Il presente testo sulla dottrina sociale della Chiesa che mettiamo a disposizione on-line è la Tesi di Licenza di Maurizio Mirilli, difesa nell’anno 2005-2006 presso l’Accademia Alfonsiana della Pontificia Università Lateranense, Istituto Superiore di Teologia Morale, Moderatore il prof. Mauro Cozzoli.
Il Centro culturale Gli scritti (15.12.2006)
La moderna ristrutturazione dei rapporti tra Stato e società, le richieste sempre
più forti di autonomie e le riforme in generale delle istituzioni richiedono un’analisi attenta di due
importanti principi regolatori dell’ordine sociale: il principio di solidarietà ed il principio di
sussidiarietà. Oggi tali principi vengono spesso fraintesi o deformati a causa di visioni parziali della
socialità e dell’uomo. La solidarietà viene molte volte scambiata per volontariato o per
assistenzialismo. Non di rado la sussidiarietà viene invocata semplicemente per risparmiare soldi pubblici o
per avallare tesi secezionistiche. L’esame della dottrina sociale della Chiesa ci permetterà di
riprendere i concetti originari e autentici di solidarietà e di sussidiarietà. Cercheremo di capire, a
partire dall’analisi attenta delle principali encicliche sociali dei pontefici, quanto siano importanti questi
due principi per una sana costruzione dell’impalcatura sociale. Nella dottrina sociale della Chiesa, essi non
sono trattati in modo sistematico, ma vengono applicati continuamente all’interno di problematiche particolari
dalle quali si possono trarre spunti di carattere generale.
La tesi che vogliamo dimostrare in questo nostro lavoro è la seguente: i principi della solidarietà e
della sussidiarietà sono reciprocamente interagenti al punto tale che l’uno non può stare senza
l’altro. Per raggiungere questo nostro obiettivo suddivideremo il lavoro in tre capitoli: nel primo
effettueremo un’analisi storica del pensiero sociale cristiano, soprattutto a partire dalle encicliche sociali
dei pontefici, per intercettare la presenza dei due principi oggetto di studio; nel secondo cercheremo di trovare i
loro fondamenti biblici ed antropologici; infine nel terzo capitolo ci soffermeremo sulle loro applicazioni al mondo
del lavoro e della famiglia nell’attuale situazione sociale italiana.
Solidarietà e sussidiarietà sono due dei principi basilari su cui poggia l’impalcatura della dottrina sociale della Chiesa. Questi due principi sono stati affermati nella Chiesa da sempre, anche se in modo implicito, in quanto facenti parte della visione antropologica cristiana derivante dalla Rivelazione. La loro esplicita formulazione la ritroviamo all’interno del corpus sociale definitosi a partire dal 1891, anno in cui Leone XIII inizia, con l’enciclica Rerum novarum, la sistematizzazione del pensiero sociale cristiano.
Il termine solidarietà è molto diffuso ma con un significato spesso vago e superficiale. Deriva dal diritto romano, in cui era prevista una “obbligazione solidale” (in solidum) che vincolava più soggetti co-obbligati a rispondere ciascuno per l’intero, e non solo per la propria parte, in caso di necessità[1]. Nel corso della storia, notevole è stato il contributo della dottrina sociale della Chiesa per una definizione della solidarietà, ottenuta a partire dal dialogo tra la sua elaborazione in chiave non credente e quella costituitasi nel contesto cristiano.
La riflessione sulla solidarietà in ambiente francese ebbe la sua massima espansione alla
fine del XIX secolo, con l’elaborazione di un sistema sociale denominato “solidarismo”. Un primo
contributo venne dal filosofo politico P. Leroux (1797-1871) il quale propose un sistema, distante tanto dal
liberismo quanto dal socialismo, in grado di riscoprire il legame profondo che connette l’intera umanità
e che permette alla persona di nascere e vivere in società. Per Leroux la solidarietà sarebbe la
risposta al conflitto insanabile tra le ragioni della libertà individuale e quelle della società. Un
impulso pratico e decisivo venne dato dal politico Léon Bourgeois (1851-1925) il cui pensiero distinse la
solidarietà-fatto dalla solidarietà-dovere. Con la prima identifica “l’originaria
interdipendenza tra tutti gli uomini, in quanto legame naturale e necessario. La seconda scaturisce dalla rilettura
in prospettiva etico-sociale di quel vincolo, mostrando l’esigenza…di dover agire ciascuno a favore di
tutti gli altri, in forza del comune debito accumulato verso la società, in particolare verso le passate
generazioni”[2].
Negli stessi anni nell’area tedesca il filosofo e teologo H. Pesch (1854-1926) fondò un’altra
corrente di pensiero, denominata “solidarismo cristiano”. Tale corrente, sviluppatasi sino alla
metà del XX secolo ad opera di O. von Nell-Breuning (1890-1991) e G. Gundlach (1892-1963), ben radicata nella
tradizione cristiana, aveva l’obiettivo non solo di essere equidistante dal collettivismo totalitario e dal
liberalismo individualista ma anche di correggerli e di superarli. Il cuore del pensiero è rappresentato dalla
centralità della persona umana all’interno della sua relazione con la società.
Quest’ultima, fondata sulla persona e finalizzata ad essa, dovrebbe strutturarsi facendo riferimento non solo
al principio di solidarietà ma anche a quello di sussidiarietà in quanto principi speculari e
complementari che tengono conto delle due caratteristiche personali fondamentali: la socialità e la
individualità. Sviluppando la prima in termini di solidarietà si persegue il bene di tutti, mentre
valorizzando la seconda nell’ottica della sussidiarietà la società è orientata al bene di
ciascuno.
Il solidarismo cristiano fu criticato da alcuni domenicani appartenenti alla scuola della totalità, la quale
teorizzava un bene comune da realizzarsi finalizzando ogni parte al tutto sociale. Data la non corretta e rischiosa
lettura del principio tommasiano in chiave totalitarista, fu il solidarismo cristiano a dare il contributo maggiore
all’elaborazione del pensiero sociale della Chiesa. Non a caso Nell-Breuning e Gundlach furono stretti
collaboratori di Pio XI e Pio XII[3].
A partire dal 1891, possiamo distinguere due periodi nei quali il principio di solidarietà è stato gradualmente elaborato. Nel primo periodo la presenza del principio è implicita e non fa ancora uso del termine solidarietà; nel secondo il pensiero è più elaborato e si fa riferimento esplicito ad una società da orientarsi in senso solidaristico.
Sino a Pio XI, l’insegnamento sociale della Chiesa ha utilizzato raramente il termine
solidarietà, preferendo ad esso espressioni equivalenti, in quanto il suo uso in ambiente laicista era spesso
in contrapposizione al termine carità, fondamentale per il cristianesimo. Nonostante ciò Leone XIII in
varie occasioni[4], di fronte ad una società
liberal-borghese caratterizzata dal dominio dei ceti economicamente e socialmente più potenti e dai conflitti
della questione operaia, fece implicitamente riferimento alla solidarietà, sottolineando il legame fraterno e
reciproco esistente tra tutti gli uomini. Nella Rerum novarum del 1891 troviamo la necessità di una
saggia condivisione dei beni della terra[5], pur senza
negare il diritto alla proprietà privata, di uno spirito di fratellanza tra tutte le classi
sociali[6], in virtù del naturale e originario
vincolo umano, di un associazionismo[7] capace
di tutelare gli interessi dei lavoratori, soprattutto dei più deboli, in armonia con quelli legittimi dei
capitalisti[8].
Di fronte al collettivismo socialista, che attribuiva ogni libertà di proprietà e di iniziativa allo
Stato, la Rerum Novarum propose una solidarietà diffusa, lunga,organica, ed
economica[9]: diffusa, da un lato
attraverso l’associazionismo, in grado di tutelare i diritti dei lavoratori e di creare una rete di protezione
mutualistica ed assicurativa, e dall’altro favorendo l’estensione della proprietà privata
possibilmente a tutti i cittadini[10]; lunga,
da attuarsi mediante l’intervento legislativo dello Stato a tutela della sicurezza e della dignità del
lavoratore; organica, tale da permettere il dialogo e la collaborazione tra tutte le classi
sociali[11]; economica, capace di integrare
il capitale con il lavoro e di attuare la giustizia distributiva, attraverso una determinazione contrattuale del
salario che tenga presente dell’effettivo contributo del lavoratore alla crescita economica[12].
In continuità con Leone XIII, nel 1931 Pio XI propose nella Quadragesimo anno la nascita di un ordine
sociale, fondato oltre che sulla solidarietà anche sulla sussidiarietà, capace di armonizzare le
esigenze delle classi, del capitale, della proprietà e del lavoro. Un ordine dunque in grado di unire tutte le
componenti della società, valorizzando la persona ed evitando la massificazione tipica delle ideologie
totalitarie dominanti in quegli anni[13].
Nella Quadragesimo anno dunque viene sottolineata in modo più compiuto rispetto alla Rerum Novarum la
dimensione sociale, economica e politica della solidarietà[14].
Dimensione sociale: Pio XI propose, all’interno dell’ordine sociale, un’organizzazione
corporativa delle professioni, non strumentale al potere centrale, come nel caso del corporativismo statale tipico
del fascismo, ma libera ed autonoma nel rispetto del principio di sussidiarietà. Tale organizzazione aveva
come obiettivi: la possibilità per ognuno di partecipare alla determinazione e realizzazione delle scelte
generali; l’urgenza di risolvere i conflitti tra le parti sociali; il ristabilimento dell’equilibrio tra
individuo e Stato teso ad armonizzare l’interesse comune di una particolare professione con il bene comune
nazionale.
Dimensione economica e politica: il benessere economico di un Paese, frutto della collaborazione tra capitale
e lavoro, si ottiene attraverso il contributo di tutti i soggetti della produzione: portatori di capitale, datori di
lavoro, lavoratori dipendenti e autonomi. Allo stesso modo tutti costoro devono partecipare in modo equo alla
distribuzione della ricchezza nazionale. “In altri termini, la QA, alla solidarietà
ascendente[15] che contribuisce ad attuare il bene
comune e che è regolata dalla giustizia generale o legale, vuole che segua la solidarietà
discendente[16], che è regolata dalla
giustizia distributiva”[17]. Pio XI fa inoltre
riferimento alla giustizia sociale[18], alla quale
spetta il compito di integrare in modo equilibrato la giustizia legale con quella distributiva. Ad esempio è
importante per il papa che lo Stato, ispirato dalla giustizia sociale, intervenga, a fianco dei datori di lavoro e
dei lavoratori, per finanziare la previdenza.
Alla solidarietà fece sempre più esplicito riferimento papa Pio XII, già a partire dalla sua
prima enciclica[19]. La solidarietà, posta a
fondamento dell’ordine sociale, si basa sulla comunanza di tutti gli uomini “quanto a origine, natura,
fine prossimo, abitazione, fine soprannaturale e mezzi per conseguire tale fine”[20]. Siamo chiaramente all’interno di una impostazione personalista dove la
persona è soggetto, fondamento e fine di tutta la vita sociale, in vista del bene comune[21]. A quest’ultimo si può giungere nella misura in
cui si è in grado di ottenere un giusto equilibrio tra unitarietà e articolazione della società,
a livello nazionale, e tra esigenze del singolo Stato e della comunità delle nazioni, a livello
internazionale. Con Pio XII la solidarietà è “ormai definita in quanto legge o principio di
ordine morale naturale, come tale universalmente normativo dei rapporti umani, che avrebbe dovuto tradursi sia in
relazioni di reciproco aiuto, fiducia e collaborazione in ogni ambito della vita sociale sia, soprattutto in forme
istituzionali, in grado di ridisegnare il quadro giuridico, politico ed economico esistente”[22].
Durante la stagione conciliare, in un periodo di grande riflessione, papa Giovanni XXIII parla
della solidarietà soprattutto in riferimento alla questione internazionale di natura economico-sociale. Nella
Pacem in terris afferma che la solidarietà “operante”, insieme con la verità, la
giustizia e la libertà, è alla base di ogni edificazione della pace a livello
universale[23]. Solidarietà vuol dire
sviluppo dei più sfortunati sulla terra e dunque nascita di una comunità politica di statura
mondiale che possa favorire tale sviluppo. Se la carità dice riferimento alle relazioni interpersonali, la
solidarietà operante tra le comunità politiche dovrebbe regolare le relazioni
internazionali[24].
Nel suo magistero sociale Giovanni XXIII interpreta dunque la solidarietà all’interno di un tessuto
sociale ormai globalizzato e complesso da gestire. Possiamo parlare di una complessificazione del principio di
solidarietà a causa della moltiplicazione delle reti relazionali nella convivenza sociale, attraverso le
molteplici forme associative sia a livello nazionale che internazionale. In una tale complessità è
chiamata in causa innanzitutto la comunità politica mondiale, la quale è in grado ed ha il dovere di
attivare strutture più universali e capaci di agevolare il superamento degli squilibri ad ogni livello.
Si legge nella Mater et magistra: “La solidarietà che lega tutti gli esseri umani e li fa membri
di un’unica famiglia impone alle comunità politiche, che dispongono di mezzi di sussistenza ad
esuberanza, il dovere di non restare indifferenti di fronte alle comunità politiche i cui membri si dibattono
nelle difficoltà dell’indigenza, della miseria e della fame, e non godono dei diritti elementari di
persona. Tanto più che, data la interdipendenza sempre maggiore tra i popoli, non è possibile che tra
essi regni una pace duratura e feconda, quando sia troppo accentuato lo squilibrio nelle loro condizioni
economico-sociali”[25].
Con la solidarietà della comunità politica, però, deve sempre intrecciarsi quella dei privati,
dei gruppi intermedi e dei singoli popoli, i quali, secondo il principio di sussidiarietà, sono i primi
responsabili del proprio sviluppo e progresso[26].
“Il pontefice condanna qualsiasi visione totalitaria e totalizzante della solidarietà, sottolineando
come lo Stato [o la comunità politica internazionale], pur ricorrendo a mezzi di grande impatto…per
realizzare una società più equa, non sarà mai proporzionato e competente per rispondere
adeguatamente a tutti i bisogni delle persone e delle altre società”[27]. In altri termini bisogna far si che tutti gli attori in gioco possano
integrarsi in modo sussidiario così da permettere una effettiva autonomia alle varie sfere della
solidarietà.
