Il 6 maggio 2006 sono stati celebrati i 150 anni dalla nascita di Sigmund
    Freud. Il padre della psicoanalisi è stato definito da P.Ricoeur, uno dei “maestri
    del sospetto” del pensiero moderno, insieme a K.Marx ed a F.Nietzsche. La sua
    rappresentazione della vita e della mente umana, infatti, insinuò che qualcosa si cela
    dietro ogni apparentemente ovvia affermazione della coscienza.
    
     Se la tradizione cristiana del discernimento dei desideri, dei sentimenti, dei sensi
    affettivi, ha sempre saputo questo, nondimeno Freud ha spinto la sua ricerca in una direzione
    allora completamente inesplorata, quella della permanenza nell’inconscio – e quindi
    della continua incidenza anche in età adulta - delle primordiali esperienze di vita di
    ogni persona, fin dal momento del parto (e, dopo Freud, la ricerca si è spinta ancora
    più oltre ad individuare la rilevanza delle condizioni che il feto, pur nel grembo della
    madre, ha percepito intorno a sé).
    
     I quattro contributi che il quotidiano Avvenire ha dedicato all’evento vogliono tutti
    indicare, pur nella diversità delle letture e delle interpretazioni, come solo
    apparentemente il pensiero freudiano, pur nella chiara impostazione positivista, possa apparire
    come un blocco monolitico. A distanza di 150 anni appare oggi evidente, invece, come differenti
    elementi, più o meno consapevolmente, furono integrati - o comunque rimasero
    interrogativi aperti - nell’elaborazione della psicoanalisi. Questi motivi divennero poi,
    nei seguaci di Freud, occasione di aperture e di approfondimenti.
    
     Abbiamo voluto aggiungere, per questo, ancora due testi. Un primo brano è di
    Leonardo Ancona ed è tratto dal suo splendido libro La psicoanalisi, La Scuola, Brescia,
    1984 (in particolare le pagg.52-57). Il volume è una presentazione genetica del sorgere
    della psicoanalisi nel pensiero di Freud, attraverso le differenti osservazioni cliniche e le
    successive interpretazioni teoriche del maestro. La psicoanalisi si manifesta così non
    come un “sistema” unitario, elaborato una volta per tutte, ma mostra tutte le
    progressive revisioni del suo stesso fondatore, che modifica e, talvolta, addirittura sconfessa
    delle proprie affermazioni precedenti. Ancona si sofferma anche sui punti che sono rimasti
    irrisolti nell’elaborazione della psicoanalisi, sugli elementi che Freud stesso non
    è riuscito ad armonizzare, a comprendere pienamente, per sua stessa ammissione (vedi, ad
    esempio, il preciso ruolo dell’istinto di morte).
    
     In particolare, il brano che presentiamo descrive la scoperta della sessualità
    infantile con il tentativo di caratterizzarne le fasi. Come Ancona stesso indica, la scoperta
    di questo mondo inesplorato fu così folgorante per Freud che, per capire la
    sessualità infantile ed adolescenziale, trascurò poi di tematizzare, invece, la
    possibilità di giungere ad una sessualità matura oblativa.
    
     Di questo si occupa la più ampia antologia che mettiamo a disposizione, tratta
    dall’importantissimo lavoro di Franco Fornari, prematuramente scomparso nel 1985,
    Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano, 1975 (in particolare brani
    dall’Introduzione e dalla Conclusione, pagg.9-31 e 228-237). L’osservazione clinica
    portò Fornari a comprendere, restando perfettamente all’interno della prospettiva
    psicoanalitica, l’apporto decisivo della “cultura”, del linguaggio, della
    comunicazione ed, in definitiva, dell’amore “oblativo” per una comprensione
    adulta dell’affettività e della sessualità.
    
     I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura dei testi
    on-line.
    
     Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi
    brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
    
     I quattro articoli di Marina Corradi sono apparsi su Avvenire del 12, 14, 20 e 26 aprile.
    Li ripresentiamo on-line per il progetto Portaparola
Il Centro culturale Gli scritti (16.07.2006)
Il prossimo 6 maggio sono 150 anni dalla nascita. Cosa resta di Freud,
    delle sue intuizioni e della rivoluzionaria terapia da lui concepita? Lo chiediamo, nella
    prima di una serie di interviste, allo psichiatra e saggista Eugenio Borgna.
    
    
     «Parlando di Freud oggi credo occorra distinguere il piano teorico da quello della
    prassi terapeutica. Sul piano teorico, egli resta innanzitutto il sostenitore dell'homo natura,
    spinto dall'istintività e dalle pulsioni inconsce, fondamentalmente da quella libido che
    è per lui la sola forza motrice della vita. Ciò che Freud chiama Io è solo
    una maschera che cerca di adeguare alla realtà gli impulsi. E’ l'Es, l'inconscio
    appunto, che ci determina implacabilmente. La libido nel suo dinamismo tende per Freud solo
    alla ricerca del piacere, e all'eliminazione della sofferenza. Tutto il resto - la
    libertà, la trascendenza, l'esperienza artistica - sarebbero solo sovrastrutture
    costruite su questa spinta primaria, e dunque illusioni. A una simile concezione dell'uomo si
    accompagna il modo di concepirlo: non soggetto portatore di libertà, ma quasi oggetto da
    esperimento, da esaminare con il distacco proprio delle scienze naturalistiche. Sul piano
    teorico dunque Freud si pone come portatore di una concezione dell'uomo freddamente
    positivista, materialistica, tesa a negare la piena autonomia della libertà».
    
    
     La teoria pare dunque datata, e condizionata dalla cultura dell'epoca. Ma, lei diceva,
    quanto alla prassi terapeutica…
    
     «Quanto alla prassi psicoanalitica, al modo concreto di curare, l'intuizione di Freud
    resta attualissima. La sua è una rivoluzione di metodo: là dove la psichiatria
    tradizionale si interessava solo di storia clinica e di sintomi, Freud mette al centro
    dell'osservazione la storia della vita del paziente. Torna alla sua infanzia, ascolta i sogni,
    i lapsus, le libere associazioni, un'immensa quantità di materiale che fino ad allora
    era stato liquidato con semplificazione estrema. In un certo senso Freud introduce nella
    terapia il tempo agostiniano, scopre un passato che guarda al futuro. Per lui, è vero,
    tutto si riduce a semplici avanzate o intralci delle pulsioni: ma la strumentazione tecnica
    ideata resta tuttora valida, e anzi insuperata e geniale. E’ ancora oggi la
    modalità concreta del curare e del confrontarsi con la sofferenza psicologica».
    
    
     Anche se teorizzava l'uomo «oggetto da esperimento in senso naturalistico»,
    Freud non inventa in realtà un rapporto medico-paziente forte e inedito?
    
     «Quel rapporto che in teoria doveva essere neutrale si confronta con la intensità
    del transfert del paziente, e del controtransfert da parte dell'analista. L' "oggetto" uomo non
    può lasciare il soggetto indagante impassibile. Si riproduce, in analisi, quella
    struttura fondamentale e portante di ogni relazione, che è il rapporto fra un io e un
    tu, e questa relazione è essenziale per la terapia».
    
    
     Un positivista che si è trovato a confrontarsi con la libertà di quello
    strano "oggetto" di osservazione, dunque? Ma in quel confronto avrà riportato anche
    delle sconfitte.
    
     «Senz'altro è crollata una certa pretesa di meccanicismo teorizzata da Freud,
    secondo la quale a una certa azione esercitata su un soggetto corrispondeva invariabilmente una
    uguale reazione. Era una pretesa di stampo positivista, un desiderio di scienza esatta che
    appunto si è scontrato con la libertà di ogni uomo, sconfiggendo anche
    l'affermazione teorica secondo cui solo la pulsione determinava rigidamente ogni
    comportamento».
    
    
     Che peso ha avuto il pensiero di Freud, che considerava la religiosità
    sovrastruttura e illusione, nella secolarizzazione del Novecento?
    
     «È stato un contributo forte. Per Freud la religiosità era l'illusione che
    l'uomo si crea per non riconoscere l'istintualità, la autentica sua dimensione;
    chiarendo la verità di questa istintualità la religiosità, affermava, era
    destinata a estinguersi. Freud è molto più radicale di Marx nella critica alla
    religione: per Marx questa era sì "oppio dei popoli", ma nel senso sociologico di mezzo
    utilizzato dal capitalismo per distrarre i proletari dalla coscienza del loro sfruttamento. La
    contestazione di Freud è invece radicale, ontologica: la religione è per lui
    illusione».
    
    
     E nell'avvento della rivoluzione sessuale, quanto ha contato il pensiero di Freud?
    
     «Indubbiamente il principio secondo cui tutto è istintualità, tutto
    è pulsione, sembra uno delle matrici culturali del nostro tempo, ma credo che questo sia
    dovuto più alla volgarizzazione di Freud, che al suo pensiero originario. Personalmente
    Freud era un uomo moralmente rigido, e dava grande importanza al matrimonio. Credo che,
    trasportato nella libertà sessuale dell'oggi, si indignerebbe. Anche la teorizzazione
    della dinamica fondamentale dell'uomo come ricerca del principio del piacere e esclusione della
    sofferenza potrebbe sembrare un'eredità freudiana trasmessa al nostro tempo. In
    realtà, questa mi pare una falsificazione, perché Freud parlava di piacere in
    senso intersoggettivo, e non egoistico come invece viene inteso oggi».
    
