del Signore. Dell’esistenza
storica di Gesù conosce la nascita da stirpe davidica (Rm 1,3),
da donna (Gal 4,4), e la sottomissione alla Legge (Gal 4,4). Conosce i
Dodici e Kefa (1Cor 15,5 ecc.), la cena nella notte della consegna
(1Cor 11,23), la croce (Gal 3,1 ecc.) e la sepoltura (1Cor 15,4),- ma
non parla né dei miracoli di Gesù, né delle
parabole, né delle controversie coi giudei, né
dell’annuncio del Regno. L’impressione che si ha è
che abbia avuto interesse non a ciò che era temporaneo
(miracoli, insegnamenti), ma alla identità messianica di
Gesù e alla soteriologia (liberazione dalla Legge, croce e
Pasqua).
Nonostante rivendichi una completa autonomia dagli
apostoli circa il Vangelo che annuncia (Gal 1-2), in realtà
Paolo attinge dalla tradizione. Invocazioni aramaiche come Maranatha
(1Cor 16,22) e Abba (Gal 4,6; Rm 8,15) non possono venire se
non dalle comunità palestinesi (cf. Mc 14,36 per Abba).
Lo stesso è da dire circa inni quasi certamente pre-paolini (Fil
2,6-11, ecc.), schemi catechetici (1Tess 1,9-10; 1Cor 15,3-7; Rm 10,9),
materiali etico-esortativi e liturgici (1Cor 11,23-25), dossologie
(2Cor 1,3; Gal 1,5 ecc.).
Paolo talvolta parla esplicitamente di tradizioni
(παραδοσεις)
che ha ricevuto e che trasmette: «Vi lodo perché
conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse»
(1Cor 11,2); «Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta
vi ho trasmesso» (1Cor 11,23); «Vi ho trasmesso dunque
quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 15,3). In 1Cor 11,16
si richiama alle consuetudini delle chiese: «Se qualcuno ha il
gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine
(συνηθεια) e neanche le
chiese di Dio». Nonostante la sua grande creatività
teologica, Paolo riprende le formule di fede e i titoli cristologici in
uso nelle chiese prima di lui: «Nessuno può professare la
sua fede dicendo: “Gesù è
Κυριος”, se non sotto
l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3); «Se
confesserai con la tua bocca che Gesù è il
Signore-Κυριος e crederai con il
tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm
10,9).
Paolo riconosce il ruolo insostituibile di Pietro, dei Dodici, di tutti
gli apostoli e delle chiese, di cui sono colonne e rappresentanti,
nonostante debba talvolta difendere da essi la sua autonomia o
sottoporre a critica i loro comportamenti (Gal 1-2). In Gal 2,2ss dice
di aver voluto confrontare il suo Vangelo con le autorità di
Gerusalemme per evitare che il suo apostolato sia una corsa vana:
«Andai a Gerusalemme, esposi alle persone più
ragguardevoli il Vangelo che io predico tra i pagani, per non trovarmi
nel rischio di correre [= nel futuro] o di aver corso [= nel passato]
invano (εις
κενον)». – «È
impossibile scindere Paolo dal cristianesimo primitivo» (L.
CERFAUX, Il cristiano, 21). Ma «qualunque cosa Paolo
abbia ereditato dal suo retroterra ebraico, dai suoi contatti con
l’ellenismo, e qualunque cosa abbia tratto successivamente dalla
tradizione della chiesa primitiva e dalla propria esperienza
missionaria, – tutto fu trasformato in maniera unica dalla sua
comprensione del mistero di Cristo, acquisita sulla via di
Damasco» (FITZMYER, «Teologia paolina», 1871).
Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) da brevissimi accenni dello stesso Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss); (b) da testi che si trovano in lettere considerate di solito deuteropoaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore, 22 vv.), At 22,6-11 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18 vv.), At 26,12-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 vv.).
In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi dal mangiare carne in eterno, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma tale rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte dalle particelle interrogative ου / ουκ / ουχι, che lasciano in attesa di una riposta affermativa:
Insieme con la fondazione delle chiese, dunque, l’avere visto il Signore a Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo: l’evento di Damasco è l’investitura apostolica di Paolo e l’opera missionaria ne è la comprova.
Il problema che Paolo discuterà sino alla
fine del lungo capitolo xv è esposto in 15,12: «Se si
predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire
alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti
come gli altri apostoli, così anche Paolo («Sia io che
loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo
incentrato su: Morte-Sepoltura di Gesù e
Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8). Nell’elenco dei
destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo mette anche se stesso:
«… apparve (1) a Kefa, e (2) ai Dodici; in seguito apparve
(3) a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di
essi vive ancora, mentre alcuni sono morti; inoltre apparve (4) a
Giacomo, e quindi (5) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve
anche a me (= 6) come a un aborto». Anche qui l’evento di
Damasco è per Paolo investitura apostolica, nonostante che egli
occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle
apparizioni, anzi nonostante sia indegno di quel titolo perché
ha perseguitato la chiesa (15, 11).
In conclusione, in 1Cor 15: (a) l’evento di Damasco più
che visione, è apparizione (Paolo è passivo, mentre in
1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»); (b) la
teofania è fondamento dell’apostolicità, e -
elemento nuovo - (c) la cristofania è
χαρις-grazia: è l’iniziativa
gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un apostolo
travolgente. Colui che tra gli apostoli è il feto abortivo, in
virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui
che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (15,10).
In questo testo Paolo sembra rispondere
all’accusa di annunciare un Vangelo oscuro («E se il nostro
Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono»,
4,3), e dice che il rifiuto del Vangelo non dipende da lui, ma dal
fatto che il dio di questo mondo [= Satana], limitatamente a questo
mondo, ha il potere di accecare, cosicché nel Cristo,
‘icona’ di Dio, non tutti vedono risplendere lo splendore
della gloria divina (4,,4).