In questo periodo di riflessione, conseguente ai grandi mutamenti in atto nella società, il Concilio Vaticano
II, con la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, evidenzia in modo
ancora più esplicito la grande contraddizione esistente in un mondo sempre più ricco e libero in alcune
zone, e sempre più povero e tormentato da varie forme di schiavitù in altre. In tale situazione, si
sottolinea che gli uomini avvertono l’urgenza della solidarietà in vista di una sostanziale unità
nel mondo, da realizzare attraverso la mutua interdipendenza dei singoli e delle nazioni[28]. L’urgenza della solidarietà deriva, per i
padri conciliari, dalla persuasione che all’umanità compete “instaurare un ordine politico,
sociale ed economico che sempre più e meglio serva l’uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e
sviluppare la propria dignità…Per la prima volta nella storia umana, tutti i popoli
sono…persuasi che realmente i benefici della civiltà possono e devono estendersi a
tutti”[29].
Nel periodo post-conciliare con la Populorum progressio, Paolo VI coniuga alla solidarietà lo sviluppo:
lo sviluppo integrale dell’uomo[30] e lo
sviluppo solidale dell’umanità[31].
Come dire che per poter andare incontro in modo solidale ai bisogni dell’umanità, è necessario
soddisfare i bisogni dell’uomo considerato nella sua interezza e viceversa. Il papa che ha portato a compimento
il Concilio sottolinea come la solidarietà sia un’esigenza intrinseca dell’umanità:
“Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi
verso tutti”[32]. Tutti siamo reciprocamente
debitori e ciò è sempre più reso evidente dall’oggettiva interdipendenza tra i popoli che
ci sprona ad una solidarietà universale.
Anche in Octogesima adveniens Paolo VI parla di solidarietà in termini di azione solidale, impegno,
partecipazione, responsabilità comune, in vista di una risposta ai problemi del mondo contemporaneo. Occorre
dunque “impegnarsi e prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute”[33].
Con Giovanni Paolo II la riflessione sulla solidarietà raggiunge un notevole sviluppo, al punto tale da
ricorrere ad essa migliaia di volte nel suo insegnamento sociale.
Nella Redemptor hominis parla della solidarietà come di quel principio a favore della dignità
dell’uomo che “deve ispirare la ricerca efficace di istituzioni e di meccanismi
appropriati”[34].
Riguardo al mondo del lavoro in Laborem exercens la solidarietà viene presentata come una
necessità, soprattutto nelle situazioni di maggior degradazione sociale[35]. Giovanni Paolo II la affronta secondo alcuni in modo poco aperto alle esigenze
dell’economia liberale moderna. In realtà il pontefice con parole coraggiose e profetiche afferma che
uno Stato democratico e sociale deve intervenire in modo solidale quando si è di fronte a problemi gravi come
quello della disoccupazione, perseguendo l’obiettivo del lavoro per tutti. La solidarietà statale nei
confronti dei problemi del lavoro “deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione
sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di
fame”[36].
Nella Sollicitudo rei socialis viene data una definizione della solidarietà prevalentemente morale,
facendo emergere il suo ruolo di virtù etico-sociale: “La solidarietà non è un sentimento
di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario,
è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di
ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”[37]. Ogni persona o popolo appartiene all’umanità ma non la possiede in
pienezza. Da qui la necessità della collaborazione perché si diviene più umani solo grazie agli
altri, per cui dalla loro crescita materiale e spirituale dipende anche la nostra[38].
In Centesimus annus, la solidarietà è presentata chiaramente, in modo complementare alla
sussidiarietà, come principio che invoca il diretto intervento dello Stato nelle questioni sociali. La
novità di quest’enciclica “consiste nell’interpretare la solidarietà come impegno di
creare le condizioni necessarie perché tutti i popoli possano accedere ai beni indispensabili al loro
compimento globale”[39]. In tal modo la
solidarietà è perfettamente integrata con la sussidiarietà in quanto viene rispettata
l’autonomia e la libertà d’iniziativa delle persone, dei gruppi intermedi e degli Stati.
Da un’attenta analisi delle varie encicliche sociali si può dedurre che la
solidarietà è innanzitutto una virtù, un atteggiamento costitutivo della persona che indirizza
la propria libertà al bene dell’altro, in particolare di colui che si trova in uno stato di bisogno. La
solidarietà ha sempre il suo soggetto originario nelle persone concrete e non può mai essere
identificata con le strutture che la organizzano e la attuano. La solidarietà ha le sue radici
nell’essere etico dell’uomo, il quale di fronte all’indigenza di un suo simile cerca di porre
rimedio attingendo alla sua sovrabbondanza.
La solidarietà, che ha come fine il bene della persona, si esplicita nel perseguire diversi beni particolari.
Per questo il soggetto, che è sempre la persona, si attiva per costituire dei gruppi specializzati nei vari
campi della vita, da quello familiare a quello politico, economico, sociale e religioso. L’insegnamento sociale
della Chiesa afferma che la realizzazione dei diversi beni è in stretta relazione con la concezione che si ha
dell’uomo, della società e del suo fine ultimo. Tale diversità implica che i vari gruppi nel
perseguire il proprio fine particolare tengano conto degli altri fini particolari e, soprattutto del bene comune
generale. Esso consiste in “quell’insieme di condizioni che consentono a tutte le società minori
di trovare l’ambiente adatto per il loro sviluppo globale”[40].
La solidarietà, dal momento che comporta la responsabilità verso se stessi e verso tutti, deve essere
anche efficiente e strettamente connessa con la libertà e la giustizia sociale. E’ su questo terreno che
la solidarietà si incontra inevitabilmente con un’altro principio cardine dell’insegnamento
sociale della Chiesa, la sussidiarietà.
II principio di sussidiarietà è veramente una delle assi portanti
dell’insegnamento sociale della Chiesa ed anche uno dei principi più fecondi, maggiormente in grado,
cioè, di fornirci un orientamento nella soluzione dei problemi sempre nuovi che la storia ci pone. Ma che cosa
significa questo principio? Cominciamo col dire che il suo nome deriva dalla parola latina subsidium che vuol
dire aiuto. Esso quindi significa una cosa molto semplice in apparenza, ma assai ricca in realtà, ossia che le
varie istituzioni sociali devono aiutare la persona, non sostituirsi ad essa nello svolgimento delle sue
attività. Quando la persona può fare da sola, di sua iniziativa, con le sue forze, deve essere lasciata
fare, le istituzioni sociali non devono intervenire se non per aiutarla, appunto, a svolgere nel miglior modo
possibile le sue funzioni. Nei casi poi nei quali la persona non sia in grado di svolgere delle funzioni che le
spetterebbero - per carenze psicologiche, per povertà economica, per disagio sociale, per ignoranza o altro -
la società dovrà intervenire e magari sostituirsi temporaneamente ad essa, ma solo temporaneamente,
appunto, con spirito di supplenza, e facendo il possibile perché la persona recuperi le capacità
originarie e ritorni ad essere in grado di fare da sola.
Le istituzioni sociali, come è noto, sono molte. Il principio di sussidiarietà sostiene che quelle
più vicine alla persona, cioè quelle “inferiori” di livello sociale, devono essere aiutate
da quelle “superiori”, più lontane dalla persona, a svolgere il loro compito nel modo migliore
senza sostituirsi ad esse. La famiglia, che è la prima società naturale, le associazioni di cittadini,
i gruppi religiosi o culturali, le amministrative locali, le associazioni economiche, imprenditoriali, sindacali,
politiche eccetera, devono coordinarsi in modo che l'inferiore sia aiutata a svolgere le sue funzioni in autonomia e
responsabilità. Questo perché, come vedremo subito, principio, soggetto e fine della società
è la persona e quindi devono essere valorizzate e non eliminate le società intermedie e naturali che in
quanto sono più vicine alla persona sono anche "più umanizzanti", meno anonime o burocratiche,
valorizzano di più l'appartenenza e la partecipazione. E' infatti in questa realtà, prima che in quelle
più vaste dello Stato o della comunità internazionale, che avviene la socializzazione della
persona.
Il principio di sussidiarietà è una novità del XX secolo per l’insegnamento tradizionale della Chiesa in materia sociale. Tale novità riguarda però la sua esplicita formulazione, resa necessaria dagli sviluppi della società moderna, mentre il suo contenuto è gia presente, anche se in modo implicito, nel pensiero sociale di Tommaso d’Aquino[41]. Nella Rerum novarum di Leone XIII il principio di sussidiarietà inizia a farsi strada in modo più chiaro. Numerosi sono, infatti, i passi in cui lo Stato è chiamato a rispettare l’iniziativa privata, l’autonomia della famiglia e soprattutto dei sindacati, limitandosi “ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio”[42].
Il principio di sussidiarietà viene per la prima volta proposto con una formulazione
esplicita nel magistero della Chiesa con l’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI. “Il Pontefice constata,
innanzitutto, come, a causa dei mutamenti intervenuti nella società moderna, molte iniziative possono ormai
essere realizzate solo ad opera di quelle che definisce come grandi associazioni, vale a dire, in pratica, dallo
Stato e dagli enti pubblici”[43]. Pio XI
afferma che in questa nuova situazione sociale deve in ogni caso “restare saldo il principio importantissimo
nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere
con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere
a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può
fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società;
perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare
in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle…Perciò
è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il
disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta;
e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a
lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di
incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità…Quanto più perfettamente
sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione
suppletiva dell’attività sociale, tanto più forte riuscirà l’autorità e la
potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello Stato
stesso”[44].
La novità all’interno del Magistero costituita da questa esplicita enunciazione del principio è
dovuta in gran parte all’influsso di alcune dottrine circolanti in ambiente tedesco, precedentemente evocato in
riferimento al solidarismo cristiano, e risalenti a G. Gundlach, in primo luogo, e a O. von Nell-Breuning, il cui
contributo nell’estensione materiale dell’enciclica viene considerato determinante[45].
Se l’esplicita enunciazione del principio costituisce certamente una novità, bisogna dire però
che “la dottrina così formulata viene considerata come già implicita nell’insegnamento
tradizionale della Chiesa in materia sociale, in quanto, a giudizio di attenti studiosi, si limita a riproporre un
principio di antichissima sapienza umana, fondato nello stesso diritto divino naturale”[46]. Già Tommaso d’Aquino considerava un pericolo
l’imposizione di una eccessiva uniformità in una repubblica composta da diverse parti. Il dottore
angelico aveva elaborato una concezione di giustizia sociale capace di sintetizzare la solidarietà con la
libertà di iniziativa e quindi con l’autonomia delle società minori e dei singoli. Pio XI
rilanciando questa impostazione formula il principio di sussidiarietà col fine di evitare i pericoli di una
solidarietà collettivistica, totalitaria ed autoritaria. In definitiva, per la Quadragesimo anno, la
sussidiarietà “dice come deve realizzarsi la solidarietà tra le varie società in funzione
del bene comune e, ultimamente, della promozione delle persone”[47].
I successori di Pio XI sottolineano ancora l’importanza del principio riproponendolo in varie occasioni ma
senza nuovi contributi sul piano della definizione teorica. Pio XII continua a riconoscerne “la validità
per la vita sociale in tutti i suoi gradi”[48]. Egli afferma che il compito di creare un ordine sociale non conferisce allo Stato
il diritto di intervenire in modo illimitato ed in ogni sfera della società. Riguardo al lavoro, ad esempio,
il pontefice ricorda che esso è atto della persona e che dunque il dovere e il diritto di organizzarlo
“appartengono innanzitutto agli immediati interessati: datori di lavoro e operai”[49]. Pio XII ha anche il merito di aver sottolineato la
dimensione giuridica della sussidiarietà. Per il Papa il principio ha bisogno non solo di essere riconosciuto
sul piano etico, ma necessita di essere tutelato e promosso sul piano storico all’interno degli ordinamenti
giuridici di ogni singolo Paese.
Giovanni XXIII, in Mater et Magistra del 15 maggio 1961, partendo dagli insegnamenti della Quadragesimo
anno, propone nuove indicazioni sulle possibili e concrete applicazioni della sussidiarietà, specie in
materia economica: “La presenza dello Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per
ridurre sempre più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi
per garantire a quella sfera la maggiore ampiezza possibile… il che implica che nei sistemi economici sia
consentito e facilitato il libero svolgimento delle attività produttive”[50]. In Mater et Magistra, appare per la prima volta il termine
sussidiarietà in riferimento al principio già formulato dai suoi predecessori. Giovanni XXIII, in modo
ancora più esplicito, afferma che l’azione dei poteri pubblici “che ha carattere di orientamento,
di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione deve ispirarsi al “principio di
sussidiarietà” formulato da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno”[51].
In Pacem in Terris dell’11 aprile 1963, Giovanni XXIII applica il principio in un contesto sociale ormai
mondializzato e quindi nel campo della cooperazione internazionale afferma: “Come i rapporti tra individui,
famiglie, corpi intermedi, e i poteri pubblici delle rispettive comunità politiche, nell’intervento
delle medesime, vanno regolati secondo il principio di sussidiarietà, così nella luce dello stesso
principio vanno regolati pure i rapporti tra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri
pubblici della comunità mondiale”[52].
Nei documenti del Concilio Vaticano II il principio di sussidiarietà viene richiamato
espressamente solo tre volte, in riferimento all’educazione, sia familiare che scolastica, e alla cooperazione
internazionale. Nella Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimus educationis i padri conciliari
affermano che “i genitori, avendo il dovere e il diritto primario e irrinunciabile di educare i figli, debbono
godere di una reale libertà nella scelta della scuola…Lo Stato stesso dunque deve…promuovere
tutto l’ordinamento scolastico, tenendo presente il principio della sussidiarietà”[53]. Riguardo alla cooperazione, nella costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo Gaudium et spes, i padri invitano la comunità internazionale a coordinare e a
stimolare lo sviluppo dei Paesi più deboli coniugando solidarietà e sussidiarietà: “salvo
il principio di sussidiarietà, ad essa spetta anche di regolare i rapporti economici mondiali secondo gli
imperativi della giustizia”[54].