    
     L'intuizione terapeutica, il metodo, il rapporto medico paziente, lei dice, rimangono
    validi e insuperati. Tuttavia, dopo un grande entusiasmo negli ultimi anni non c'è una
    certa freddezza, o disillusione, attorno alla psicoanalisi?
    
     «Sì, è vero. Si contesta alla psicoanalisi di non poter curare le psicosi,
    ma questo lo aveva ammesso già Freud. C'è un allontanamento in parte dovuto
    all'avvento degli psicofarmaci, che a molti paiono la soluzione di ogni problema, facile e
    immediata, senza alcuna fatica. C'è contemporaneamente la diminuzione del desiderio di
    guardarsi dentro, cosa che richiede tempo e anche sofferenza. In fondo, nel rifiuto della
    prassi psicoanalitica freudiana penso ci sia anche il rifiuto del modello di sant'Agostino,
    quando diceva: "In interiore homine habitat veritas, noli foras ire".»
Che cosa resta attuale della "rivoluzione" del padre della psicoanalisi?
    Come il suo pensiero ha influenzato la cultura dell'Occidente? A 150 anni dalla nascita di
    Sigmund Freud, lo chiediamo ad alcuni psicoterapeuti. Qui parla lo psicoanalista di formazione
    junghiana Claudio Risé.
    
    
     «La psicoanalisi si presenta oggi un come un corpus estremamente differenziato - ma
    già le posizioni di Jung erano in parte divergenti da quelle di Freud - e tuttavia
    fondato su un elemento comune, che ne è anche il punto di forza: l'osservazione
    dell'inconscio. 150 anni dopo molte cose sono cambiate, ma una ha la forza dell'evidenza: e
    cioè che l'essere umano non sa tutto quello che gli occorre conoscere di se stesso, e
    che una parte delle sue potenzialità - ma anche delle sue sofferenze - affonda le radici
    in situazioni che gli sono ignote: nell'inconscio, dunque. L'esplorazione di questa parte
    oscura dell'uomo rimane la forza della psicoanalisi, perché, a mio avviso, è
    qualcosa che ogni terapia psicologica, per essere davvero efficace, deve in qualche modo
    percorrere. La massima intuizione di Freud quindi resta il suo essersi posto come osservatore
    di questo mondo inesplorato».
    
    
     Fu il primo in assoluto, a investigare l'inconscio?
    
     «In epoca moderna, e in un'ottica terapeutica, sì. Nel passato, sia nel Medioevo
    che nell'età classica, già si era guardato con interesse ai sogni: esistono
    trattati classici, come quello di Artemidoro, di osservazione della produzione onirica. In
    epoca moderna, invece, questa attenzione era tramontata, anche per via della posizione
    illuministica, che tendeva a ridurre l'uomo all'universo delle manifestazioni sensoriali o
    misurabili secondo i criteri delle scienze naturali. Col Settecento quindi l'osservazione
    terapeutica dell'inconscio era caduta in una zona d'ombra, da cui la trasse Freud».
    
    
     Quindi, in un'epoca post illuministica e ancora imbevuta di positivismo, fu un
    rivoluzionario?
    
     «Assolutamente sì. Qui sta anche però la sua ambiguità: nel
    tentativo di non rompere con un'interpretazione dei fenomeni, di stampo post illuminista e
    tardo positivista. Per esempio, pur introducendo la nozione di inconscio, il padre della
    psicoanalisi non abbandona il piano organicistico, con argomenti bizzarri. Sostiene, ad
    esempio, che quelle che egli ritiene il motore del comportamento umano, le pulsioni istintive,
    si modifichino "biologicamente" nell'organismo come risultato delle influenze storiche e
    sociali. Non regge, ma deriva dal tentativo di salvare una visione organicistica dell'uomo e di
    conciliare quindi le proprie scoperte con la cultura dell'epoca».
    
    
     In questo quadro va letta anche l'equiparazione delle credenze religiose a manifestazioni
    patologiche, sostenuta da Freud?
    
     «Freud ritiene la religione un'illusione, e legge le sue pratiche come forme di difesa
    ossessiva. Anche in questo è però fondamentalmente contraddittorio: in altri
    scritti riconosce la propria identità ebraica come assolutamente centrale all'interno
    della sua storia e del suo pensiero. Manifesta dunque la contraddizione caratteristica del
    conflitto tra ciò che egli è e va scoprendo, e la cultura del suo tempo - con la
    quale non vuole rompere. Freud stesso, del resto, appare turbato dalla riflessione su credenze
    religiose e dalla comparsa in esse dell'immagine della morte. La relazione con Jung, l'allievo
    prediletto, entra in crisi proprio per l'attenzione che l'allievo dà a questi temi, ed
    in due occasioni, durante discussioni su credenze trascendenti, il padre della psicoanalisi
    resta vittima di uno svenimento».
    
    
     Anche Freud dunque "rimuoveva" qualcosa?
    
     «È molto probabile, anche perché come tutti i padri della psicoanalisi era
    diventato psicoanalista senza essere psicanalizzato da nessuno. Non poteva conoscere
    perfettamente il suo inconscio, benché avesse tentato un'autoanalisi. Tutti sappiamo
    però che questo non è lavoro che si possa fare da soli, in quanto ciascuno tende
    a evitare i propri problemi più scottanti. E per Freud quello della vita oltre la morte,
    e delle relative credenze, era un punto molto delicato».
    
    
     L'intuizione freudiana fondamentale, secondo cui al fondo del comportamento sono le
    pulsioni di natura sessuale, è ancora valida?
    
     «Io ritengo molto utile il concetto di pulsione. Che poi tutte le pulsioni siano
    sessuali, egli stesso non lo pensava. Anche se la sfera sessuale è rimasta centrale nel
    suo pensiero. A un certo punto Freud chiama la teoria delle pulsioni "la nostra mitologia",
    come rendendosi conto che sta uscendo da un'osservazione strettamente empirica per spingersi
    nel campo dell'intuizione. Nella mia esperienza io trovo però tuttora insostituibile la
    teoria delle pulsioni come cifra della conoscenza psicoanalitica: non della totalità
    umana, ma di quali spinte elementari, ben riconoscibili, si manifestino nei pazienti, e nei
    loro comportamenti».
    
    
     La malattia nervosa è cambiata dalla Vienna d'inizio Novecento?
    
     «Sicuramente la patologie oggi sono diverse, e confrontando quanto osserviamo oggi non
    possiamo non vedere il limite centrale del freudismo tradizionale. Che a me sembra l'idea del
    "romanzo familiare" - la relazione fra padre madre e figlio/a - come fondamento e spiegazione
    di ogni patologia. Questo non è più vero, anche perché a Vienna veniva
    analizzata una struttura familiare specifica di quel periodo storico, oltre che di una certa
    classe sociale. La famiglia è cambiata, è diventata (o, per certi versi, è
    tornata a essere) più ampia, dando più spazio al collettivo sociale, ha preso
    più importanza la comunità, e alcune figure hanno conosciuto un profondo
    indebolimento. Questo vale soprattutto per la figura paterna, che nell'osservazione freudiana
    ha centrale importanza. Tuttavia, proprio indagando sulla relazione col padre Freud comincia a
    studiare un fenomeno che oggi è assolutamente preponderante fra le patologie: il
    narcisismo».
    
    
     Dunque intuisce quel "narcisismo di massa" che sarebbe tipico della modernità?
    
     «Con la sua insistenza sull'Edipo - mettendo al centro della osservazione dello sviluppo
    umano proprio il rapporto con la figura paterna - Freud intravede problemi che si sarebbero
    sviluppati in seguito. Per lui chi non supera l'Edipo - il bisogno della madre che s'accompagna
    alla rivalità col padre - non diviene psicologicamente adulto. Superare l'Edipo vuol
    dire però confrontarsi col padre, e accettarne la legge. Nella prefigurazione dei rischi
    di questo mancato incontro, e del non superamento del conflitto col padre come passaggio chiave
    dello sviluppo umano, Freud ha una profonda intuizione, che precorre i tempi. L'indebolimento
    del padre ha, in effetti, poi spinto l'uomo contemporaneo in quella che Freud definiva
    "perversione", cioè il non pieno sviluppo della personalità adulta, e l'arresto
    su oggetti d'amore infantili. La dipendenza dalla madre, o da tutti i sostituti della madre
    (come le dipendenze alimentari, l'alcol, la droga eccetera), esprimono la patologia
    narcisistica della modernità. Se il padre non c'è, o è debole, il
    conflitto edipico, infatti, non può risolversi».
    
    
     Aveva intuito tutto, dunque?
    
     «Aveva intuito molto, con tutti i limiti dell'attaccamento allo schema post illuminista,
    dell'organicismo di marca positivista, così come dell'avversione per il fenomeno
    religioso, tipica della cultura dell'epoca. La riduzione dell'indagine psicologica al "teatro
    familiare" appare certo meno difendibile nei tardo freudiani, oggi che la famiglia si è
    con assoluta evidenza trasformata, e che molte esperienze psichiche importantissime si
    sviluppano nel campo sociale, del consumo, dell'informazione. Ma questo, Freud non poteva
    prevederlo».
«Era un genio. Ha influenzato il nostro tempo più di qualsiasi
    altro. La sua è stata una rivoluzione culturale che ha introdotto questioni mai
    considerate in precedenza. E oggi, di Freud resta moltissimo, per quanto volgarizzato. Rimane
    l'intuizione dell'esplorazione dell'inconscio, e l'idea, gigantesca, che nulla è
    casuale. Il problema però è che per Freud tutto il comportamento umano è
    sovradeterminato da antecedenti di carattere psicologico - e oggi potremmo aggiungere genetico
    - e dunque eliminando la casualità egli elimina anche la libertà dell'uomo. Ed
    è questa negazione della libertà il lascito alla fine più forte, o
    negativo».
    