La manifestazione di tale gloria è descritta con le parole con
cui in Gen 1 si parla della creazione della luce: «E il Dio che
disse: ‘rifulga la luce dalle tenebre’, lui rifulse nei
nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria
divina» (4,6). Se ‘i cuori’ in cui Dio ha portato la
luce è una espressione che indica il cuore di Paolo (e non anche
di tutti quelli che credono al Vangelo), allora qui si ha un altro
accenno a Damasco, e l’evento di Damasco è come una
seconda creazione della luce. È un far passare Paolo dalle
tenebre alla luce che Dio ha fatto brillare per gli uomini nel Cristo.
Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo
predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica
“per piacere agli uomini”: «È forse il favore
degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?
[Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini?
Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di
Cristo!» (Gal 1,10).
Paolo replica anzitutto negando di avere facilitato e addomesticato il
Vangelo («il Vangelo da me annunziato non è modellato
sull’uomo - ουκ
εστιν κατα
ανθρωπον», v. 11) e nega
di averlo ricevuto da uomini, o in particolare dalla catechesi [di
qualche comunità] (v. 12a). Prima di Damasco infatti era
accanito persecutore della chiesa [e quindi di certo non era
catecumeno] (vv. 13-14). Dopo Damasco si è recato in Arabia
senza salire a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli vv. 16b-17. Egli
ha ricevuto il Vangelo per rivelazione (= δι’
αποκαλυψεως).
– A Dio infatti è piaciuto rivelargli il suo Figlio
(ευδοκησεν
αποκαλυψαι
τον υιον
αυτου εν
εμοι) avendolo a questo selezionato fin dal
seno della madre
(αφορισας με
εκ κοιλιας
μητρος μου) e chiamato
per grazia (και
καλεσας
δια της
χαριτος
αυτου). Tutto questo in vista
dell’annuncio evangelico ai pagani (εν
τοις
εθνεσιν). In Gal 2,7-8 Paolo
espliciterà il carattere particolare di questa sua missione
mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai
circoncisi.
E allora l’evento di Damasco in Gal 1 è: (a)
“apocalisse”, “rivelazione” a Paolo del Figlio,
quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a); (b) è
apocalisse dell’Evangelo o buona notizia che riguarda
Gesù, e che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente
da Dio (v. 12); (c) è chiamata all’apostolato totalmente
gratuita (δια
χαριτος, v. 15b) e in nulla
meritata; (d) è chiamata all’apostolato dei pagani, come
quella di Pietro è chiamata all’apostolato dei circoncisi
(2,8); (e) è chiamata profetica perché descritta con le
parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti
nel seno materno ti conoscevo…; ti ho stabilito profeta delle
nazioni»), o del servo di Adonay (Is 49,1: «Il Signore dal
seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato
ecc.»).
Nella serena lettera ai Filippesi [cf. le 15
ricorrenze di χαρα /gioia,
χαιρειν e
συγχαιρειν
/gioire], il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro
missionari probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. In
due repliche contro di loro Paolo inserisce due allusioni a Damasco:
αλλα…ηγεμαι
ζημιαν (3,7); εφ ω
και
κατελημφθην
(3,12).
La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno
ritiene di potere confidare nella carne, io più di lui»
(3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto ereditati dalla
nascita: egli è (i) circonciso l’ottavo giorno; (ii)
Israelita della tribù di Beniamino; (iii) Ebreo da ebrei [=
fedele alla cultura, alla lingua, allo stile di vita]; e poi tre motivi
di vanto conquistati personalmente: (iv) quanto alla Legge, fariseo (=
osservanza radicale della Legge), (v) quanto allo zelo, persecutore,
(vi) quanto alla giustizia, irreprensibile. – All’inizio
del v. 7 c’è un «ma (=
αλλα…)» che segna la svolta del
ragionamento, e che è una allusione all’evento di Damasco:
«Ma quello che poteva essere per me un guadagno, a motivo
di Cristo (= δια τον
Χριστον), l’ho considerato una
perdita (ηγεμαι
ζημιαν)». Quel rovesciamento di valori
è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e perdita
dice che a Damasco si è operato un capovolgimento di giudizio
circa i privilegi storici e morali del giudaismo. –Passando a
parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e
la rafforza dicendo di considerare come perdita
(ζημια) e sterco
(σκυβαλα) non solo i
privilegi del giudaismo, ma ogni cosa (παντα), di
fronte alla conoscenza superiore /sublime di Gesù Cristo (v. 8).
Ora Paolo, lasciando perdere ogni altro valore, cerca di conquistare il
Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la
comunione alle sue sofferenze «con la speranza di giungere alla
resurrezione dai morti».
Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, e al
secondo confronto coi suoi avversari. Sembra di poter ricavare dal
testo di Fil che essi si considerassero già perfetti, pienamente
salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi
dell’immagine della corsa nello stadio, dice di sé invece
di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però che io
abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla
perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo». E
aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo:
«…perché anch’io sono stato conquistato dal
Cristo (…
κατελημφθην
υπο
Χριστου)» (v. 12).
In conclusione, in Fil 3 Damasco per Paolo: (a) è conversione,
perché è capovolgimento di valori e di scelte morali. Per
questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un insegnamento
nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli
avversari di Paolo, hanno un esempio nell’apostolo. Egli infatti
sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli,
fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo
l’esempio che avete in noi» (v. 17); (b) Il cambiamento di
vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo
(δια τον
Χριστον, v. 7) e a motivo della
sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8).
L’espressione significa probabilmente, come in Gal 1, la
rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque Damasco è
conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo
quale valore assoluto che relativizza i privilegi di Israele e tutto;
(c) Per Paolo Damasco significa infine essere stato afferrato e
conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di
conquistare lui e la resurrezione.
Le affermazioni di Ef 3 circa Damasco sono: (1) A Paolo è stato dato il ministero della grazia (tre ricorrenze di χαρις): Paolo è strumento di Dio; (2) quel ministero gli è stato dato per rivelazione (κατα αποκαλυψιν, v. 3); in quella rivelazione gli è stato fatto conoscere il mistero di Cristo (τον μυστηριον του Χριστου, vv. 3); (3) Nei secoli passati il ‘mistero’ è rimasto nascosto nella mente di Dio, non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni, ma ora (νυν, v. 5), al presente, viene manifestato ai santi e ai profeti [non al solo Paolo]; (4) Contenuto del ‘mistero’ è che i non-israeliti (τα εθνη) in Cristo, attraverso l’annuncio evangelico, ricevono l’eredità come gli israeliti (ειναι τα εθνη συγκληρονομα), la concorporeità (συσσωμα), la promessa (συμμετοχα της επαγγελιας). Ogni disparità storico-salvifica e ogni separazione è tolta.
