Il 6 maggio 2006 sono stati celebrati i 150 anni dalla nascita di Sigmund
Freud. Il padre della psicoanalisi è stato definito da P.Ricoeur, uno dei “maestri
del sospetto” del pensiero moderno, insieme a K.Marx ed a F.Nietzsche. La sua
rappresentazione della vita e della mente umana, infatti, insinuò che qualcosa si cela
dietro ogni apparentemente ovvia affermazione della coscienza.
Se la tradizione cristiana del discernimento dei desideri, dei sentimenti, dei sensi
affettivi, ha sempre saputo questo, nondimeno Freud ha spinto la sua ricerca in una direzione
allora completamente inesplorata, quella della permanenza nell’inconscio – e quindi
della continua incidenza anche in età adulta - delle primordiali esperienze di vita di
ogni persona, fin dal momento del parto (e, dopo Freud, la ricerca si è spinta ancora
più oltre ad individuare la rilevanza delle condizioni che il feto, pur nel grembo della
madre, ha percepito intorno a sé).
I quattro contributi che il quotidiano Avvenire ha dedicato all’evento vogliono tutti
indicare, pur nella diversità delle letture e delle interpretazioni, come solo
apparentemente il pensiero freudiano, pur nella chiara impostazione positivista, possa apparire
come un blocco monolitico. A distanza di 150 anni appare oggi evidente, invece, come differenti
elementi, più o meno consapevolmente, furono integrati - o comunque rimasero
interrogativi aperti - nell’elaborazione della psicoanalisi. Questi motivi divennero poi,
nei seguaci di Freud, occasione di aperture e di approfondimenti.
Abbiamo voluto aggiungere, per questo, ancora due testi. Un primo brano è di
Leonardo Ancona ed è tratto dal suo splendido libro La psicoanalisi, La Scuola, Brescia,
1984 (in particolare le pagg.52-57). Il volume è una presentazione genetica del sorgere
della psicoanalisi nel pensiero di Freud, attraverso le differenti osservazioni cliniche e le
successive interpretazioni teoriche del maestro. La psicoanalisi si manifesta così non
come un “sistema” unitario, elaborato una volta per tutte, ma mostra tutte le
progressive revisioni del suo stesso fondatore, che modifica e, talvolta, addirittura sconfessa
delle proprie affermazioni precedenti. Ancona si sofferma anche sui punti che sono rimasti
irrisolti nell’elaborazione della psicoanalisi, sugli elementi che Freud stesso non
è riuscito ad armonizzare, a comprendere pienamente, per sua stessa ammissione (vedi, ad
esempio, il preciso ruolo dell’istinto di morte).
In particolare, il brano che presentiamo descrive la scoperta della sessualità
infantile con il tentativo di caratterizzarne le fasi. Come Ancona stesso indica, la scoperta
di questo mondo inesplorato fu così folgorante per Freud che, per capire la
sessualità infantile ed adolescenziale, trascurò poi di tematizzare, invece, la
possibilità di giungere ad una sessualità matura oblativa.
Di questo si occupa la più ampia antologia che mettiamo a disposizione, tratta
dall’importantissimo lavoro di Franco Fornari, prematuramente scomparso nel 1985,
Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano, 1975 (in particolare brani
dall’Introduzione e dalla Conclusione, pagg.9-31 e 228-237). L’osservazione clinica
portò Fornari a comprendere, restando perfettamente all’interno della prospettiva
psicoanalitica, l’apporto decisivo della “cultura”, del linguaggio, della
comunicazione ed, in definitiva, dell’amore “oblativo” per una comprensione
adulta dell’affettività e della sessualità.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura dei testi
on-line.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi
brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
I quattro articoli di Marina Corradi sono apparsi su Avvenire del 12, 14, 20 e 26 aprile.
Li ripresentiamo on-line per il progetto Portaparola
Il Centro culturale Gli scritti (16.07.2006)
Il prossimo 6 maggio sono 150 anni dalla nascita. Cosa resta di Freud,
delle sue intuizioni e della rivoluzionaria terapia da lui concepita? Lo chiediamo, nella
prima di una serie di interviste, allo psichiatra e saggista Eugenio Borgna.