    
     Cosa resta di Freud, a 150 anni dalla nascita? Per Giancarlo Cesana, medico e psicologo,
    leader di Comunione e Liberazione, resta un'impronta profondissima che ha plasmato il
    Novecento. Ma ascoltando Cesana pare di cogliere una sorta di conflitto nei suoi confronti,
    come un essere diviso fra l'ammirazione per la genialità delle intuizioni freudiane, e
    l'inevitabile scontro di un cristiano con una teoria che al fondo, dice Cesana, nega la
    libertà: «L'uomo di Freud è governato dalle sue pulsioni, da un meccanismo
    psicologico che è alla fine riducibile a meccanismo biologico: dunque non è
    libero».
    
    
     L'idea di dissezionare la coscienza non era un procedimento di sapore positivista?
    
     «Freud era un neopositivista che, nell'ipotesi di partenza, pretendeva di costruire una
    psicologia scientifica. Tuttavia, la sua genialità ha finito nel tempo col tirare fuori
    anche le osservazioni opposte alla sua stessa ipotesi iniziale».
    
    
     Cioè, di fronte alla realtà osservata nell'uomo ha ammesso la sua non
    riducibilità a "oggetto" di classificazioni scientifiche?
    
     «Di fronte alla realtà non è stato cieco, e ha riconosciuto che l'uomo non
    è misurabile. Ha avuto anzi il coraggio di addentrarsi nell'analisi della psiche,
    accettando la sua misteriosità. Però Freud non ha mai rinunciato alla sua pretesa
    di una psicologia scientifica, e infatti per lui tutto è legato e determinato da
    antecedenti psichici».
    
    
     Sembra quasi che Freud veda qualcosa che non può ammettere pienamente, figlio
    com'è della cultura positivista.
    
     «Nel suo pensiero ci sono molti aspetti dimenticati, e fra questi proprio i più
    critici della sua teoria, che pure lui stesso ha introdotto. Per esempio nell'analisi
    dell'istinto di morte, cioè della distruttività, emerge la consapevolezza che la
    salvezza non viene dall'interno dell'uomo. Freud rinvia la positività ultima a qualcosa
    che è fuori da noi: perchè il principio del piacere, se non si esaurisce nel
    narcisismo, deve completarsi necessariamente in qualcosa di altro da noi. E a un certo punto
    Freud arriva anche a affermare esplicitamente che la salvezza viene senz'altro da fuori
    dell'uomo. Del resto, quando dice che l'analisi dovrebbe essere "interminabile", da un lato
    asserisce una pretesa risolutiva dell'analisi sulla problematica psicologica, ma dall'altro
    riconosce di avere iniziato una ricerca infinita, avendo percepito la misteriosità del
    terreno in cui si è avventurato».
    
    
     È buono o cattivo al fondo l'uomo, secondo Freud?
    
     «Non è un rousseauiano. Per lui l'uomo è buono ed è cattivo, in
    quanto soggetto a eros e thanatos. Freud è colui che ha osservato
    l'istinto di morte anche nei bambini, che ha distrutto il mito dell'innocenza infantile».
    
    
     Quanto l'eredità freudiana ha influito sull'avvento del permissivismo
    nell'educazione ?
    
     «La vulgata di Freud ha certamente a che fare col permissivismo, e con l'idea che si
    debbano liberare gli istinti repressi dalla società. Ma il suo pensiero autentico non
    è questo. Egli affermava che la formazione di un Super Io adeguato è un fattore
    di sanità, e dunque la repressione è fattore di sviluppo. La nevrosi, nel suo
    pensiero, è il risultato della mancata repressione dell'innamoramento del bambino per la
    madre - quindi, quella repressione è necessaria. Certamente Freud non era un
    permissivista».
    
    
     E quale è stato invece il peso di Freud, che definiva la religione nevrosi
    ossessiva, nella secolarizzazione dell'Occidente?
    
     «Il suo attacco alla religione rientra nell'opzione positivista: la religiosità
    è sublimazione che non riguarda il mondo reale. L'influenza sulla secolarizzazione
    è grandissima, più di quella del marxismo, perché qui il materialismo
    è portato a livello di esperienza individuale. E l'urto formidabile col cristianesimo
    è, oltre che nel problema della libertà, nel sopprimere la coscienza del mistero
    e la necessità di aderirvi».
    
    
     Anche la rivoluzione sessuale rientra fra i portati della psicoanalisi?
    
     «Su di questa ha avuto un'influenza fortissima: il ricondurre tutto l'agire umano al
    principio del piacere e la sovradeterminazione della libido su ogni altra spinta ha dato alla
    sessualità un peso inusitato».
    
    
     In positivo, Freud cosa ci ha insegnato?
    
     «Personalmente giudico molto importante il suo avere definito il disturbo mentale come
    una patologia dell'istinto, intendendo per istinto l'aspetto psicologico della biologia. Il
    collegamento della malattia mentale con un'alterazione della sfera istintiva salvaguarda, in
    contrasto col resto della teoria freudiana, la misteriosità della libertà umana.
    Se il disturbo mentale è legato a un disordine della istintività è insomma
    paragonabile a una malattia organica, a un mal di fegato; ma, come il malato organico, il
    nevrotico continua a essere libero. Ancora più importante però in Freud è
    l'avere indicato il legame profondo fra l'attrazione che l'uomo prova per la realtà, e
    la conoscenza. La conoscenza, dunque, come fatto affettivo».
    
    
     La relazione intensa che si crea reciprocamente fra terapeuta e paziente non era anch'essa
    qualcosa di inedito?
    
     «Il processo di tranfert e controtransfert descrive molto bene la dinamica del rapporto
    fra gli uomini. È interessante che il procedimento analitico si fondi sull'aspetto
    affettivo, in modo del resto paragonabile all'educazione. Melanie Klein sosteneva addirittura
    che per affrontare il problema di un bambino autistico occorreva un maternage, un
    ridiventare "mamma" del paziente . La dinamica affettiva del transfert riproduce un aspetto
    centrale dei rapporti umani».
    
    
     Cosa ne è oggi della pratica terapeutica della psicoanalisi?
    
     «Gli psicoterapeuti attuano spesso una psicoanalisi volgarizzata e portata in
    superficie: più un'analisi dell'Io che dell'inconscio, perché è più
    comodo, e più veloce. Una sorta di psicoanalisi annacquata ha invaso tutte le
    psicoterapie, sconfinando in campi in cui non c'entra niente. L'educazione stessa è
    diventata una forma di psicologia, e per questo non funziona. Non si riferisce più alla
    libertà di chi viene educato, non cerca un'adesione al vero, ma tende a convincere a
    comportarsi nel modo più socialmente conveniente. Oggi si crede, inoltre, di poter
    risolvere anche il problema del dolore con la psicologia. Si mandano terapeuti a chi ha appena
    subito un lutto, come se ogni perdita fosse aggiustabile con un trattamento, o una pillola. Ma
    il dolore ha a che fare con la questione della libertà. Il dolore dell'uomo, è
    l'uomo che non sa a cosa aderire per essere felice. E questo, non lo risolverà nessuna
    psicoanalisi».
A 150 anni di distanza dalla nascita di Sigmund Freud parla lo psichiatra
    Leonardo Ancona:
    
     «Da una parte la religione, con il primato della coscienza, dall’altra
    l’invito a soffermarsi sulla sessualità per risolvere i conflitti. Lo scontro era
    inevitabile, ed è proseguito fino agli anni ’50. Poi ci si è avviati verso
    una accettazione reciproca»
    
    
     “Il concetto di inconscio dinamico di Freud è qualcosa di tanto innovativo da
    essere paragonabile alla rivoluzione di Galilei, che ha posto la Terra alla periferia
    dell’universo; o alla rivoluzione biologica di Darwin, che ha tolto l’uomo dal
    centro del creato. Quella di Sigmund Freud è stata la rivoluzione psicologica:
    l’affermazione dell’inconscio, al posto della pretesa dell’Io di determinare
    totalmente la libertà dell’uomo». È una svolta epocale quella
    impressa dal fondatore della psicoanalisi alla cultura d’Occidente, secondo Leonardo
    Ancona, professore emerito di Psichiatria e Psicologia presso la Università Cattolica di
    Roma, che ha appena scritto un saggio sul rapporto fra psicoanalisi e cultura cattolica.
    
    
     «La psicoanalisi, - spiega il professore - interviene sulla percezione stessa che
    l’uomo ha di sé: supera l’idea di un’Io unitario e monolitico e
    comincia a pensarsi come un soggetto "multipartito", diviso fra una sfera cosciente, una
    inconscia e una ancora più profonda e radicata nel soma».
    
    
     Freud descrive un uomo come "spezzato" nelle sue componenti interiori, e dalle sue pulsioni
    dominato al punto, che la libertà appare quantomeno dubbia. Lei, studioso di Freud e
    credente, come si è posto di fronte a una tale prospettiva?
    