Il pensiero si sviluppa per associazione di idee secondo lo schema A (tema dell’apostolato), A+B (tema dell’apostolato, tema della misericordia), B (tema della misericordia):
A |
a Paolo sono stati affidati il Vangelo e l’apostolato (v. 11b) |
A+B |
Paolo è stato ritenuto degno dell’apostolato (A), non perché lo meritasse, ma per misericordia e grazia (B), (vv. 12-14) |
B |
nel suo essere oggetto di misericordia (B), Paolo è esempio per tutti i peccatori chiamati alla fede (15-17). |
In un inno di rendimento di grazie, dunque, Paolo
riconosce di avere avuto solo demeriti, in quanto era bestemmiatore,
persecutore, violento (v. 13): il primo dei peccatori! (v. 15).
L’unica sua attenuante, come per i crocefissori di Gesù,
è stata l’ignoranza (v. 13). È dunque solo per
misericordia e per grazia che è stato stimato degno del
ministero (διακονια),
della forza per attuarlo
(ενδυναμωσαντι
με, v. 12), della fede (verso Dio) e dell’agape (verso
le chiese) (v. 14).
Paolo poi inserisce il suo caso personale nel quadro di tutta la storia
della redenzione. Introducendola colla formula solenne: «Questa
parola è sicura», richiama infatti un’affermazione
della catechesi o della liturgia: «Il Cristo è venuto per
salvare i peccatori…». In questo quadro Paolo è il
primo (πρωτος) dei peccatori, il primo
a cui il Cristo ha mostrato la sua bontà, perché fosse la
prova o esempio vivente
(υποτυπωσις)
per tutti i peccatori chiamati alla vita eterna.
In 1Tm 1, dunque, l’evento di Damasco è: (a) chiamata alla
diakonia del Vangelo nonostante i peccati di Paolo; (b) è
quindi chiamata per pura grazia (v. 14) e misericordia (vv. 13.16); (c)
Damasco fa di Paolo un tipo esemplare per tutti i peccatori. È
da notare che 1Tm (d) non parla delle circostanze (visione, Damasco) in
cui si rivelò per Paolo la misericordia; (e) né Paolo
è mandato ai pagani, ma è costituito modello esemplare
dei peccatori, chiamati alla vita eterna; (f) in tal modo sia la figura
di Paolo come anche l’evento di Damasco sono moralizzati e messi
al servizio della parenesi. La vocazione di Paolo rilevante per la
storia della salvezza, è divenuta esemplare vocazione alla
santità.
Gli elementi che entrano in composizione nei tre racconti sono:
In sintesi: nei tre racconti di Atti ci sono
importanti conferme ai testi paolini: trasformazione di un persecutore,
cristofania espressa in termini di luce sconvolgente e di voce. Altri
elementi sono invece caratteristici di Atti: nel primo racconto ha
grande rilievo l’episodio di Anania; nel secondo ha un certo
rilievo la visione nel tempio: è dal Cristo e dalla città
di Gerusalemme che Paolo è inviato in missione; nel terzo
scompare l’incontro con Anania, a favore di un invio ai pagani
immediato, sulla strada. – A parte i particolari narrativi
(luogo, ora, nomi di Anania e Giuda, Damasco e la sua Via Diritta), e a
parte particolari provenienti dalla tradizione siriana (Damasco si
trova in Siria) e comprensibili in una monografia storica come il libro
degli Atti, l’evento di Damasco in tutti e tre i racconti
è dunque trasformazione di un persecutore in apostolo dei
pagani: tutta l’importanza di Damasco per Lc è
nell’invio di Paolo ai pagani.
Più in particolare, per Atti: (a) l’evento di Damasco non
è una apparizione pasquale (cf. At 13,31-33) e Paolo non
è costituito apostolo, bensì
testimone-μαρτυς (22,15; 26,16); (b)
Paolo non ha avuto una rivelazione diretta - il terzo racconto è
una abbreviazione -, bensì indiretta attraverso la mediazione di
Anania e delle chiese; (c) L’attività evangelizzatrice di
Paolo non fu iniziativa umana: come Pietro in At 10-11, così
Paolo a partire da Damasco fu guidato da Dio: «È inutile
recalcitrare contro il pungolo»; (d) L’invio ai pagani,
infine, non è in contrasto con l’AT, ma con esso è
in continuità: in At 13,47 viene citato esplicitamente il testo
di Is 49,6, e l’«aprire i loro occhi perché si
convertano dalle tenebre alla luce» di At 26,18 richiama Is
42,7.16; (e) L’invio ai pagani è in continuità
anche con i Dodici e con la chiesa-madre di Gerusalemme, perché
Paolo succede nel ruolo di
testimone-μαρτυς ai Dodici, che tali
erano stati costituiti dallo stesso Gesù (At 1,8).
Paolo è in continuità, come tutto il
NT, col giudaismo, secondo cui Dio sostituirà questo mondo o
eóne (αιων = tempo, epoca) con il mondo
escatologico (εσχατος =
ultimo, finale). In questo schema di pensiero
αποκαλυψις
è rivelazione e instaurazione del mondo nuovo.
Questo avverrà con pienezza solo alla parusìa gloriosa
del Cristo (1Cor 1,7; 2Tess 1,7), ma il Cristo Risorto è
già l’èschaton: la resurrezione l’ha
infatti costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito di santificazione
(Rm 1,4), e Signore. Per questo già ora l’annuncio del
Vangelo che riguarda Gesù è rivelazione che giustifica e
salva (Rm 1,16-17). E a Damasco è piaciuto a Dio (tema
dell’ ευδοκια) di
rivelare a Paolo l’èschaton, il mondo nuovo che
sostituirà quello attuale, nel suo Figlio. Così, pur
essendo ancora nella carne e nel sangue, Paolo ha conosciuto il Cristo,
ma non secondo la carne («D’ora in poi noi non conosciamo
più nessuno secondo la carne; e se anche abbiamo conosciuto il
Cristo secondo la carne [= mentre lo perseguitava?], ora non lo
conosciamo più così!», 2Cor 5,16). La
sublimità di tale conoscenza del Cristo ha annullato ogni vanto
secondo la carne (Fil 3,7-8), e Paolo considera perdita e sterco i
privilegi del giudaismo e ogni cosa (παντα).