«Parlando di Freud oggi credo occorra distinguere il piano teorico da quello della
prassi terapeutica. Sul piano teorico, egli resta innanzitutto il sostenitore dell'homo natura,
spinto dall'istintività e dalle pulsioni inconsce, fondamentalmente da quella libido che
è per lui la sola forza motrice della vita. Ciò che Freud chiama Io è solo
una maschera che cerca di adeguare alla realtà gli impulsi. E’ l'Es, l'inconscio
appunto, che ci determina implacabilmente. La libido nel suo dinamismo tende per Freud solo
alla ricerca del piacere, e all'eliminazione della sofferenza. Tutto il resto - la
libertà, la trascendenza, l'esperienza artistica - sarebbero solo sovrastrutture
costruite su questa spinta primaria, e dunque illusioni. A una simile concezione dell'uomo si
accompagna il modo di concepirlo: non soggetto portatore di libertà, ma quasi oggetto da
esperimento, da esaminare con il distacco proprio delle scienze naturalistiche. Sul piano
teorico dunque Freud si pone come portatore di una concezione dell'uomo freddamente
positivista, materialistica, tesa a negare la piena autonomia della libertà».
La teoria pare dunque datata, e condizionata dalla cultura dell'epoca. Ma, lei diceva,
quanto alla prassi terapeutica…
«Quanto alla prassi psicoanalitica, al modo concreto di curare, l'intuizione di Freud
resta attualissima. La sua è una rivoluzione di metodo: là dove la psichiatria
tradizionale si interessava solo di storia clinica e di sintomi, Freud mette al centro
dell'osservazione la storia della vita del paziente. Torna alla sua infanzia, ascolta i sogni,
i lapsus, le libere associazioni, un'immensa quantità di materiale che fino ad allora
era stato liquidato con semplificazione estrema. In un certo senso Freud introduce nella
terapia il tempo agostiniano, scopre un passato che guarda al futuro. Per lui, è vero,
tutto si riduce a semplici avanzate o intralci delle pulsioni: ma la strumentazione tecnica
ideata resta tuttora valida, e anzi insuperata e geniale. E’ ancora oggi la
modalità concreta del curare e del confrontarsi con la sofferenza psicologica».
Anche se teorizzava l'uomo «oggetto da esperimento in senso naturalistico»,
Freud non inventa in realtà un rapporto medico-paziente forte e inedito?
«Quel rapporto che in teoria doveva essere neutrale si confronta con la intensità
del transfert del paziente, e del controtransfert da parte dell'analista. L' "oggetto" uomo non
può lasciare il soggetto indagante impassibile. Si riproduce, in analisi, quella
struttura fondamentale e portante di ogni relazione, che è il rapporto fra un io e un
tu, e questa relazione è essenziale per la terapia».
Un positivista che si è trovato a confrontarsi con la libertà di quello
strano "oggetto" di osservazione, dunque? Ma in quel confronto avrà riportato anche
delle sconfitte.
«Senz'altro è crollata una certa pretesa di meccanicismo teorizzata da Freud,
secondo la quale a una certa azione esercitata su un soggetto corrispondeva invariabilmente una
uguale reazione. Era una pretesa di stampo positivista, un desiderio di scienza esatta che
appunto si è scontrato con la libertà di ogni uomo, sconfiggendo anche
l'affermazione teorica secondo cui solo la pulsione determinava rigidamente ogni
comportamento».
Che peso ha avuto il pensiero di Freud, che considerava la religiosità
sovrastruttura e illusione, nella secolarizzazione del Novecento?
«È stato un contributo forte. Per Freud la religiosità era l'illusione che
l'uomo si crea per non riconoscere l'istintualità, la autentica sua dimensione;
chiarendo la verità di questa istintualità la religiosità, affermava, era
destinata a estinguersi. Freud è molto più radicale di Marx nella critica alla
religione: per Marx questa era sì "oppio dei popoli", ma nel senso sociologico di mezzo
utilizzato dal capitalismo per distrarre i proletari dalla coscienza del loro sfruttamento. La
contestazione di Freud è invece radicale, ontologica: la religione è per lui
illusione».
E nell'avvento della rivoluzione sessuale, quanto ha contato il pensiero di Freud?