     «Su questi argomenti Freud è stato profondamente ambivalente. Il determinismo
    iniziale è stato smussato e anzi addirittura talvolta contraddetto. In principio aveva
    scritto che l’evoluzione umana non è in nulla diversa dall’evoluzione degli
    animali. Ma è lo stesso uomo che nel 1938 arriva a dire che "nell’oscurità
    in cui ci muoviamo l’unica luce che brilla è quella della profondità della
    coscienza"; e che "tutto ciò che ha a che fare con l’origine della religione ha
    qualcosa di grandioso di cui le nostre precedenti spiegazioni non hanno dato ragione". Verso la
    Chiesa cattolica, poi, l’ambivalenza è ancora più netta: nel 1938 la
    definisce "la nemica implacabile della libertà di pensiero e del progresso verso la
    conoscenza". Quattro mesi dopo, esule a Londra, scrive che nazismo è barbarie
    preistorica e che "solo la Chiesa cattolica stranamente oppone una potente difesa alla
    diffusione di un simile pericolo per la civiltà".»
    
    
     Un dualismo quasi schizoide.
    
     «Un dualismo che è stato interpretato. Freud, benché di famiglia ebraica,
    aveva da piccolo una tata cattolica di nazionalità ceca, che lo portava a messa, e gli
    parlava del paradiso e dell’inferno. Questa tata, di nome Nanni, un giorno fu accusata di
    furto e improvvisamente arrestata. Il bambino visse questo repentino abbandono come un
    tradimento e proiettò il suo rancore su tutto ciò che era cattolico. Non
    pronunciò mai più una parola in ceco, che pure parlava come una lingua
    madre».
    
    
     Al di là della vicenda personale, però, sembra comunque evidente che almeno
    all’inizio ci fosse un forte contrasto fra l’antropologia cristiana e quella
    freudiana.
    
     «Freud era uno scienziato del suo tempo, impregnato di positivismo. Le colonne del suo
    pensiero erano l’inconscio e la sessualità come luogo di conflittualizzazione
    dell’inconscio. Mentre il cristianesimo è fondato sul primato della coscienza. La
    Chiesa proibiva di soffermare il pensiero sui fatti della sessualità, la psicoanalisi
    invitava a farlo invece, per risolvere i conflitti. Lo scontro fra le due culture era
    inevitabile, ed è proseguito fino agli anni ’50. Poi poco per volta ci si è
    avviati verso una accettazione reciproca - padre Gemelli ne è stato uno dei protagonisti
    - e nella direzione di un riconoscimento del valore di Freud da parte della cultura cattolica.
    Dall’altra parte, oggi siamo al punto che su una della maggiori riviste di psicoanalisi
    scientifica del mondo si legge che "vi sono forme di pratica religiosa che si debbono valutare
    positivamente come sani sviluppi emotivi morali e spirituali analoghi a quelli che ci si
    può aspettare da un riuscito processo psicoanalitico"».
    
    
     Ma, professore, in quale senso si può paragonare una «buona»
    psicoanalisi a una «buona» pratica religiosa?
    
     «Le rispondo citando quelli che sono i fini del trattamento psicoanalitico secondo il
    grande psicoanalista agnostico e ebreo Servadio. Questi fini, o alcuni di essi, dunque sono: il
    passaggio dall’egocentrismo alla socialità. Il passaggio dallo stadio magico delle
    proprie proiezioni a quello in cui si valuta obiettivamente la realtà. Il cambiamento
    dall’inibizione nevrotica alla spontaneità, cioè anche da una bontà
    "coartata" a una bontà autentica. La riduzione dell’aggressività tramite la
    addomesticazione degli impulsi libidici, e la sua mobilitazione per scopi superiori... Non sono
    forse gli stessi fini della pedagogia cristiana?»
    
    
     Il dissidio originario per cui secondo Freud la religione era nevrosi ossessiva, o,
    comunque, sublimazione della realtà, è stato alla fine composto, e come?
    
     «L’avvicinamento è accaduto nella verifica che oggi sia la psicoanalisi che
    il pensiero giudaico cristiano muovono da una sincera ricerca della verità. Se è
    vero che la preoccupazione della ricerca della verità sta alla base del loro contrasto,
    può costruire anche un terreno di dialogo, nel riconoscimento reciproco di una tensione
    fondamentale. Sia psicoanalisi che pensiero giudaico cristiano tendono a riconoscere la
    verità tramite idee che vengono dal passato, non scientificamente provabili e in qualche
    modo inaccessibili alla mente. Noi di fronte alla fede siamo nell’oscurità, e gli
    psicoanalisti più moderni ammettono che di fronte all’inconscio occorre ammettere
    che procediamo senza certezze. Una comune tensione, dunque. Ma non solo: lo stesso Freud nel
    1929, parlando di Francesco d’Assisi, scriveva che "lo stato che raggiungono in questo
    modo queste persone con il loro sentire inalterabile e pieno di dolcezza somiglia ben poco alle
    tempeste dell’amore sessuato da cui pure è derivato. Francesco d’Assisi
    è forse l’esempio più insigne di come ci si possa servire dell’amore
    ai fini del senso interiore di felicità"».
    
    
     Una delle più ripetute accuse di Freud alla società era però di
    inibire le pulsioni dell’eros, reprimendo dunque l’autentico sviluppo
    dell’uomo.
    
     «Beh, questa è una delle topiche della psicoanalisi originaria. Il pansessualismo
    che poi lo stesso Freud abbandonò, è uno dei suoi limiti. Come anche
    l’istinto di morte. Non è vero che siamo dominati dall’istinto di morte:
    viviamo in una dialettica fra questo istinto e l’istinto di vita. La stessa
    rappresentazione che della famiglia dà Freud è oggi in parte superata, legata
    com’è alla borghesia viennese del primo Novecento. Ma questo nulla toglie alla
    grandezza insuperata della svolta freudiana, paragonabile, l’ho detto, alla rivoluzione
    di Galileo. Una rivoluzione ancora in parte da scoprire, colma di semi che devono ancora
    germogliare».
Il lavoro... Tre saggi sulla teoria della sessualità (1905)
    merita ampia considerazione, sia per l’importanza dei punti in essa trattati e gli spunti
    teorici che ne sono stati tratti, sia per gli equivoci che ne sono derivati, nonché per
    le violente proteste che provocò al momento della pubblicazione e in taluni non manca di
    suscitare anche ora. Nei suoi precedenti contributi Freud aveva già parlato di
    sessualità infantile; ma specialmente all’inizio, facendo appello ad
    attività che il bambino aveva subito, a delle antropomorfizzazioni della vita infantile
    per cui gli adulti proiettavano nei bambini la propria sessualità, e non aveva mai
    trattato della sessualità dei bambini come di qualcosa emanante dalla loro costituzione.
    Ammettere questo era quindi un concetto nuovo, che turbava gli animi in quanto ognuno crede
    legittimo e doveroso salvare l’infanzia dalle spire del sesso, dal momento che agli
    adulti riesce così difficile farlo, e soprattutto si trattava di un fatto che nessuno
    riusciva a scoprire nella propria infanzia passata.
    
     Freud fu molto esplicito al riguardo: nessuno può ricordarsi del proprio passato
    infantile, e della componente sessuale che lo ha caratterizzato, perchè un sipario
    è sceso ad impedire questa reminescenza; il sipario della rimozione, che ha
    confinato quel passato nell’inconscio, è la causa di tale universale
    “amnesia infantile”. In realtà l’aspetto sessuale della vita dei
    bambini è fuori discussione: basta osservarli con attenzione e senza pregiudizi per
    convincersene. Nel suo trattato O.Fenichel si è espresso con una frase molto efficace a
    questo proposito: “E’ impossibile osservare dei bambini senza vedere manifestazioni
    di questo tipo ed è più appropriato chiedersi non se esista una sessualità
    infantile, ma come sia stato possibile che un fenomeno così evidente non sia stato
    osservato prima da Freud. Questa inavvertenza è uno degli esempi migliori di
    ‘rimozione’ ”. Ma questa ammissione è da Freud integrata con una
    considerazione che la completa: “Si conviene di dire che questo istinto manca
    nell’infanzia, che si costituisce al momento della pubertà, ed in rapporto stretto
    con i processi che portano a maturità, che si manifesta sotto la forma di attrazione
    irresistibile esercitata da un sesso sull’altro, e che il suo fine sarebbe l’unione
    sessuale o, almeno, un insieme di atti che tendono a tal fine. Noi abbiamo tutte le ragioni per
    credere che questa descrizione non rende che assai imperfettamente la realtà. Se la si
    analizza da vicino, vi si scopre una quantità di errori, di inesattezze, di giudizi
    precipitati”.
    
     Freud ha così contrapposto a quelle tradizionali, le sue vedute a proposito della vita
    sessuale:
A questi assiomi corrisponde il fatto che, per riferirsi al bisogno
    sessuale, Freud ha usato un termine specifico, libido, che appare come una
    variabile psicologica pervasiva di tutti gli stadi della vita, dalla nascita alla morte, per
    quanto con aspetti fondamentalmente diversi nelle diverse fasi di essa.
    
     Da queste premesse deriva che la sessualità infantile è del tutto differente
    da quella della vita adulta ed anche nella stessa vita infantile si manifesta in forme di
    attività volta a volta diverse. La dimostrazione di ciò viene offerta dalla
    esposizione del secondo dei tre contributi teorici presentati da Freud, che si riferisce al
    problema delle fonti dalle quali deriva la libido. Intesa come capacità di provocare
    piacere elettivo, la libido appare innanzitutto come il risultato della eccitazione di
    particolari zone corporee, limitate ed ordinate in successione a seconda dell’età;
    a queste zone è stato dato il nome di zone “erogene” per la specifica
    funzione che svolgono.
    