Paolo è stato selezionato
(αφωρισμενος)
fin dal seno di sua madre come Geremia e come il Servo di Adonay. Ma, a
differenza di loro, egli è profeta messianico, dei tempi
escatologici, dell’economia pneumatica (2Cor 3-4). Paolo è
profeta dell’ora decisiva in cui si è chiusa
l’attesa e in cui si è realizzata la rivelazione
definitiva. Questa vocazione è avvenuta mediante una teofania
(1Cor 9: «Non ho forse visto il Signore, io?»), e
più precisamente in una apparizione pasquale (1Cor 15:
«Per ultimo è apparso a me, come a un aborto») che
ha fatto di Paolo un apostolo della nuova economia salvifica. Per il
titolo e la funzione di apostolo non è sufficiente la sequela
del Gesù terrestre (cf. Giuda), e neppure essa è
necessaria (cf. Giacomo fratello del Signore, Barnaba ecc.).
Indispensabile è la visione del Signore Risorto, inizio
dell’èschaton.
La rivelazione di Damasco, che ha introdotto Paolo
nella realtà messianico-escatologica, di essa lo ha fatto
mediatore e Apostolo. Con la sua attività missionaria (=
predicazione, battesimo, eucaristia, lettere ecc.) e per la potenza
dello Spirito, egli introduce i suoi uditori che credono,
nell’epoca e nella realtà escatologica. È
così che nell’annuncio evangelico si rivela la giustizia
(salvifica) di Dio (Rm 1,16-17). – Paolo condivide con quelli che
erano Apostoli prima di lui il compito dell’evangelizzazione, ma
egli è stato selezionato e messo a parte per una
evangelizzazione particolare, quella delle genti. Mondo giudaico e
mondo non-giudaico debbono incontrarsi. I pagani debbono abbandonare
gli idoli (1Tess 1,9) ma non il loro stato: non devono dunque aderire
alle pratiche giudaiche, perché lo Spirito trasformante si
riceve senza di esse, con la fede.
Portando all’obbedienza della fede (Rm 1,5), egli introduce i
credenti nella realtà escatologica inaugurata dalla
resurrezione, li fa partecipare alla vita ‘in Cristo’,
‘nello Spirito’, mettendoli in corsa per conquistare il
Cristo e la resurrezione (Fil 3).
Per ricostruire la storia e il pensiero di Paolo si
hanno a disposizione dei documenti diretti, come non accade neanche per
Gesù che non ha lasciato nulla di scritto. Su 27 scritti
neotestamentari 13 portano il nome di Paolo, anche se solo 7 (Romani,
1-2 ai Corinzi, ai Galati, ai Filippesi, 1 ai Tessalonicesi e Filemone)
sono oggi attribuiti a lui senza rilevante discussione. Dunque le
lettere dello stesso Paolo sono la fonte principale su di lui: sono uno
specchio su cui possiamo intravedere la sua fede, la sua passione
apostolica, il suo sdegno, il suo affetto ecc. Nelle lettere
«sentiamo, per così dire, il respiro
dell’autore», (G. BORNKAMM, Paolo, Apostolo di
Gesù Cristo, 20)
Bisogna anche dire però che le lettere di Paolo sono incomplete
e parziali, in quanto per esempio sono testimonianza del solo decennio
degli anni 50. E che non sono neutrali, oggettive, serene, ma sempre
polemiche e aggressive: «La presentazione [che Paolo fa degli
avversari] è di regola caratterizzata da toni sommari e forse
anche ingiusti» (G. BARBAGLIO, Paolo, 15)
Prima in modo saltuario (At 7,58-8,3; 9,1-30;
11,25-30; 12,25), poi senza interruzione, si interessa a Paolo il libro
degli Atti che, dopo le lettere, è l’altra grande fonte di
informazione su Paolo.
In passato si combinavano le lettere e gli Atti e si ricavava la
‘vita’ di Paolo. Tale metodo non è del tutto
corretto. Anzitutto perché gli Atti non hanno uno scopo
biografico-storico, ma sono stati scritti in circostanze nelle quali le
battaglie combattute da Paolo erano già vinte e i risultati cosa
acquisita. In secondo luogo, le notizie ricavabili dalle lettere non
sempre si possono concordare con gli Atti nei particolari: cf. per
esempio 2Cor 11,24ss: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i 39
colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe [= da autorità
romane], una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio,
ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi
innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli nelle
città, pericoli nel deserto ecc.». Al momento in cui fu
scritta la 2Cor, stando a ciò che si legge negli Atti, Paolo
avrebbe subìto solo una lapidazione (At 14,19) e una
flagellazione (16,22). Inoltre, gli Atti non dicono nulla circa i tre
naufragi, i pericoli sui fiumi o nel deserto. – Dunque è
diverso il valore di ciò che dicono le lettere da quello che si
trova in Atti, e non si può fare del frettoloso concordismo:
«Paragonando il libro degli Atti con le lettere autentiche di
Paolo, si ha l’impressione di un fiume che lungo il suo corso
abbia depositato molto materiale e ricevuto l’apporto di nuove
fonti e di diversi affluenti» (G. BORNKAMM, Paolo, 14).
Questo è vero anche se, poi, «non c’è nessun
autore moderno che non utilizzi qualche dato lucano per arricchire la
sua lettura delle lettere», (CH. PERROT, in GEORGE-GRELOT, a cura
di, Introduzione al NT, vol. 3, 11). «Le differenze [=
tra il Paolo degli Atti e il Paolo delle lettere] non mettono affatto
in questione il valore storico degli Atti. Senza dubbio, Luca ha
raccolto anche molte notizie attendibili, di cui nessuna presentazione
di Paolo può fare a meno» (G. BORNKAMM, Paolo, 16).