«Indubbiamente il principio secondo cui tutto è istintualità, tutto
è pulsione, sembra uno delle matrici culturali del nostro tempo, ma credo che questo sia
dovuto più alla volgarizzazione di Freud, che al suo pensiero originario. Personalmente
Freud era un uomo moralmente rigido, e dava grande importanza al matrimonio. Credo che,
trasportato nella libertà sessuale dell'oggi, si indignerebbe. Anche la teorizzazione
della dinamica fondamentale dell'uomo come ricerca del principio del piacere e esclusione della
sofferenza potrebbe sembrare un'eredità freudiana trasmessa al nostro tempo. In
realtà, questa mi pare una falsificazione, perché Freud parlava di piacere in
senso intersoggettivo, e non egoistico come invece viene inteso oggi».
L'intuizione terapeutica, il metodo, il rapporto medico paziente, lei dice, rimangono
validi e insuperati. Tuttavia, dopo un grande entusiasmo negli ultimi anni non c'è una
certa freddezza, o disillusione, attorno alla psicoanalisi?
«Sì, è vero. Si contesta alla psicoanalisi di non poter curare le psicosi,
ma questo lo aveva ammesso già Freud. C'è un allontanamento in parte dovuto
all'avvento degli psicofarmaci, che a molti paiono la soluzione di ogni problema, facile e
immediata, senza alcuna fatica. C'è contemporaneamente la diminuzione del desiderio di
guardarsi dentro, cosa che richiede tempo e anche sofferenza. In fondo, nel rifiuto della
prassi psicoanalitica freudiana penso ci sia anche il rifiuto del modello di sant'Agostino,
quando diceva: "In interiore homine habitat veritas, noli foras ire".»
Che cosa resta attuale della "rivoluzione" del padre della psicoanalisi?
Come il suo pensiero ha influenzato la cultura dell'Occidente? A 150 anni dalla nascita di
Sigmund Freud, lo chiediamo ad alcuni psicoterapeuti. Qui parla lo psicoanalista di formazione
junghiana Claudio Risé.
«La psicoanalisi si presenta oggi un come un corpus estremamente differenziato - ma
già le posizioni di Jung erano in parte divergenti da quelle di Freud - e tuttavia
fondato su un elemento comune, che ne è anche il punto di forza: l'osservazione
dell'inconscio. 150 anni dopo molte cose sono cambiate, ma una ha la forza dell'evidenza: e
cioè che l'essere umano non sa tutto quello che gli occorre conoscere di se stesso, e
che una parte delle sue potenzialità - ma anche delle sue sofferenze - affonda le radici
in situazioni che gli sono ignote: nell'inconscio, dunque. L'esplorazione di questa parte
oscura dell'uomo rimane la forza della psicoanalisi, perché, a mio avviso, è
qualcosa che ogni terapia psicologica, per essere davvero efficace, deve in qualche modo
percorrere. La massima intuizione di Freud quindi resta il suo essersi posto come osservatore
di questo mondo inesplorato».
Fu il primo in assoluto, a investigare l'inconscio?
«In epoca moderna, e in un'ottica terapeutica, sì. Nel passato, sia nel Medioevo
che nell'età classica, già si era guardato con interesse ai sogni: esistono
trattati classici, come quello di Artemidoro, di osservazione della produzione onirica. In
epoca moderna, invece, questa attenzione era tramontata, anche per via della posizione
illuministica, che tendeva a ridurre l'uomo all'universo delle manifestazioni sensoriali o
misurabili secondo i criteri delle scienze naturali. Col Settecento quindi l'osservazione
terapeutica dell'inconscio era caduta in una zona d'ombra, da cui la trasse Freud».
Quindi, in un'epoca post illuministica e ancora imbevuta di positivismo, fu un
rivoluzionario?
«Assolutamente sì. Qui sta anche però la sua ambiguità: nel
tentativo di non rompere con un'interpretazione dei fenomeni, di stampo post illuminista e
tardo positivista. Per esempio, pur introducendo la nozione di inconscio, il padre della
psicoanalisi non abbandona il piano organicistico, con argomenti bizzarri. Sostiene, ad
esempio, che quelle che egli ritiene il motore del comportamento umano, le pulsioni istintive,
si modifichino "biologicamente" nell'organismo come risultato delle influenze storiche e
sociali. Non regge, ma deriva dal tentativo di salvare una visione organicistica dell'uomo e di
conciliare quindi le proprie scoperte con la cultura dell'epoca».
In questo quadro va letta anche l'equiparazione delle credenze religiose a manifestazioni
patologiche, sostenuta da Freud?