     Prima zona erogena, e primo aspetto della libido, è quella che con Freud si è
    convenuto di denominare “orale”; tutta l’attività psichica dalla
    nascita fino alla fine del primo anno, si concentra sulla soddisfazione che dà la
    stimolazione della mucosa orale. Tale funzionamento si adagia sulla funzione nutritiva, che
    è prevalente in questo primo anno di vita, ma non è solo, e non è tanto,
    il bisogno di alimentazione che determina la libido: il bambino continua a succhiare anche
    quando è sazio e, se affamato, può trovare sollievo anche semplicemente
    succhiando. Tale soddisfazione è di carattere esclusivamente privato, senza
    considerazione di nessuna altra persona, per cui questa forma di libido è detta
    auto-erotica.
    
     Seconda zona erogena, e relativo aspetto della libido, è quella c.d.
    “anale”, perchè l’esperienza elettiva del piacere si connette con
    la funzione intestinale. “I bambini che utilizzano l’eccitabilità erogena
    della zona anale... trattengono le loro materie fecali, fino a quando l’accumulo di
    queste materie produce delle violente contrazioni muscolari, e, passando per lo sfintere anale,
    provocano sulla mucosa una viva eccitazione;... il contenuto intestinale, il bambino lo
    considera evidentemente come una parte del proprio corpo; per lui è un regalo che gli
    serve a provare, se lo concede, la sua obbedienza e, se lo rifiuta, la sua impuntatura”.
    In questa formulazione di Freud (1905) sono contenuti tre importanti fatti; il primo è
    che l’esperienza di piacere viene provata sia durante l’accumulo e la ritenzione
    delle feci, che durante la loro espulsione, fatti contraddittori in se stessi e che hanno
    ridotto E.Bleuler a chiamare questo periodo con il riuscito termine di
    “ambivalente” (1910); il secondo è che il modo di manifestarsi libidico non
    è più autoerotico come nel primo stadio evolutivo, ma implica direttamente la
    presenza e la interazione con gli altri ed il modo positivo e negativo con cui si strutturano
    le relazioni con essi; il bambino è per la prima volta padrone di una funzione e sembra
    servirsene per affermare il suo volere nei riguardi degli altri. Il terzo fatto è che
    il modo con cui le feci vengono tesaurizzate (con compressione) ed eliminate, richiama un
    comportamento aggressivo, che ha fatto chiamare questo periodo col nome di
    “sadico-anale”.
    
     Terza zona erogena, e terzo modo di presentarsi della libido, è quella che si
    instaura a partire dal terzo fino al quinto, quinto anno e mezzo. L’esperienza elettiva
    del piacere abbandona in questa epoca le altre mucose e si concentra infine su
    quell’organo genitale che la conserverà per tutto il resto della vita. Questo
    periodo viene di conseguenza chiamato “fallico” ed è da esso che
    prenderà avvio la vita sessuale adulta, sia perchè è da qui che le altre
    tendenze si subordinano a quella fallica, sia perchè la ricerca generale del piacere si
    integra nella funzione sessuale. Allo stadio fallico, tuttavia, la sessualità adulta
    è ancora lungi dall’essere raggiunta, come è dimostrato dal fatto che
    la libido trova soddisfazione esclusivamente nella urinazione e nella manipolazione
    dell’organo (che per la bambina è rappresentato dal clitoride). La comparsa della
    masturbazione infantile, ordinariamente prevalente a questa età in confronto alle
    precedenti, è un indice di tale localizzazione della libido.
    
     Infine la teoria freudiana considera un ultimo periodo di maturazione, che è proprio
    della vita adulta; la libido è ancora polarizzata agli organi genitali, ma a differenza
    del periodo immediatamente precedente non trova la sua specifica espressione nella
    manipolazione degli stessi, la trova invece nel loro uso strumentale. Ciò non implica
    soltanto l’esercizio della attività sessuale vera e propria, ma particolarmente il
    fatto che essa venga prestata in modo reciprocamente donativo, perchè solo in tal
    caso la libido di questo stadio trova la sua specifica soddisfazione: l’attività
    sessuale è a questo punto unificata, polarizzata da un solo oggetto e da un solo fine,
    in una parola dall’organo genitale della persona amata dell’altro sesso.
    
     La quarta zona erogena e il quarto modo di manifestazione libidinale hanno ricevuto da
    Freud il nome di “genitale” per tale connotazione di oblatività che la
    collega direttamente alla generazione di nuove vite. Il carattere di maturità che
    è intrinseco alla libido genitale, giustifica il fatto che fra il periodo
    “fallico” e quello “genitale” il passaggio sia meno immediato che fra
    gli altri periodi; di fatto, esso è caratterizzato da un lungo periodo di
    neutralità, come di sopimento degli istinti, che dura dai cinque, sei anni fino al
    periodo dell’adolescenza, e che per il suo carattere è chiamato periodo di
    latenza. Allo stesso modo si giustifica il fatto che alla libido genitale venga
    riconosciuto un valore qualitativamente diverso da quella orale, anale e fallica, per cui a
    queste, riunite nella espressione di “pregenitali”, viene attribuito un carattere
    di auto-erotismo, di narcisismo, mentre alla libido genitale spetta la qualifica di
    “allo-erotica” o altruista, per la considerazione degli altri che le è
    intrinseca. (...)
    
     L’importanza della distinzione fra i concetti di fallico e genitale, sovente assimilati
    negli scrittori di psicoanalisi, è stata sottolineata nel recente contributo di
    F.Fornari, Genitalità e cultura (1975). Questo A. è partito dalla distinzione in
    parola per riformulare i modelli freudiani di genitalità e virilità e per
    dimostrare un rapporto originale, promotivo tra sessualità e cultura.
Vorrei esporre, in questa introduzione, i punti di riferimento essenziali
    che mi serviranno per sviluppare nel libro una concezione della sessualità che si
    discosta sia da quella pessimistica di Freud, sia da quella biologistica di W.Reich, sia infine
    da quella orfico-narcisistica di H.Marcuse.
    
     I vari tentativi di rivoluzione sessuale che si sono succeduti nella scia della teoria
    freudiana della sessualità hanno fallito in gran parte il loro scopo. La causa di
    tale fallimento può essere attribuita al fatto che essi si sono sempre fondati
    sull’antagonismo fra natura e cultura ed hanno sempre sperato di arrivare alla
    “liberazione” attraverso il recupero della natura repressa dalla cultura.
    
     Si tratta di solito di progetti liberatori che non solo si collocano su un certo sfondo
    utopico, ma si scontrano, di fatto, con un vero e proprio compito impossibile, quale è
    quello che si trova davanti inevitabilmente chi, come l’uomo, essendo animale culturale
    voglia ritornare ad essere animale puramente animale. Il fatto stesso di porsi in una
    prospettiva di ritorno alla natura non può essere per l’uomo, che un progetto
    essenzialmente culturale. Colui che si propone di ritornare alla natura prescrive infatti
    un qualche cosa che proibisce qualche cosa d’altro: instaura cioè un codice
    culturale. Ogni progetto di recupero della natura non può aver senso che
    all’interno di un discorso culturale.
    
     Con questo saggio mi propongo pertanto di favorire un disegno di liberazione sessuale partendo
    anziché da un impossibile progetto di ritorno alla natura, da una valorizzazione della
    cultura, quindi da un supplemento di cultura.
    
     Come tutte le altre attività umane, l’amore può essere fatto bene o fatto
    male, con buon gusto o con cattivo gusto. Il fare all’amore si trova pertanto
    sottoposto a fondamentali criteri di valore, ai quali sottostanno in genere tutte le
    attività culturali.
    
     Alla sessualità è però capitato in sorte di essere considerata una specie
    di forza naturale imprigionata, che si tratta di liberare anziché essere considerata una
    forza naturale che deve essere simbolizzata e che lo può essere in modi più o
    meno adeguati, seguendo determinati criteri di valore. Personalmente sono però persuaso
    che quest’ultima prospettiva sia la migliore, e questo libro vuole essere una
    testimonianza in questo senso.
    
     L’idea della sessualità come forza naturale incatenata può essere
    considerata centrale nella psicoanalisi. La teoria freudiana della sessualità è
    fondamentalmente basata sulla rimozione e sulla repressione come momenti apicali del conflitto
    tra sessualità e civiltà, cioè tra natura e cultura.
    
     Questo libro intende sviluppare una teoria della sessualità che, partendo dalle
    concezioni psicoanalitiche classiche, arriva ad una formulazione diversa della concezione
    freudiana. Io ritengo infatti che il vero conflitto non si collochi nel rapporto tra
    genitalità e cultura, bensì nel rapporto tra genitalità e
    pregenitalità. Non esiste, a mio avviso, una evidenza clinica che supporti un conflitto
    di base tra genitalità e cultura.(...)
    
    
     Desidero prendere in esame due fattori specifici. Il primo di questi fatti riguarda
    l’eiaculazione precoce e il secondo riguarda i tentativi di rapporti sessuali che si
    verificano in bambini al di sotto di sei anni. Nella mia esperienza clinica riguardante il
    trattamento di eiaculazione precoce, sono rimasto colpito da una relazione inaspettata tra
    il piacere genitale e la comunicazione verbale durante il rapporto sessuale. Benché
    si tratti di un settore piuttosto inesplorato, è noto che durante il rapporto sessuale
    l’uomo e la donna comunichino tra di loro per mezzo di parole. A proposito di tale
    comportamento, ho avuto l’opportunità di avere informazioni su diverse forme di
    comunicazione verbale, durante l’esperienza d’amore. Esiste ad esempio la
    tendenza da parte di alcuni di parlare del più e del meno, cioè a parlare di
    qualcosa di indifferente rispetto al fare all’amore, durante il rapporto sessuale.
    Discorsi del genere possono essere considerati una difesa contro l’ansia mobilitata
    dall’accoppiamento. Esiste un secondo modo di verbalizzare i propri pensieri concentrando
    il discorso sull’accoppiamento, ma in modo sadico. Si tratta della tendenza a dire parole
    oscene durante la copula. Esiste poi un terzo modo di verbalizzare il rapporto sessuale, che
    non solo è centrato sull’accoppiamento ma ha un contenuto affettuoso, tenero e
    poetico. Per i problemi attinenti al rapporto tra genitalità e cultura, sono
    particolarmente interessanti gli ultimi due modi di verbalizzazione: il linguaggio sporco e
    quello tenero-poetico.
    