Le lettere Pastorali ci informano sugli ultimi anni dell’esistenza di Paolo (presenza di Paolo a Creta, a Efeso, ecc., carcere duro a Roma, udienze del processo davanti al tribunale romano ecc.), ma quelle lettere sono da molti attribuite ad un discepolo di Paolo e le notizie che contengono sono interpretate in due modi del tutto diversi, come si vedrà nello studio delle Pastorali
Notizie sparse si trovano in 2Pt 3,15 circa
l’opera di raccolta dell’epistolario paolino, in 1Clem
5,4-7 (= lista di sofferenze e arrivo di Paolo al confine
dell’occidente) e nel Canone Muratoriano (= viaggio in Spagna)
circa un viaggio di Paolo in Spagna, a conferma di Rm 15,24.28. In
Tertulliano si ha la notizia della morte di Paolo per decapitazione e
in Gaio, presbitero della chiesa di Roma intorno al 180 d.C., la
notizia della sepoltura a via Ostiense (cf. in Eusebio, Storia Eccl.
2,25.7).
Gli apocrifi (= per esempio la lettera ai Laodicesi; la corrispondenza
tra Paolo e Seneca; gli Atti di Pietro e Paolo del pseudo-Marcello; la
Passione latina di Pietro e Paolo; la Passione di Paolo del
pseudo-Lino; la Passione di Paolo del pseudo-Abdia; gli Atti di Paolo e
Tecla [apocrifo lunghissimo: 3.600 vv. dei quali ne restano neanche la
metà])- hanno uno scarsissimo valore storico. Per tutti cf.
l’incredibile episodio del leone battezzato (Atti di Paolo, 6),
la 3Corinzi (ibidem, 7), e il ritratto fisico di Paolo:
«Finalmente [Onesiforo] scorse Paolo venire: piccolo di statura
[derivato da 2Cor 10,10?], testa calva [derivato da At 18,18; 21,24?],
gambe curve, corpo ben formato, sopracciglia congiunte, naso un
po’ sporgente, pieno di bontà. Alle volte sembrava un
uomo, alle volte aveva la faccia d’un angelo» (Atti di
Paolo, II, 3).
Gli scritti giudaici e greco-romani non contengono alcun riferimento a Paolo, anche se, insieme con l’archeologia, sono indispensabili per la conoscenza dell’ambiente di Paolo, e utili per la comprensione e interpretazione delle sue lettere e del suo pensiero.
Gli autori sono unanimi: quella di Paolo è la
figura meglio conosciuta del NT; «la più
afferrabile» (R. Bultmann), «la più chiara»
(W. Wrede); Paolo è per noi «in piena luce» (G.
Bornkamm); è «il personaggio più accessibile»
(G. Barbaglio).
Lo schema dei tre viaggi missionari che si trova in Atti è
accettabile in linea generale, ma sono legittime discussioni di
dettaglio quando le lettere lo richiedono. Dagli Atti comunque
ricaviamo molte e preziose informazioni assenti nelle lettere: il nome
semitico di ‘Shaul’, la nascita a Tarso, l’educazione
alla scuola di Gamaliele a Gerusalemme, la presenza all’uccisione
di Stefano, Damasco come luogo della rivelazione, tre viaggi di
evangelizzazione, arresto a Gerusalemme, appello al tribunale
dell’imperatore, e arrivo a Roma.
La discussione più rilevante riguarda comunque le informazioni
contenute nelle lettere della prigionia e nelle Pastorali a riguardo
degli ultimi anni di Paolo, e riguarda l’attendibilità
delle notizie che esse forniscono sul viaggio in Oriente e sulla
seconda prigionia romana.
Testo fondamentale e prezioso è quello di Gal
1,11-2,14. I vv. 1,13-14 parlano del comportamento di Paolo nel
giudaismo (= perseguita la chiesa, primeggia nello zelo, è
fedele alle tradizioni); i vv 15-16 parlano della rivelazione
(ovviamente quella di Damasco) e della missione ai gentili; il v. 17
parla del soggiorno di Paolo in Arabia (= territorio a sud di Damasco,
regno dei Nabatei, con capitale Petra) e poi del ritorno a Damasco.
– A questo punto si inserisce 2Cor 11,32-34, in cui Paolo dice:
«A Damasco il governatore del re Areta [= Areta IV, re
nabatéo negli anni 9-39 d.C.] montava la guardia alla
città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra
ecc.». Questa notizia è confermata da At 9,24-25.
Poi, secondo Gal 1,18-20, dopo 3 anni [dalla conversione? o dal ritorno
a Damasco?], Paolo visita Kefa a Gerusalemme [= prima visita a
Gerusalemme] e Giacomo fratello del Signore, trattenendosi a
Gerusalemme per soli 15 giorni. Secondo Gal 1,21, Paolo va poi in Siria
e Cilicia. – Secondo Gal 2,1-10, Paolo, dopo 14 anni [dalla
conversione? o dalla prima visita?], Paolo va a Gerusalemme [= seconda
visita] con Barnaba e l’incirconciso Tito. Là espone il
suo Vangelo, e le tre “colonne” (= Giacomo, Kefa, e
Giovanni) (a) gli stringono la mano in segno di approvazione, (b)
dividono il campo di lavoro: a Pietro i circoncisi, a Paolo gli
incirconcisi, (c) chiedono a Paolo e alle sue comunità di
ricordarsi dei poveri di Gerusalemme.
Ad Antiochia di Siria, secondo Gal 2,11-14, Paolo rimprovera Pietro
perché non si siede più a tavola con gli incirconcisi,
costringendoli a osservare la Legge giudaica sulle purità
alimentari, da cui invece sono stati resi liberi dal Cristo e dalla
fede in lui.
