Per introdurre alla lettura della prima enciclica di Papa Benedetto XVI, Deus caritas, est, ripresentiamo on-line, sul nostro sito, l’intervento tenuto nella cattedrale di S.Giovanni in Laterano in Roma il 23 febbraio 2006 dall’arcivescovo di Bologna, S.Ecc.mons. Carlo Caffarra, unitamente ai due testi di Papa Benedetto XVI cui mons.Caffarra fa riferimento più volte. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare una lettura on-line dei testi proposti.
L’Areopago
Il compito di introdurci ad una lettura intelligente della lettera enciclica
«Deus caritas est» ci è stato facilitato dall’autore stesso. Il Santo
Padre ha spiegato la sua lettera, o meglio ha dato le chiavi interpretative del suo testo. In
due occasioni: scrivendo una “lettera ai lettori e lettrici” allegata al n°
6/2006 di Famiglia Cristiana e nel discorso fatto ai partecipanti all’Incontro
promosso dal Pontificio Consiglio «Cor unum» il 23 gennaio scorso. È alla
luce di questi due testi, soprattutto il secondo, che cercherò di svolgere le
riflessioni seguenti.
1.[Verità di Dio – verità dell’uomo – verità
dell’amore].
Inizio da un testo di K. Wojtyla desunto dalla sua opera drammatica La bottega
dell’orefice: «Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla
superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più
dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla
superficie e quello che è il mistero dell’amore ecco la fonte del dramma.
Questo è uno dei grandi drammi dell’esistenza umana»[1].
L’Enciclica di cui stiamo parlando entra in questo “grande dramma
dell’esistenza umana”, perché l’uomo non viva più nella
“divergenza”, e come “dilacerato” fra “quello che si trova sulla
superficie” e quello che è “il mistero dell’amore”.
Necessità di uscire da questa divergenza e lacerazione, poiché al capolinea di
questo cammino «l’uomo stesso diventa merce» [5, cpv 3[2]], e – aggiungiamo noi – la
proposta educativa si riduce ad essere inevitabilmente una “pedagogia profilattica”
, come ha detto un grande giornalista[3].
Il segno della condizione drammatica della persona umana in relazione all’amore è
sinteticamente descritto nel discorso al «Cor unum» nel modo seguente. «La
parola «amore» oggi è così sciupata, così consumata e abusata
che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra»[4]. Anzi, nell’Enciclica si
prospetta perfino la probabilità che al termine “amore” «annettiamo
accezioni del tutto differenti» [2.1]. La confusione della lingua,
l’equivocità dei termini è il segno che qualcosa di grave è accaduto
nella persona. «Eppure» continua il Santo Padre «è una parola
primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente
abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario,
perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via. È stata
questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima
Enciclica». È questo il testo più capace, mi sembra, di introdurci nella
profondità del testo pontificio.
Mi si perdoni il riferimento personale. Durante una Visita pastorale un giovane mi chiese [mi
avevano domandato di riflettere con loro sulla presenza del male nella storia e nella loro
persona]: “ma qual è il fondo della realtà? Con quale nome lo dobbiamo
chiamare?”. Anche il Santo Padre parla di “realtà primordiale”, e del
nome con cui esprimerla. Egli dice che la parola che esprime la “realtà
primordiale” è amore. Ne deriva che se l’uomo smarrisce il vero senso
di questa parola, ha smarrito semplicemente la realtà, poiché non ne
comprende più il senso ultimo. Ne deriva quindi anche che «noi non possiamo
semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo… riportarla al suo splendore originario».
È un lavoro che presuppone la fatica di una “ripresa” e di una
“purificazione” [cfr. 4, cpv 2; 5, cpv 1 e 3]. È quanto si propone di fare,
ci ha confidato, il Santo Padre colla sua prima Enciclica: che lo splendore originario
dell’amore possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via.