Da una lettura attenta dei documenti conciliari appare chiaro, però, che, oltre ai passi citati, sono molti
gli insegnamenti ispirati alla sussidiarietà. Ad esempio, nella costituzione Gaudium et Spes è
forte l’esortazione agli uomini di governo a non impedire ai singoli come ai gruppi di partecipare alla vita
sociale: “si guardino i governanti dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o culturali, i corpi o
istituti intermedi, né li privino della loro legittima ed efficace azione, che al contrario devono volentieri
e ordinatamente favorire”[55].
Nel magistero di Paolo VI il principio di sussidiarietà non è menzionato ma ne
troviamo traccia in alcuni passi dell’enciclica Populorum progressio del 26 marzo 1967, e della lettera
apostolica Octogesima adveniens del 14 maggio 1971. Riguardo alla cooperazione internazionale, ad esempio, il
pontefice rifiuta ogni tipo di assistenzialismo, in quanto lesivo dell’autonomia e della libera iniziativa dei
singoli popoli. “La solidarietà mondiale, sempre più efficiente, deve consentire a tutti i popoli
di divenire essi stessi gli artefici del loro destino…I popoli più giovani e più deboli
reclamano la parte attiva che gli spetta nella costruzione d’un mondo migliore, più rispettoso dei
diritti e della vocazione di ciascuno”[56].
Dunque la solidarietà per essere autentica ha bisogno di coniugarsi con la sussidiarietà, deve
permettere a ciascuno di poter partecipare attivamente alla costruzione del bene proprio e comune.
In riferimento alle convinzioni culturali sul tipo di uomo da costruire nella società, Paolo VI afferma che
non spetta allo Stato o ai partiti politici tentare di imporle, ma “è compito dei raggruppamenti
culturali e religiosi, nella libertà d’adesione ch’essi presuppongono, di sviluppare nel corpo
sociale, in maniera disinteressata e per le vie proprie, queste convinzioni ultime sulla natura, l’origine e il
fine dell’uomo e della società”[57].
Il principio di sussidiarietà è espressamente richiamato, durante il pontificato di Paolo VI, in alcuni
documenti emanati dalla Santa Sede e riguardanti le comunicazioni sociali[58], la scuola cattolica[59] e la sanità[60]. In particolar modo il principio viene trattato con una certa ampiezza dalla
Commissione Iustitia et Pax nel documento Self-reliance del 15 maggio 1978. Qui si sottolinea che
l’applicazione del principio implica necessariamente la resistenza “alla tendenza spontanea a tutto
centralizzare e tutto programmare autoritariamente dall’alto [poiché] le comunità intermedie
hanno, a titoli diversi, responsabilità proprie che non vanno considerate come una concessione del potere
politico”[61]. Si evidenzia anche che
“è per restare fedele alla persona che la solidarietà è virtù in intima connessione
con la sussidiarietà. Questa, anteponendo il valore di inalienabile singolarità e priorità della
persona, preserva la solidarietà da ogni smarrimento o degenerazione totalitaristica”[62]. Ciò garantisce l’autonomia e la libertà
delle persone, delle famiglie e delle associazioni, che non vanno mortificate ma sostenute, favorite e protette dalla
sussidiarietà, la quale mira ad “aiutarle nel loro dinamismo di libertà, a facilitare questo
dinamismo, a creare le condizioni generali che favoriscono tale dinamismo nella stessa solidarietà; ad aiutare
insomma le persone e i gruppi intermedi a esprimere attivamente il loro centro di coesione e di
vita”[63]. Nel documento si sottolinea anche
che il termine “sussidiario” può essere confuso con “secondario”. In realtà il
“subsidium” che la società più complessa, specialmente quella politica, è tenuta a
dare alle società più elementari e alle persone non è per nulla secondario, ma necessario ed
essenziale per una costruzione sociale il cui dinamismo venga principalmente dalle persone. In definitiva il
principio di sussidiarietà dice che “ogni costruzione sociale si fa per l’uomo e a partire
dall’uomo”[64].
Con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II il principio di sussidiarietà diventa motivo
ricorrente sia nel suo personale magistero sia nei documenti della Santa Sede. Nel messaggio del 1980 indirizzato
alle Nazioni Unite il Papa evidenzia che “applicando la nozione di sussidiarietà…molti gruppi e
popoli possono risolvere meglio i loro problemi ad un livello locale o intermedio”[65]. Nell’esortazione apostolica Familiaris
consortio ricorda che “la società, e più specificamente lo Stato,…nelle loro relazioni
con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà”[66]. Nell’istruzione della Congregazione per la dottrina
della fede Libertatis conscientia, si evidenzia che il principio di sussidiarietà, insieme a quello di
solidarietà, è profondamente legato alla dignità dell’uomo ed è definito come
“fondamento ai criteri per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi sociali”[67]. La chiara conseguenza di ciò è che
“né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa ed alla
responsabilità delle persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire,
né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà”[68]. Dunque complemento della solidarietà, la sussidiarietà è
considerata quale necessario ed importante principio regolatore della vita sociale in quanto “protegge la
persona umana, le comunità locali e i corpi intermedi dal pericolo di perdere la loro legittima
autonomia”[69].
Il 1° maggio 1991, in occasione del centenario della pubblicazione della Rerum novarum, Giovanni Paolo II con
l’enciclica Centesimus annus interviene personalmente riguardo alla sussidiarietà ricordando che
secondo “tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello
Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali,
politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno – sempre dentro il bene comune –
la loro propria autonomia”[70]. Pertanto il
papa polacco, che aveva fatto l’esperienza personale della negazione ideologica di tale autonomia ad opera del
“socialismo reale”, di fronte al pericolo di un individualismo selvaggio privo di qualsiasi riferimento
solidaristico, afferma la necessità del rispetto, in tutti gli ambiti, del “principio di
sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una
società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di
necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene
comune”[71].
In altri termini, per la Centesimus annus, una corretta applicazione del principio di sussidiarietà “se
da una parte esige il riconoscimento dell’autonomia e della libertà di iniziativa, dall’altra non
implica affatto l’“ognuno per sé”, come oggi è facilmente inteso. Il bene comune
richiede che ogni cittadino e ogni società dia il proprio apporto per realizzarlo”[72]. Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce
meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica nel capitolo dedicato alla comunità umana enuncia il principio di
sussidiarietà nella stessa formulazione usata dalla Centesimus annus, dopo aver sottolineato che “un
intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l’iniziativa
personali”[73]. La sussidiarietà
“precisa i limiti dell’intervento dello Stato. Mira ad armonizzare i rapporti tra gli individui e le
società. Tende ad instaurare un autentico ordine internazionale”[74].
La Conferenza Episcopale Italiana, stimolata dal magistero di Giovanni Paolo II, si è ampiamente occupata in
vari documenti della sussidiarietà, soprattutto in riferimento alla situazione del Paese. In un documento
della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, afferma che il principio di sussidiarietà è uno dei tre
principi animatori dello Stato sociale, insieme a quello di solidarietà e di responsabilità. “La
crisi dello Stato sociale trova una delle sue cause culturali e strutturali più forti proprio
nell’abbandono e nell’oblio del principio di sussidiarietà. Al contrario, il rinnovato slancio da
dare a uno Stato sociale può e deve trovare il necessario impulso nella libera e piena applicazione di tale
principio”[75].
Dall’excursus storico che abbiamo appena effettuato possiamo in sintesi affermare che il principio di sussidiarietà ha due radici essenziali: il primato della persona umana e la sua natura sociale. Tali radici esigono che:
Il principio di sussidiarietà ha dunque nei confronti dei rapporti persona-società una funzione di regolazione che porta ad escludere ogni sorta di monismo assolutizzante una qualsiasi istituzione sociale. Esso valorizza il pluralismo sociale come via per la realizzazione del bene della persona e del bene comune. Di conseguenza la sussidiarietà postula una società partecipativa in cui le persone o i gruppi siano realmente corresponsabili e solidali. Bisogna ricordare infatti che per l’insegnamento sociale della Chiesa, la sussidiarietà non può essere mai separata e contrapposta alla solidarietà. Anzi i due principi si implicano reciprocamente al punto tale che la sussidiarietà è qualificata come “complemento della solidarietà”[76] ed è compresa in essa come una sua articolazione ed esplicitazione. La sussidiarietà “non solo dice che la società deve essere solidale o deve dare aiuto alle persone e ai gruppi, ma dice anche che deve realizzare la sua solidarietà in modo che questi vengano rispettati nella loro sfera di azione e di competenza e, nello stesso tempo, siano incentivati a dare il massimo del loro apporto al bene comune”[77]. La sussidiarietà dunque presuppone una solidarietà sussidiaria[78], a livello orizzontale, ascendente e discendente per cui:
Il principio nel quale ogni altro principio e contenuto dell’insegnamento sociale della Chiesa trova fondamento è senza ombra di dubbio il principio della dignità della persona umana. Alla base della solidarietà e della sussidiarietà vi è dunque la persona umana la cui dignità in quanto principio scaturisce “dall’incontro del messaggio evangelico e delle sue esigenze, che si riassumono nel comandamento supremo dell’amore di Dio e del prossimo e nella giustizia, con i problemi derivanti dalla vita della società”[79]. La dignità della persona dunque la si scopre non solo nel suo essere (fondamento antropologico) ma in ultima istanza, in quanto creatura, nel suo Creatore (fondamento teologico). Nella prospettiva cristiana infine è necessario evidenziare anche il fondamento cristologico in virtù della rivelazione dell’uomo a se stesso operata da Gesù Cristo, uomo compiuto[80], attraverso il mistero dell’incarnazione.
La Chiesa a partire dal dato biblico riconosce all’uomo di avere una dignità incomparabile ed inalienabile in quanto creatura ad immagine di Dio. Questo importante riconoscimento trova espressione nell’affermazione che l’uomo “lungi dall’essere l’oggetto e un elemento passivo della vita sociale, ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine”[81].
“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e
femmina li creò”[82]. Dio non solo crea
l’uomo ma lo pone al centro e al vertice del creato, soffiando nelle sue narici l’alito della
vita[83]. Così, “essendo ad immagine di
Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno.
E’ capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre
persone”[84].
In virtù di questo possiamo dire che l’uomo è l’unica creatura capace di Dio in quanto
essere personale, creato da Dio per la relazione con Lui. Tale relazione si riflette poi nella dimensione sociale
della natura umana: l’uomo “per sua intima natura è un essere sociale, e non può vivere
né esplicare le sue doti senza relazioni con gli altri”[85]. Per questo motivo Dio creò l’essere umano come uomo e donna,
così che la loro unione costituisse la prima forma di comunione di persone, e la loro alterità potesse
soddisfare l’esigenza di dialogo interpersonale che è così vitale per la loro esistenza.
Ogni persona dunque essendo immagine di Dio gode di una dignità incomparabile con le altre creature e vive
necessariamente di relazioni con le altre persone. Tale affermazione ci sembra essere alla base
dell’ispirazione teologica nell’ambito dell’Antico Testamento dei principi di solidarietà e
di sussidiarietà.
“Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra;
soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla
terra”[86]. L’uomo e la donna si trovano
di fronte a tutte le altre creature con una particolare vocazione, quella di porle al loro servizio e goderne. Tale
“dominio” sul mondo non vuol dire però libertà di sfruttamento egoistico ma
responsabilità nella custodia del creato. La traduzione in italiano del versetto di Genesi sopra riportato
può indurre ad una cattiva interpretazione. In realtà per essere più in sintonia con
l’originale ebraico rdh, il termine “dominate” andrebbe tradotto con “guidate,
addomesticate”[87]. La persona umana dunque
è chiamata da Dio a collaborare con Lui al processo creativo attraverso l’esercizio responsabile di una
signoria non assoluta ma partecipata o ministeriale, in modo tale da rispettare l’originaria
bontà[88] di tutte le cose create da Dio.
“Il libro della Genesi insegna, infatti, che il dominio dell’uomo sul mondo consiste nel dare un nome
alle cose[89]: con la denominazione l’uomo
deve riconoscere le cose per quello che sono e stabilire verso ciascuna di esse un rapporto di
responsabilità”[90].
La custodia responsabile del creato affidata ad ogni persona da parte di Dio non riguarda soltanto le creature non
umane ma anche quelle umane. “Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio
affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul
mondo…E questo si manifesta nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti della
vita propriamente umana…Il compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi
soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza”[91].
Alla luce di tutto questo possiamo dire che ogni uomo è chiamato a tutelare ogni vita umana, soprattutto se
debole; ma deve anche essere aiutato a poter esercitare con responsabilità il diritto attribuitogli da Dio, e
che nessuno può cancellare, a compartecipare al processo creativo. In altri termini stiamo dicendo che
solidarietà e sussidiarietà sono due principi fondati sulla base di quanto rivelato da Dio già a
partire dal libro della Genesi.
Per comprendere pienamente la nozione di uomo “immagine di Dio”, si deve tener presente che, nel Nuovo Testamento, essa viene attribuita a Gesù Cristo[92], confessato come perfetta immagine del Dio invisibile. Dalla rivelazione neotestamentaria sappiamo che l’atto creativo del Padre rivela il disegno divino centrato su Cristo e la chiamata degli uomini a diventare figli nel Figlio. “Perciò il referente primario di ogni autentica riflessione sull’uomo è Gesù Cristo e non Adamo”[93]. Adamo, infatti, “era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione…Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[94].
L’interpretazione dell’intera vicenda dell’umanità sul versante delle sue relazioni sociali, nella prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, trova compimento in Cristo, espressione della piena solidarietà di Dio con l’uomo e fondamento di ogni altra solidarietà. Nella fede cristiana la solidarietà “riconosce non un livello aggiuntivo, ma ultimo, veritativo. Nella fede sarà anzi possibile promuovere e rinnovare ogni vera forma di solidarietà esistente, contribuendo a purificare e integrare le sue espressioni ambigue o riduttive”[95]. Il livello ultimo e veritativo è costituito dalla vita divina trinitaria comunicataci da Cristo. C’è piena solidarietà, infatti, soltanto quando vi è la “disponibilità, in senso evangelico, a perdersi a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a servirlo invece di opprimerlo”[96]. Questa disponibilità è il riflesso di quanto avviene nella vita di Dio, uno in tre Persone, per cui possiamo affermare che la Trinità è un mistero di solidarietà piena. “Perciò la solidarietà umana trova non solo la sua radice ultima e la sua condizione di possibilità, ma anche il suo modello più esigente nella vita stessa della Trinità”[97].