     Il linguaggio sporco può essere considerato il linguaggio pregenitale, mentre il
    linguaggio tenero-poetico può essere considerato il linguaggio genitale. Le parole
    sporche sono in realtà parole “anali”. Le parole tenere possono essere
    considerate parole genitali perchè hanno la funzione di trasmettere vocalmente il dono
    reciproco di simboli d’amore, allo stesso modo in cui il contatto genitale trasmette
    il desiderio reciproco del dono del piacere.
    
     Nel caso di alcuni pazienti affetti da disturbi della potenza sessuale ho constatato una
    relazione specifica tra il linguaggio sporco e l’eiaculazione precoce. Tale relazione si
    contrappone a un’altra altrettanto specifica tra il rapporto sessuale normale e il
    linguaggio affettuoso e tenero. Il linguaggio sporco durante l’accoppiamento è
    collegato a fantasie inconsce a contenuto pregenitale espresse in sogni e sintomi nevrotici.
    Non solo, ma ho potuto anche verificare che il linguaggio tenero-poetico è connesso con
    fantasie genitali preconsce riferite specificamente a scambio di doni.
    
     Poiché sia il linguaggio sporco che quello tenero sono ambedue espressioni culturali, i
    fatti clinici che ho brevemente illustrato offrono la possibilità di mostrare la
    relazione tra la funzione sessuale e la simbolizzazione culturale: più precisamente tra
    la funzione sessuale e la simbolizzazione genitale e pregenitale. Di fatto, la
    simbolizzazione pregenitale (linguaggio osceno) tende a innalzare il piacere preliminare in
    modo che questo arriva a prevaricare sul piacere finale, provocando in tal modo la
    precocità della eiaculazione. La simbolizzazione genitale (linguaggio
    affettuoso-poetico) sembra invece avere la funzione specifica di favorire il primato genitale,
    in quanto promuove la possibilità di controllare il piacere preliminare e impedisce che
    questo prevarichi sul piacere finale.
    
     Si può pertanto constatare che la più specifica manifestazione
    dell’attività culturale umana, cioè il linguaggio, nelle sue due forme di
    linguaggio osceno e tenero-poetico può essere presa come punto di riferimento per una
    sperimentazione clinica sull’influenza che la cultura esercita sulla sessualità
    umana. Si arriva in tal modo a verificare che il linguaggio, attraverso la sua funzione
    simbolica, promuove effetti diversi sull’andamento dell’eccitazione sessuale
    durante la copula, in relazione ai contenuti opposti, genitali o pregenitali, della
    simbolizzazione verbale stessa.
    
     Dal momento che il processo di simbolizzazione verbale costituisce l’aspetto essenziale
    della cultura umana si può pertanto ritenere che l’influenza del linguaggio
    sull’attività sessuale non è, in sé e per sé, di tipo
    repressivo. La cultura attraverso il linguaggio, può intervenire in effetti in modi
    antitetici sul processo di eccitazione, orientandolo nel senso del primato genitale e della
    possibilità di controllo del piacere preliminare, oppure nel senso della prevaricazione
    del piacere preliminare sul finale.
    
     Com’è noto il rapporto sessuale umano comprende due fasi: una prima fase nella
    quale l’eccitamento è sottoposto a controllo volontario, e può essere
    mantenuto in stato di relativa sospensione, e una seconda fase nella quale l’eccitamento
    assume il carattere di urgenza dello scarico, che non tollera sospensione se non a scapito di
    una interferenza negativa nella possibilità di fruire adeguatamente dell’orgasmo.
    La prima fase, sottoposta ad un relativo controllo volontario può avere durata
    variabile, cioè un tempo di discrezione. Il tempo di discrezione della prima fase del
    rapporto sessuale è molto importante per il buon andamento del rapporto sessuale.
    Dipende infatti dal tempo di discrezione la possibilità per l’uomo o per la donna
    di adeguare l’accoppiamento alle esigenze del reciproco scambio del dono del piacere. La
    parola durante l’atto interviene di solito nella prima fase e con effetti diversi.
    Allorché si tratta infatti di parola indifferente, di un parlare d’altro, si
    produce inibizione del processo di eccitamento. La parola sporca porta invece alla contrazione
    del tempo di discrezione, mentre la parola tenera porta alla dilatazione del tempo di
    discrezione.
    
     Si può pertanto vedere come la cultura, attraverso la parola, può
    specificatamente influenzare il processo sessuale, ma in modi diversi: in senso negativo, ma
    anche in senso positivo.
    
     Sul piano clinico non esiste quindi la possibilità di dimostrare semplicemente
    l’antagonismo tra natura e cultura, in quanto tale relazione si presenta sotto certi
    aspetti antagonistica e sotto certi altri isomorfica. Si può dire cioè che una
    cultura che privilegi lo scambio reciproco di cose buone non solo è isomorfica alla
    genitalità, ma produce una specifica influenza positiva, se espressa attraverso i
    simboli, sulla quantità e qualità del piacere e sul tempo di discrezione nel
    quale il piacere può essere fruito.(...)
    
    
     In realtà nell’esaminare i rapporti tra sessualità e cultura, mi sono
    trovato ad assumere una posizione che si discosta, sotto molti aspetti dalla posizione di
    Freud. La teoria freudiana non è però monolitica, né definitiva.
    E’ anzi sfaccettata ed aperta a diverse sistemazioni possibili di fronte a fatti nuovi.
    Per questo si possono riscontrare in Freud stesso alcune posizioni che giustificano un
    cambiamento di impostazione nella teoria generale della sessualità.
    
     E’ mia impressione che la scoperta della sessualità infantile abbia abbagliato
    Freud fino al punto di fargli oscurare la visione della sessualità adulta.
    Nonostante Freud abbia nettamente distinto genitalità e sessualità, ogni
    discorso analitico sulla sessualità rischia di diventare sempre un discorso di
    sessualità infantile. Anche questo libro non fa eccezione a questa regola
    perchè in effetti un discorso che non parta dalla fondazione infantile non può
    considerarsi psicoanalitico.
    
     Il riferimento all’infanzia implica il transfert, ed il transfert, assieme alla
    resistenza, costituisce, per Freud, la condizione indispensabile e sufficiente per qualificare
    una ricerca come psicoanalitica.
    
     Anche il mio discorso sulla genitalità parte dunque dall’infanzia. Poiché
    però ritengo che si debba accentuare la specificità che la genitalità ha
    rispetto alla sessualità infantile, il mio riferimento all’infanzia riguarda
    soprattutto la pregenitalità.
    
     Il punto nel quale mi discosto da Freud è quello riguardante l’esistenza di
    una fase genitale e perfino di un abbozzo di primato genitale nel bambino. A maggior
    ragione mi discosto, su tale punto, da Melanie Klein, che ha radicalizzato il concetto di fase
    genitale infantile attraverso la teoria della genitalizzazione precoce. Cercherò di
    mostrare che anche l’edipo non può essere inteso come organizzazione genitale ma
    dev’essere considerato un universo di fantasie pregenitali. Nella mia ricerca rivolta
    ad una nuova teoria della sessualità, soprattutto in riferimento al suo rapporto con la
    cultura, mi è sembrato degno di particolare interesse il concetto di “pulsione
    di appropriazione”.(...)
    
    
     Anche sotto questo aspetto la posizione di Freud è sfaccettata ed aperta. Dopo avere
    sottolineato l’importanza della repressione sociale come repressione esogena, legata al
    sentimento di colpa di accatto, egli è stato portato a valorizzare il sentimento di
    colpa inconscio che considera una cultura pura di istinto di morte. Questa ultima posizione del
    pensiero freudiano sposta il conflitto all’interno della vita istintiva sotto forma di
    conflitto tra istinti anziché nel rapporto tra questi e la cultura. Non solo, ma il
    legame tra istinti di morte e pregenitalità, evidenziato dallo stesso Freud, fa supporre
    che l’antagonismo fondamentale che è nella sessualità umana si collochi
    nella contrapposizione tra genitalità e pregenitalità. Un tale antagonismo
    può essere formulato come conflitto tra pregenitalità, come pulsione di
    appropriazione e accoppiamento distruttivo, e genitalità, come pulsione di scambio e
    accoppiamento creativo.
    
     Per Freud, però, pur esistendo una pulsione di appropriazione, non esiste una
    pulsione di scambio. Si può parlare di pulsione di scambio, a mio avviso, solo andando
    al di la della teoria della libido come puramente pulsionale, per collegarla invece
    all’Eros come istinto di vita che presiede al formarsi di aggregati sempre più
    vasti: una libido ad opera della quale il soggetto è più volto a creare
    nuovi legami che non preoccupato di mantenere basso il livello di tensione.(...)
    
