Introduzione all’epistolario del NT


Indice


I. Le lettere del Nuovo Testamento

1. Il genere epistolare nel NT

I 27 documenti che compongono la collezione del NT, quanto ai generi letterari, si possono suddividere in: vangeli (i tre sinottici, Giov), monografie storiche (Atti), apocalissi (Apocalisse di Giovanni), lettere (14 lettere paoline, compresa quella agli Ebrei, e 7 lettere dette “cattoliche”).
A riguardo dei vangeli è degno di nota il fatto che sono un genere nuovo, creato dal movimento cristiano delle origini. A riguardo delle lettere del NT, invece, non può passare inosservato il loro alto numero. L’AT contiene qualche lettera (Ger 29,1-29; Baruc 6; 2Mac 1,1-9; 1,10-2,18 ecc.) ma nessun libro dell’AT ha forma di lettera. Nel NT le lettere sono invece 21 su 27 documenti: la forma epistolare è dunque il genere dominante nel NT, tanto più che due lettere si trovano in Atti (15,23-29 e 23,26-30) e sette in Apoc (2-3).

2. Lettere paoline

Delle 21 lettere neotestamentarie 14 sono di Paolo o sono attribuite a Paolo (Ebr non contiene il nome di Paolo). Sono indirizzate a comunità (quelle di Tessalonica, di Corinto, di Galazia, di Filippi ecc.) o a persone singole (Filemone, Tito, Timoteo). Si possono raggruppare in diverso modo: la divisione tradizionale distingue quelle scritte in prigionia (Fil, Flm, Col, Ef) da quelle scritte nel mezzo del normale lavoro apostolico (1-2Tess, 1-2Cor, Gal, Rom), e infine le tre chiamate – in base al loro contenuto e tono – lettere “pastorali” (1-2Tim, Tt).

3. Lettere cattoliche

Delle 21 lettere neotestamentarie 7 sono chiamate “cattoliche” con una denominazione che viene dall’antichità. Eusebio di Cesarea così le chiama, ma citando autori più antichi come Apollonio (197 circa; cf. Storia Eccles. V,18,59) e Dionigi di Alessandria (200 circa, Storia Eccles. VII,25,7.10). Così le chiama molte volte anche Origene (circa 250).
L’aggettivo “cattolico” è usato dai Padri solitamente per parlare della cattolicità della Chiesa: non tanto però per la sua diffusione geografica, ma per l’apertura universale della sua dottrina e della salvezza che annuncia. Per le 7 lettere del canone neotestamentario l’aggettivo ha invece un valore geografico. Mentre i destinatari delle lettere paoline sono precise comunità (per esempio la comunità di Corinto) o persone (Filemone, Tito, Timoteo), i destinatari delle lettere ‘cattoliche’ sono i cristiani di intere regioni: cf. 1Pietro 1,1: «… ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadoccia, nell’Asia e nella Bitinia»; e Giac 1,1: «… alle dodici tribù disperse nel mondo». Sono dunque lettere cattoliche o universali perché concepite come lettere circolari. A dire il vero, la 2Giov e 3Giov non sono né lettere circolari, né cattoliche, essendo dirette a una chiesa (2Giov) e a Gaio (3Giov). Tuttavia, sono ugualmente nelle lista delle lettere cattoliche perché dapprima furono unite alla 1Giov, poi con essa entrarono in quella lista. Alcune delle sette ‘lettere’ poi hanno la forma di lettere, ma non fanno presupporre una situazione epistolare.
L’ordine che hanno ora nel canone è basato sull’elenco delle ‘colonne’ della chiesa (di Gerusalemme) fatto da Paolo in Gal 2,9: «… riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Kefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra…». Per questo la lettera di Giacomo precede sia le due di Pietro (Kefa), e quelle di Pietro precedono le tre di Giovanni e quella di Giuda. La loro collocazione nella lista canonica (= dopo Paolo) viene da Girolamo (e dalla sua Volgata) il quale seguì la tradizione delle Chiese Orientali del sec. iv. In certi manoscritti sono collocate prima delle lettere Paoline, in base alla gerarchia: prima i Dodici e poi Paolo.

II. Paolo e l’epistolografia antica

1. L’epistolografia ellenistico-romana

a. Sviluppo della lettera nel mondo ellenistico

La lettera come strumento di comunicazione è antica forse quanto la scrittura, ma si rese particolarmente utile e necessaria nell’epoca ellenistica: l’ampiezza dell’impero di Alessandro Magno aveva infatti creato la necessità di superare grandi distanze nell’esercizio del commercio, della guerra, della cultura, della propaganda. Di qui un grande sviluppo del genere epistolare, che fu messo al servizio anche della letteratura e della filosofia: Platone, Socrate, Aristotele, Demostene, Epicuro ecc. scrissero veri e propri trattati in forma di lettera. La pubblicazione dell’epistolario di Cicerone (106-43 a.C.; 931 lettere: 769 di lui, le altre a lui) consacrò definitivamente la lettera come pezzo di letteratura.
Dall’antichità sono pervenute a noi circa 15.000 lettere. Nel mondo ellenistico ci furono perfino studiosi e teorici del genere epistolare: cf. il Περι ερμηνειας («Sullo stile») di Demetrio il quale, con un certo Artemone, definitiva la lettera “l’altra parte del dialogo (το ετερον μερος του διαλογου)”.

b. Caratteristiche delle lettere ellenistiche

Secondo H. Koskiennemi (1956 Oslo, Norvegia) per capire la peculiarità delle lettere ellenistiche bisogna tenere presenti tre caratteristiche (a) La φιλοφρονησις («the friendly relationship», l’affettuosità, la cortesia), perché la lettera deve essere come ‘il dono scritto’ di se stesso; (b) La παρουσια (la presenza), perché quando si è lontani la lettera fa in modo che si sia presenti l’uno all’altro per ravvivare l’amicizia; (c) Il διαλογος o ομιλια (dialogo, scambio), perché la lettera permette di dialogare anche quando si è fisicamente separati e di scambiarsi notizie e quello che è parte della propria vita.

c. Aspetti tecnici dell’epistolografia

- Materiale scrittorio
Dall’antichità sono giunte a noi lettere su òstraca (= frammenti di terracotta), su tavolette di fango cotte al sole o al fuoco, su tavolette spalmate di cera (cf. il πινακιδιον di Lc 1,63), su fogli di papiro (cf. 2Giov 12: δια χαρτου και μελανος), su pergamena (cf. 2Tm 4,13: φερε …τας μεμβρανας)