Il mistero dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo è il grande evento che ha
permesso agli uomini di conoscere la solidarietà espressa dalla vita trinitaria.
Gesù Cristo è il Dio-con-noi che si fa carico delle infermità del suo popolo, cammina con
esso, lo salva e lo costituisce in unità, spogliandosi dunque della propria divinità per essere
solidale con l’umanità fino alla morte di croce[98]. Il Figlio di Dio solidarizza pienamente con l’uomo, tranne che nel male
morale. Egli, nuovo Adamo, assume l’umano nella sua globalità e secondo tutte le sue dimensioni, non
solo spirituali e individuali ma anche corporee, sociali e cosmiche. Egli si china su tutte le miserie umane, dando
ristoro a tutti coloro che sono affaticati e oppressi[99]. “Il vangelo mostra con abbondanza di testi che Gesù…ha lottato
contro l’ingiustizia, l’ipocrisia, gli abusi del potere, l’avidità di guadagno dei ricchi,
indifferenti alle sofferenze dei poveri, facendo un forte richiamo al rendiconto finale, quando tornerà nella
gloria per giudicare i vivi e i morti”[100].
In Lui la solidarietà si è fatta storia; una storia singolare, in cui è testimoniata la piena
assunzione del bene dell’altro come criterio del proprio; una vicenda sulla quale misurare, ultimamente, ogni
altra solidarietà.
Abbiamo visto come Dio creò gli uomini non per una vita individualistica ma per una vita caratterizzata da
relazioni interpersonali e destinata all’unione sociale. Allo stesso modo a Dio piacque di “santificare e
salvare gli uomini non a uno a uno, escluso ogni mutuo legame, ma di costituirli in popolo, che lo conoscesse nella
verità e santamente lo servisse”[101]. Pertanto sin dall’inizio della storia della salvezza Dio elesse alcuni
uomini a formare una comunità. “Tale indole comunitaria è perfezionata e compiuta
dall’opera di Gesù Cristo. Lo stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della convivenza
umana”[102]. Gesù Cristo,
l’Emmanuele, è Dio-con-noi perché ha condiviso con noi la nostra vita di relazioni umane,
a partire da quelle familiari per giungere a quelle sociali. Ma dopo la sua morte e risurrezione ha istituito anche,
attraverso il dono del suo Spirito, un nuovo popolo, una nuova comunione fraterna e solidale, “in quel suo
corpo, che è la chiesa, nel quale tutti, membri tra di loro, si prestassero servizi reciproci, secondo i doni
diversi loro concessi”[103]. A questa
solidarietà attinge la Chiesa per essere sacramento e fermento di solidarietà universale. La dinamica
dell’incarnazione impronta e struttura profondamente la fede e la missione della Chiesa, sacramento nella
storia e nel mondo della solidarietà di Cristo. Nulla dell’uomo è lasciato fuori dal ministero di
carità della Chiesa, compreso il vivere sociale che essa assume e adempie in modo singolare e privilegiato
attraverso la sua dottrina sociale[104].
La solidarietà dunque attinge valore teologico dalla dimensione di popolo, costituito da Dio nell’antica
alleanza e perfezionato in Cristo, suo Figlio, dalla comunione ecclesiale della nuova alleanza.
“In Cristo la solidarietà di Dio con noi e degli uomini in Dio è nuova solidarietà di
salvezza: nella incarnazione di Cristo il divino ha assunto l’umano e nella sua risurrezione il mortale ha
raggiunto l’eterno…Per cui ogni umana solidarietà è sostenuta e trasformata
dall’incarnazione e dalla risurrezione di Cristo ed è solidarietà di
redenzione”[105]. E ciò spinge i
cristiani ad assumere il compito di mettere in atto nella loro vita relazionale questa solidarietà salvifica e
a “portare i pesi gli uni degli altri”[106]. Secondo i padri del Concilio Vaticano II tale solidarietà deve crescere e
diffondersi nel mondo “fino a quel giorno in cui sarà consumata, e in cui gli uomini, salvati dalla
grazia, renderanno gloria perfetta a Dio, come famiglia da Dio e da Cristo fratello amata”[107].
Gesù di Nazaret fa risplendere dinanzi agli occhi di tutti gli uomini il nesso tra
solidarietà e carità, soprattutto attraverso il comandamento dell’amore. “Alla luce della
fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della
gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano
con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre,
riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo. Egli,
pertanto, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui bisogna essere
disposti al sacrificio, anche supremo: “Dare la vita per i propri fratelli” (cfr. 1 Gv 3,
16)”[108].
Bisogna aggiungere però che “il comandamento dell’amore diventa possibile solo perché non
è soltanto esigenza: l’amore può essere comandato perché prima è
donato”[109]. E’ chiarissima a
riguardo la prima lettera di Giovanni, il quale ci esorta ad amarci gli uni gli altri perché Dio, che è
amore, ci ha amati per primo mandando “il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita
per lui”[110]. Vi è dunque un legame
inscindibile tra amore di Dio e amore del prossimo. “Entrambi si richiamano così strettamente che
l’affermazione dell’amore di Dio diventa una menzogna, se l’uomo si chiude al prossimo o
addirittura lo odia”[111]. L’amore si
è reso visibile nel Figlio il quale ha detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”[112]. Dunque possiamo fare l’esperienza dell’amore
perché si rende visibile in Cristo, il quale ci viene incontro facendosi presente nella sua Parola, nei
Sacramenti e negli uomini, soprattutto negli ultimi, con i quali si identifica: “ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”[113]. Da questo amore donato può nascere in noi la
risposta dell’amore nei confronti di Dio e del prossimo. In questa prospettiva allora il comandamento non solo
è possibile ma evidenzia anche la dimensione del “dono gioioso” piuttosto di quella del
“comando”.
La solidarietà dunque trova il suo fondamento ultimo nell’amore di Dio che mi spinge con urgenza ad
amare il mio prossimo. Ma nel passaggio tra la teoria e la pratica spesso si è in difficoltà e ci si
domanda: “chi è il mio prossimo?”[114].
Un dottore della legge, si legge nel vangelo di Luca[115], voleva mettere alla prova Gesù e gli domandò chi avrebbe dovuto
considerare come suo prossimo riguardo all’applicazione del comandamento dell’amore. Prima di analizzare
la risposta di Gesù cerchiamo di capire a chi era riferito il concetto di prossimo nell’Antico
Testamento. Nel Levitico appare chiaro che solo gli israeliti, o gli stranieri che si erano stanziati nella terra di
Israele, dovevano essere aiutati in caso di necessità: “Se il tuo fratello che è presso di te
cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere
presso di te…Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare
come schiavo…Quanto allo schiavo e alla schiava, che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle
nazioni che vi circondano”[116].
Gesù risponde al dottore della legge con una parabola che abolisce il limite esistente nel concetto di
prossimo riferito alla comunità di un paese e di un popolo. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico” inizia a raccontare Gesù. Un uomo, non dice altro di colui che è incappato nei briganti.
Dunque il mio prossimo è chiunque, in ragione del suo bisogno; è chiunque abbia un volto umano che io
incontro sulla mia strada, al limite anche il nemico. Il concetto di prossimo viene così universalizzato e
rimane tuttavia concreto. “Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione
di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed
ora”[117]. Per ogni cristiano, infatti, la
via alla carità si sintetizza in questo imperativo: “Và e anche tu fa lo stesso”.
Ma Gesù conduce il dottore della legge a fare un ulteriore passo in avanti: “Chi di questi tre ti sembra
sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Ed egli risponde: “Chi ha avuto
compassione di lui”. Dunque la situazione è completamente rovesciata. Il prossimo non è
più colui che è oggetto della carità, che ha bisogno, ma colui che ha compassione e si fa
vicino, colui che è soggetto della carità. Si tratta dunque di farsi prossimo, di muovere se stessi e
la propria libertà verso il bene altrui.
Una legge fondamentale rispettata nella vita trinitaria è la seguente: ciascuno è
se stesso attraverso l’altro. Questa caratteristica ci porta a sostenere la necessità del principio
di solidarietà. Ma vi è un’altra legge complementare alla precedente che può essere posta
a fondamento del principio di sussidiarietà: ciascuno deve essere il più pienamente possibile
ciò che è, perché lo possano essere anche gli altri[118]. Pertanto ogni uomo più è rispettato nella sua dignità,
più è capace di essere se stesso perchè messo nella condizione di potersi esprimere. E
più questo gli è permesso, più è in grado di contribuire al bene della società in
cui vive.
A riguardo possiamo dire che Gesù Cristo nella sua vita terrena tra gli uomini, più è stato
pienamente ciò che è, Figlio, più ha permesso a noi di essere figli. Ed Egli è stato
pienamente Figlio sulla croce, quando, rinunciando a se stesso, per amore, ha fatto la volontà del Padre e ha
donato a noi la sua vita divina. Il Padre nel suo progetto originario ci ha creati per essere, nel Figlio, suoi figli
adottivi. Ma la caduta del peccato originale ha impedito la realizzazione di tale progetto. Il Figlio pertanto, con
la sua missione nel mondo, iniziata con l’incarnazione e terminata con l’evento pasquale, ha portato
all’uomo il “subsidium” necessario per ritrovare la sua dignità di figlio e per comportarsi
come tale. Tale “subsidium”, che dopo la Pentecoste continua ad essere dato all’uomo nella Chiesa
grazie all’azione dello Spirito Santo, non viene imposto ma proposto all’uomo, come nel caso della
parabola del Padre misericordioso[119]. Solo la
persona, quindi, aderendo al peccato, può liberamente decidere di rinunciare alla propria dignità sino
al punto di vivere in mezzo ai porci[120] e di
desiderare il loro cibo. La sua dignità di figlio di Dio, però, gli appartiene e nessuno potrà
mai toglierla. Perciò nel rispetto di questa dignità Dio, riguardo alla decisione ed alla realizzazione
del bene dell’uomo, non interviene mai in modo sostitutivo ma in modo sussidiario. In tutta la storia della
salvezza, infatti, si può notare come Dio sia intervenuto sempre a favore dell’umanità mettendola
nelle condizioni di raggiungere con le proprie gambe la terra promessa, attraverso il suo continuo aiuto che ha avuto
il culmine nell’offerta del Figlio.
Nella vita sociale di Gesù, così come ci perviene dai vangeli, possiamo scorgere il
suo modo di rapportarsi con gli altri e soprattutto, ai fini del nostro lavoro, focalizzare l’attenzione
sull’esercizio della sua “autorità”[121]. Lui che è “Maestro e Signore”[122] non manifesta il suo “potere”[123] imponendolo ai suoi discepoli, ma lo esercita nel rispetto della loro
dignità, promuovendo il loro libero, autonomo e attivo contributo in vista della salvezza propria ed
altrui.
Un padre disperato per la malattia di suo figlio chiede a Gesù di intervenire per guarirlo, dopo che i suoi
discepoli non ci sono riusciti[124]: “Se tu
puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Quest’uomo chiede aiuto nel modo sbagliato
perché si tira fuori dalla situazione scaricando totalmente la soluzione del suo problema a Gesù, il
quale lo richiama ad essere attivamente partecipe della guarigione del figlio rispondendo: “Tutto è
possibile per chi crede”. Gesù è il Salvatore, è solidale con noi e ci vuole certamente
salvi, ma mai senza di noi, senza il nostro “si” attivo nella fede. Allora questo padre, provocato
all’assunzione della propria responsabilità, si attiva nella fede e chiede il “subsidium”
giusto a Gesù: “Credo, aiutami nella mia incredulità”. Questa frase sintetizza in modo
chiaro ed efficace il principio di sussidiarietà. Il “credo” esprime ciò che compete
propriamente alla persona, la quale in una situazione di difficoltà, di imperfezione
(l’incredulità), chiede a Gesù, ovvero a chi ha un’autorità superiore, un aiuto
fondamentale ma di tipo integrativo e non sostitutivo. Anche i discepoli, in questo episodio, vengono stimolati da
Gesù a crescere nella fede, nella preghiera, nel digiuno[125] e quindi nella partecipazione attiva alla missione loro affidata.
Gesù Cristo non vuole fare tutto da solo, perché vuole, nel rispetto dello spirito della creazione, che
l’uomo compartecipi al processo creativo e ricreativo di Dio, in virtù della sua unica ed inalienabile
dignità che nessun’altra creatura possiede. E’ per questo che nella sua missione terrena
Gesù chiama alcuni tra i discepoli ad essere “pescatori di uomini”[126], riconoscendo così il valore del contributo proprio che spetta ai
cristiani nella ricerca e nella realizzazione del bene di tutti coloro che affogano nel male[127].
Nell’episodio della moltiplicazione dei pani[128], tutto questo risulta ancora più evidente. Gesù è commosso
per tutte le persone che sono allo sbando “come pecore senza pastore” e si mette a “insegnare loro
molte cose”. Anche i discepoli partecipano attivamente, in base alle loro capacità, in questa azione
solidale nei confronti di coloro che sono smarriti ed affamati di Parola di Dio. I discepoli data l’ora
avanzata cercano di rimanere da soli: “congedali perciò, in modo che…possano comprarsi da
mangiare”[129]. Gesù, rispondendo:
“Voi stessi date loro da mangiare”, invita i suoi discepoli non solo a prendere atto del loro bisogno ma
anche di quello di questa gente e a porvi anche rimedio procurando loro il cibo necessario. Evidentemente Gesù
li ritiene in grado di poterlo fare e li stimola ad agire in autonomia a partire da quello che hanno a disposizione,
“cinque pani e due pesci”. Successivamente, di fronte ad una folla di “cinquemila uomini” e
quindi alla pochezza oggettiva di questo cibo, interviene Gesù con il suo aiuto per integrare
l’intervento dei suoi discepoli. Infine, dopo avergli moltiplicato i pani e i pesci, Gesù chiede
nuovamente ai discepoli il loro contributo nella distribuzione del cibo a tutti gli affamati. Il miracolo in
questione, che per gli evangelisti è in stretto legame con l’istituzione dell’eucarestia, da luogo
ad un cibo che non è semplicemente quello materiale ma che si riferisce a Cristo stesso, il “pane della
vita”[130] in grado di soddisfare i bisogni
di tutti gli uomini e di tutto l’uomo. I discepoli dunque sono chiamati a non delegare ad altri, nemmeno a Dio,
ciò che possono fare in prima persona, cioè vedere e rispondere con il “subsidium” di
Cristo, in un atteggiamento eucaristico, ai bisogni di coloro che gli sono prossimi, attraverso l’offerta di
sé e di quel poco che hanno.