    
     Mentre Freud ipotizzava un conflitto di base tra cultura e sessualità, spero, partendo
    dallo stesso Freud, di riuscire a porre in evidenza come esista una forma di
    solidarietà tra genitalità e cultura. Ciò non significa evidentemente che
    il conflitto tra cultura e sessualità non esista. Esso esiste, ma si colloca
    all’interno di due organizzazioni istintuali, e cioè tra genitalità e
    pregenitalità. Ciò equivale a dire che il conflitto che travaglia la vita
    psichica umana è intraistintivo. Non è tra istinti e cultura, bensì tra
    due organizzazioni istintuali: tra l’organizzazione pregenitale e l’organizzazione
    genitale.(...)
    
    
     L’identificare la pregenitalità con l’istinto di morte richiede una
    contrapposizione radicale tra pregenitalità e genitalità che va al di là
    di Freud. Prima di Al di là del principio del piacere (1920), anzi, egli sembra
    spesso confondere le due cose. Nei suoi scritti sulla sessualità, tale confusione
    è così spesso palese da lasciare perplessi. D’altra parte Freud non ha
    potuto rivedere le sue concezioni della sessualità dopo avere enunciato l’istinto
    di morte, nel quale il sadismo e il masochismo hanno una parte essenziale. Egli cioè
    riteneva che non fosse possibile trovare l’istinto di morte se non mescolato agli istinti
    di vita, per cui la confusione tra pregenitalità e genitalità, che si riscontra
    nei suoi scritti sulla sessualità, permane anche con l’ultima sua formulazione
    della vita istintiva.
    
     Affermare che Freud ha confuso genitalità e pregenitalità può apparire
    ingiusto. Dei Tre saggi (1905), il terzo è dedicato alle trasformazioni della
    pubertà e al primato genitale. Il saggio in cui enuncia la teoria
    dell’organizzazione genitale infantile, che a mio parere è il principale
    responsabile della confusione tra pregenitalità e genitalità, è
    però del 1923, posteriore quindi all’Al di là del principio del
    piacere (1920). In tutti i saggi sulla sessualità scritti dopo il 1920, manca una
    revisione dei concetti di organizzazione genitale e organizzazione pregenitale, che sarebbe
    stata da attendersi se, come egli afferma nell’Al di là del principio del
    piacere (1920), le fasi pregenitali, caratterizzate dal sadomasochismo, sono fortemente
    interferite dall’istinto di morte.(...)
    
    
     A mio avviso, il modo in cui il comportamento maschile e il comportamento femminile si
    integrano nel concreto rapporto genitale, è di complessità tale che non si
    lascia ridurre ad attività e passività. E d’altra parte il ridurre il ruolo
    femminile alla passività e al masochismo, e il ruolo maschile all’attività
    e al sadismo, costituisce proprio una descrizione del maschile e del femminile in termini
    pregenitali.(...)
    
    
     La riflessione svolta sul significato delle perversioni come discorso confusivo e di
    rinnegamento della dipendenza dall’oggetto genitale e di sopravvalutazione
    dell’oggetto pregenitale, si riferisce in realtà anche all’inversione.
    Prescindendo dai rapporti anali che possono intervenire negli omosessuali, l’inversione
    appare soprattutto prodotta, oltre che dalla confusione corporea, dalla confusione di
    persone, sia in riferimento al self che al non-self. Nell’esperienza
    clinica l’omosessualità appare fondamentalmente sostenuta da un processo di
    identificazione introiettiva, in cui il soggetto è identificato confusivamente con la
    madre, e da un processo di identificazione proiettiva, in cui l’oggetto (il partner)
    è identificato confusivamente con se stesso. L’omosessuale costruisce
    cioè un fondamentale rapporto narcisistico negando la propria distinzione dal proprio
    partner.(...)
    
    
     La capacità di simbolizzazione diacritica è raggiunta dal bambino con il
    costituirsi del pensiero operativo, verso i 6-7 anni: al periodo cioè del tramonto del
    complesso edipico. A mio avviso, la rimozione dell’edipo comporta la rimozione della
    pregenitalità, come condizione per il costituirsi dell’uomo come animale
    simbolico, non solo in senso affettivo-confusivo, ma anche in senso operativo-diacritico.
    L’accesso alla genitalità esige cioè l’instaurarsi di un processo
    che ho chiamato rimozione cognitiva, in quanto l’edipo, inteso come organizzazione
    pregenitale fallica, contiene in sé il progetto cognitivamente assurdo della
    reversibilità del rapporto generante-generato. L’eccitamento genitale adulto
    per il suo espletarsi normale richiede il superamento della confusività, sia a livello
    di prevaricazioni anatomiche, cioè a livello di confusione corporea sia a livello di
    confusione di persone tra genitore e bambino. Non solo, ma l’accesso alla
    genitalità richiede anche il superamento della confusione tra significante, significato
    e referente, della confusione tra piacere e dolore e tra amico e nemico ed infine della
    “confusione” relativa alla indistinzione tra il self e il non- self.
    
     La genitalità esige la fusione, ma non la confusione. Il piacere genitale
    è accompagnato da un particolare sentimento di mescolanza tra i partner. Tale sentimento
    è piacevole proprio perchè si colloca in un luogo a cui si può accedere
    solo dopo che si è stabilita una distinzione a tutti i livelli che ho cercato di
    illustrare.
    
     Si può quindi dire che, la genitalità implica da parte dell’uomo, come
    animale culturale, la capacità di fare, attraverso un discorso corporeo, un discorso
    culturale. Ciò implica una relazione di traducibilità tra il discorso della
    natura e il discorso della cultura. La simbolizzazione primaria e confusiva che è
    implicita in ogni discorso pregenitale, dominato dall’onnipotenza, è forse
    indispensabile per tradurre il corpo in equazioni simboliche primarie, espresse a proposito del
    seno, del fallo, delle feci e delle varie relazioni contenitore-contenuto.
    
     Tutti i simboli primari che caratterizzano le diverse fasi della sessualità infantile,
    le traducono in termini di parti corporee ed in termini di genitore e di bambino. Tale
    simbolizzazione primaria, anche se deve essere già considerata una specie di cultura,
    è però confusiva. Essa rappresenta il linguaggio del corpo mucoso legato
    all’universo perverso delle prevaricazioni anatomiche: tuttavia è già un
    linguaggio centrato sulla onnipotenza semiotica. La genitalità non può fare a
    meno della simbolizzazione primaria né della confusività del corpo mucoso. Essa
    però instaura un discorso che collega il corpo mucoso al corpo eido-acustico, che
    presiede alle percezioni diacritiche e che è specificatamente legato al linguaggio.
    Mentre la pregenitalità è un processo non solo confusivo, ma anche coatto e
    ripetitivo, la genitalità implica il tradurre un discorso confuso in un discorso chiaro
    e distinto, ma anche libero e innovativo. In questo senso la genitalità è
    molto più vicina ai linguaggi creativo-artistici, che non alla nevrosi, alla
    sessualità infantile e alle perversioni. Ciò che accomuna sessualità
    infantile, nevrosi e perversioni, non è tanto l’universo perverso, quanto
    piuttosto un comune difetto di simbolizzazione. Si tratta cioè di discorsi goffi,
    privati e quindi esclusi dalla possibilità di costituire codici consensuali.
    
     La genitalità invece sembra implicare, attraverso la pulsione di scambio, i fondamenti
    stessi di ogni codice consensuale e presiede alla creatività. Per questo può
    essere utilmente confrontata con la costituzione dei codici artistici. Come per i codici
    artistici, per la genitalità è indispensabile avvalersi della possibilità
    di regressione controllata dall’Io nella pregenitalità. Tale discesa agli
    inferi è sempre minacciata dalla confusività, dal ritorno al caos, espresso dalla
    equiprobabilità di tutto. La genitalità esige il cosmos. Come tutta la
    cultura umana la genitalità ha bisogno di consenso tra diversi; per questo deve
    elaborare forme ostensibili di codici che possano essere riconosciuti come consensuali non solo
    rispetto a due o più partner, ma rispetto anche a codici etici o estetici. Attraverso
    questi, l’accoppiamento privato può integrarsi in un più vasto
    accoppiamento di valori collettivi. È questa la ragione per la quale la
    genitalità è così profondamente radicata nel mondo dei valori. Sul
    piano pregenitale, il problema dei valori si allaccia alla sopravvalutazione dell’oggetto
    sessuale, che Freud ha collegato alla perversione. La sopravvalutazione si collega
    all’idealizzazione dell’oggetto e questa, a sua volta, è collegata alla
    difesa dalla persecuzione. In questa prospettiva la pregenitalità non presiede
    all’accoppiamento, ma all’appropriazione e, attraverso di essa, è
    intimamente unita allo schema amico-nemico, di cui è un’organizzazione. Per
    quanto ciò possa scandalizzare, anche l’innamoramento, quando è portato
    alla sopravvalutazione dell’oggetto ed alla svalutazione del soggetto, si collega alla
    pregenitalità. Molto spesso gli innamorati vivono l’accoppiamento genitale come
    una cosa impura.(...)
    
    
     Sul piano pulsionale, la pregenitalità è imperniata sulla pulsione di
    appropriazione, mentre la genitalità è sostenuta dalla pulsione di scambio. Sul
    piano cognitivo, la pregenitalità è caratterizzata dalla simbolizzazione
    affettiva confusiva, mentre la genitalità è caratterizzata dalla simbolizzazione
    affettiva diacritica.(...)
    