Secondo Fil 4,15-16 Paolo ha “cominciato” la predicazione del Vangelo a Filippi (1Tess 2,2), e a Tessalonica ha ricevuto aiuti finanziari dai Filippesi (Fil 2,25; 4,16); ad Atene ha mandato Timoteo ai Tessalonicesi (1Tess 3,1-2). – Da Corinto, Paolo scrive la 1Tess menzionando, dopo la Macedonia da cui se ne è andato (Fil 4,15), l’Acaia (1Tess 1,7.8). Gli Atti precisano che Paolo è stato 18 mesi a Corinto (At 18,11), capitale appunto della provincia romana d’Acaia.
Da una grande città dell’Asia (gli Atti dicono che quella città è Efeso, dove l’Apostolo si è fermato 2 anni; cf. At 19,10), Paolo ha tenuto i contatti con Corinto mediante lettere e visite (2Cor 12,14; 13,1-2), e forse con le chiese di Galazia (Gal 4,13) e di Filippi.
Nella sua terza visita a Corinto, mentre sta partendo per Gerusalemme per portarvi il denaro raccolto nella colletta, Paolo scrive la lettera ai Romani nella quale parla della sua intenzione e del suo progetto di andare in Spagna (Rm 15,24.28). Gli Atti coprono questo stesso periodo e aggiungono notizie sull’ultima visita di Paolo a Gerusalemme, sull’arresto, sul viaggio in catene, e sulla prigionia di due anni a Roma.
Per il periodo del quale parlano sia le lettere che
gli Atti, i problemi principali sono:
(a) Quale fu il rapporto di Paolo con la chiesa-madre di Gerusalemme?
Nelle lettere figurano solo due viaggi (Gal 1,18; 2,1), mentre in Atti
le visite sono quattro: cf. At 9,26-30 per il primo contatto; At
11,27-30 per portarvi una colletta; At 15,1ss per l’assemblea
apostolica; At 18,22 tra secondo e terzo viaggio. «L’autore
di Atti ha moltiplicato i contatti dell’Apostolo con la chiesa
gerosolimitana per fini teologici» (G. BARBAGLIO, Paolo,
26), cioè per mostrare la continuità di Paolo con la
chiesa degli Apostoli. (b) In particolare la seconda visita (Gal
2,1-10) sembra si debba identificare con la terza di Atti (At 15 =
assemblea apostolica). Ma ci sono alcune differenze tra i due testi:
menzione di Tito in Gal, centralità di Paolo in Gal,
non-menzione del decreto conciliare in Gal ecc. (c) Atti concepisce
l’attività di Paolo in termini di viaggi missionari
(primo: in Cipro e Asia Centrale; secondo: in Macedonia e Acaia con
centro a Corinto; terzo: in Asia con centro a Efeso), mentre Paolo, pur
parlando di “viaggi innumerevoli” (…
οδοιποριαις
πολλακις, 2Cor 11,26),
concepisce la sua attività in termini di soggiorno nei grandi
centri urbani. (d) In ogni caso le notizie contenute in Atti, in
particolare gli itinerari, la fondazione di chiese in Asia, Macedonia,
Acaia, le visite a quelle chiese e le relazioni con esse, i nomi dei
collaboratori ecc., sono in buon accordo con ciò che si
può ricavare dalle lettere. (e) Per il viaggio da Corinto a
Gerusalemme (o viaggio della colletta), e da Cesarea a Roma (o viaggio
della prigionia), per l’arresto a Gerusalemme e le prigionie a
Cesarea e Roma, dipendiamo esclusivamente da Atti, senza
possibilità di confronto.
La più grande discussione tra i commentatori
moderni riguarda ciò che è successo alla fine dei due
anni di prigionia a Roma. Per molti Paolo è stato ucciso (nel 60
d.C. per G. Bornkamm; nel 58 per G. Barbaglio ecc.). Lo schema
tradizionale invece, basato sulle lettere della prigionia (Fil Col Ef
Flm) e sulle Pastorali, parla di liberazione di Paolo, di un viaggio in
Oriente [e Spagna?], di un nuovo arresto e processo, chiuso con la
decapitazione nel 64 o 67 d.C.
Il problema di fondo è che, se le Pastorali sono state scritte
da Paolo, bisogna allora seguire lo schema tradizionale. Se invece sono
state scritte da un discepolo dopo la sua morte, la domanda diventa:
che tipo di informazioni ci trasmette il discepolo che ha scritto le
Pastorali a nome di Paolo. «Un viaggio verso occidente [= Spagna]
e Oriente [= Asia, Grecia], da porsi cronologicamente dopo At 28,
sarebbe pensabile anche per chi rifiuta, per motivi interni, la diretta
paolinità delle lettere Pastorali. L’ignoto Autore allora
dovrebbe essere stato in possesso di notizie corrispondenti»;
«Tutti i sostenitori di una pre-datazione della morte
dell’Apostolo [da collocare alla fine di Atti] rivelano un
notevole imbarazzo: le spiegazioni sono tutte logore e non sembrano
confermare ciò che ipotizzano» (KUSS, Paolo, 20).
1Tm e Tito sono ambientate durante il viaggio in Oriente, e 2Tm in
carcere, a Roma. Le visite di Paolo avrebbero toccato Creta («Per
questo ti [= Tito] ho lasciato a Creta perché tu stabilisca
presbiteri su ogni città», Tito 1,5); poi Mileto
(«Trofimo l’ho lasciato ammalato a Mileto», 2Tm
4,20); poi Efeso («Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di
rimanere in Efeso», 1Tm 1,3); poi Troade («Venendo, portami
il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri,
soprattutto le pergamene», 2Tm 4,13); poi la Macedonia (cf. sopra
1Tm 1,3); poi Corinto («Erasto è rimasto a Corinto»,
2Tm 4,20); la prospettiva era di passare l’inverno a Nicopoli (in
Epiro?) («Quando ti (= Tito, che era a Creta) avrò mandato
Artema o Tichico, cerca di venire subito da me a Nicopoli perché
ho deciso di passare l’inverno colà», Tito 3,12).
– La 2Tim, che sarebbe scritta da Roma («Onesiforo, venuto
a Roma, mi ha cercato con premura, finché mi ha trovato»,
2Tm 1,17), parla di una prigionia dura (1,8.12.16; 2,9; 4,6.16), di una
udienza processuale già avvenuta (4,16), dell’abbandono di
molti discepoli (1,15; 4,10-16).