Con la parabola dei talenti[131] Gesù ci lascia un insegnamento importante sul modo di relazionarci con gli altri più che sulla necessità, cara all’etica del capitalismo, di investire i beni. “In realtà i talenti non sono le doti o i beni da moltiplicare; rappresentano invece…l’amore verso i poveri…Il talento è l’amore che il Padre ha verso di me, che deve duplicarsi nella mia risposta d’amore verso i fratelli. Rispondere a questo amore mi fa ciò che sono, figlio uguale al Padre”[132]. La dignità di figlio amato mi mette dunque nella condizione di essere protagonista attivo nell’esercizio della carità e dunque della solidarietà. Questa dignità propria della persona deve essere rispettata dalle istituzioni, le quali non possono imporre la solidarietà dall’alto, anche perché in tal modo si perderebbe quell’effetto moltiplicativo sottolineato dalla parabola. Gesù è venuto per donarci i talenti del suo amore e ci invita ad investirli nelle nostre relazioni sociali per farli circolare il più possibile soprattutto nei confronti dei più poveri. Ma i talenti ci sono stati dati in numero diverso; il che vuol dire che ciascuno è chiamato, in base alle proprie capacità e competenze, a dare uno specifico contributo nell’ambito della propria sfera d’azione. Il padrone della parabola possiamo paragonarlo, nel nostro contesto e con le dovute riserve, a quella istituzione di ordine “superiore” capace di mettere le istituzioni di ordine “inferiore”, attraverso gli opportuni aiuti, nelle condizioni di poter operare autonomamente. Tutto questo ci conduce al principio di sussidiarietà, ma ci ricorda anche che esso ha senso solo se ancorato all’amore proveniente da Dio e che è alla base del principio di solidarietà. I due principi dunque si implicano reciprocamente.
“Facendo tesoro del mirabile messaggio biblico, la dottrina sociale della Chiesa si sofferma anzitutto sulle principali ed inscindibili dimensioni della persona umana, così da cogliere le più rilevanti sfaccettature del suo mistero e della sua dignità”[133]. Nelle ideologie spesso ci troviamo di fronte ad alcune concezioni riduttive dell’uomo che esaltano una sola dimensione a scapito di tutte le altre. L’insegnamento sociale della Chiesa, curando che all’affermazione del primato della persona non corrispondesse una visione riduttiva di tipo individualistico o massificato, sottolinea che “gli individui non ci appaiono slegati tra loro quali granelli di sabbia; ma bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni”[134] e che l’uomo non è “un semplice elemento e una molecola dell’organismo sociale”[135] a cui al massimo si può riconoscere un ruolo funzionale. Pertanto per evitare visioni riduttive e superficiali, bisogna considerare tutte le dimensioni della persona.
La dottrina sociale ponendosi al di sopra delle ideologie si fa carico delle differenti dimensioni dell’uomo che sono alla base del suo essere personale ed insieme sociale. Vediamo brevemente quali sono queste dimensioni[136].
Nella visione antropologica della Chiesa troviamo con chiarezza la concezione dell’uomo
“creato da Dio come unità di anima e di corpo”[137]. Tale unità è garantita dall’anima spirituale e immortale per
cui l’essere umano esiste come un tutto. Ciò permette di affermare che esiste un legame tra le
facoltà spirituali, intelletto e volontà, e quelle corporee e sensibili. Pertanto “la persona,
incluso il corpo, è affidata interamente a se stessa, ed è nell’unità dell’anima e
del corpo che essa è il soggetto dei propri atti morali”[138]. L’uomo è un essere materiale inserito nel mondo mediante il suo
corpo, e al contempo un essere spirituale capace di aprirsi attraverso l’intelligenza alla trascendenza e alla
scoperta di una verità che va oltre la materia. Lo spirito e la materia, nell’uomo, non sono due nature
congiunte, ma la loro unione forma un’unica natura. Pertanto nella visione della Chiesa non c’è
spazio per lo spiritualismo, che disprezza la realtà del corpo, né per il materialismo, che banalizza
lo spirito considerandolo come una semplice manifestazione della materia.
Ora, se la persona è un’unità di anima e corpo, è evidente che va considerata come tale
sempre, soprattutto quando ha bisogno di aiuto. Un intervento nei confronti della persona che sia rispettoso della
sua dignità non deve tener presente esclusivamente dei suoi bisogni corporali, ma deve metterla nelle
condizioni di poter esprimere anche le proprie facoltà spirituali. Un intervento di questo tipo non può
che essere al contempo solidale e sussidiario. Possiamo dire che la solidarietà e la sussidiarietà sono
due principi reciprocamente legati tra di loro proprio a partire dall’unità della persona.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che l’uomo è per natura e per vocazione un essere religioso, quindi “capace” di Dio. “Poiché viene da Dio e va a Dio, l’uomo non vive una vita pienamente umana, se non vive liberamente il suo rapporto con Dio”[139]. Dunque l’uomo è aperto verso Dio, ma anche verso tutti gli esseri creati da Dio; è aperto verso l’altro, gli altri uomini e il mondo, “perché solo in quanto si comprende in riferimento a un tu può dire io. Esce da sé, dalla conservazione egoistica della propria vita, per entrare in una relazione di dialogo e di comunione con l’altro”[140]. La solidarietà e la sussidiarietà sono due principi che in una società aiutano concretamente la persona a vivere tale relazione di dialogo e di comunione.
Un’altra dimensione importante da considerare nella fondazione della solidarietà e soprattutto della sussidiarietà è l’unicità della persona. L’uomo è un essere unico ed irripetibile, capace di autocomprendersi, di autopossedersi, di autodeterminarsi. Egli esiste “come soggettività, come centro di coscienza e di libertà, la cui vicenda unica e non paragonabile ad alcun’altra esprime la sua irriducibilità a qualunque tentativo di costringerlo entro schemi di pensiero o sistemi di potere, ideologici o meno”[141]. Questo impone anzitutto l’esigenza del rispetto di ogni uomo da parte di chiunque, e specialmente delle istituzioni politiche e sociali. La persona è il fine ultimo della società: “Pertanto l’ordine sociale e il suo progresso devono sempre far prevalere il bene delle persone, perché l’ordine delle cose dev’essere adeguato all’ordine delle persone e non viceversa”[142]. La dignità unica che appartiene alla persona fa si che in nessun caso essa possa essere strumentalizzata per fini estranei al suo sviluppo. Dunque la persona non può essere usata mai come mezzo, da parte dell’autorità pubblica, per realizzare progetti di natura economica, sociale e politica. Anzi l’autorità deve vigilare affinché ogni intervento da parte delle varie istituzioni sia sempre finalizzato al rispetto della dignità personale.
Il segno distintivo che mostra l’uomo come creatura voluta da Dio a Sua immagine è la libertà. “La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo una scelta consapevole e libera, cioè mosso e indotto personalmente dal di dentro, e non per un cieco impulso interno o per mera coazione esterna”[143]. Attraverso la libertà indirizzata al vero bene, cresce l’ordine interiore della persona che diventa capace di generare se stesso e di costruire anche l’ordine sociale. Dunque la persona è chiamata ad esercitare la propria libertà nella ricerca del suo bene e del bene comune. Per questo è necessario che vengano eliminate tutte quelle ingiustizie che impediscono la promozione della libertà e della dignità umana, attraverso cambiamenti dell’ordine economico, sociale, giuridico, politico e culturale. Se si vogliono, però, ottenere cambiamenti che siano veramente a servizio dell’uomo, “occorre, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore”[144]. Le istituzioni pertanto dovranno agire in modo solidale nei confronti di coloro che sono ingiustamente impediti nell’esercizio della loro libertà, per metterli nelle condizioni di essere protagonisti nelle decisioni che riguardano le loro sfere di competenza.
Un’altra dimensione importante da considerare per dare un fondamento antropologico alla
solidarietà ed alla sussidiarietà è quella che riguarda l’uguaglianza in dignità
tra tutti gli uomini.
Davanti a Dio tutti gli uomini sono uguali in dignità, perché creati a Sua immagine e somiglianza. Se
questo si può affermare a partire dalla creazione ancor di più lo si può dire considerando
l’incarnazione del Figlio di Dio, per cui: “Non c’è più giudeo né greco; non
c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”[145]. Senza dubbio tra gli uomini vi sono diversità che riguardano le
capacità fisiche, intellettuali o morali. “Tuttavia, ogni genere di discriminazione nei diritti
fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, della stirpe, del colore, della
condizione sociale, della lingua o religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di
Dio”[146]. Possiamo dire perciò che
la dignità di ogni uomo davanti a Dio sta a fondamento della dignità dell’uomo davanti agli altri
uomini. “Questo è, inoltre, il fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli
uomini, indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe”[147]. In più, benché tra gli uomini vi siano
giuste diversità, l’uguale dignità delle persone richiede che si giunga ad una condizione
più umana e giusta della vita. Le istituzioni umane pertanto devono sforzarsi “di mettersi al servizio
della dignità e del fine dell’uomo, nello stesso tempo combattendo strenuamente contro ogni forma di
servitù sociale e politica, e difendendo i fondamentali diritti degli uomini sotto qualsiasi regime
politico”[148].
Abbiamo già visto che l’uomo “per la sua intima natura è un essere sociale”[149]. La natura dell’uomo, infatti, si esplica come natura di un essere che liberamente risponde al proprio bisogno di integrarsi con i propri simili, attraverso una rete di relazioni di conoscenza e di amore. Gli uomini dunque per soddisfare questo bisogno si costituiscono in società, la quale “è un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuna di loro. Assemblea insieme visibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire”[150]. E’ necessario perciò affermare che l’uomo è chiamato per natura a vivere nella società così definita, e che proprio questo lo caratterizza e lo distingue da tutte le altre creature. La naturale socialità dell’uomo fa emergere anche che l’origine della società non si trova in un contratto o patto convenzionale, ma nella stessa natura umana; e da essa deriva la possibilità di realizzare liberamente diversi patti di associazione[151]. La socialità umana però, a causa dell’egoismo, non sfocia automaticamente verso la comunione delle persone, ma rischia continuamente di essere intaccata dal virus dell’individualismo e della sopraffazione. Da qui la necessità di richiamare gli uomini alla solidarietà affinché la società in cui vivono sia degna di tal nome, e pertanto sia in grado di essere a servizio dell’uomo e del bene comune. Gli uomini, infatti, se richiamati alla verità si possono rendere conto di essere legati da una comune natura e da un comune destino da costruire insieme. Ma essi vanno richiamati anche alla sussidiarietà, perché la socialità umana non è uniforme. “Il bene comune dipende, infatti, da un sano pluralismo sociale. Le molteplici società sono chiamate a costituire un tessuto unitario ed armonico, al cui interno sia possibile ad ognuna conservare e sviluppare la propria fisionomia e autonomia. Alcune società, come la famiglia, la comunità civile e la comunità religiosa sono più immediatamente rispondenti all’intima natura dell’uomo, altre procedono piuttosto dalla libera volontà”[152].
L’insegnamento sociale della Chiesa non fornisce ricette pronte per risolvere i problemi
concreti che riguardano tutte le sfere della socialità. Tuttavia il suo orientamento offre stimoli importanti
per l’elaborazione di proposte concrete. A riguardo, i principi di solidarietà e di sussidiarietà
danno luogo a notevoli spunti di riflessione per la vita sociale, economica, politica, e di fatto le applicazioni dei
due principi sono numerose. Tra le varie forme di solidarietà si possono distinguere: la solidarietà
personale, che nessuna struttura burocratica ed impersonale può sostituire; la solidarietà familiare,
prima espressione della natura sociale dell’uomo; la solidarietà economica, che si vive nel rispetto
delle regole del mercato, senza però venir meno alle responsabilità verso i lavoratori,
l’ambiente e le generazioni future; la solidarietà dei corpi intermedi (sindacati, partiti,
associazioni, organizzazioni no-profit…); la solidarietà dello Stato e delle istituzioni pubbliche,
chiamati a realizzare il bene comune di un popolo; la solidarietà internazionale ed universale, alla ricerca
del bene dell’intera famiglia umana; la solidarietà orizzontale, che si realizza tra i vari gruppi
sociali; la solidarietà verticale, ascendente e discendente, che parte dalle formazioni sociali di base, va
verso il bene comune generale e da questo ritorna al punto di partenza[153]. Circa la sussidiarietà possiamo affermare che essa viene applicata
affinché ogni persona, famiglia e corpo intermedio abbia qualcosa di originale da offrire alla
comunità. Alla sua attuazione “corrispondono: il rispetto e la promozione del primato della persona e
della famiglia; la valorizzazione delle associazioni e delle organizzazioni intermedie, nelle proprie scelte
fondamentali e in tutte quelle che non possono essere delegate o assunte da altri; l’incoraggiamento offerto
all’iniziativa privata, in modo tale che ogni organismo sociale rimanga a servizio, con le proprie
peculiarità, del bene comune; l’articolazione pluralistica e la rappresentanza delle sue forze vitali;
la salvaguardia dei diritti umani e delle minoranze; il decentramento burocratico e amministrativo;
l’equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata, con il conseguente riconoscimento della funzione sociale
del privato; un’adeguata responsabilizzazione del cittadino nel suo essere parte attiva della realtà
politica e sociale del Paese”[154].
Il campo di applicazione dei due principi è dunque vastissimo, perché riguarda l’intera vita
dell’uomo. In questo nostro scritto ci limitiamo a considerarne una piccola parte, a titolo esemplificativo. Ci
soffermiamo, in particolare, sul lavoro e sulla famiglia, ambiti della vita sociale messi a dura prova dalla cultura
odierna.
La nostra attenzione si soffermerà su alcuni documenti del magistero che hanno lasciato un insegnamento importante sul lavoro, in particolare sulla Rerum novarum di Leone XIII e sulla Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Ovviamente prenderemo in considerazione anche gli altri insegnamenti magisteriali, compresi quelli derivanti dal Concilio Vaticano II.