Non finisco di stupirmi di fronte a questa decisione del Santo Padre, e di ammirare la
coincidenza in essa di semplicità, di coraggio, di vicinanza all’uomo. Infatti su
tutta la vicenda della «realtà primordiale» e della sua espressione
“tutta la modernità vi ha redatto un verbale di delusione; ci basti la storia
della letteratura, del cinema, della canzone, senza menzionare i
filosofi”[5]. Benedetto
XVI la rimette all’ordine del giorno, innanzitutto inducendoci al lavoro del pensiero
sopra di essa, tanto necessario questo lavoro quanto e più che … arrivare alla
fine del mese.
Tuttavia “ridare splendore alla parola originaria” non è possibile senza
“visione della realtà originaria”: dice con verità la parola amore
solo chi ha visto la realtà dell’amore. Ma non in un modo qualsiasi: ha
visto in modo tale da trasformarsi in essa. Il vicario di Cristo – e vedremo, solo lui
alla fine poteva farlo – vuole prenderci per mano in questo “itinerarium mentis in
amorem”. Un altro aveva compiuto questo itinerario, ed il Santo Padre lo ricorda
esplicitamente colle seguenti parole: «Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e
per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo
audace»[6]. Il testo
dantesco dice: ma per la vista che s’avvalorava/ in me guardando, una sola parvenza,/
mutandom’io, a me si travagliava[7]. Cioè: a causa della visione che, mentre il poeta
guardava, acquistava sempre maggiore potenza, l’unica realtà divina si trasformava
ai suoi occhi, perché il poeta stesso cambiava [a causa di quella visione]. Il Santo
Padre vuole aiutarci a vivere un’esperienza simile: la fede nell’Amore che è
Dio diventa una visione-comprensione che ci trasforma.
Da dove iniziare dunque questo itinerario? Qual è il suo punto di partenza? Qualcuno
potrebbe rispondere immediatamente: dall’ascolto della parola di Dio circa l’amore.
Questa non mi sembra la risposta di Benedetto XVI. Egli infatti inizia da una riflessione
sull’eros, e scrive fin dall’inizio: «Anche se il tema di questa
Enciclica si concentra sulla questione della comprensione e della prassi dell’amore nella
Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa, non possiamo semplicemente prescindere dal
significato che questa parola possiede nelle varie culture e nel linguaggio odierno»
[2, cpv 1]. Questa indicazione del cammino da percorrere è dovuto al fatto che «la
fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a
quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo
intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove
dimensioni» [8, cpv un.]. Fra eros, inteso come l’originario fenomeno
dell’amore, ed agape, intesa come la comprensione biblica dell’amore, non
c’è parallelismo né ancor meno contrapposizione. È un rapporto di
integrazione che comporta purificazione ed elevazione. L’annuncio ed il dono
dell’agape è novità, ma al contempo è risposta,
imprevista ed imprevedibile certo, ad una domanda che dimora dentro l’eros. Il titolo
della prima parte ora risulta chiaro in tutta la sua portata semantica: L’unità
dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza.
Ho proposto poco sopra di pensare l’unità fra eros ed agape nella figura
dell’integrazione. Prima di procedere vorrei dire brevemente che cosa intendo per
unità di integrazione, e quindi per integrazione fra eros e agape.
L’integrazione suppone una pluralità di elementi [nel nostro caso: eros-agape]:
per questo l’unità derivante dall’integrazione non è
un’unità semplice. Gli elementi o parti sono messe in relazione fra loro secondo
un rapporto di sub-ordinazione/sovra-ordinazione, fondato su un ordine obiettivo gerarchico.
La subordinazione della parte inferiore non ne distrugge il dinamismo, ma al contrario lo
esalta, facendolo essere in modo superiore.
Quando l’eros è integrato nell’agape, viene come ad essere impregnato
dall’Amore e dal suo valore proprio; informatone come dall’interno, l’eros
realizza il suo dinamismo proprio e porta a maturazione piena quanto ha in sé come
germoglio. La differenza anche essenziale non è opposizione.
«È una relazione analoga a quella tra moralità naturale e soprannaturale.
La moralità soprannaturale cristiana, la santità, è qualcosa di
qualitativamente nuovo rispetto a quella semplicemente naturale, qualcosa che la supera in modo
incomparabile; non forma però alcun contrasto con la moralità naturale, ma la
compie e la trasfigura. È così anche qui. In ogni amore naturale – anche
nel più imperfetto – nell’amore come tale, sta un certo riflesso della
carità, una certa immagine, un “germoglio”, che tende ad un compimento, che
questo amore non può mai raggiungere in base alle proprie forze, ma esige secondo il suo
spirito proprio»[8].
L’agape non avvelena l’eros facendolo morire [3, cpv un.], ma lo eleva e lo
realizza pienamente[9].
Ma qual è la vera novità dell’agape? È questa domanda il
“cuore” dell’Enciclica.
Nel già citato discorso al Pont. Cons. «Cor unum» il Santo Padre dice:
«… in questa Enciclica, i temi “Dio”, “Cristo” e
“Amore” sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana».
Le novità che l’agape dischiude all’uomo sono due: la nuova immagine di Dio
[9-10]; la nuova immagine dell’uomo [11]. La novità dell’immagine di Dio
è che viene rivelato con parole e fatti un Dio che ama; la novità
dell’immagine dell’uomo è che questi viene reso capace di amare secondo la
misura di Dio [cfr. 11, cpv 2].
Questa novità raggiunge la sua pienezza espressiva e pratica in Cristo
[eucaristicamente sempre presente nella sua Chiesa]. In Lui l’amore di Dio per
l’uomo si compie; in Lui l’uomo, reso partecipe della Sua vita, diventa capace di
amare come Cristo ha amato [cfr. tutto il n. 17] . È in Cristo che l’uomo conosce
che Dio lo ama ed è in Lui e da Lui che riceve la capacità di corrispondere a
questo Amore, di lasciarsi travolgere da questa corrente divina, divenendo capace di amare ogni
uomo. È immergendosi nel cuore di Cristo, che l’uomo entra nell’Amore: nella
corrente profonda che muove “il sole e l’altre stelle”. Quanto
più mi avvicino al sole tanto più ne resto illuminato e scaldato e divento capace
io stesso di illuminare e scaldare.
Ricordate il testo di K. Wojtyla da cui siamo partiti. La divergenza fra “quello che si
trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore”, è
superata poiché dall’Eucarestia nella Chiesa noi siamo collocati dentro al
Mistero.
A ragione S. Gregorio di Nissa scrisse che la forza del cristianesimo è nella
«tradizione della divina mistagogia» [cfr n. 18, cpv un.][10].
2.[Caritas e mondo contemporaneo].
Vorrei ora fare alcune riflessioni di invito alla lettura della seconda parte
dell’Enciclica.
Parto da un nodo di domande: che significato ha questa Enciclica per l’uomo occidentale?
Quale bisogno suo proprio essa intercetta? Come si pone dentro al nostro quotidiano groviglio?
Nel più volte citato discorso al Pont. Cons. «Cor unum» il Santo Padre ci
aiuta a rispondere e quindi a leggere la seconda parte: «In un’epoca nella quale
l’ostilità e l’avidità sono diventate superpotenze, un’epoca
nella quale assistiamo all’abuso della religione fino all’apoteosi dell’odio,
la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio
vivente, che ci ha amati fino alla morte».
È qui indicato una condizione di grave pericolo per l’umanità di ogni
uomo; siamo messi in guardia dal ritenere che la sola razionalità neutra possa
salvarci; viene individuato il vero ultimo bisogno di cui l’uomo soffre in questa
condizione: bisogno del Dio vivente.
Vorrei brevemente riprendere questo pensiero, iniziando dalla considerazione di ciò che
il Santo Padre chiama «razionalità neutra», potenza incapace da sola di
proteggerci.
Per razionalità neutra intendo un uso della nostra ragione caratterizzato da due
proprietà: neutralità perché riduce l’esercizio della ragione
alla soluzione tecnica dei problemi esautorandola della sua capacità di interrogare il
mistero; neutralità perché espunge dal suo ambito la domanda ultima del
soggetto. Mi spiego con un esempio.
Se mi ammalo gravemente, è inevitabile che mi faccia una domanda: perché
è accaduto? In realtà questa domanda ha due significati profondamente diversi.