Nelle lettere l’unico sincronismo è
quello di 2Cor 11,32-34 in cui si nomina Areta IV: «Un suo
controllo, almeno parziale, della città damascena, peraltro
inglobata nella provincia romana di Siria, appare ipotizzabile solo per
il periodo 37-39, quando Areta ottenne il favore dell’imperatore
Caligola», (G. BARBAGLIO, Paolo, 23).
Altri sincronismi sono forniti dagli Atti: a) la carestia “che si
verificò sotto l’impero di Claudio” (11,28-30); b)
l’editto di espulsione dei giudei da Roma emanato
dall’imperatore Claudio (18,2); c) l’incontro di Paolo con
il proconsole Sergio Paolo a Cipro (13,7); d) la sostituzione del
procuratore Felice con Porcio Festo (24,27), e soprattutto e)
l’incontro di Paolo con il proconsole (Lucio Giunio) Gallione a
Corinto (18,12).
Una iscrizione trovata a Delfi nel 1905 che parla della presenza di Gallione a Corinto nel 51-52, consente di collocare la prima visita di Paolo a Corinto in quegli anni. In base a questa data si possono in qualche modo fissare le altre, calcolando all’indietro i 14 e 3 anni ecc. di cui Paolo parla in Gal 1-2.
La nascita di Paolo va collocata nel primo decennio d.C. In At 7,58, alla lapidazione di Stefano (32/34 d.C.), Paolo è chiamato, νεανιας (= giovane, e a quel tempo uno era ritenuto giovane tra i 25-35 anni. In Flm 9 (55-61 d.C.?) egli si definisce πρεσβυτης, vecchio, e cioè, ancora secondo la stima dell’epoca, oltre i 50 anni.
Il nome che figura costantemente nelle lettere è Παυλος, nome latino grecizzato che significa ‘piccolo’. Negli Atti Paolo è chiamato anche Σαυλος /Shaul, evidentemente a partire dal nome del re Saul che era della tribù di Beniamino, come Paolo. Il doppio nome di Paolo rientra nella consuetudine degli orientali del tempo di aggiungere, al nome latino o greco, un nome orientale.
Il mestiere che Paolo esercitava non si può ricavare dalle sue lettere, perché egli vi si limita a dire che fa un lavoro manuale, ma si può ricavare da Atti. Secondo At 18,3 infatti Paolo si mette a lavorare nella bottega di Aquilàs e Priscilla: essi erano σκηνοποιοι e lui faceva lo stesso mestiere. Σκηνοποιος, che significa ‘fabbricatore di tende’, è stato interpretato come: (a) fabbricatore di tende con pelo di capre cilicie [= cilicio], dal momento che Paolo veniva da Tarso di Cilicia; (b) fabbricatore di tende con cuoio: tali tende erano usate dai soldati ed erano confezionate dalla corporazione professionale dei tabernacularii; (c) fabbricatore di tende per privati (= per stare al fresco nei cortili delle case, sulla spiaggia; per passare la notte nei luoghi delle manifestazioni sportive), o anche per uso pubblico: le strade di Roma e l’intero fòro romano nei mesi estivi erano ombreggiati con tali tende.
«Non è improbabile che in questo periodo [= i tre anni di Damasco] Paolo abbia subìto l’influsso degli esseni che abitavano nella zona di Damasco», J.A. FITZMYER, «The Qumran Scrolls and the New Testament after Forty Years», in Revue de Qumran 13 (1988), 611-620; cf. anche H.-W. KUHN, «The Impact of the Qumran Scrolls on the Understanding of Paul», in D. DIMANT - U. RAPPAPORT, a cura di, The Dead Sea Scrolls. Forty Years of Research (Leiden - New York 1992), 327-337.
La malattia: «A causa di una malattia del
corpo vi annunziai la prima volta il Vangelo. E quella che nella mia
carne era per voi una prova non l’avete disprezzata né
respinta [= con lo sputo apotropaico =
ουδε
επτυσατε, non sputaste]
…», (Gal 4,13-14). – La spina nella carne:
«Perché non montassi in superbia per la grandezza delle
rivelazioni mi è stata messa una spina nella carne, un inviato
di Satana incaricato di schiaffeggiarmi…», (2Cor 12,7).
Nei due testi Paolo parla della stessa cosa? Parla di una malattia
cronica? l’epilessia? una malattia agli occhi? la malaria? Data
la resistenza fisica di Paolo a grandi difficoltà,
l’inviato di Satana non può essere piuttosto un individuo
o un gruppo di avversari che si oppone all’opera apostolica di
Paolo? Cf. J.J. THIERRY, «Der Dorn im Fleische (2Kor. xii
7-9)», in Novum Testamentum 5 (1962), 301-310; J.W.
MCCANT, «Paul’s Thorn of Rejected Apostleship», in New
Testament Studies 34 (1988), 550-572
La città greco-romana non era un
indifferenziato ammasso di cittadini come le nostre città
occidentali, bensì era articolata in diversi gruppi dai legami
etnico-religiosi. Le famiglie erano collegate in un clan (=
γενος, gens), e i clan erano
organizzati in fratrìe (=
φρατριαι - nb: da
φρατηρ viene brother). Alla
fratrìa il bambino veniva iscritto alla prima assemblea pubblica
che si teneva dopo la sua nascita. Infine le fratrìe erano
organizzate in tribù (φυλαι) che
erano unite nel culto degli stessi dèi: ad esse ci si iscriveva
ai 18 anni.
Paolo era iscritto alla tribù giudaica
(φυλη) di Tarso, ma aveva anche la cittadinanza
romana (At 22,25-29), privilegio raro che non si sa come la sua
famiglia abbia potuto ottenere.
Quanto ai cristiani, non potendo più partecipare al culto pagano
della loro tribù (φυλη), perdevano la
cittadinanza. Cf. Fil 3,20: «La nostra cittadinanza è nei
cieli e di là aspettiamo come Salvatore Gesù». Cf.