La realtà del lavoro è stata molto presente all’attenzione della Chiesa
dell’ultimo secolo. Già Leone XIII diede un giudizio molto severo riguardo alla concezione del lavoro
come pura merce di scambio e che aveva costretto gli operai a portare “un giogo poco meno che
servile”[155]. Per Leone XIII bisognava
prima di tutto riconoscere la dignità e la necessità del lavoro. Infatti, “il lavoro è
l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla
conservazione…Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di
essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto propria di chi la
esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è
necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto
dalla natura”[156]. Nella Rerum novarum
appare anche ciò che sarà approfondito da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens: l’uomo
è chiamato da Dio attraverso il lavoro a partecipare all’opera di creazione, in virtù
dell’immagine divina che porta scolpita in sé. “In questo tutti gli uomini sono uguali, né
esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il
Signore di tutti. A nessuno è lecito violare impunemente la dignità
dell’uomo”[157].
A riguardo Leone XIII condannò l’errore fondamentale del socialismo consistente nella mortificazione
dell’uomo nel suo valore e nella sua autonomia. Pertanto lo Stato ha il dovere di intervenire nelle questioni
che riguardano il lavoro per limitare gli egoismi, ma sempre nel rispetto della dignità della persona umana.
Lo Stato cioè è tenuto a rispettare il principio di sussidiarietà. “Compensato e
completato dal principio di solidarietà, il principio di sussidiarietà riassume in sintesi non solo
l’insegnamento di Leone XIII ma dell’intero magistero della Chiesa. Il diritto al lavoro, il diritto
all’orario umano, il diritto alla proprietà privata, il diritto delle donne e dei bambini a un
trattamento speciale, il diritto al giusto salario e all’adempimento festivo trovano in esso il loro fondamento
e la loro giustificazione”[158]. Ma, come
già detto, il principio di sussidiarietà va completato con quello di solidarietà, che è
come l’altra faccia della medaglia dell’insegnamento sociale della Chiesa fin dal suo nascere. Qui si
inserisce la condanna da parte di Leone XIII dell’ideologia liberale e degli abusi del sistema capitalista,
ritenuti responsabili della situazione di degrado della classe operaia di quel tempo. La proprietà privata,
infatti, va vista nel contesto della destinazione universale dei beni, secondo cui “nella ricchezza si suole
distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è la privata
proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto è, specialmente nella vita socievole, non pur
lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito dice san Tommaso, “anzi necessario all’umana vita
che l’uomo abbia la proprietà dei beni”[159]. Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa
per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, “per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i
beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui
necessità”[160]…Nessuno,
certo, è tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi,…ma soddisfatte le
necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi”[161].
E’ a partire dai principi di solidarietà e di sussidiarietà che Leone XIII dunque leva alta la
voce contro le ingiustizie riscontrate nel mondo del lavoro. Il Papa invita gli operai a non recar danno alla roba,
né offesa ai datori di lavoro, i quali però non devono tenere gli operai come schiavi ma rispettare in
essi la dignità della persona umana. “Quello che veramente è indegno dell’uomo è di
abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue
forze…Si ricordino i capitalisti che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi
e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa
così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio”[162]. E’ ancora sulla base dei principi di solidarietà e di
sussidiarietà che Leone XIII invita a costituire società di mutuo soccorso e associazioni sia di soli
operai sia miste di operai e datori di lavoro[163].
Pio XI, quarant’anni dopo la Rerum novarum, si trova di fronte ad uno scenario profondamente
cambiato in cui la questione operaia è ormai diventata questione sociale e politica. La libera concorrenza in
quel periodo ha portato ad una grande concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, pertanto “alla
libertà di mercato è sottentrata l’egemonia economica; alla bramosia di lucro è seguita la
sfrenata cupidigia del predominio; tutta l’economia è così diventata orribilmente dura,
inesorabile, crudele”[164]. Il Papa di
fronte a queste difficoltà sostiene la necessità di un nuovo assetto della società con la
ricostruzione di corpi intermedi autonomi a finalità economico-professionali. Per evitare i pericoli
dell’individualismo e del collettivismo “Pio XI ribadisce con forza il fine sociale intrinseco a ogni
proprietà, anche se il principio di solidarietà deve andare di pari passo col principio di
sussidiarietà”[165]. Ad esempio, per
quanto riguarda il regime salariale, si chiede che il contratto di lavoro venga temperato col contratto di
società, in modo tale da coinvolgere gli operai nella proprietà e nella gestione, così da essere
compartecipi del guadagno. Su questa strada, infatti, “l’avvicinamento progressivo del contratto
salariale al contratto di società renderà più facile all’uomo moderno sperimentare il
senso cristiano del lavoro e svilupparsi personalmente nel lavoro e nella professione”[166].
Pio XII, pur non avendo scritto nessuna enciclica sociale, ci ha lasciato comunque alcuni spunti interessanti in
alcuni suoi radiomessaggi. Giovanni XXIII nella Mater et magistra ci ricorda a riguardo che in ordine al lavoro
“Pio XII ribadisce che esso è simultaneamente un dovere e un diritto dei singoli esseri umani. Di
conseguenza, spetta a essi, in prima istanza, regolare i loro vicendevoli rapporti di lavoro. Solo nel caso in cui
gli interessati non adempiano o non possano adempiere il loro compito rientra nell’ufficio dello Stato di
intervenire nel campo della divisione e della distribuzione del lavoro, secondo la forma e la misura che richiede il
bene comune rettamente inteso”[167]. Con
queste parole Pio XII applica in modo chiaro al mondo del lavoro il principio di sussidiarietà. Principio che
deve essere rispettato anche nell’esercizio dell’autorità nei rapporti di lavoro. Per Giovanni
XXIII il lavoratore non deve essere considerato come un puro subalterno, “ridotto al rango di semplice,
silenzioso esecutore, senza alcuna possibilità di far valere la sua esperienza”[168]. Un buon ordinamento aziendale deve favorire il senso di
responsabilità del lavoratore e creare le condizioni perché egli esprima la sua iniziativa personale. A
riguardo bisogna dire che nei processi decisionali delle aziende, queste indicazioni spingono, ad esempio, ad
integrare la legge della direzione unitaria e verticistica con “la legge dell’articolazione intelligente
delle sfere di responsabilità (sussidiarietà)”[169].
La definizione che la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo da del lavoro
è la seguente: “l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo
col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita”[170]. Il lavoro umano ha in sé una valenza positiva
perché “considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio”[171]. Il lavoro non vale soltanto per le intenzioni con cui si compie, ma
oggettivamente per la sua stessa natura. L’uomo è immagine di Dio come persona e come comunità,
ma lo è anche nella sua attività nel mondo. Sappiamo dalla Sacra Scrittura[172] che Dio ha lasciato l’universo all’uomo come
un dono e un compito. Così, con il suo lavoro l’uomo collabora con Dio prolungando l’opera della
creazione e dando in tal modo un contributo importante alla sua comunità. Il lavoro, però, non è
solo un servizio reso alla comunità, ma anche un mezzo per la formazione di colui che lo compie. Infatti,
“l’uomo, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma anche perfeziona se stesso.
Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale
sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono
accumulare”[173]. L’uomo in altre
parole deve farsi facendo, costruirsi costruendo e questo vale di più del progresso tecnico, perché
“l’uomo vale più per quello che è che per quello che ha”[174]. Nel disegno di Dio il lavoro deve pertanto favorire lo
sviluppo integrale della persona umana e della società. “E’ l’uomo che è destinato a
umanizzare l’universo, non l’universo a meccanicizzare l’uomo”[175]. Un altro aspetto importante sottolineato dalla Gaudium et spes riguarda
l’autonomia del lavoro. Il concilio afferma che non solo l’autonomia dell’attività umana
è possibile, ma è necessaria ed è esigita dal cristianesimo. Il principio di
sussidiarietà perciò ha pienamente diritto di cittadinanza nel mondo del lavoro, come del resto il
principio di solidarietà. Non si può infatti parlare di autonomia completa ed assoluta perché
essa è sempre in riferimento al Creatore ed è limitata dal bene altrui. Quando ciò non avviene,
a causa del peccato, prevale l’egoismo e l’attività umana si esprime in maniera moralmente
disordinata, cosicché “gli individui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli
altri; e così il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità”[176].
Infine evidenziamo un’affermazione di straordinaria importanza secondo cui “il lavoro umano, che viene
svolto per produrre e scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici, è di valore superiore
agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzo”[177]. Con la Gaudium et spes, siamo di fronte dunque a due
idee fondamentali della dottrina sociale della Chiesa: il primato della persona sul lavoro e il primato del lavoro su
tutti gli altri fattori della vita economica.
Il lungo magistero di Giovanni Paolo II sul lavoro può essere sintetizzato
dall’enciclica Laborem exercens del 1981. Quando il Papa scrive si è già nella terza rivoluzione
industriale, quella dell’alta tecnologia elettronica, ma il lavoro si trova ancora al centro della questione
sociale. Il principio su cui poggia tutta l’enciclica è il seguente: il lavoro è per l’uomo
e non il contrario. Dunque si afferma il primato dell’uomo sul lavoro. Giovanni Paolo II ribadisce che il
soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo, tutto l’uomo. In questo senso tanto il comunismo come il
capitalismo selvaggio, tanto l’assistenzialismo come il consumismo incappano in un errore di fondo, quello di
considerare l’attività umana nell’ottica economicistica e materialistica, per cui il lavoro
è ridotto a solo dato economico e l’essere umano è considerato solamente nella sua dimensione
fisica, immanente, come pura “merce” e “forza-lavoro”. Per evitare questi errori fondamentali
è necessaria l’applicazione dei principi di solidarietà e di sussidiarietà, che come
abbiamo visto vanno sempre insieme. In questo caso sussidiarietà vuol dire che tutti gli uomini devono poter
lavorare, devono essere aiutati a trovare un occupazione, che sia però dignitosa, nella quale, cioè,
essi possano “esprimere al massimo le loro potenzialità, la propria intelligenza, autonomia,
imprenditorialità, creatività, in una parola la propria soggettività unica e
irripetibile”[178]. Al tempo stesso,
impegnarsi per dare un lavoro dignitoso ad ogni uomo significa realizzare la giustizia sociale per cui “sono
necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini
del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale
del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di
fame”[179]. Nei tempi moderni, aggiunge
Giovanni Paolo II, “più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri:
è un fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro è tanto più fecondo e produttivo, quanto più
l’uomo è capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e di leggere in
profondità i bisogni dell’altro uomo, per il quale il lavoro è fatto”[180].
Al primato dell’uomo sul lavoro ne seguono immediatamente altri: il primato del lavoro sul capitale, il primato
del lavoro sulla proprietà e sulle cose e il primato delle ricchezze immateriali sul mercato.
Il primato del lavoro sul capitale è sottolineato anzitutto sul versante della produzione e
dell’organizzazione del lavoro. In questo contesto solidarietà e sussidiarietà possono gettare
nuova luce sulle questioni delicate della flessibilità, dell’immigrazione e dell’accesso allo
“stato sociale”. Fenomeni che vanno affrontati in unità d’intenti tra sindacati,
imprenditori ed istituzioni, in vista del bene comune. Quando, ad esempio, in nome del profitto la
flessibilità diventa precariato a lungo termine è evidente che tale primato non viene rispettato e che
la società è malata. Bisogna essere solidali con le nuove generazioni che si affacciano nel mondo del
lavoro e che rischiano di essere schiacciate dalla logica della competitività selvaggia. I giovani vanno
aiutati a guardare con speranza al loro futuro e a trovare dunque, pur nella flessibilità,
un’occupazione stabile che permetta loro di costruirsi una famiglia.
Il primato del lavoro sulla proprietà e sui beni è strettamente correlato al principio della
destinazione universale dei beni: a essa è subordinato il diritto della proprietà privata e, nello
specifico, della proprietà dei mezzi di produzione. Essi, afferma il Papa, “non possono essere posseduti
contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo al
loro possesso – e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della
proprietà pubblica o collettiva – è che essi servano al lavoro”[181]. Viene suggerita dunque la socializzazione dei mezzi di
produzione, da non confondere con la statalizzazione. Infatti, “il solo passaggio dei mezzi di produzione in
proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla
“socializzazione” di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia
assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia
il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il “com-proprietario” del grande banco di lavoro, al
quale si impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto
è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a
finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei
pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole,
subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità,
cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte
attiva alla loro vita”[182]. Da qui,
coniugando solidarietà e sussidiarietà, l’indicazione pratica di forme di partecipazione alla
vita dell’impresa quali la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione alla gestione e ai
profitti delle imprese, l’azionariato del lavoro, in modo che ogni lavoratore si senta responsabile della sorte
del proprio fratello e al tempo stesso “possa conservare la consapevolezza di lavorare in
proprio”[183].
Il primato delle ricchezze immateriali sul mercato viene affermato da Giovanni Paolo II per sottolineare il grande
pericolo della idolatria del mercato. Se questo è assolutizzato, “se la produzione ed il consumo delle
merci finiscono con l’occupare il centro della vita sociale e diventano l’unico valore della
società, non subordinato ad alcun altro, la causa va ricercata…nel fatto che l’intero sistema
socio-culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla
produzione di beni e servizi…Quando l’uomo è visto più come un produttore o un consumatore
di beni che come un soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua necessaria relazione con la
persona umana e finisce con l’alienarla ed opprimerla”[184]. L’uomo non ha solo bisogni materiali che possono essere soddisfatti con le
merci; ha numerosi bisogni che non hanno accesso al mercato e a cui si può rispondere solo con dei beni
“che, in base alla loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comprare”[185]. Il lavoro, così, si presenta come uno strumento
mediante il quale produrre non solo beni materiali, ma soprattutto ricchezze immateriali in grado di soddisfare il
bisogno umano più profondo, ossia quello relazionale. Qui si inserisce, in virtù dei principi di
solidarietà e di sussidiarietà, la necessità per il lavoratore di partecipare in
un’autentica comunità solidale, in cui le sue relazioni non siano di esasperata competitività e
di reciproca estraniazione con gli altri lavoratori, ma gli consentano di esprimere le proprie capacità
collaborando con gli altri per una crescita comune. Tutto questo costituisce una ricchezza immateriale che dovrebbe
essere obiettivo primario del lavoro.