«Freud ritiene la religione un'illusione, e legge le sue pratiche come forme di difesa
ossessiva. Anche in questo è però fondamentalmente contraddittorio: in altri
scritti riconosce la propria identità ebraica come assolutamente centrale all'interno
della sua storia e del suo pensiero. Manifesta dunque la contraddizione caratteristica del
conflitto tra ciò che egli è e va scoprendo, e la cultura del suo tempo - con la
quale non vuole rompere. Freud stesso, del resto, appare turbato dalla riflessione su credenze
religiose e dalla comparsa in esse dell'immagine della morte. La relazione con Jung, l'allievo
prediletto, entra in crisi proprio per l'attenzione che l'allievo dà a questi temi, ed
in due occasioni, durante discussioni su credenze trascendenti, il padre della psicoanalisi
resta vittima di uno svenimento».
Anche Freud dunque "rimuoveva" qualcosa?
«È molto probabile, anche perché come tutti i padri della psicoanalisi era
diventato psicoanalista senza essere psicanalizzato da nessuno. Non poteva conoscere
perfettamente il suo inconscio, benché avesse tentato un'autoanalisi. Tutti sappiamo
però che questo non è lavoro che si possa fare da soli, in quanto ciascuno tende
a evitare i propri problemi più scottanti. E per Freud quello della vita oltre la morte,
e delle relative credenze, era un punto molto delicato».
L'intuizione freudiana fondamentale, secondo cui al fondo del comportamento sono le
pulsioni di natura sessuale, è ancora valida?
«Io ritengo molto utile il concetto di pulsione. Che poi tutte le pulsioni siano
sessuali, egli stesso non lo pensava. Anche se la sfera sessuale è rimasta centrale nel
suo pensiero. A un certo punto Freud chiama la teoria delle pulsioni "la nostra mitologia",
come rendendosi conto che sta uscendo da un'osservazione strettamente empirica per spingersi
nel campo dell'intuizione. Nella mia esperienza io trovo però tuttora insostituibile la
teoria delle pulsioni come cifra della conoscenza psicoanalitica: non della totalità
umana, ma di quali spinte elementari, ben riconoscibili, si manifestino nei pazienti, e nei
loro comportamenti».
La malattia nervosa è cambiata dalla Vienna d'inizio Novecento?
«Sicuramente la patologie oggi sono diverse, e confrontando quanto osserviamo oggi non
possiamo non vedere il limite centrale del freudismo tradizionale. Che a me sembra l'idea del
"romanzo familiare" - la relazione fra padre madre e figlio/a - come fondamento e spiegazione
di ogni patologia. Questo non è più vero, anche perché a Vienna veniva
analizzata una struttura familiare specifica di quel periodo storico, oltre che di una certa
classe sociale. La famiglia è cambiata, è diventata (o, per certi versi, è
tornata a essere) più ampia, dando più spazio al collettivo sociale, ha preso
più importanza la comunità, e alcune figure hanno conosciuto un profondo
indebolimento. Questo vale soprattutto per la figura paterna, che nell'osservazione freudiana
ha centrale importanza. Tuttavia, proprio indagando sulla relazione col padre Freud comincia a
studiare un fenomeno che oggi è assolutamente preponderante fra le patologie: il
narcisismo».
Dunque intuisce quel "narcisismo di massa" che sarebbe tipico della modernità?
«Con la sua insistenza sull'Edipo - mettendo al centro della osservazione dello sviluppo
umano proprio il rapporto con la figura paterna - Freud intravede problemi che si sarebbero
sviluppati in seguito. Per lui chi non supera l'Edipo - il bisogno della madre che s'accompagna
alla rivalità col padre - non diviene psicologicamente adulto. Superare l'Edipo vuol
dire però confrontarsi col padre, e accettarne la legge. Nella prefigurazione dei rischi
di questo mancato incontro, e del non superamento del conflitto col padre come passaggio chiave
dello sviluppo umano, Freud ha una profonda intuizione, che precorre i tempi. L'indebolimento
del padre ha, in effetti, poi spinto l'uomo contemporaneo in quella che Freud definiva
"perversione", cioè il non pieno sviluppo della personalità adulta, e l'arresto
su oggetti d'amore infantili. La dipendenza dalla madre, o da tutti i sostituti della madre
(come le dipendenze alimentari, l'alcol, la droga eccetera), esprimono la patologia
narcisistica della modernità. Se il padre non c'è, o è debole, il
conflitto edipico, infatti, non può risolversi».