    
     Le illusioni che sono possibili a livello di identificazione sono superate a livello di
    costituzione dell’identità. L’identificazione permette al soggetto di essere
    ciò che non è, mentre l’identità definisce il soggetto in base a
    ciò che realmente è, in quanto diverso dagli altri. Così, mentre la
    pregenitalità si fonda sull’identificazione, la genitalità si fonda invece
    sull’identità e più precisamente sulla identità sessuale che si
    instaura nella pubertà. Mentre l’edipo omologa genitore e bambino e maschile e
    femminile, l’identità genitale pone il sesso maschile come irriducibile al sesso
    femminile e pone la condizione di genitore come irriducibile alla condizione di bambino.
    L’identificazione del bambino con ambedue i genitori porta questo non solo a confondere
    il sesso maschile con il sesso femminile, ma anche a fantasticare la reversibilità del
    rapporto generante-generato. L’identificazione confusiva, con il sesso che non si ha
    e con il genitore che non si è, partecipa in modo diverso al costituirsi
    dell’identità sessuale maschile e femminile. La confusione generata
    dall’identificazione con un sesso che non si ha, costituisce, nella pubertà,
    l’antefatto illusorio che permette l’instaurarsi di un processo di verifica.
    L’adolescente maschio e femmina, realizzando il proprio sesso, scoprono la mancanza di
    quel sesso che, tramite l’identificazione, fantasticavano di avere, nell’infanzia,
    come espressione del desiderio di possedere un genitale totale. Il costituirsi della
    identità sessuale puberale si attua così attraverso il riconoscimento che
    l’avere un genitale di un determinato sesso è accompagnato dalla constatazione di
    essere mancanti dell’altro sesso.
    
     La confusione generata dalla identificazione con il genitore che non si è, prepara,
    nella pubertà, la deillusione nei riguardi della fantasia di essere genitori di se
    stessi e nello stesso tempo crea la possibilità di passare dall’identificazione
    all’identità, attraverso l’identificazione del proprio corpo ormai maturo
    che realmente si ha. Le identificazioni confusive edipiche vengono pertanto verificate come
    illusorie e tale verifica prepara il costituirsi della genitalità come fondata non
    più su fantasmi ma sulla realtà. L’identità sessuale è
    pertanto acquistata da parte dell’uomo e della donna attraverso due rinunce: una relativa
    ad appropriarsi del genitale totale e l’altra relativa all’essere il genitore
    totale.
    
     Il costituirsi dell’identità sessuale adulta, intesa come genitalità,
    porta alla coscienza di una eccedenza costituita dal proprio genitale reale. Essa però
    comporta anche la presa di coscienza di una mancanza, generata dalla deillusione nei riguardi
    dell’appropriazione di un sesso che non si ha. Se si rimane in una pura simbolizzazione
    confusiva onnipotente, centrata sulla pulsione di appropriazione, ogni sesso può eludere
    la necessità di un altro sesso, allo stesso modo che ogni bambino può eludere la
    necessità di un genitore. Ho pertanto postulato che l’instaurarsi della
    genitalità non implichi solo uno sviluppo biologico libidico quantitativo, ma comporti
    anche il costituirsi di una specifica pulsione genitale che ho chiamata pulsione di scambio,
    per distinguerla dalla pulsione di appropriazione, che caratterizza tutta la sessualità
    infantile.
    
     Considero la pulsione di scambio una metapulsione, perchè va al di là del
    puro bisogno di scarico e subordina il piacere al vissuto intersoggettivo ed intercorporeo
    dell’uomo e della donna. La pulsione di scambio costituirebbe pertanto una fusione tra
    teoria freudiana della libido, centrata sul bisogno di scarico, e teoria freudiana
    dell’Eros, inteso come istinto di vita originatosi dal rapporto con l’esterno e
    tendente alla creazione di unità più complesse, così come Freud lo
    descrive in Al di là del principio del piacere (1920).
    
     La genitalità può essere considerata una metapulsione anche per i suoi legami
    con gli aspetti cognitivi dell’esperienza sessuale. Essa non solo investe
    l’oggetto, ma lo investe come specificatamente diverso dal soggetto. Anche il neonato
    investe il seno, ma non sa di investirlo e soprattutto lo confonde confusivamente con una parte
    di sé. In questa prospettiva se si vuole parlare di genitalità nel bambino
    bisogna riferirsi anziché al concetto di scarico a quello di relazione che si instaura
    attraverso il legame con la realtà esterna. Il realizzarsi della genitalità
    sembra implicare un andare verso un grado di maggiore complicazione e una tendenza al crearsi
    di un’eccedenza all’interno del vivente che avrebbe un significato antientropico,
    in quanto è centrata su una relazione più complessa di scambio, anziché
    sullo scarico. In questa prospettiva, la genitalità è solidale con il principio
    di realtà come principio di piacere dilazionato, favorito dal sorgere del pensiero come
    processo di simbolizzazione affettiva e operativa.(...)
    
    
     Ricevere qualcosa è possibile in quanto c’è un altro che la dà.
    La ricettività reciproca non implica la passività che si contrappone
    all’attività, ma è piuttosto qualcosa che si integra con
    l’oblatività reciproca. Il dare e il ricevere si collegano cioè alla
    categoria del dono, che a sua volta presuppone l’appartenenza di qualcosa a due soggetti
    e uno scambio di essa tra di loro. L’uso linguistico sottolinea il fatto che nel
    rapporto genitale ogni partner vive il genitale dell’altro nella propria appartenenza
    attraverso l’espressione di “avercelo dentro” riferibile sia all’uomo
    che alla donna.
    
     L’appartenenza reciproca del genitale dell’altro durante l’amplesso sessuale
    esprime un’esperienza che è mediata dalla identificazione confusiva infantile e
    nello stesso tempo della realtà del rapporto sessuale adulto. In questa prospettiva non
    ha molto senso parlare di primato dell’attività maschile sulla passività
    femminile. Si tratta piuttosto dello scambio di un dare e di un ricevere reciproco e
    simmetrico, in cui la ricettività si articola reciprocamente con
    l’oblatività.(...)
    
    
     Partendo dalla regola fondamentale, che implica il dire tutto quello che passa per la
    mente, la psicoanalisi tende a trasformare il campo in selva. L’associazione libera
    tende a far entrare l’inconscio, come erba selvatica, nel campo della coscienza. La
    psicoanalisi però, operando sulla simbolizzazione confusiva, rappresentata dalle
    erbacce, tende a farla evolvere in senso operativo. Nello stesso tempo in cui comporta un
    processo di invasione della coscienza da parte di ciò che è selvatico tende anche
    a trasformare il selvatico emergente in coltivato, il confusivo in diacritico,
    l’affettivo in operativo.
    
     La coltivazione del campo corrisponde alla genitalità, nel senso che il campo
    potenzia la generatività, scegliendo di far prosperare alcune piante in luogo di altre e
    pertanto somministrando un codice. Anche la genitalità ha una base naturale e quindi
    anch’essa appartiene alla selva. Essa è forse la pianta più preziosa della
    selva. Per diventare cultura deve però diventare codice, cioè deve essere
    coltivata a preferenza di altre piante. Se non fosse separata dalla selva
    (pregenitalità) e seminata nel campo (cultura) deperirebbe allo stesso modo che
    deperisce il grano soffocato da erbe selvatiche. Per accedere alla cultura la
    genitalità deve essere separata dalla selva come il bambino per accedere alla cultura
    deve separarsi dalla confusività che lo lega alla madre. Se non viene separata dalla
    pregenitalità, la genitalità non può crescere con il rigoglio che essa
    può avere nel campo coltivato. Il rigoglio che la genitalità ha nel campo
    coltivato, cioè nel suo allearsi con la cultura, dipende soprattutto dal fatto che essa,
    essendo centrata sul reale, è una pianta che tende ad accoppiarsi con il logos,
    come istanza che scopre le leggi che presiedono allo sviluppo degli accoppiamenti nel
    campo.(...)
    
    
     La cultura nasce fondamentalmente dal fatto che l’uomo ha, a differenza degli altri
    animali, la specifica prerogativa di produrre simboli. Esiste una forma naturale, selvatica, di
    produzione del simbolo ed è quella operante nel sogno. Tale forma di simbolo, che
    l’uomo riceve in dotazione dalla natura, è però confusiva. In quanto porta
    alla confusione di ogni cosa con tutte le cose, il simbolo selvatico si presenta come
    pericoloso per la sopravvivenza e per l’adattamento all’ambiente. Il simbolo
    confusivo è pertanto imparentato con Thanatos. E’ per questo che deve essere
    verificato da una forma coltivata di simbolo. Il privilegiamento della genitalità
    rispetto alla pregenitalità contiene quindi non solo il primato del coltivato sul
    selvatico, ma anche il primato degli istinti di vita rispetto agli istinti di morte. Nella
    prospettiva che ho cercato di sviluppare in questo libro la genitalità è pertanto
    non solo l’espressione degli istinti di vita, ma è anche isomorfica alla cultura.
    Ne viene come conseguenza una non identità tra cultura e libido, ma una tendenziale
    identità tra Eros e cultura umana.(...)
    
    
     Sia la società patriarcale, che quella matriarcale appaiono... l’espressione di
    due culture che istituzionalizzano la pregenitalità, istituzionalizzando cioè
    rispettivamente il fantasma del genitale unico e del genitore unico. A livello di
    simbolizzazione confusiva, il capitalismo e il socialismo che si disputano il potere
    culturale del nostro tempo, al di là dei loro aspetti economici, appaiono da una parte
    come espressione di una cultura fallocentrica, centrata sul principio di prestazione per il
    capitalismo, dall’altra come espressione di una cultura onfalocentrica, centrata
    sul rapporto bambino-madre, inteso come sistema di potere centrato sul bisogno. La
    genitalità ha il difficile compito di saldare la condizione di bisogno con il principio
    di prestazione.(...)