- Modi di scrivere una lettera
I poveri e chi voleva mantenere il segreto scrivevano con le proprie mani. Generalmente però: (i) si dettava verbatim (una parola per volta) o syllabatim (una sillaba alla volta) a uno scriba professionale (cf. Gal 6,11ss; Rm 16,22 ecc.); (ii) Si poteva affidare a un amanuense (= uno che scriveva ‘a mano’) o segretario di comporre la lettera dandogli istruzioni orali; (iii) Si poteva dare l’ordine di scrivere a un segretario di fiducia («Ti prego di spedire la lettera a mio nome a quelli ai quali è necessario, come tu dici»; Cicerone, ad Atticum 3,3,21); (iv) Esisteva anche la figura del “tachigrafo” che raccoglieva il contenuto prendendo appunti con speciali segni - come avviene nella moderna stenografia -, poi stendeva la lettera in scrittura comprensibile.

- Velocità e lunghezza
La posizione dello scrivente era molto scomoda (seduto a terra, senza tavolo, con la sinistra teneva il foglio, con la destra scriveva), e la ruvidezza del papiro rendevano faticosa e lenta la scrittura. Secondo i calcoli, forse troppo pessimistici, di O. Roller (1933) si riuscivano a scrivere tre sillabe al minuto e 72 parole all’ora. In base a questi calcoli sarebbero state necessarie 98 ore continuate per scrivere la lettera ai Romani, che ha 7101 parole, mentre la lettera a Filemone che ha 335 parole, avrebbe richiesto 4 o 5 ore.
Le lettere private pervenute a noi su papiro sono brevi (da 18 fino a 209 parole): le 769 di Cicerone hanno una media di 295 parole, le 13 di Paolo una media di 2500 parole. Rm è la più lunga del NT e dell’antichità (7101 parole), 3Giov la più breve (185 parole) del NT.

- Saluto autografo
Nell’antichità non si metteva la firma, ma un saluto autografo che dava valore legale alla lettera e che, per il destinatario, confermava quello che lo scriba aveva scritto sotto dettatura (cf. 1Cor 16,21; Gal 6,11; Fm 19 ecc.).

- Struttura della lettera antica e formulario
- L’indirizzo esterno. Sull’esterno del papiro o della pergamena, arrotolati e sigillati, si scriveva l’indirizzo con nome e luogo del destinatario.
La formulazione-standard della lettera scritta all’interno prevedeva:
- L’intestazione (= praescriptum) con nome del mittente al nominativo (= superscriptio), nome del destinatario al dativo (= adscriptio) e il saluto (= salutatio). Per esempio: Cicero Attico suo s[alutem]; Seneca Lucilio suo s[alutem]. In greco la salutatio era χαιρειν. Per esempio: Δημοφων Πτολημαιω χαιρειν [λεγει].
- Ringraziamento o benedizione iniziale: dopo l’augurio di buona salute lo scrivente ringraziava o benediceva gli dèi perché avevano protetto lui stesso o il destinatario.
- Nel corpo della lettera i diversi sentimenti o messaggi erano introdotti con formule più o meno convenzionali: «Mi meraviglio che…, Vi dichiaro dunque che…, Certamente voi avete sentito parlare di…».
- Il saluto finale (= ασπασμος, subscriptio) poteva essere anche di una sola parola (ερρωσο [imperativo perfetto passivo da ρωννυμι /rinforzare] = «have strength /might»; vale!; cf. il plurale ερρωσθε in At 15,29).

- La spedizione e il recàpito
L’amministrazione imperiale aveva la sua rete postale nel cursus publicus (in casi eccezionali i portatori di lettere potevano percorrere anche 150 km in un giorno); i ricchi mandavano i loro schiavi (= tabellarii, portatori di tabelle o tavolette scritte); infine esistevano imprese private di distribuzione postale.
In oriente colui che portava la lettera annunciava il nome del mittente e del destinatario che nella lettera non veniva messo. Nel mondo ellenistico il corriere aveva l’incarico e l’autorità di presentare, interpretare ed espandere la lettera con informazioni addizionali così che lo scritto era come solo uno schema. Questo per esempio si ricava dalle lettere che ci sono state conservate su papiro: «Horus, che ha portato la lettera, ha detto che tu eri stata rilasciata, e io ne sono terribilmente scontento» (papiro di Londra, 42); «Il resto fàttelo dire a voce, te ne prego, dall’uomo che ti porta la lettera, perché non è un estraneo» (Collezione di Zenone, I,69), – citazioni tratte da J. MURPHY-O’CONNOR, Paul et l’art épistolaire, 67 e 89.

2. Tecnica, collaboratori, forma e valore ecclesiale

a. Un’operazione tecnica complessa,

Per Paolo, scrivere una lettera era un’occupazione non solo importante per la vita delle chiese e al servizio del Vangelo, ma anche un’operazione tecnica non poco complessa. Doveva procurarsi il papiro o la pergamena, o, se aveva poco denaro a disposizione, doveva preparare o farsi preparare il materiale scrittorio, sul quale si dovevano tracciare con uno stiletto le linee lungo le quali poi scrivere. Poi Paolo doveva liberarsi da altri impegni per prendere informazioni accurate dai suoi informatori, per riflettere, discutere ed elaborare la risposta, e poi mettersi a dettare la lettera a uno scriba. Un giorno solo è potuto bastare per lettere brevi come quella a Filemone, ma per le altre sono stati necessari certamente molti giorni e proprio per questo alcuni commentatori di Paolo attribuiscono i salti improvvisi da un tema ad un altro alla dettatura a intermittenza.
Data questa complessità e dato il lungo tempo richiesto, bisogna pensare che egli scrivesse le sue lettere soprattutto nella stagione invernale, nella quale si era costretti in qualche modo a restare a lungo dove ci si trovava, dal momento che la navigazione era chiusa dal 15 novembre fino al 15 di marzo. Di fatto così fu per 1Cor, quando scrisse la quale la primavera non era ancora venuta («Mi fermerò a Efeso fino a Pentecoste», 16,8). Tutte le stagioni erano buone invece per mandare a chiamare un collaboratore per mezzo di un biglietto, come si lascia intendere in Tito 3,12: «… cerca di venire subito da me a Nicopoli, perché ho deciso di passare là il prossimo inverno», e in 2Tm 4,21: «Affrettati a venire, prima dell’inverno».

b. Co-mittenti, co-autori, e latori

Probabilmente Paolo non concepiva le sue lettere in totale solitudine come vorrebbe una diffusa e un po’ troppo romantica immagine di lui. Più probabilmente egli le discuteva con i suoi collaboratori e insieme con loro ne elaborava il contenuto. «Paolo consultava i suoi compagni; poi, esercitando la sua autorità, dettava personalmente il testo» (MURPHY-O’CONNOR, L’art épistolaire, 58); «The concern suggests that Paul discussed the content of the letter with others. The message he brought out had probably been the object of considerable collective thinking and reasoning. … Paul understood and carried out his divine calling in the context of other ministers of the gospel. Both features (= la menzione di co-mittenti e l’uso del plurale) point to Paul as a leading figure in a group of associates, together with whom he discussed his theology and preached the gospel of Jesus Christ. … [Paul was] thinking and laboring together with a group of close associates during most of his career», S. BYRSKOG, «Co-Senders, Co-Authors and Paul’s Use of the First Person Plural», in Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 87 (1996), 249-250. Cf. poi la spiegazione “epistolografica” proposta da J.-N. Aletti per l’immagine di Rm 11,17-24, in cui l’olivastro viene innestato nell’olivo buono, contrariamente a quanto si fa in agricoltura: «Si l’on veut bien se rappeler les modes de composer de l’époque, on admettra facilement que l’Apôtre ait communiqué son argumentation, totalement ou en partie, à ses collaborateurs, et qu’ils en aient discuté ensemble, avant qu’elle ne soit dictée aux tachygraphes secrétaires. Peut-on imaginer qu’aucun d’entre eux n’ait eu la moindre idée de la manière dont on greffait et n’ait fait des remarques à l’intéressé? Paul a dû écouter leurs observations, se justifier et… néanmoins garder l’image telle quelle», cf. J.-N. ALETTI, Comment Dieu est-il juste? (Paris 1991), 190, nota 3.
Per l’elaborazione collettiva delle lettere, cf. E. SCHWEIZER, «The Letter to the Colossians. Neither Pauline nor Post-pauline?», in Pluralisme et oecuménisme en recherches théologiques. Fs S. Docks (Gembloux 1976) 1-16; W.H. OLLROG, Paulus und seine Mitarbeiter (Neukirchen - Vluyn 1979); S. BYRSKOG, «Co-Senders, Co-Authors», 230-250. – Quanto alla menzione di co-mittenti nel prescritto (non in Rom!), più spesso con il nome e a volte in modo anonimo (cf. per esempio in Gal), bisogna dire si tratta di un uso molto raro sia in ambito giudaico che ellenistico: «When we study Paul’s literary activity within socio-cultural situation of ancient letter writing, it is the inclusion of named co-senders that is remarkable. Paul apparently developed some unusual epistolographical characteristics. The reference to co-senders is one such characteristic», S. BYRSKOG, «Co-senders, Co-Authors», 235.
Infine, quando Paolo dichiara fidato, affidabile, pieno di sollecitudine e zelante per esempio Tito (2Cor 8,16-24) o Epafrodito (Fil 2,25-30) o Tichico (Col 4,7-9; Ef 6,21-22) …, è perché affida loro oltre che l’incarico di portare la lettera, anche quello ben più importante di presentarla e di illustrarla alle comunità di destinazione.

c. Il prescritto di Gal 1,1ss a confronto con il formulario ellenistico

«Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e Παυλος + amplificatio circa l’apostolicità
tutti i fratelli che sono con me, Paolo + co-mittenti anonimi
alle Chiese della Galazia. ταις εκκλησιαις κτλ (senza amplificazioni)
Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen χαρις (invece di χαιρειν) + ειρηνη
Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate ad un altro Vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro ecc.» Nessun ringraziamento, ma rimprovero espresso con θαυμαζω οτι

d. Modifiche paoline al formulario ellenistico

Paolo modifica le formule usuali di tutte le parti della lettera ellenistica: del prescritto, del corpo della lettera, del saluto finale.

- Amplificazione (dal latino: “amplificatio”) del prescritto
Nel prescritto di Gal per esempio Paolo impiega 75 parole e in quello a Rm addirittura 93. Questo sviluppo del prescritto è già sorprendente dal punto di vista della forma (quasi 100 parole invece delle 4 di Cicerone o Seneca) e, a maggior ragione, lo è dal punto di vista del contenuto per la sua densità teologica. Amplificando il suo nome con il titolo di “apostolo”, Paolo presenta le sue credenziali, rivendica il suo diritto evangelico a intervenire e di fatto interviene nella vita della comunità, non come persona privata ma come plenipotenziario di Cristo nell’esercizio della sua missione. Spesso Paolo aggiunge il nome di co-mittenti (per esempio Timoteo in 2Cor, Fil, Flm; Silvano e Timoteo in 1Tess; Sostene in 1Cor), lasciando intendere che la lettera è una lettera ufficiale ed ecclesiale dal momento che può elencare testimoni e collaboratori.
Paolo spesso amplifica anche la designazione dei destinatari ricordando loro la loro dignità teologica: cf. per esempio Fil 1,1: «A tutti i santi (αγιοις) in Cristo Gesù che sono a Filippi».
Nel prescritto infine Paolo trasforma profondamente il saluto. Χαιρειν (= sta bene) diventa χαρις (= grazia; non più qualcosa che riguarda la salute, ma il dono gratuito e benigno di Dio in Cristo), e inoltre viene aggiunto l’augurio della ειρηνη. Il saluto ellenistico diventa augurio cristiano con l’arricchimento della pace biblica.

- Modificazione del ringraziamento
Anche il ringraziamento /benedizione è trasformato da Paolo. Paolo non poteva evidentemente esprimere gratitudine agli dèi: in ogni caso, il suo è un ringraziamento a Dio per i frutti che il Vangelo ha portato in chi riceverà la lettera. Poi diventa preghiera (= colorazione liturgica) perché gli interlocutori di Paolo siano fedeli (= risvolto parenetico) fino al giorno del Signore (= riferimento escatologico).

- Formule paoline nel corpo della lettera
Nel corpo della lettera Paolo si introduce nei diversi temi con formule di richiesta (παρακαλω δε υμας κτλ = vi scongiuro di…), di informazione (= γνοριζω γαρ υμιν = vi rendo noto che…), di gioia (χαραν γαρ πολλην εσχον = ho provato una grande gioia…), di sorpresa (θυαμαζω οτι = mi meraviglio che…) ecc. I temi trattati nel corpo della lettera sono spesso già annunciati nella amplificazione del nome del mittente, o dell’augurio di grazia e pace, o nella benedizione /ringraziamento. Anche nel corpo della lettera, soprattutto alla fine, è frequente il richiamo del destino escatologico della chiesa. Dopo la discussione teologica o dei casi concreti, l’ultima sezione è dedicata alla parenesi (meglio sarebbe dire paraclèsi, a motivo del verbo usato che è παρακαλω) circa la vita cristiana degli interlocutori. È infine ricorrente la progettazione di viaggi (in inglese: “travelogue”). Paolo si propone di mandare qualche suo collaboratore o di visitare lui stesso la comunità cui per ora, non potendo fare nulla di meglio, manda la lettera.
Soprattutto nel corpo della lettera è evidente il carattere dialogico delle lettere paoline: «Le sue lettere sono nate per reagire a resoconti circa situazioni precise e concrete; egli trattava ognuna di quelle situazioni come unica e importante. Più che elaborare affermazioni dogmatiche, egli trasmetteva il suo modo di vedere su come incarnare il Vangelo nel contesto particolare dei suoi destinatari», W. DOTY, Letters in Primitive Christianity (Philadelphia, PA, 1973), 44.

- Modifiche paoline alla conclusione della lettera
Nella parte conclusiva, oltre al saluto (a volte per una lunga lista di persone, cf. Rm 16,3-21) e al bacio santo («Salutatevi a vicenda con il bacio santo», 1Tess 5,26; 1Cor 16,20), secondo l’uso ellenistico Paolo mette qualche riga autografa (Gal 6,11: «Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano») per garantire l’autenticità di quella lettera, e per smascherare false lettere (2Tess 3,17: «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così»). Infine, invece dell’augurio di buona salute, Paolo mette spesso una dossologia (Fil 4,20: «Il Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli, Amen»; «La grazia del Signore Gesù sia con voi. Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù», 1Cor 16,23; «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi», 2Cor 13,13, ecc.).

e. Cristianizzazione della lettera ellenistica

La lettera paolina non ha lo scopo di coltivare l’amicizia o gli affari, ma è al servizio dell’annuncio evangelico, mirando alla edificazione della fede e della novità di vita evangelica. La relazione che si vuole approfondire con la lettera è soprattutto quella con il Cristo. Questo risulta fin dal prescritto nel quale Paolo rivendica il titolo di apostolo e ricorda ai suoi interlocutori che sono Chiesa evangelizzata e santificata (cf. αγιοι = santi, in 1Cor 1,2; Rm 1,7; Fil 1,1 ecc.) da Dio in Cristo.
L’apporto originale di Paolo è così profondo che lo si può considerare il creatore di un nuovo genere letterario, e cioè della lettera cristiana, apostolica, ecclesiale. Dopo di lui la sua scuola, gli autori delle lettere cattoliche e di Apoc, i Padri apostolici (1Clemente, Ignazio, Policarpo, l’Autore del Martirio di Policarpo ecc.), i Padri successivi (Origene, i Cappadoci, Girolamo, Agostino ecc.), i sinodi e concili ecclesiastici, i papi e i vescovi non hanno scritto vangeli ma lettere. La lettera dunque non soltanto è genere dominante nel NT, ma nella tradizione cristiana è divenuta poi il più comune strumento di comunicazione, di magistero e di azione ecclesiale.

f. Proprietà particolari alla lettera: dialogicità, situazionalità

In tal modo, essendo destinata per sua natura a continuare la comunicazione tra due persone quando sono fisicamente separate, la lettera risultò strumento strategico di comunicazione quando il movimento cristiano raggiunse una grande diffusione geografica, e fu necessario tenersi in contatto con città e luoghi molto diversi. L’espansione geografica a sua volta pose il problema dell’incontro del Vangelo con la cultura greco-romana. In tutto ciò la lettera, molto più di un vangelo o di una monografia storica, era aderente alla situazione, e cioè ai problemi singoli e concreti, all’organizzazione della attività missionaria e della vita comunitaria.

g. Lettera e presenza apostolica di Paolo

Come nella epistolografia antica, in Paolo la lettera rappresenta il mittente, è sostituto della sua persona, della sua parola, della sua presenza fisica. Cf. 2Baruch 68,3: «Ricordatevi di me, per mezzo di questa lettera, come anch’io mi ricordo di voi, in essa e sempre». Paolo preferirebbe essere presente, e per lui la lettera è un ripiego. Tuttavia la sua presenza epistolare è in tutto equivalente alla sua presenza fisica: «… Quel tale sappia che quali noi siamo con le parole di una lettera, tali saremo anche con i fatti della presenza fisica» (2Cor 10,11); «Per questo vi scrivo queste cose da lontano, per non dovere poi, presente fisicamente, agire con severità con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere» (2Cor 13,10). Presenza fisica, presenza epistolare, invio di collaboratori, o presenza spirituale sono forme ed espressioni diverse dell’unica, continua presenza apostolica di Paolo. In 1Cor 5,1-5, per esempio, egli annuncia per lettera che sarà presente con lo spirito quando la comunità corinzia consegnerà a Satana l’incestuoso per la rovina della carne, in vista della salvezza dello spirito. È probabilmente su queste premesse che è fondata la tradizione subito sorta e mai interrotta di leggere le lettere apostoliche nell’assemblea liturgica come testi sacri e ispirati. Cf. R.W. FUNK, «The Apostolic Parousia», in Festschrift Knox (Cambridge 1967), 249-268

3. Genere letterario: lettere o epistole?

La distinzione tra lettere vere e lettere fittizie era fatta già nell’antichità. Demetrio critica Platone e Tucidide perché scrivono veri e propri trattati lasciando della lettera solo qualche formula. Eusebio di Cesarea scrive a proposito delle lettere di Dionigi di Alessandria: «C’è presso di noi un gran numero di lettere sue [= vere lettere] e di trattazioni scritte in forma epistolare [= lettere fittizie], come quella ‘Sulla natura’ indirizzata al figlio Timoteo, e quella ‘Sulle tentazioni’, dedicata a Eufranore» (Storia Eccles. vii,26,2).
In epoca moderna, a partire da queste premesse, A. Deißmann (1895) ha proposto la distinzione tra lettera, documento privato che ha come scopo la comunicazione con un destinatario reale e irripetibile, ed epistola, che invece è una trattazione letteraria destinata fin dall’inizio alla pubblicazione e quindi a molti lettori. Le lettere papiracee venute alla luce in Egitto, hanno convinto Deißmann che anche le lettere di Paolo, come quelle, sono ‘pezzi di vita’ e non ‘pezzi di letteratura’ o epistole. La distinzione di Deißmann è utile, ma la sua opinione è stata poi in molti modi rettificata. È ben vero che le lettere di Paolo non sono trattati e che non sono state scritte per essere conservate in vista del futuro anche se poi così è accaduto, e che sono vere lettere. Tuttavia non sono lettere private, essendo state scritte non per i singoli, ma per questa o quella comunità. La stessa lettera a Filemone, che sembrerebbe indirizzata a una persona singola, non è affatto indirizzata a lui soltanto, come dice il prescritto: «Al nostro caro collaboratore Filemone, alla sorella Apfia, ad Archippo e alla comunità che si raduna nella tua casa» (Flm 1-2). E infine, le lettere di Paolo sono scritte non per un qualunque dialogo tra amici, bensì con autorità apostolica, nell’esercizio della missione evangelica ricevuta da Dio, e in vista della lettura pubblica (1Tess 5,27).

Indicazioni bibliografiche su Paolo e l’epistolografia

III. Paolo e l’arte retorica antica

a. Gli oratori antichi, i teorici e l’insegnamento dell’arte retorica

Nell’antichità ci furono non solo grandi oratori, ma anche dei teorici delle regole retoriche, e i trattati e manuali di retorica che ci sono pervenuti ci consentono di conoscere perfettamente tutta quell’arte e le sue regole. I più famosi scrittori di retorica sono Aristotele (384-322 a.C.; cf. τεχνη ρητορικη, τοπικα), Cicerone (106-43 a.C.; De inventione, De Oratore, Brutus, Orator, De optimo genere oratorum, Partitiones oratoriae, Topica), e Quintiliano (35-96 d.C. circa; cf. Institutio Oratoria), ma sono giunti a noi anche manuali anonimi come ‘Ad Alexandrum’ (attribuito ad Aristotele, ma più probabilmente di Anassimene di Lampsaco), e ‘ad Herennium’ (opera attribuita a Cicerone, ma forse opera di un certo Cornificius).
«La paidèia o ‘istruzione scolastica’ nell’epoca ellenistica, così come aveva preso forma e come s’era diffusa in ogni pòlis dell’area mediterranea, comportava, allo stadio superiore, la formazione che si riceveva da un maestro di retorica», B. STANDAERT, «La Rhétorique ancienne dans Saint Paul», in A. VANHOYE, a cura di, L’Apôtre Paul. Personnalité, Style, et Conception du Ministère (BETL 73; Leuven 1986), 78. – «In tutto l’impero romano lo studio della retorica faceva parte dell’istruzione scolastica. I ragazzi venivano esercitati nei diversi campi della retorica e ci si aspettava da loro che fossero capaci di pensare attraverso queste categorie quando componevano un discorso. Il risultato era che le regole retoriche avevano un grande influsso sul come si componevano e sul come venivano letti gli scritti antichi», R.G. HALL, «The Rhetorical Outline for Galatians. A Reconsideration», in Journal of Biblical Literature 106 (1987), 278-9.

b. I tre tipi di discorso retorico

«Per definizione, ci sono tre tipi di retorica. Lo scopo della retorica deliberativa è di esortare o di dissuadere. Lo scopo della retorica forense è di accusare o di difendere. Lo scopo di quella epideittica è di lodare o di biasimare. Il primo tipo di discorso è proprio delle assemblee cittadine imperiali, nelle quali gli uditori devono poi decidere circa il futuro; il secondo è proprio dei tribunali, dove gli uditori devono giudicare del passato; il terzo è infine proprio del mercato o dell’anfiteatro dove, come spettatori, devono giudicare circa le capacità artistiche dell’oratore», F.F. CHURCH, «Rhetorical Structure and Design in Paul’s Letter to Philemon», in Harward Theological Review 71 (1978), 18; cf. descrizioni analoghe dei tre generi retorici in D.F. WATSON, «A Rhetorical Analysis of Philippians and its Implications for the Unity Question», in Novum Testamentum 30 (1988), 59-60; R.G. HALL, «The Rhetorical Outline», 278-283.

c. La dispositio retorica di un discorso

Con il termine dispositio i retori antichi designavano l’organizzazione del discorso e delle sue parti. Quintiliano, che fu scelto dall’imperatore Domiziano come maestro di retorica per i propri nipoti (iv, proemio, 2), prima di definire teoricamente la dispositio, da di essa un’idea ben precisa con le immagini della costruzione, della statua di bronzo, della figura umana o animale, e degli eserciti:

«Come a chi innalza una costruzione non basta accumulare pietre e materiali ed altri arnesi utili all’edilizia, se non vi aggiunge abilità nel disporli e nel collocarli, così nell’eloquenza l’abbondanza di argomenti si ridurrà a un cumulo informe, se la dispositio non li legherà in un tutto armonioso e organico. Allo stesso modo non si ha una statua [di bronzo], anche se tutte le sue parti sono state fuse, se esse non sono state poste ciascuna nel punto giusto. E se in una figura umana o di altro vivente scambiassimo un qualche membro e lo spostassimo fuori della sua propria sede, la figura, pur avendo tutto quello che deve avere, finirebbe tuttavia per essere qualcosa di mostruoso. Anche le articolazioni, se slogate pur leggermente, perdono il vigore di prima; e allo stesso modo gli eserciti, quando sono scompigliati, si ostacolano da sé medesimi. A me pare che abbiano ragione quanti affermano che la natura stessa poggia sull’ordine, al cui confondersi tutto è destinato a perire.
Così un discorso che manchi di ordine dovrà necessariamente procedere per sobbalzi e correre alla deriva senza timoniere, essere spesso slegato, spesso ripetere e spesso sorvolare, come chi vaga di notte per luoghi sconosciuti. Senza un piano che comprenda inizio e fine, il discorso si affiderà più al caso che a un preciso progetto. Intendiamo dunque per dispositio l’utile distribuzione di argomenti e parti nei luoghi opportuni (utilis rerum ac partium in locos distributio)», (Quintiliano, vii, 1, proemio e n. 1).

B. Standaert, un benedettino belga, che secondo la retorica ha studiato il vangelo di Marco (L’évangile selon Marc. Composition et genre littéraire, Brugge 1984), dice che chi non organizza il suo scritto secondo un qualche progetto scrive per nessuno: «La composizione [= dispositio] ha un posto particolare nel codice retorico, perché si compone sempre in vista dei propri destinatari, e colui che non si preoccupasse di come compone, scrive per Dio o per nessuno, che è cosa piuttosto rara» (STANDAERT, «La Rhétorique ancienne», 92)
Tutta la costruzione di un discorso dipende in gran parte dalle concrete circostanze cui è rivolto, e, cambiando le circostanze, cambiano i discorsi. Di per sé la prima regola della dispositio è la libertà che è necessaria per essere adeguati alla situazione. Lo dice lo stesso Quintiliano: «La dispositio spesso subisce cambiamenti, obbedendo all’utilità, e non sempre è la stessa la questione da affrontare per prima, sia dall’una che dall’altra parte in causa. Di ciò possono essere testimoni Demostene e Eschine [= due famosi oratori greci], i quali nel processo di Ctesifonte seguirono un ordine diverso: l’accusatore prese le mosse dalla questione strettamente giuridica, su cui poteva più validamente puntare, mentre il difensore antepose alla questione di diritto tutte le altre, con le quali preparare il giudice alla disquisizione giuridica. Infatti a uno conviene provare prima una cosa, ad altri un’altra. Diversamente la discussione sarebbe condotta sempre ad arbitrio dell’accusatore (che prende la parola per primo)», Quintiliano, Instit. Orat., vii, 1,1-3.
A parte questa necessaria flessibilità, la dispositio ideale di un discorso si compone di (Cf. in MURPHY-O’CONNOR, L’art épistolaire, 109-117, il capitolo intitolato «Les composantes du discours délibératif»):

d. Il NT, Paolo e la retorica antica

Se nessuno mette in dubbio che “Ebrei” faccia abbondante ricorso alle risorse e alle regole della retorica antica (cf. per tutti: P. GARUTI, La lettera agli Ebrei. Alle origini dell’omiletica cristiana, Jerusalem 1955), non mancano autori che fanno affermazioni molto decise anche per Paolo: «Leggere Gal secondo i principi dell’antica retorica anzitutto aiuta a comprendere il testo, e in secondo luogo fa conoscere un’importante componente della cultura diffusa al tempo di Paolo. Il grande influsso della retorica classica nel primo secolo giustifica ampiamente il tentativo di cercare di capire Gal secondo quelle categorie» (HALL, «The Rhetorical Outline», 278); «Paul too employed basic tactics of persuasion taught and widely practiced in his day. (…) Whether he was trained in school or acquired his talent through a natural course of observation and imitation, Paul was a master of persuasion», (F.F. CHURCH, «Rhetorical Structure», 17); «Paul can speak out of Hellenistic rhetorical practice as easily as he can support a point with the most subtle rabbinic hermeneutic» (R. SCROGGS, «Paul as Rhetorician: Two Homilies in Roman 1-11», in R. HAMERTON et alii, a cura di, Jews, Greeks and Christians. Fs W.D. Davies, Leiden 1976, 272)
Coloro che per primi sono andati in cerca di uno schema retorico in Paolo sono H.D. Betz e, rispettivamente W. Wuellner: il primo lo ha fatto per la lettera ai Galati, il secondo per quella ai Romani. «Si deve senza dubbio a H.D. Betz d’avere suscitato l’interesse degli esegeti di Paolo, per la retorica greco-romana. In questi ultimi anni un numero sempre maggiore di articoli e di tesi - di qualità molto diseguale - hanno sfruttato questo filone. Cf. per esempio gli studi di Wuellner, Church, Brinsmead, Hall, Jewett, Smit, Johanson, Holland, D.F. Watson, Hughes, ecc. (…). Che [per esempio] la lettera ai Romani possa obbedire a un modello retorico, fu W. Wuellner a sostenerlo per primo (1976)» (ALETTI, «La présence», 1); «Betz’s article has convinced me that classical rhetoric is an important instrument for the analysis of the letter to the Galatians and leads to a better understanding of the character and coherence. (…) The speech Paul addressed to the Galatians bears witness to his professional skill as a rhetorician» (J. SMIT, «The Letter of Paul to the Galatians: A Deliberative Speech», in New Testament Studies 35 (1989), 1, per la prima citazione; p. 24, per la seconda).
L’obiezione che più spesso viene fatta contro lo studio de NT a partire dalla retorica antica è che gli autori neotestamentari ragionano come dei giudei e non come dei greci. A tale difficoltà J.-N. Aletti risponde che «simili affermazioni ignorano come l’influsso ellenistico sul modo di pensare e comporre degli scrittori giudaici contemporanei a quelli del NT, e soprattutto ignorano che il sermone di Ebr rivela un influsso nettissimo della retorica greco-ellenistica, e che è uno scritto tipicamente ellenistico» (ALETTI, «La dispositio rhétorique», 387). – Anche in Palestina l’influsso della paidèia ellenistica era abbastanza forte non solo in mezzo a coloro che parlavano greco (si calcola dal 10 al 20 per cento), ma anche tra i rabbini. Secondo J.L. KINNEAVY, Greek Rhetorical Origins of Christian Faith. An Inquiry (New York - Oxford 1987), 90, i rabbini palestinesi «possedevano una conoscenza innegabile, anche se limitata, della cultura greca. Essi non leggevano Platone né i filosofi presocratici. Il loro interesse era centrato sugli studi giuridici dei pagani e sui loro metodi di retorica». La precisazione è importante perché At 22,3 parla dell’istruzione che Paolo avrebbe ricevuto a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele II.

e. La particolare dispositio paolina

Secondo J.-N. Aletti, Paolo applicava la dispositio retorica degli antichi non a un’intera lettera (come pretendono Betz, Kennedy, Wuellner e loro le scuole americana e francese), bensì a ciascuna delle parti che compongono una lettera. In altre parole in Rom, per esempio c’è una propositio generale per tutta la lettera in 1,16-17, ma ci sono poi sub-propositiones che vengono sviluppate: una in 1,18-4,25; una seconda in Rm 5-8; una terza in Rm 9-11, e un’ultima in Rm 12-15.
«Uno studio attento delle unità argomentative mostra che Paolo precede per ‘insiemi’ relativamente autonomi e tuttavia legati tra di loro in modo dinamico» (ALETTI, «La dispositio rhétorique», 392); «[La dispositio e] l’argomentazione [paolina] è divisibile in sezioni relativamente autonome, di lunghezza relativamente modesta, che riproducono, ognuna per conto suo e in modo originale, la dispositio della retorica antica (per Rom: 1-4; 5-8; 9-11; 12-15). Una tale particolarità merita la nostra attenzione perché sembra indicare che Paolo componeva e poi dettava le sue lettere per unità logiche facilmente memorizzabili. Se è vero che imparare a memoria un discorso, prima di tenerlo in pubblico o di scriverlo, faceva parte integrante della pratica retorica degli antichi, tuttavia la maniera di redigere dell’Apostolo si rivela molto più chiara. Si comprende molto bene come, avendo in mente i principali punti della sua argomentazione, egli preferisse elaborarli separatamente, per unità logiche più dominabili, perché più brevi e dunque più facili da essere ritenute a memoria e dettate» (ALETTI, «La dispositio rhétorique», 399)

f. La retorica e l’interpretazione delle lettere paoline

Se non si va in cerca di come gli antichi costruivano i loro discorsi, ci si impedisce da sé stessi di capire i testi che ci hanno lasciato, e dunque «lo studio della retorica antica ci fornisce l’accesso al codice che governa la comunicazione oratoria dell’antichità. Questo codice fu per una parte insegnato, ma per un’altra parte esso operava all’insaputa degli oratori e dei loro interlocutori. Data la distanza culturale che ci separa dagli antichi, noi dobbiamo in tutti i modi cercare di individuare questo codice per non essere troppo fuori strada nel leggere le opere antiche» (STANDAERT, «La Rhétorique ancienne», 92)
Per gli stacchi improvvisi e i salti logici che si incontrano tra le parti del discorso per esempio in Fil, Rom, o 2Cor, molti commentatori ricorrevano all’ipotesi di più lettere fuse in una. L’arte retorica, che richiede a volte trapassi bruschi, inaspettati e aggressivi per impressionare l’uditore, può offrire un’ipotesi alternativa. Per 2Cor e Fil cf. WATSON, «A Rhetorical Analysis», 80, e 88, che scrive «As also true of 2Cor, during this century there has been a persistent voice espousing the view that Philippians is a composite work. It is thought to be composed of two or three letters written by Paul to the Philippians at different times, under different circumstances, to meet different exigencies. In fact, it can be confidently stated that the composite nature of Philippians is now treated as a presupposition in a considerable body of literature. (…) This approach enables the interpreter to explain the literary features offered as evidence for addition and Interpolation in Philippians within the context of the conventions of Graeco-Roman rhetoric. (…) Since Paul utilized the rhetorical conventions of the Greco-Roman world in his other genuine letters, since the present form of Philippians conforms well to those conventions, and since the proposed interpolations and evidence given for Interpolation can be explained by rhetorical convention, than the integrity of Philippians is best assumed».
Per Rm cf. invece quello che scrive J.-N. ALETTI, Comment Dieu, 126-127 e 179: «Anche un passo come Rm 9,4 dove Paolo attribuisce alla legge mosaica un valore positivo (che altrove non le riconosce) mettendola tra i privilegi d’Israele, deve essere interpretato alla luce dei modelli retorici nei quali gli enunciati non hanno la stessa portata se si trovano nell’esordio o se invece si trovano nella propositio, o ancora nella probatio. Che in 9,1-5, esordio di Rm 9-11, la legislazione sia riconosciuta come un privilegio ‘secondo la carne’, e che essa sia intesa in modo diverso invece nella successiva probatio, non stupirà se non coloro che sono poco familiarizzati con le tecniche della retorica antica»; «Tenendo conto della presenza di un modello retorico, si può uscire da un certo numero di ‘impasses’, ed è possibile proporre una interpretazione stimolante di un capitolo [= Rm 11] tra i più controversi nella storia dell’esegesi contemporanea».
In altri termini, certe difficoltà esegetiche non si risolvono se non ricorrendo alla retorica, perché per convincere in modo schiacciante il proprio interlocutore (la retorica è l’arte della persuasione), Paolo o l’Autore di “Ebrei” ecc. hanno costruito il discorso in modo così sorprendente e inaspettato che noi lettori potremmo non accorgerci della loro strategia di persuasione e, invece, accusarli di scrivere in modo trascurato. L’attenzione agli schemi retorici aiuta l’interprete a non finire fuori strada, e, invece, ad apprezzare l’abilità retorica degli scrittori biblici.
g. Analisi retoriche proposte finora circa l’epistolario paolino
Cf. in Murphy-O’Connor, L’art épistolaire, 117-120, l’elenco dei tentativi fatti per interpretare in base alla retorica antica: Rm (Wuellner, Kennedy, Jewett), Gal (Betz, Hall, Smit), 1Cor (Mitchell, Kennedy, Vouga, Mack), 1 Tess (Jewett, Hughes, Kennedy), Fil (Watson), Colossesi (Aletti), 2Tess (Jewett, Hughes, Holland), Flm (Church). Per Rm è necessario aggiungere il nome di J.-N. Aletti e, per Gal, quello di A. Pitta.

Indicazioni bibliografiche su Paolo e l’arte retorica antica

IV. La formazione dell’epistolario paolino

1. Verso la formazione del ‘corpus’ paolino

a. Raccolte neotestamentarie

Nell’antichità era costume fare raccolte di lettere: cf. le raccolte delle lettere di Platone, Aristotele, Isocrate, Cicerone, Cesare, Plinio il giovane, Epicuro, Seneca ecc. e probabilmente i primi documenti neotestamentari a essere messi insieme furono proprio le lettere paoline. Certamente il martirio di Paolo contribuì a renderle venerabili agli occhi delle comunità paoline (SCHELKLE, Paolo, 30), ma fu probabilmente Paolo stesso a porre le basi per la successiva conservazione e raccolta delle sue lettere. Da 1Tess 5,27 sappiamo che chiedeva di fare lettura pubblica delle sue lettere, così come nella sinagoga si faceva per le Scritture.
L’uso della lettura pubblica è attestato anche in Ef 3,4, Apoc 1,3 e, soprattutto in Col 4,16 (il verbo αναγινωσκω ricorre 3 volte in un solo versetto!) dove addirittura si ordina uno scambio di lettere tra due chiese paoline, Colosse e Laodicea. A partire da Col 4,16 si può fare anche l’ipotesi che per lo scambio si facesse una seconda copia, e in ogni caso quel versetto dice come le lettere di Paolo, anche se occasionali e legate a circostanze precise e irripetibili, avessero valore anche fuori di quella situazione. Da ‘lettere’ tendono dunque a diventare ‘epistole’: «Col 4,16 is a first indication that a letter to a church would become a letter-for-the-churches», R.F. COLLINS, «That this Letter be Read to all the Brethren», in IDEM, Studies on the first Letter to the Thessalonians (Leuven 1984), 370.

b. La raccolta delle lettere paoline

La più antica menzione di una raccolta (probabilmente non ancora completa) di lettere paoline si trova in 2Pt 3,15-16: «Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto… Così egli fa in tutte le lettere in cui tratta di queste cose». Tra l’altro, presentandosi come seconda lettera («Questa, o carissimi, è già la seconda lettera che vi scrivo…», 2Pt 3,1), la 2Pietro, fornisce la prova anche per la raccolta di 2 lettere petrine. Intorno al 100 d.C., dunque, l’autore di 2Pt chiama Paolo ‘caro fratello [= di Pietro]’, attribuisce a lui una particolare sapienza [= ispirazione?], presuppone che una lettera sia stata scritta agli stessi destinatari di 2Pt, e che siano conosciute altre lettere raccolte in collezione, riconosce in quelle lettere testi difficili da interpretare e facili da essere travisati, ma le mette sullo stesso piano delle Scritture (dell’AT). – La 1Clem nel 95-96 d.C. circa cita Rom, 1Cor, Ebr, per un totale di 3 lettere. Ignazio di Antiochia intorno al 110 cita Rom, 1Cor, Ef, Col, 1Tess, per un totale di cinque lettere. Policarpo di Smirne intorno al 135 cita Rom, 1-2Cor, Gal, Ef, Fil, 2Tess (e 1Tess?), forse 1-2Tim, per un totale di circa 10 lettere paoline. Marcione intorno al 140 riteneva solo 10 lettere paoline, e dunque ne conosceva un numero maggiore, e il Canone Muratoriano, intorno al 180, elenca 13 delle 14 lettere paoline, mancando all’elenco soltanto Ebr.
L’iniziativa di raccogliere insieme gli scritti di Paolo deve essere stata presa in una delle grandi chiese paoline, come Efeso, Roma o Corinto. Siccome nell’elenco del Canone Muratoriano le due lettere ai Corinzi sono al primo posto, qualche autore ne conclude che la raccolta sia stata fatta, o almeno cominciata, a Corinto. Recentemente J. Murphy-O’Connor ha fatto l’ipotesi che la raccolta sia da far risalire a Paolo stesso il quale, al momento di spedire una lettera, ne conservava presso di sé una copia. Così scrive J. MURPHY-O’CONNOR, Paul et l’art épistolaire (Paris 1994), 173-174, citando E. Richard, e D. Trobisch, e richiamando il costume antico di tenere con sé una copia di ciò che si spediva: «Il était habituel que l’expéditeur conserve une copie de sa lettre. L’auteur pouvait y procéder lui même (Ad familiares X, 26,1), mais il incombait normalement au secrétaire d’exécuter la copie; c’est ce que suppose Cicéron quand il reproche à un ami de faire lui-même ses copies (Ad familiares vii, 18,2). Des copies de toute la correspondance de Cicéron étaient conservées par Tiron, comme nous l’apprend une lettre à Atticus: “Tu réclames ma lettre à Brutus, mais je n’en ai pas le double sous la main; pourtant, il a bien été conservé et Tiron affirme qu’il faut que tu l’aies”, (Ad Atticum xiii, 6,3)» (Ibidem 29)

c. Lettere perdute

È certo che alcune lettere di Paolo sono andate perdute. Lo lasciano capire le lettere che ci sono rimaste: «Vi ho scritto nella lettera precedente di non mescolarvi con gli impudichi» (1Cor 5,9); «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione, tra molte lacrime» (2Cor 2,4). Cf. anche 2Cor 7,8-13; 2Tess 2,1-2; 3,17; Col 4,16, e, per la letteratura giovannea, 3Giov 9.

2. Fusione di lettere

Non è impossibile che lettere brevi di Paolo, affinché non andassero perdute, siano state incorporate in quelle maggiori. «Nel caso della 2Cor è difficile non supporre una redazione del genere» afferma SCHELKLE, Paolo, 34; mentre O. KUSS, Paolo, 155, definisce “degna di considerazione” quella di ritenere 2Cor 10-13 una lettera scritta da Paolo dopo 1Cor e prima di 2Cor 1-9. L’ipotesi è frequentemente applicata anche a Fil 3. Se si accetta l’ipotesi, bisogna allora concluderne che le lettere incorporate sono state mutilate, almeno del prescritto e della parte conclusiva coi saluti.
A parte le considerazioni in contrario fatte dai sostenitori dell’analisi retorica, anche qui le ipotesi oltrepassano ogni misura: W. Schmithals scompone 7 lettere paoline in ben altre 16. Al proposito KUSS, Paolo, 119, ironizza: «Non è possibile pensare che queste proposte, rette da una fede molto forte, si impongano».

3. Lettere apocrife

La menzione di una lettera scritta a Laodicea in Col 4,16 ha dato origine all’apocrifa “Ai Laodicesi” (M. Erbetta, la colloca tra il 160 d.C. e il 190); e 1Cor 5,9 ha dato origine all’apocrifa “3Cor” che si trova negli apocrifi Atti di Paolo, vii, 3,1-40 (tra 100 d.C. e 200, secondo M. Erbetta). Nel Canone Muratoriano si menziona una lettera “agli Alessandrini”, mentre nel secolo iv sono state composte 14 lettere che si sarebbero scambiate tra loro Seneca (8 lettere) e Paolo (6 lettere).

Indicazioni bibliografiche per la formazione dell’epistolario paolino


Per altri articoli e studi del prof.Giancarlo Biguzzi o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


[Introduzione all'epistolario paolino]