Oggi la società è sottoposta a continue e forti trasformazioni, anche nel mondo del lavoro. Le problematiche derivanti da tali cambiamenti richiedono soluzioni sempre nuove, tra cui applicazioni di nuove forme di solidarietà e di sussidiarietà. I due problemi più preoccupanti in Europa e che riguardano soprattutto le nuove generazioni sono la disoccupazione e la tenuta dei sistemi di protezione sociale.
Una lettura realistica della situazione in Europa ci mette oggi di fronte ai drammi della
disoccupazione e soprattutto della crescente precarietà del lavoro. In questa situazione è necessaria
“una visione socio-culturale che inquadri la nuova questione sociale del lavoro collocandosi dal punto di vista
della persona umana e non dei bilanci delle aziende o dei margini di profitto o di altri fattori puramente
economici”[186]. Il lavoro è un bene
essenziale per la persona umana non solo perché, senza di esso, l’individuo non potrebbe essere
soggetto, ma anche perché, come abbiamo già visto, il lavoro consiste di quelle relazioni da cui
dipendono lo sviluppo e il destino della singola persona umana. La perdita del lavoro comporta sempre diminuzione di
identità personale, menomazione dei diritti di cittadinanza, conflittualità sociali e, più in
generale, pericolo per le stesse democrazie. Di fronte ad uno scenario così preoccupante molti studiosi
avvertono la necessità di un’Europa forte ed unita dal punto di vista politico, perché
“l’ideale irrinunciabile di una piena e buona occupazione non può essere realizzato senza
politiche economiche e sociali sovranazionali”[187]. Per affrontare in modo vincente il problema scottante della disoccupazione,
l’insegnamento sociale della Chiesa propone il coinvolgimento, non solo degli Stati, ma anche di tutti i
soggetti sociali all’interno di una rete di solidarietà e di sussidiarietà[188].
In particolare l’insegnamento sociale della Chiesa in questi ultimi anni ha proposto di[189]:
L’attuale questione sociale del lavoro non riguarda solamente i problemi interni al mondo del lavoro, ma anche i problemi inerenti ai sistemi di protezione da attivare per chi si ritrova disoccupato. Partendo da una lettura attenta della dottrina sociale della Chiesa, riguardo ai principi di solidarietà e di sussidiarietà, si possono cercare delle proposte di soluzione attraverso:
Riguardo a quest’ultimo punto bisogna superare la tentazione di risolvere i problemi esclusivamente con l’indennità di disoccupazione. Questo perché uno “Stato sociale che salaria sistematicamente l’esclusione rende la società più ingiusta e tutti più poveri”[190]. Occorre invece perseguire la via difficile rappresentata dal giusto equilibrio tra politiche di indennizzo e politiche di sostegno all’occupazione. In altre parole si tratta di coniugare bene la solidarietà con la sussidiarietà. La persona ha diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, nel rispetto della sua libertà e responsabilità. Dunque non deve essere considerato mai esclusivamente come un puro e semplice destinatario di assistenza. Le politiche di indennizzo, pertanto, sono utili nella misura in cui favoriscono la crescita economica di un Paese, stimolando non solo i consumi ma anche la qualificazione professionale e l’imprenditorialità, soprattutto quella giovanile. Bisogna attivare nuove reti di solidarietà che, mediante appositi uffici ed agenzie, affrontano il problema della disoccupazione con riferimento alle persone concrete, con i loro particolari bisogni e le loro capacità e idee. “Così diventa sempre più evidente e determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e creativo e – quale parte essenziale di tale lavoro – delle capacità di iniziativa e di imprenditorialità...Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l’uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell’altro”[191]. In queste reti di assistenza è evidente che non basta il semplice intervento dello Stato, ma è necessario che siano coinvolte tutte le forze sociali, in modo che sindacati, associazioni di categoria e quant’altri concorrano alla realizzazione di un patto solidale e sussidiario per il lavoro.
Un altro ambito importante della vita sociale, in cui possiamo vedere chiaramente
l’applicazione dei principi di solidarietà e di sussidiarietà, è quello familiare. La
famiglia è la “prima e vitale cellula della società”[192]. Essa “possiede vincoli vitali e organici con la società,
perché ne costituisce il fondamento e l’alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla
vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini e nella famiglia essi trovano la prima scuola di quelle
virtù sociali, che sono l’anima della vita e dello sviluppo della società
stessa”[193]. La famiglia dunque è
il luogo privilegiato di sviluppo della socialità della persona. Secondo i Pontefici, la famiglia fondata
sul matrimonio è: società naturale, perché trae la sua origine dalla natura sociale
dell’uomo; società originaria, cioè auto-prodotta, in quanto si costituisce in ragione
di fattori autonomi, che hanno la loro fonte prima nelle singole persone intenzionate a formare
un’unità di vita sulla base del dono reciproco e totale di sé; società
primordiale, in quanto sta all’origine della società umana; società prestatuale,
perché precede lo Stato; società sovrana, non perché abbia un’autorità
illimitata, ma perché dotata di soggettività, esistenza, potestà parentale e finalità
etica proprie[194].
Riguardo al nostro studio ci interessa sottolineare soprattutto queste due ultime caratteristiche. La famiglia
è anteriore, autonoma e “sovrana” rispetto allo Stato, e anche alle altre società,
perché essa riceve esistenza e fini direttamente dalle persone che la fondano e la compongono. Pertanto lo
Stato, sulla base del principio di sussidiarietà, deve riconoscere, tutelare e promuovere l’autonomia
d’esistenza e di azione della famiglia, i suoi diritti e doveri. Non deve assorbirla o sostituirsi ad essa,
destituendola dalle sue funzioni, deresponsabilizzandola e assistenzializzandola, ma deve aiutarla[195], supplirla in caso di incapacità momentanee,
integrarla e sostenerla affinché possa rispondere alla sua vocazione[196]. La Familiaris consortio riporta in sintesi un elenco, che rimandiamo al lettore,
dei diritti propri della famiglia così come sono stati espressi dai Pontefici. Per fare un esempio ci
soffermiamo in particolare su uno di questi diritti: “educare i figli secondo le proprie tradizioni e valori
religiosi e culturali, con gli strumenti, i mezzi e le istituzioni necessarie”[197]. Questo diritto, ma anche dovere, è essenziale, primario,
insostituibile e inalienabile[198]. Tuttavia, se i
genitori sono i primi ed insostituibili educatori dei figli, non sono gli unici, perché anche lo Stato e altre
società, come quella religiosa, in ragione dei loro fini, hanno un compito educativo. I genitori, però,
in quanto primi responsabili, hanno il diritto di scegliere luoghi e strumenti formativi rispondenti alle proprie
convinzioni morali e religiose, come anche di fondare e sostenere istituzioni educative. Dall’altra parte lo
Stato ha il dovere di garantire tali diritti e di creare le condizioni concrete per poterli
esercitare[199]. In tal senso lo Stato, sulla
base dei principi di solidarietà e di sussidiarietà, deve non solo tollerare ma anche sostenere
economicamente le scuole non statali, quando queste ne abbiano bisogno[200]. Cosicché possiamo affermare che quando lo Stato rivendica il monopolio
scolastico oltrepassa i suoi diritti e offende la giustizia[201].
Il ruolo sociale della famiglia certamente non si esaurisce nell’opera procreativa ed educativa. “Le
famiglie, sia singole che associate, possono e devono dedicarsi a molteplici opere di servizio sociale, specialmente
a vantaggio dei poveri, e comunque di tutte quelle persone e situazioni che l’organizzazione previdenziale ed
assistenziale delle pubbliche autorità non riesce a raggiungere”[202]. Qui vediamo con chiarezza come la solidarietà sia strettamente
intrecciata con la sussidiarietà. Le famiglie sono chiamate a costituirsi in reti di solidarietà per
venire incontro, oltre che ai bisogni dei singoli, ai bisogni delle altre famiglie, del quartiere, della scuola,
degli ospedali e di tutte le altre realtà locali con le quali interagiscono. In tal modo la solidarietà
esercitata dalle famiglie risulta più flessibile ed efficace rispetto a quella delle strutture statali,
perché la famiglia è il soggetto sociale più vicino alle persone e ai loro bisogni. In altre
parole, lo Stato non può pensare di risolvere in modo adeguato tutti i problemi, di arrivare a soddisfare in
modo capillare tutti i bisogni delle persone senza la mediazione delle famiglie. Ed è proprio il principio di
sussidiarietà a difendere la necessità e l’originalità di tale mediazione.
Secondo Giovanni Paolo II “il compito sociale delle famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di
intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni
dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della
famiglia”[203]. Da parte sua lo Stato deve
riconoscere che la famiglia è “una società che gode di un diritto proprio e
primordiale”[204] e pertanto nelle relazioni
con essa è tenuto al rispetto del principio di sussidiarietà. “In forza di tale principio lo
Stato non può né deve sottrarre alle famiglie quei compiti che esse possono egualmente svolgere bene da
sole o liberamente associate, ma positivamente favorirle e sollecitare al massimo l’iniziativa responsabile
delle famiglie. Convinte che il bene della famiglia costituisce un valore indispensabile e irrinunciabile della
comunità civile, le autorità pubbliche devono fare il possibile per assicurare alle famiglie tutti
quegli aiuti – economici, sociali, educativi, politici, culturali – di cui hanno bisogno per far fronte
in modo umano a tutte le loro responsabilità”[205].
Dentro all’insegnamento sociale della Chiesa, dunque, vi è un concetto di politica che non si esaurisce
tutta nei partiti, nei governi e nei parlamenti. “Tra l’individuo e la società politica, nazionale
ed internazionale, devono esistere, vigorose e forti, tutte le varie espressioni politico-partecipative della
socialità umana, quale tessuto connettivo di una politicità diffusa, vissuta responsabilmente ed
attivamente da tutti i suoi soggetti naturali…La famiglia, all’interno di un simile quadro di molteplici
soggettività politiche, deve anch’essa assumere la propria e svolgere quella peculiare missione politica
che non può essere adempiuta da altri”[206].
Oggi sappiamo che la famiglia è attaccata da alcune tendenze culturali che di fatto la
stanno frammentando in una serie di forme surrogate di essa. Secondo alcuni, separazioni, divorzi, unioni di fatto,
pseudo-famiglie non fondate sul matrimonio, e quant’altro sono da ritenersi “conquiste civili”; in
realtà sono “soluzioni di ripiego, rimedi estremi a situazioni difficili e patologiche. Per gli studiosi
più seri, sembra si possa risalire la china se alla famiglia vengono incontro sia il sostegno della
comunità ecclesiale, che può facilitarne il recupero della consistenza etica e relazionale, sia
politiche sociali e nuove iniziative legislative che la rafforzino come istituzione fondamentale della
società”[207]. La situazione
difficile in cui si trova oggi la famiglia esige sforzi di solidarietà, ma va anche detto che, nel rispetto
della sussidiarietà, la protagonista della politica familiare deve essere la famiglia stessa.
In concreto le politiche che attualmente, secondo l’insegnamento sociale della Chiesa, possono essere messe in
atto a favore della famiglia sono:
In ogni caso, al di la delle soluzioni concrete, una vera politica per la famiglia non può prescindere da alcuni criteri fondamentali:
Il secolo scorso ci ha lasciato in eredità delle politiche familiari che, avendo perduto di vista la famiglia, hanno inseguito singoli bisogni e singole situazioni. Le sfide dei prossimi decenni consistono nel riscoprire l’autentico significato della famiglia e nel “rinnovare la filosofia che ha regnato negli ultimi decenni: la politica sociale va tradotta in politica della comunità locale intesa non come politica “per” la comunità, ma come politica fatta “dalla” comunità e la politica fatta dalla comunità locale deve adottare il punto di vista della famiglia e le qualità tipiche della sua azione, l’educazione e la cura. Il compito delle Istituzioni pubbliche deve diventare sostanzialmente quello di riconvertirsi da “gestori del tutto” ad “ordinatori generali”, secondo il principio di sussidiarietà”[210]. Ben vengano, dunque, quelle iniziative legislative e quelle concrete politiche di intervento che riconoscono alla famiglia dei precisi contenuti, cioè che la trattano come soggetto sociale delle nostre comunità locali. “Chi adotta una visione privatistica della famiglia come una scatola vuota dove gli individui possono esprimere le loro preferenze e i loro gusti a piacimento, senza alcuna ricaduta sociale né rilevanza pubblica, finisce per sostenere ancora una volta l’assistenzialismo e la passivizzazione delle famiglie”[211].
Possiamo senza ombra di dubbio affermare che la tesi iniziale del presente lavoro è stata
confermata dallo studio effettuato. Attraverso un percorso storico, fondativo ed esemplificativo, siamo giunti alla
conclusione che i principi di solidarietà e di sussidiarietà non solo sono fondamentali per la dottrina
sociale della Chiesa, ma sono anche tra loro strettamente correlati. Le interazioni reciproche analizzate ci
permettono di dire che i due principi sono come due facce della stessa medaglia.
II principio di sussidiarietà può essere definito come un antidoto all'accentramento, alla
collettivizzazione, alla creazione di monopoli, alla pianificazione totalitaria. Pensa ad una società
articolata in cui ogni livello svolge il suo compito insostituibile ed è aiutato dai livelli superiori a
poterlo fare. Bisogna però tenere presente che tale principio non può essere pensato come separato
dall'altro, quello della solidarietà, altrimenti si correrebbe il rischio di accentuare l'individualismo, la
divisione, il particolarismo e la chiusura in tanti piccoli orticelli. Il motivo per il quale accanto alla
sussidiarietà occorre porre la solidarietà è riconducibile, come si è visto, alla persona
umana. Infatti se le persone sono tutte diverse, esse sono però anche tutte uguali. Hanno la stessa
dignità, gli stessi diritti e doveri. Orbene: la sussidiarietà valorizza la ricchezza della
diversità, la solidarietà tiene conto del grande valore dell'uguaglianza. E' evidente allora che le
società superiori - nel senso da noi utilizzato - devono sì valorizzare la libertà e l'autonomia
delle inferiori, ma in un quadro di uguaglianza, di solidarietà e di salvaguardia del bene comune. Altrimenti
si favorirebbe il privilegio e la legge del più forte. Tra i tanti possibili esempi abbiamo visto quelli del
lavoro e della famiglia. Il principio di sussidiarietà vuole che lo Stato non si sostituisca alle persone
singole o associate, nel rispetto della loro dignità. Ma il principio di solidarietà chiede che lo
Stato non lasci il lavoro e la famiglia in balia di un capitalismo e di un individualismo selvaggi, ma tuteli i
diritti dei lavoratori e delle famiglie deboli, inquadrando l'attività lavorativa e familiare in una cornice
giuridica di diritti e doveri. Chiede in ultima analisi che intervenga per tutelare il bene comune. Il limite? Il
punto di equilibrio? Dovrà essere cercato di volta in volta dalla libertà umana, tenuto conto di questi
due principi della dottrina sociale della Chiesa che devono essere armonizzati. I quali, come abbiamo dimostrato, non
sono opposti ma complementari; l'uno non può stare senza l'altro. Se infatti si devono valorizzare le
società inferiori e la persona umana, è perché queste possano dare meglio il loro aiuto al bene
comune, perché cioè possano esprimere meglio la loro solidarietà, non perché si isolino
perseguendo scopi totalmente individuali e privatistici. Così, quando i poteri pubblici intervengono è
per ricostruire un'uguaglianza che possa permettere a tutti di essere protagonisti e non solo ad alcuni. Come si
è visto la sussidiarietà è per la solidarietà e viceversa.
[1] Cfr. Monti Eros, «Solidarietà», in Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa (a cura), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 77.
[2] Monti Eros, v. c., p. 79.
[3] Cfr. Monti Eros, v. c., p. 80.
[4] Cfr. Leone XIII, Humanum genus, enciclica sulla massoneria, 20 aprile 1884; In plurimis, enciclica sulla vergogna della schiavitù, 5 maggio 1888; Permoti nos, lettera sulla questione sociale fra i cattolici del Belgio, 10 luglio 1895; Graves de communi, enciclica sulla democrazia cristiana, 18 gennaio 1901.
[5] “E’ lecito dice san Tommaso, “anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni”. Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, “l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità”(S. Th., III-II, q. 66, a. 2)” (RN, n. 19).
[6] “A dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e unire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso” (RN, n. 36).
[7] “Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: “E’ meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi” (Qo 4, 9-10). E altrove: “il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prv 18,19)” (RN, n. 37).
[8] Per maggiori approfondimenti cfr. RN, nn. 7. 15. 19. 21. 26-29. 36-44.
[9] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», in La Società 3 (1998), pp. 517-518.
[10] Cfr. RN, nn. 38-47.
[11] Ibid, nn. 13. 25-27.
[12] Ibid, n. 27.
[13] Cfr. QA, nn. 77-99.
[14] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., pp. 519-524.
[15] Si tratta della solidarietà delle parti verso il tutto. Le persone e le società minori accettano di essere subordinate rispetto al bene della società maggiore.
[16] E’ la solidarietà del tutto verso le parti. La società maggiore si comporta in modo sussidiario nei confronti delle persone e delle società inferiori ad essa subordinate.
[17] Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 519.
[18] E’ quella forma di giustizia dinamicamente e dialetticamente correlata alla giustizia legale come sua coscienza critica e innovativa. “Come coscienza critica la giustizia sociale mira a denunciare tutte le ingiustizie perpetrate in nome della legge…Come coscienza innovativa la giustizia sociale è attivamente protesa al nuovo ordine sociale, ossia alla giustizia esigita dalle nuove emergenze” (Cozzoli Mauro, «Giustizia», in F. Compagnoni - G. Piana - S. Privitera (a cura), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, San Paolo, Cinisello Balsamo 19994, p. 512).
[19] Pio XII, «Summi pontificatus», in AAS 31(1939).
[20] Monti Eros, v. c., p. 81.
[21] In chiave personalista Pio XII definisce il bene comune come un ambiente sociale atto a favorire lo sviluppo globale di ogni persona e gruppo.
[22] Monti Eros, v. c., p. 81.
[23] “I rapporti tra le comunità politiche vanno regolati nella verità e secondo giustizia; ma quei rapporti vanno pure vivificati dall’operante solidarietà attraverso le mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria, sportiva: forme possibili e feconde nella presente epoca storica” (PT, n. 54).
[24] Cfr. ibid, n. 18.
[25] MM, n. 144.
[26] Cfr. Ibid, nn. 152. 154-155. 159.
[27] Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 529.
[28] Cfr. GS, n. 4.
[29] Ibid, n. 9.
[30] Cfr. PP, nn. 6-42.
[31] Cfr. ibid, nn. 43-87.
[32] Ibid, n. 17.
[33] OA, n. 47.
[34] RH, n. 16.
[35] “Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro.” (LE, n. 8).
[36] Ibidem.
[37] SRS, n. 38.
[38] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 532.
[39] Ibid, p.533.
[40] Ibid. p. 537.
[41] Feliciani Giorgio, «Sussidiarietà», in Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa (a cura), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 88.
[42] RN, n. 37.
[43] Feliciani Giorgio, v. c., p. 87.
[44] QA, nn. 80-81.
[45] Feliciani Giorgio, v. c., p. 87.
[46] Ibid., pp. 87-88.
[47] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 521.
[48] Pio XII, ai nuovi cardinali, discorso sulla funzione della Chiesa per la ricostruzione della società umana, 20 febbraio 1946.
[49] Pio XII, «Radiomessaggio per il 50° anniversario della “Rerum novarum”» in AAS 33 (1941) 195-205, n.19.
[50] MM, n. 42.
[51] Ibid, n. 40.
[52] PT, n. 74.
[53] GE, n. 6.
[54] GS, n. 86.
[55] Ibid., n. 75.
[56] PP, n. 65.
[57] OA, n. 25.
[58] Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali, «Communio et progressio, Istruzione pastorale sugli strumenti della comunicazione sociale», in Ench. Vat., vol. IV, 23 maggio 1971.
[59] Congregazione per l’educazione cattolica, «La scuola cattolica», in Ench. Vat., vol. VI, 19 marzo 1977.
[60] Pontificio consiglio Cor unum, «Servizi sanitari per un’azione sanitaria primaria», in Ench. Vat., vol. VI, 6 novembre 1977.
[61] Commissione Pontificia Iustitia et Pax, «Self-reliance: contare sulle proprie forze», in Ench. Vat., vol. VI, 15 maggio 1978, 766.
[62] Cozzoli Mauro, «Virtù sociali», in T. Goffi – G. Piana (edd.), Corso di Morale - vol. III: Koinonia, Queriniana, Brescia 20022, p. 150.
[63] Commissione Pontificia Iustitia et Pax «Self-reliance: contare sulle proprie forze», d. c., 769.
[64] Ibid., 771.
[65] Giovanni Paolo II, Al presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 8, Messaggio, 22 agosto 1980.
[66] FC, n. 45.
[67] LC, n. 74.
[68] Ibid., n. 73.
[69] DSCFS, n. 38.
[70] CA, n. 13.
[71] Ibid., n. 48.
[72] Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 534.
[73] CCC, n. 1885.
[74] Ibidem.
[75] Commissione ecclesiale Giustizia e Pace Cei, Stato sociale ed educazione alla socialità, nota pastorale, Paoline, Milano 1995, n. 44.
[76] DSCFS, n. 38.
[77] Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 539.
[78] Cfr. ibid., p. 540.
[79] LC, n. 72.
[80] Cfr. GS, n. 22.
[81] Pio XII, «Radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944», 5, in AAS 37 (1945) 12.
[82] Gen 1,27.
[83] Cfr. Gen 2,7.
[84] CCC, n. 357.
[85] GS, n. 12.
[86] Gen 1,28.
[87] Frosini Giordano, L’attività umana: per una teologia del lavoro, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 80.
[88] Cfr. Gen 1,4.10.12.18.21.25.
[89] Cfr. Gen 2,19-20.
[90] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, p. 61.
[91] EV, nn. 42-43.
[92] Cfr. 2Cor 4,4; Col 1,15.
[93] Scola Angelo, «Persona e società», in Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa (a cura), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 31.
[94] GS, n. 22.
[95] Monti Eros, v. c., p. 82.
[96] SRS, n. 38.
[97] Cambón Enrique, Trinità: modello sociale, Città Nuova, Roma 1999, p. 78.
[98] Cfr. Fil 2,7-8.
[99] Cfr. Mt 11,28.
[100] DSCFS, n. 16.
[101] LG, n. 9.
[102] GS, n. 32.
[103] Ibidem.
[104] Cfr. Cozzoli Mauro, Chiesa, vangelo e società, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 72.
[105] Cozzoli Mauro, «Virtù sociali», v. c., p. 149.
[106] Gal 6,2.
[107] GS, n. 32.
[108] SRS, n. 40.
[109] DCE, n. 14.
[110] 1 Gv 4,9.
[111] DCE, n. 16.
[112] Gv 14,9.
[113] Mt 25,40.
[114] Lc 10,29.
[115] Cfr. Lc 10, 25-37.
[116] Lv 25, 39-44.
[117] DCE, n. 15.
[118] Cfr. Cambón Enrique, o. c., p. 96.
[119] Cfr. Lc 15,11-32.
[120] Cfr. Lc 15,15.
[121] Cfr. Mc 1,22; Mt 7,28-29; Lc 4,31-37.
[122] Gv 13,13.
[123] Cfr. Mc 2,10; Mt 9,1-8.
[124] Cfr. Mc 9,14-29.
[125] Cfr. anche Mt 17,14-21.
[126] Cfr. Mc 1,16-20; Mt 4,18-22; Lc 5,1-11.
[127] Pescare un uomo è toglierlo dall’abisso del male per farlo vivere. “I discepoli, pescati alla vita dal Figlio, realizzano la loro filialità nel pescare i fratelli” (Fausti Silvano, Una comunità legge il vangelo di Matteo, EDB, Bologna 20012, p.58).
[128] Cfr. Mc 6,33-44; Mt 14,13-21; Lc 9,12-17; Gv 6,1-13.
[129] “L’ora avanzata è una particolarità di questo racconto…E’ il momento in cui si è soliti consumare il pasto principale; insieme al luogo solitario è l’occasione che spinge i discepoli a invitare Gesù a congedare la folla” (Gnilka Joachim, Marco, Cittadella Editrice, Assisi 19983, p. 356).
[130] Gv 6,35.
[131] Cfr. Mt 25,14-30.
[132] Fausti Silvano, o. c., p. 496.
[133] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., p. 66.
[134] Pio XII, Summi Pontificatus, d. c., 463.
[135] CA, n. 13.
[136] Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., pp. 67-80.
[137] Cfr. Concilio Lateranense IV, Cap. 1, De fide catholica: DS 800, p. 259.
[138] VS, n. 48.
[139] CCC, n. 44.
[140] Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., p. 69.
[141] Ibid, p. 70.
[142] GS, n. 26.
[143] GS, n. 17.
[144] LC, n. 75.
[145] Gal 3,28.
[146] GS, n. 29.
[147] Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., p. 76.
[148] GS, n. 29.
[149] Ibid., n. 12.
[150] CCC, n. 1880.
[151] Cfr. Leone XIII, «Libertas praestantissimum», in Acta Leonis XIII, 8 (1889) 226-227.
[152] Cfr. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., p. 80.
[153] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., pp. 538-539.
[154] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, o. c., pp. 101-102.
[155] RN, n. 2.
[156] Ibid., n. 34.
[157] Ibid., n. 32.
[158] Frosini Giordano, o. c., p. 133.
[159] S. TH., III-II, q. 66, a. 2.
[160] Ibidem.
[161] RN, n. 19.
[162] Ibid., nn. 16-17.
[163] Cfr. Ibid., n. 36.
[164] QA, n. 109.
[165] Frosini Giordano, o. c., p. 136.
[166] Höffner Joseph, La dottrina sociale cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 19956, p.138.
[167] MM, n. 31.
[168] Ibid., n. 92.
[169] Höffner Joseph, o. c., p.145.
[170] GS, n. 34.
[171] Ibidem.
[172] Cfr. Gen 1,26-27; 9,2-3; Sap 9,2-3.
[173] GS, n. 35.
[174] Ibidem.
[175] Frosini Giordano, o. c., p. 141.
[176] GS, n. 37.
[177] Ibid., n. 67.
[178] Bobba Luigi, «Il lavoro nel magistero sociale di Giovanni Paolo II», in La Società 1 (2006), p. 73.
[179] LE, n. 8.
[180] CA, n. 31.
[181] LE, n. 14.
[182] Ibidem.
[183] LE, n. 15.
[184] CA, n. 39.
[185] Ibid., n. 40.
[186] Donati Pierpaolo, «Il lavoro e la persona umana», in La Società 4-5 (2005), p. 588.
[187] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 542.
[188] Cfr. Giovanni Paolo II, «Discorso rivolto ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze sociali», in l’Osservatore Romano, Città del Vaticano, 30 aprile 1997, p. 5.
[189] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 543.
[190] Ibid., p. 544.
[191] CA, n. 32.
[192] AA, n. 11.
[193] FC, n. 42.
[194] Cfr Toso Mario, «DCS e Famiglia», in La Società, 2 (2004), pp. 215-219.
[195] Cfr. CA, n. 49.
[196] LF, n. 17.
[197] FC, n. 46.
[198] Cfr. Ibid., n. 36.
[199] Cfr. CCC, n. 2229.
[200] Cfr. LC, n. 94.
[201] Cfr. GS, n. 52.
[202] FC, n. 44.
[203] FC, n. 44.
[204] DH, n. 5.
[205] FC, n. 45.
[206] Toso Mario, «DCS e Famiglia», a. c., p. 231.
[207] Cfr. Toso Mario, «Solidarietà e sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa», a. c., p. 546.
[208] Cfr. Ibid., pp. 546-547.
[209] Cfr. Santolini Luisa, «Politiche familiari e società civile», in La Società, 2 (2004), pp. 260-261.
[210] Ibid., p. 262.
[211] Donati Pierpaolo, «Lavoro e famiglia: perché e come bisogna conciliarli», in P. Donati (a cura), Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, p.22.