Essa può domandare quali sono state le cause che spiegano l’insorgere nel mio
organismo di quel fenomeno morboso in ordine a scegliere la terapia che la scienza ritiene
più efficace. Ma la domanda ha anche un altro significato poiché chiede che senso
ha nella mia vita la sofferenza, e non raramente questa domanda conduce l’uomo dentro ad
un orizzonte che pone in questione il senso dell’intero.
Non è tanto difficile comprendere che l’esercizio della ragione messo in atto nel
rispondere al primo senso della domanda è profondamente diverso dal secondo. Nel primo
è un esercizio, diciamo, spersonalizzato: la diagnosi è fatta in larga misura
perfino da macchine. La malattia è un problema da risolvere. Nel secondo caso esercito
la mia ragione in una modalità nella quale la mia soggettività è
profondamente coinvolta così come quella delle persone cui mi rivolgo. La malattia cessa
di essere un problema da risolvere e diventa un mistero da de-cifrare. Chiamiamo la prima una
“razionalità neutra”.
E siamo così – penso – alla domanda di fondo che costituisce il nodo del
nostro quotidiano assillo: la vita, alla fine, è solo un «problema da
risolvere» o è anche e soprattutto «un mistero da decifrare»? e
quando e come è dato all’uomo di scoprire e dire questa cifra? sono da ritenersi,
queste, domande cui è impossibile rispondere con verità o falsità? sono il
segno di chi non è stato ancora consolato dalla luce benefica del sole della scienza?
oppure aveva ragione il poeta che più di ogni altro sentì il peso di queste
domande, a scrivere: «Omai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che, ascoso, a
comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto» [G. Leopardi, A se
stesso]?
Il Santo Padre dice che il bisogno ultimo dell’uomo è di incontrare il Dio
vivente che ci ha amati fino a morire; il bisogno che Dio si faccia compagnia
dell’uomo. Ma come questo può accadere dentro alla nostra drammatica
quotidianità? La seconda parte dell’Enciclica risponde a questa domanda. La
risposta è: facendo accadere, dentro alla storia dell’uomo, quel Mistero di cui la
prima parte dell’Enciclica parla: la comunione nell’amore che, compiendo
l’eros, è la partecipazione dell’amore con cui Dio ama in Cristo ogni uomo.
Un pensiero di Berdjaev può aiutarci a comprendere la seconda parte
dell’Enciclica. Egli ritiene che quanto più la persona umana «si
universalizza nella comunione, in un amore che deve essere contemporaneamente erotico ed
agapico, desiderio di Dio e compassione per coloro che Dio sembra abbandonare, più essa
si rivela unica. Questa unità del particolare e dell’universale è il
mistero stesso della Trinità che si rivela in Cristo, poiché l’uomo
è chiamato a divenire, nella libertà dello spirito, un esistenza
cristologica»[11].
Il Mistero è decifrato, la “realtà primordiale” è espressa
quando Cristo vive colla sua carità nell’uomo e nelle relazioni che l’uomo
costruisce con l’uomo: «se vedi la carità, vedi la Trinità».
Cristo ha trasportato nel nostro mondo il mistero del dono personale, trinitario.
Questo avvenimento che brevemente e come balbettando ho cercato di descrivere è la
Chiesa. Esiste una certa identità fra Chiesa ed agape [cfr. 20-22: praticare
l’amore … appartiene alla sua essenza tanto quanto il servizio dei sacramenti e
l’annuncio del Vangelo].
Questa visione non poteva non incontrare una questione: ma l’uomo nella sua ricerca di
“protezione della sua dignità” non ha “inventato” lo Stato? Che
ne è di questa realtà? Quale il suo senso? Ma non mi resta più il tempo
per offrire le chiavi di lettura di questa tematica ampiamente presente nella seconda parte
dell’Enciclica [cfr. soprattutto n° 28].
Mi limito ad una sola conclusione e concludo. Nella sintesi, vissuta dalle persone, di eros ed
agape risiede la forza costruttiva della società umana. Per questo motivo i cristiani
sono chiamati ad esserne luce e lievito. Gli uomini costruiscono il sociale creando strutture
di vario tipo: politiche, giuridiche, economiche ecc. La Chiesa non deve sostituire una
società ad un’altra. Ha il compito di “animarla” [in senso
etimologico-reale], personalizzandola: trasformando la società di individui in
società di persone.
Conclusione
Mi si consenta di concludere con un testo di K.Wojtyla desunto dal dramma Fratello del
nostro Dio.
Un personaggio si trova di fronte ad un quadro di Cristo Ecce homo e dice:
Sei tuttavia terribilmente diverso da Colui che sei.
Ti sei affaticato molto per ognuno di loro.
Ti sei stancato mortalmente.
Ti hanno distrutto totalmente.
Ciò si chiama Carità
Eppure sei rimasto bello,
Il più bello dei figli dell’uomo.
Una bellezza simile non si è mai ripetuta.
O, come difficile è questa bellezza, come difficile!
Tale bellezza si chiama Carità.[12]
È la bellezza del dono di sé che può anche implicare affaticarsi molto per
ognuno, stancarsi mortalmente, perfino distruggersi [«se il grano di
frumento…»].
È il bisogno di poter vedere questa bellezza il più profondo bisogno
dell’uomo di oggi: vista che «s’avvalora» mentre l’uomo guarda, e
lo muta interiormente.
L’Enciclica Deus caritas est è la risposta a questo bisogno
dell’uomo.
L’escursione cosmica in cui Dante nella sua “Divina
Commedia” vuole coinvolgere il lettore finisce davanti alla luce perenne che è Dio
stesso, davanti a quella luce che al contempo è “l'amor che move il sole e l'altre
stelle” (Par. XXXIII, v. 145). Luce e amore sono una sola cosa. Sono la primordiale
potenza creatrice che muove l'universo.
Se queste parole del Paradiso di Dante lasciano trasparire il pensiero di Aristotele, che
vedeva nell'eros la potenza che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia scorge una cosa
totalmente nuova ed inimmaginabile per il filosofo greco.
Non soltanto che la luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei
densi versi che conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da
te intelletta / e intendente te ami e arridi!” (Par., XXXIII, vv. 124-126).
In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio
trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di
Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce.
Dio, Luce infinita il cui mistero incommensurabile il filosofo greco aveva intuito, questo Dio
ha un volto umano e – possiamo aggiungere – un cuore umano.
In questa visione di Dante si mostra, da una parte, la continuità tra la fede cristiana
in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni. Al contempo,
però, appare anche la novità che supera ogni ricerca umana – la
novità che solo Dio stesso poteva rivelarci: la novità di un amore che ha spinto
Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l'intero essere umano.
L'eros di Dio non è soltanto una forza cosmica primordiale. È amore che ha creato
l'uomo e si china verso di lui, come si è chinato il Buon Samaritano verso l'uomo ferito
e derubato, giacente al margine della strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico.
La parola "amore" oggi è così sciupata, così consumata e abusata che
quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra.
Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non
possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo
splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta
via.
È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l'amore come tema della
mia prima enciclica.
Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello
che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una
“vista” che “s'avvalorava” mentre egli guardava e lo mutava
interiormente (cfr Par., XXXIII, vv. 112-114).
Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma.
Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio – in quel Dio
che ha assunto un volto umano e un cuore umano.
La fede non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una
cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita.
In un'epoca nella quale l'ostilità e l'avidità sono diventate superpotenze,
un'epoca nella quale assistiamo all'abuso della religione fino all'apoteosi dell'odio, la sola
razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio
vivente, che ci ha amati fino alla morte.
Così, in questa Enciclica, i temi “Dio”, “Cristo” e
“amore” sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana. Volevo mostrare
l'umanità della fede, di cui fa parte l'eros – il “sì”
dell'uomo alla sua corporeità creata da Dio, un “sì” che nel
matrimonio indissolubile tra uomo e donna trova la sua forma radicata nella creazione.
E lì avviene anche che l'eros si trasforma in agape – che l'amore per l'altro non
cerca più se stesso, ma diventa preoccupazione per l'altro, disposizione al sacrificio
per lui e apertura anche al dono di una nuova vita umana. L'agape cristiana, l'amore per il
prossimo nella sequela di Cristo non è qualcosa di estraneo, posto accanto o addirittura
contro l'eros; anzi, nel sacrificio che Cristo ha fatto di sé per l'uomo ha trovato una
nuova dimensione che, nella storia della dedizione caritatevole dei cristiani ai poveri e ai
sofferenti, si è sviluppata sempre di più.
Una prima lettura dell'enciclica potrebbe forse suscitare l'impressione che essa si spezzi in
due parti tra loro poco collegate: una prima parte teorica, che parla dell'essenza dell'amore,
e una seconda che tratta della carità ecclesiale, delle organizzazioni caritative.
A me però interessava proprio l'unità dei due temi che, solo se visti come
un'unica cosa, sono compresi bene.
Dapprima occorreva trattare dell'essenza dell'amore come si presenta a noi nella luce della
testimonianza biblica. Partendo dall'immagine cristiana di Dio, bisognava mostrare come
l'uomo è creato per amare e come questo amore, che inizialmente appare soprattutto come
eros tra uomo e donna, deve poi interiormente trasformarsi in agape, in dono di sé
all'altro – e ciò proprio per rispondere alla vera natura dell'eros.
Su questa base si doveva poi chiarire che l'essenza dell'amore di Dio e del prossimo descritto
nella Bibbia è il centro dell'esistenza cristiana, è il frutto della fede.
Successivamente, però, in una seconda parte bisognava evidenziare che l'atto
totalmente personale dell'agape non può mai restare una cosa solamente individuale, ma
che deve invece diventare anche un atto essenziale della Chiesa come comunità: abbisogna
cioè anche della forma istituzionale che s'esprime nell'agire comunitario della
Chiesa.
L'organizzazione ecclesiale della carità non è una forma di assistenza sociale
che s'aggiunge casualmente alla realtà della Chiesa, un'iniziativa che si potrebbe
lasciare anche ad altri. Essa fa parte invece della natura della Chiesa.
Come al Logos divino corrisponde l'annuncio umano, la parola della fede, così all'agape
che è Dio deve corrispondere l'agape della Chiesa, la sua attività caritativa.
Questa attività, oltre al primo significato molto concreto dell'aiutare il prossimo,
possiede essenzialmente anche quello del comunicare agli altri l'amore di Dio, che noi stessi
abbiamo ricevuto. Essa deve rendere in qualche modo visibile il Dio vivente. Dio e Cristo
nell'organizzazione caritativa non devono essere parole estranee; esse in realtà
indicano la fonte originaria della carità ecclesiale. La forza della Caritas dipende
dalla forza della fede di tutti i membri e collaboratori.
Lo spettacolo dell'uomo sofferente tocca il nostro cuore. Ma l'impegno caritativo ha un senso
che va ben oltre la semplice filantropia. È Dio stesso che ci spinge nel nostro intimo
ad alleviare la miseria. Così, in definitiva, è lui stesso che noi portiamo nel
mondo sofferente.
Quanto più consapevolmente e chiaramente lo portiamo come dono, tanto più
efficacemente il nostro amore cambierà il mondo e risveglierà la speranza –
una speranza che va al di là della morte e solo così è vera speranza per
l'uomo.
Care lettrici e lettori di Famiglia cristiana,
sono lieto che Famiglia Cristiana vi invii a casa il testo della mia enciclica e dia a me la
possibilità di accompagnarla con poche parole che vogliono facilitare
l’accostamento alla lettura.
All’inizio, infatti, il testo può apparire un po’ difficile e teorico.
Quando, però, ci si inoltra nella lettura risulta evidente che io ho solo voluto
rispondere a un paio di domande molto concrete per la vita cristiana.
La prima domanda è la seguente: si può davvero amare Dio? E ancora:
l’amore può essere imposto? Non è un sentimento che abbiamo o non
abbiamo?
La risposta alla prima domanda è: sì, possiamo amare Dio, dato che Egli non
è rimasto in una distanza irraggiungibile, ma è entrato ed entra nella nostra
vita. Viene verso di noi, verso ciascuno di noi, nei sacramenti attraverso i quali opera
nella nostra esistenza; con la fede della Chiesa, attraverso la quale si rivolge a noi;
facendoci incontrare uomini, che sono da lui toccati, e trasmettono la sua luce; con le
disposizioni attraverso le quali interviene nella nostra vita; con i segni della creazione, che
ci ha donato. Egli non ci ha solo offerto l’amore, bensì lo ha vissuto per primo e
bussa in tanti modi al nostro cuore per suscitare il nostro amore di risposta. L’amore
non è solo un sentimento, vi appartengono anche la volontà e
l’intelligenza. Con la sua parola, Dio si rivolge alla nostra intelligenza, alla nostra
volontà e al nostro sentimento di modo che possiamo imparare ad amarlo “con tutto
il cuore e tutta l’anima”. L’amore, infatti, non lo troviamo già
bello e pronto, ma cresce; per così dire noi possiamo impararlo lentamente in modo che
sempre più esso abbracci tutte le nostre forze e ci apra la strada per una vita
retta.
La seconda domanda è la seguente: possiamo davvero amare il “prossimo”,
che ci è estraneo o addirittura antipatico?
Sì, lo possiamo, se siamo amici di Dio. Se siamo amici di Cristo e in questo modo
ci diventa sempre più chiaro che egli ci ha amato e ci ama, benché spesso noi
distogliamo da lui il nostro sguardo e viviamo seguendo altri orientamenti. Se però la
sua amicizia diventerà, a poco a poco, per noi importante e incisiva, allora cominceremo
a voler bene a coloro ai quali lui vuole bene e che hanno bisogno del mio aiuto. Egli vuole che
noi diventiamo amici dei suoi amici e noi lo possiamo se gli siamo interiormente vicini.
Da ultimo vi è la domanda: con i suoi comandamenti e i suoi divieti la Chiesa non ci
rende amara la gioia dell’eros, dell’essere amati, che ci spinge all’altro e
vuole diventare unione?
Nell’enciclica ho cercato di dimostrare che la promessa più profonda
dell’eros può maturare solo quando non cerchiamo di afferrare la felicità
repentina. Al contrario troviamo insieme la pazienza di scoprire sempre più
l’altro nel profondo, nella totalità di corpo e anima, di modo che da ultimo la
felicità dell’altro diventi più importante della mia. Allora non si vuole
più solo prendere, ma donare e proprio in questa liberazione dall’io l’uomo
trova sé stesso e diviene colmo di gioia. Nell’enciclica parlo di un percorso
di purificazioni e maturazioni necessario perché la vera promessa dell’eros possa
adempiersi. Il linguaggio della tradizione l’ha chiamato “educazione alla
castità”, che, da ultimo, non significa altro che l’apprendimento
dell’amore intero nella pazienza della crescita e della maturazione.
* * *
Nella seconda parte si parla della carità, il servizio d’amore
comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o nell’anima e hanno
bisogno del dono dell’amore.
Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio
alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?
Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore
per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in
modo incompleto e insufficiente.
La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui
non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?
Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento
della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria.
In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo
è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa
politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo
ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune,
così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la
ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a
purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito
allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo
senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente
alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta
nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.
Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La
seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la
giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia,
l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla
giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non
c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la
testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo,
spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.
31.1.2006
[1] In Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag. 821
[2] Quando non è detto, i numeri fra parentesi rimandano al testo pontificio e ai singoli capoversi (cpv).
[3] È da leggere la lettera inviata al quotidiano IL FOGLIO in data 4 febbraio u.s. sulla educazione.
[4] Cfr. L’O.R. 23-24 gennaio 2006, pag. 5
[5] G.B. Contri, in IL FOGLIO del 4-02-2006, pag. XII.
[6] Discoso al «Cor unum».
[7] Paradiso XXX III, 112-114
[8] D. von Hildebrand¸ Essenza dell’amore, Bompiani ed., Milano 2005, pag. 735.
[9] «Gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» [S. Ireneo, adv, Haereses V, 6. A; SCh 153, pag. 74].
[10] Cfr. Contra Eunonium, GNO (ed. W. Jaeger), Berlin 1981, II, pag. 12-13.
[11] Cit. da card. T. Spidlik-M- Rupnik, Teologia pastorale. A partire dalla bellezza, Lipa, Roma 2005, pag. 155.
[12] In Tutte le opere letterarie, cit., pag. 689.