A. ROLLA, «La cittadinanza greco-romana e la cittadinanza celeste
di Filippesi 3,20», in Studiorum paulinorum congressus
internationalis catholicus 1961, II (Analecta Biblica 18; Romae
1963), 75-80.
In Rm 11,13 Paolo si definisce ‘apostolo dei
gentili’, e in Rm 15,16 interpreta quel suo apostolato in termini
di servizio sacerdotale: «Mi è stata concessa da parte di
Dio la grazia di essere ministro (… με
λειτουργον)
di Gesù Cristo tra i pagani, esercitando l’ufficio sacro
(…ιερουργουντα)
del Vangelo di Dio perché i pagani divengano un’offerta
(προσφορα) gradita,
santificata dallo Spirito Santo». Questo è da intendere
alla luce delle profezie escatologiche: cf. per esempio Is 56,6-7:
«Gli stranieri (…) li condurrò sul mio monte santo
e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera: i loro
olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare,
perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per
tutti i popoli». Dunque Paolo è apostolo dei gentili per
portarli alla fede e offrirli a Dio come offerta a lui gradita.
Lo schema di pensiero dei profeti era: (a) restaurazione di Israele e
della sua centralità; (b) pellegrinaggio dei popoli a
Gerusalemme e loro offerta; (c) compimento escatologico. Per Paolo il
tempo del compimento è giunto. Il Cristo ha salvato tutti i
popoli, e la predicazione evangelica è potenza con cui Dio
estende a tutti la salvezza, prima al Giudeo e poi al Greco (Rm 1,16).
L’annuncio salvifico ai Giudei è riservato a Pietro e agli
altri apostoli, mentre quello ai Greci è compito particolare di
Paolo.
La missione sia ai Giudei che ai pagani è escatologica: i
profeti l’avevano annunziata per i tempi finali. Gli apostoli e,
a Damasco, anche Paolo, hanno visto il Signore glorioso. Dunque
è imminente quel “giorno”: «La notte è
avanzata, il giorno è vicino. (…) La nostra salvezza
[finale] è più vicina ora di quando diventammo
credenti», (Rm 13,12). Di qui l’urgenza della missione:
bisogna che Paolo compia il suo incarico prima che il Signore ritorni.
Il mondo ellenistico era pieno di predicatori e
propagandisti soprattutto religiosi, ma nessuno ha concepito e
realizzato una missione in base a un piano strategico come ha fatto
Paolo: «They wandered, Paul progressed (Gli altri vagavano, Paolo
avanzava)», così scrive P. BOWERS, «Paul and
Religious Propaganda in the First Century», in Novum
Testamentum 4 (1980), 316-323.
Soprattutto a partire dall’esito a lui favorevole
dell’assemblea apostolica, Paolo si dedicò
all’evangelizzazione programmatica dell’Oriente (= da
Gerusalemme all’Illirico); poi, intorno al 55/56, quando a
Corinto scrive Rom, sposta l’obiettivo sull’Occidente,
«non trovando più spazio in quelle regioni». Roma
sarà stazione intermedia, da dove partire per la Spagna:
«Da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria ho portato a
termine la predicazione del Vangelo di Cristo. (…) Ora, non
trovando più campo d’azione in queste regioni, e avendo
già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando
andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi, e di essere
aiutato da voi per recarmi in quella regione» (Rm 15,19ss).
Nello svolgimento dell’incarico missionario, Paolo vede se stesso
nel ruolo di fondatore di chiese: «Mi sono fatto un punto
d’onore di non annunziare il Vangelo se non dove non è
giunto ancora il nome di Cristo per non costruire su un fondamento
altrui» (Rm 15,20). Dopo la fondazione, pur continuando a seguire
la vita delle chiese, spesso a distanza, non si sentiva responsabile
della loro completa evangelizzazione: le chiese avrebbero prodotto
evangelisti e missionari per il resto della regione.
Il rapporto tra le chiese era quello della comunione e condivisione
(κοινωνια,
κοινωνεω). Avendo ricevuto
dalla chiesa-Madre di Gerusalemme i beni spirituali
/…τοις
πνευματικοις
(Rm 15,27), le nuove chiese devono
/οφειλεται
εισιν,
οφειλουσιν
(Rm 15,27) condividere con essa i beni materiali /…
εν τοις
σαρκικοις,
raccolti nella colletta.
Raramente Paolo deve avere preso la parola nella
piazza del mercato (αγορα), come avvenne
secondo At 17,17, perché non aveva l’autorità di
farsi ascoltare. Più frequentemente ha fatto uso della sinagoga
(Atti, passim; 2Cor 11,24, dove parla dei 39 colpi che venivano
inflitti dai giudei). In At 19,9s è detto che Paolo
affittò per due anni la scuola di un certo Tiranno, a Efeso. Il
codice D aggiunge «… dall’ora quinta alla
decima». In 1Tess 2,9 Paolo dice di aver lavorato notte e giorno
e annunziato il Vangelo: dunque ha evangelizzato anche nella bottega
dove lavorava. Molte volte infine sia Atti che le lettere menzionano le
case private come luogo di attività apostolica e di culto: cf.
At 20,20; 17,5; 18,7 ecc.; 1Cor 16,19-20; Flm 2; Rm 16,5.23 ecc. Erano
motivo d’incontro il comune mestiere o la comune
nazionalità. Per questo Paolo deve avere preferito il luogo di
lavoro e la sinagoga. Inoltre la casa privata non esponeva il Vangelo
al giudizio superficiale e non controllabile dei passanti nella
pubblica piazza, ma permetteva un uditorio scelto e preparato. Cf. S.
K. STOWERS, «Social Status, Public Speaking and Private Teaching:
The Circumstances of Paul’s Preaching Activity», in Novum
Testamentum 26 (1984), 59-82; e G. BIGUZZI, Paolo Comunicatore,
37-43.
Rientravano nell’attività apostolica di Paolo: viaggi,
lettere per prolungare e continuare il contatto, invio di
collaboratori, e costituzione di responsabili locali.
Nelle lettere Paolo ci ha lasciato molte riflessioni sugli atteggiamenti del suo spirito circa il lavoro apostolico. Due esempi:
Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici