L’articolo che mettiamo a disposizione on-line è stato scritto da d.Andrea Lonardo, direttore dell’Ufficio Catechistico e Servizio del Catecumenato della Diocesi di Roma per la rivista dell’Ufficio catechistico Catechisti nella città. Foglio di collegamento tra i catechisti di Roma, n.62, nov. - dic. 2006.
Il Centro culturale Gli scritti (14.11.2006)
La questione del perché oggi la fede cristiana stenta
a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente
riguarda il cristiano credente... (Fra le cause principali vedo quella) introdotta
da Nietzsche quando disse: “Il cristianesimo è sempre stato attaccato
finora in un modo sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo
come crimine capitale contro la vita, i suoi difensori avranno sempre gioco
facile. La questione della verità del cristianesimo è una cosa
del tutto secondaria finché non viene affrontata la questione del valore
della morale cristiana”. Qui abbiamo veramente a che fare, a mio parere,
con le ragioni decisive dell’abbandono del cristianesimo. Sembra che limiti
l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua
libertà come preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i
Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare
che qualcosa di simile accadde già nell’antichità quando
i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai
cristiani: tornate alla nostra religione: la nostra religione è gioiosa,
abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è
stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo
persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi,
e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla
via della vera grandezza.[1]
Così Benedetto XVI scriveva nel 2004 e così riprendeva il tema
nell’enciclica Deus Caritas est:
Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno
all'eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in
vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa:
la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa
più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là
dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità
che ci fa pregustare qualcosa del Divino?[2]
Ecco, allora, il tema della gioia: la gioia della fede. La convinzione che la
gioia è possibile e che ha un motivo - ha origine nell’annunzio
del vangelo – è la prima sottolineatura che il Papa ha voluto indicare
nel chiedere a tutta la Diocesi di rivolgere l’attenzione al mondo degli
adolescenti e dei giovani. Rivolgersi alle nuove generazioni vuol dire, innanzitutto,
dialogare sulla gioia, significa far risuonare nuovamente la qualità
di “lieto annunzio” della presenza in mezzo a noi del Signore Gesù.
Subito appare evidente come questa gioia non sia legata a cammini emozionali,
a risposte “effimere”, sempre presenti e sempre deludenti, ma nemmeno
a metodologie e programmi che, solo a torto, possono essere presentati come
soluzioni magiche di problemi. Questa gioia sollecita, invece, in primo luogo
il contenuto della nostra fede.
Il nostro cardinal vicario, S.Em.il card.Camillo Ruini, in maniera splendida,
così sintetizzava nel suo discorso conclusivo al Convegno di Verona:
L’iniziazione cristiana si presenta oggi alle nostre Chiese come una
sfida cruciale e come un grande cantiere aperto. La tensione missionaria rappresenta
il principale criterio intorno al quale configurare e rinnovare progressivamente
la vita delle nostre comunità. Per essere pienamente missionaria, questa
attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso
orientamento dinamico: non basta cioè “attendere” la gente,
ma occorre “andare” a loro e soprattutto “entrare” nella
loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui abitano, i luoghi in
cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l’atmosfera culturale che respirano.
È questo il senso e il nocciolo di quella “conversione pastorale”
di cui sentiamo così diffusa l’esigenza.[3]
La missionarietà, l’amore all’uomo di oggi – e specificamente
alla nuova generazione di giovani – non vuol dire semplicemente l’andare
“fisicamente” fuori dalle parrocchie. Vuol dire, ben più
profondamente, “entrare nei linguaggi che gli uomini adoperano, nell’atmosfera
culturale che respirano”. Si noti bene: non come tecnica o tattica per
ottenere l’efficacia! La centralità del contenuto della fede –
che da anni ci è indicata dai Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
– vuol dire molto di più! Indicare la gioia della fede vuol dire
mostrare perché la fede sia motivo di felicità proprio in quelli
che sono gli ambiti essenziali della nostra vita – e della vita del giovane.
Ecco i 5 temi di Verona (affettività, festa e lavoro, fragilità,
tradizione e trasmissione della cultura, cittadinanza), perché è
in queste dimensioni che consiste la ricchezza della nostra vita, la vita della
persona.
Parlare della gioia vuol dire così saper indicare perché l’affettività
umana (I ambito del Convegno di Verona), l’essere uomo o donna del giovane,
abbia bisogno del vangelo per “essere felice”.
Perché il senso della festa (II ambito) debba radicarsi non nell’effimero,
ma nel significato, per dare forza all’impegno quotidiano dello studio
e del lavoro.
Perché e come la fragilità (III ambito) possa diventare occasione
di salvezza e non di disperazione.
Perché e come il vangelo stesso si faccia cultura e tradizione (IV ambito)al
punto da essere l’anima civile di un popolo, quello italiano, capace di
creatività, di espressione, che manifestino la fecondità di quella
storia.
Perché la stessa cittadinanza (V ambito) nulla abbia da temere, ma anzi
tutto da guadagnare, dall’incontro con il vangelo e la storia della chiesa.
La catechesi sa bene che ogni volta che, nel passato e nel presente, l’unico
contenuto della fede, l’annunzio del Signore risorto, è stato percepito
nella sua significatività per l’uomo, l’adesione al vangelo
è nata. Ed è nata la fede di una nuova generazione e dei suoi
giovani. Questa consapevolezza viene prima di tutte le metodologie e di tutte
le tappe catechetiche. E’ il motivo che da senso al nostro camminare.
L’iniziare alla fede cristiana vuol dire così, in ogni tappa del
cammino catechetico, non semplicemente pre-supporre la fede, ma proporla continuamente,
illuminando la vita con i motivi della fede e con la presentazione della sua
“significatività” in quelle che sono le dimensioni cruciali,
decisive – e perciò belle, appassionanti – dell’esistenza
umana.
“Proporre la fede e non presupporla” sono le parole con le quali
l’allora cardinal Joseph Ratzinger iniziò, nella nostra cattedrale,
la presentazione alla Diocesi di Roma nel 1993 nel corso del Sinodo Romano,
del Catechismo della Chiesa Cattolica. Raccontò allora di un episodio
della sua vita personale in relazione ad un biglietto che, nei primi anni successivi
al Concilio, il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar gli aveva inviato:
Aggiunse una frase pregante che per me divenne indimenticabile: non presupporre,
ma proporre la fede. Fu un imperativo che mi colpì. L’ampio spaziare
in nuovi campi era buono e necessario, ma solo a partire dal presupposto che
esso stesso traesse origine dalla luce centrale della fede e da questa luce
fosse sostenuto. La fede non ha permanenza in se stessa. Non la si può
mai semplicemente presupporre come una cosa in sé conclusa. Deve continuamente
essere rivissuta. E poiché è un atto che abbraccia tutte le dimensioni
della nostra esistenza, deve essere sempre ripensata e sempre di nuovo testimoniata.
Perciò i grandi temi della fede – Dio, Cristo, Spirito Santo, Grazia
e peccato, Sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna – non sono mai temi
vecchi. Sono sempre i temi che ci colpiscono più nel profondo. La fede
non può essere pre-supposta, essa deve essere pro-posta.[4]
Dinanzi alla prospettiva di annunciare la gioia della fede ai giovani la Chiesa
di Roma si trova così dinanzi al compito sempre antico e sempre nuovo
di proporla alla persona umana che Dio ha voluto sempre in crescita ed in cammino,
dal suo essere bambino, all’adolescenza, alla giovinezza, alla età
adulta, alla vecchiaia, alla vita eterna.
Ed è proprio il non dimenticare mai le cinque dimensioni prospettateci da Verona
la via per avere, in definitiva, dinanzi a noi la persona stessa. Così
ancora il card.Ruini sintetizzava il passaggio dal Convegno di Palermo a quello
di Verona, mostrando il cammino che la Chiesa italiana ha fatto nell’ultimo
decennio:
Vorrei confermare che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque
ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza
umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della
sua coscienza, ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale
della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si
tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente
ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità
della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della
persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso,
tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento
della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità.[5]
L’Ufficio Catechistico e Servizio per il Catecumenato, nell’incoraggiare
tutti i catechisti e nell’invocarne di nuovi dalla bontà del Signore,
vuole lavorare in questo orizzonte. Dagli anni di riflessione sulla famiglia
siamo continuamente invitati a pensare la catechesi come incontro con i genitori
dei nostri bambini ed adolescenti. Dagli anni che seguiranno saremo continuamente
richiamati a pensare non solo al “cosiddetto” post-cresima, ma,
ben più profondamente alla vita dei giovani delle nuove generazioni.
Tutto questo non ci deve portare a trascurare l’attenzione propriamente
catechetica degli anni delle elementari e delle medie inferiori poiché,
anzi, sempre più le scienze umane moderne ci confermano nella consapevolezza
che gran parte dell’identità personale viene maturata nei primissimi
anni di vita (un recente romanzo, capovolgendo un antico assioma, recitava innovativamente:
“Non è mai troppo presto per incominciare!”). Ci deve piuttosto
rendere consapevoli di un orizzonte più ampio, poiché è
la vita della persona che abbiamo a cuore, in tutta la sua crescita, e non solo
un frammento di essa.
[1] Dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger, in Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004.
[2] Deus Caritas est, 3.
[3] Discorso conclusivo al Convegno di Verona, 20 ottobre 2006, 4-5.
[4] Relazione dal titolo Che cosa crede la Chiesa? del 18 gennaio 1993. La trascrizione integrale del testo è disponibile nella sezione Approfondimenti di questo sito, oltre che nei Quaderni del Sinodo Romano (Quaderni Nuova Serie 2, La fede della Chiesa di Roma, Vicariato di Roma, 1993, pagg.67-73).
[5] Discorso conclusivo al Convegno di Verona, 20 ottobre 2006, 4.