Ripresentiamo on-line, per il progetto Portaparola, l’articolo di
Manlio Simonetti, Esser donna (e vedova) da Andromaca alle diaconesse, pubblicato da
Avvenire del 14 settembre 2006. Il prof.Simonetti è stato ordinario di Storia del
cristianesimo all’Università degli Studi di Roma-La Sapienza e conduce dal 7
settembre 2006 una rubrica su Avvenire su figure cristiane del periodo patristico.
Se il mondo antico – insieme a molte culture odierne - tende a far rientrare sotto
una tutela la vedova, il mondo moderno svilisce piuttosto la figura di chi non è
più nel fiore degli anni o, comunque, non è più in compagnia di un
affetto. Si limita a riproporle nuovi affetti, a ritenerla possibile preda od a sottolinearne
l’inutilità. Non così la fede cristiana. La prospettiva aperta dalla venuta
del Cristo, se, da un lato, dona alla persona di vivere l’attesa sponsale di un nuovo
incontro nell’eternità con la persona amata, dall’altro insiste sulla
fecondità di una maternità spirituale che si apre dinanzi alla persona che non
può più dedicarsi all’affetto della persona che la morte ha portato
fisicamente lontano. Soprattutto il periodo dei Padri della Chiesa – ma poi tante volte
di nuovo la storia della santità cristiana – ha conosciuto la figura di vedove
divenute monache (vedi, ad esempio, il caso di S.Melania la giovane) o, comunque, di donne che
hanno donato nella carità, nella testimonianza cristiana e nell’annunzio del
vangelo, il tempo della vedovanza, con una straordinaria integrità di cuore. Esse hanno
fatto del tempo del loro lutto, non un tempo di angoscia, di inutilità, ma di un
cosciente dono, scoperta di una nuova chiamata di Dio. L’accettazione, e non il rifiuto,
della condizione di vedovanza è divenuto così l’occasione per un nuovo
servizio di Dio e della Chiesa. La valorizzazione cristiana della “persona”,
dell’essere persona, da un lato, e la proposta, dall’altro, della vergine e del
celibe come “amanti” di Cristo - ben diversi dalla zitella o dallo scapolo che, in
fondo, sono sempre aperti ad un eventuale amore del mondo – hanno generato una nuova
visione anche della condizione di vedovanza: non più semplicemente qualcosa da subire,
ma qualcosa da “scegliere”, in via definitiva, perché la vita torni ad
essere un dono. Ecco così che già nel Nuovo Testamento, in San Paolo, troviamo
scritto: “le vedove, quelle che lo sono veramente” (1Tm5,3), quelle che hanno
rinunciato all’idea di un nuovo matrimonio, non per impossibilità, ma per la
convinzione di un nuovo dono di cui si è divenute portatrici, di una nuova
disponibilità da offrire al Signore ed ai poveri.
Il Centro culturale Gli scritti (19/09/2006)
Il recente suicidio della vedova indiana[1], tragica conseguenza di un’atavica condizione
d’inferiorità e sudditanza, ha fortemente impressionato la nostra
sensibilità, ormai da lungo tempo adusa a considerare la condizione vedovile della donna
del tutto paritetica, quanto a diritti e doveri, alle altre sia maschili sia femminili.
Eppure, alla luce della ricerca storica il fatto, pur nel suo tragico esito, s’inserisce
in un contesto culturale del tutto tradizionale e perciò ben conosciuto. Infatti
nelle civiltà arcaiche sia primitive che di tipo superiore, data la struttura
patriarcale della società, la posizione della donna, subordinata a quella del marito,
diventa ancor più precaria a seguito di un’eventuale vedovanza.
La condizione di lutto in cui essa viene a trovarsi non solo la priva della persona preposta
a tutelarla e a prendersi cura delle sue necessità materiali, ma la rende, soprattutto,
“contagiosa” e, come tale, temuta e sfuggita, sì che la prospettiva di
accedere a nuove nozze diventa quanto mai difficile, a meno che la condizione economica non la
renda, nonostante le sue gramaglie, comunque appetibile.
Non fanno eccezione le civiltà classiche, nelle quali la posizione della vedova
è, di norma, quanto mai critica, anche se tutelata da una serie di disposizioni che, in
assenza di figli maschi adulti, la riportano sotto la tutela paterna. La vedova, infatti,
non è libera di disporre di sé.
In letteratura ricordiamo i casi di Andromaca, la moglie di Ettore, che si preoccupa
già in anticipo della sua prossima vedovanza, e di Penelope, la moglie di Ulisse,
che considerato morto il marito e ancora troppo giovane il figlio deve affrettarsi a sposarsi
nuovamente per non vedere dilapidati dai pretendenti tutti i suoi beni. Vedove padrone di
sé, in grado di esercitare potere e affermarsi nel proprio ambiente, sembrano esistere
solo nelle affabulazioni mitizzanti di donne sentite come straniere (Artemisia, Tanaquil). Sono
esempi negativi, anch’essi rientranti nella norma che considera la vedova funesta agli
altri perché già funestata dal lutto. Cornelia, la famosa madre di Tiberio e
Caio Gracco, sarà considerata da una tradizione ostile responsabile della fine
tragica dei figli, perché sarebbe stata la sua sfrenata ambizione a istillare in loro da
lei, contro il costume, personalmente educati il comportamento sovversivo che avrebbe causato
la loro rovina.
Anche presso gli ebrei la condizione vedovile poneva la donna in condizione molto
precaria, e la vedova nella Scrittura, che pure cerca di assicurarle qualche modesto diritto
per procurarle mezzi di sussistenza, è accomunata con l’orfano come oggetto della
commiserazione di tutti. Pur libera di accedere a nuove nozze, se non aveva avuto figli maschi
dal primo marito doveva sposare un fratello del marito o comunque un parente prossimo.
Il ribaltamento di tanti valori tradizionali operato dal cristianesimo a beneficio degli
elementi più deboli della società ha coinvolto anche la condizione vedovile
della donna, purché essa abbia un comportamento irreprensibile: «Onora le vedove,
quelle che sono veramente tali» prescrive l’autore della prima lettera a Timoteo
(5,3), e la comunità si prende cura di loro quando si trovano, come fin troppo spesso
accadeva, in stato di necessità. Si consiglia loro di non risposarsi e di vivere
nella continenza, ma le seconde nozze non sono impedite.
Nei primi secoli della vita della Chiesa era attivo un vero e proprio ordine delle
vedove, del quale potevano far parte vedove di non meno di sessant’anni e di
specchiata virtù e al quale erano assegnati compiti di assistenza e di educazione.
Quest’ordine nel VI secolo venne assorbito nel collegio delle diaconesse, ma è
naturale che, partendo da queste premesse, la condizione vedovile in ambiente cristiano
abbia perso per tempo ogni connotazione di inferiorità a livello sociale, e questo stato
di cose si è imposto definitivamente nella società occidentale, tanto da far
smarrire ogni ricordo della primitiva condizione di minorità.
Ecco perché episodi come quello sopra ricordato oggi ci impressionano tanto
dolorosamente: altrove la condizione della donna in generale, e della vedova in particolare,
continua a essere quella di un tempo, soggetta ancora a quelle norme tradizionali che a noi
ormai appaiono soltanto prevaricazioni intollerabili.
[1] (N.d.C) L’articolo fa riferimento ad un fatto di cronaca recente ai tempi dell’articolo, la storia di una vedova indiana che, obbligata dai familiari a sposare in seconde nozze un uomo molto più anziano di lei, aveva preferito il suicidio alle costrizioni dei vincoli imposti dalla tradizione.