Aveva intuito tutto, dunque?
«Aveva intuito molto, con tutti i limiti dell'attaccamento allo schema post illuminista,
dell'organicismo di marca positivista, così come dell'avversione per il fenomeno
religioso, tipica della cultura dell'epoca. La riduzione dell'indagine psicologica al "teatro
familiare" appare certo meno difendibile nei tardo freudiani, oggi che la famiglia si è
con assoluta evidenza trasformata, e che molte esperienze psichiche importantissime si
sviluppano nel campo sociale, del consumo, dell'informazione. Ma questo, Freud non poteva
prevederlo».
«Era un genio. Ha influenzato il nostro tempo più di qualsiasi
altro. La sua è stata una rivoluzione culturale che ha introdotto questioni mai
considerate in precedenza. E oggi, di Freud resta moltissimo, per quanto volgarizzato. Rimane
l'intuizione dell'esplorazione dell'inconscio, e l'idea, gigantesca, che nulla è
casuale. Il problema però è che per Freud tutto il comportamento umano è
sovradeterminato da antecedenti di carattere psicologico - e oggi potremmo aggiungere genetico
- e dunque eliminando la casualità egli elimina anche la libertà dell'uomo. Ed
è questa negazione della libertà il lascito alla fine più forte, o
negativo».
Cosa resta di Freud, a 150 anni dalla nascita? Per Giancarlo Cesana, medico e psicologo,
leader di Comunione e Liberazione, resta un'impronta profondissima che ha plasmato il
Novecento. Ma ascoltando Cesana pare di cogliere una sorta di conflitto nei suoi confronti,
come un essere diviso fra l'ammirazione per la genialità delle intuizioni freudiane, e
l'inevitabile scontro di un cristiano con una teoria che al fondo, dice Cesana, nega la
libertà: «L'uomo di Freud è governato dalle sue pulsioni, da un meccanismo
psicologico che è alla fine riducibile a meccanismo biologico: dunque non è
libero».
L'idea di dissezionare la coscienza non era un procedimento di sapore positivista?
«Freud era un neopositivista che, nell'ipotesi di partenza, pretendeva di costruire una
psicologia scientifica. Tuttavia, la sua genialità ha finito nel tempo col tirare fuori
anche le osservazioni opposte alla sua stessa ipotesi iniziale».
Cioè, di fronte alla realtà osservata nell'uomo ha ammesso la sua non
riducibilità a "oggetto" di classificazioni scientifiche?
«Di fronte alla realtà non è stato cieco, e ha riconosciuto che l'uomo non
è misurabile. Ha avuto anzi il coraggio di addentrarsi nell'analisi della psiche,
accettando la sua misteriosità. Però Freud non ha mai rinunciato alla sua pretesa
di una psicologia scientifica, e infatti per lui tutto è legato e determinato da
antecedenti psichici».
Sembra quasi che Freud veda qualcosa che non può ammettere pienamente, figlio
com'è della cultura positivista.
«Nel suo pensiero ci sono molti aspetti dimenticati, e fra questi proprio i più
critici della sua teoria, che pure lui stesso ha introdotto. Per esempio nell'analisi
dell'istinto di morte, cioè della distruttività, emerge la consapevolezza che la
salvezza non viene dall'interno dell'uomo. Freud rinvia la positività ultima a qualcosa
che è fuori da noi: perchè il principio del piacere, se non si esaurisce nel
narcisismo, deve completarsi necessariamente in qualcosa di altro da noi. E a un certo punto
Freud arriva anche a affermare esplicitamente che la salvezza viene senz'altro da fuori
dell'uomo. Del resto, quando dice che l'analisi dovrebbe essere "interminabile", da un lato
asserisce una pretesa risolutiva dell'analisi sulla problematica psicologica, ma dall'altro
riconosce di avere iniziato una ricerca infinita, avendo percepito la misteriosità del
terreno in cui si è avventurato».
È buono o cattivo al fondo l'uomo, secondo Freud?
«Non è un rousseauiano. Per lui l'uomo è buono ed è cattivo, in
quanto soggetto a eros e thanatos. Freud è colui che ha osservato
l'istinto di morte anche nei bambini, che ha distrutto il mito dell'innocenza infantile».
Quanto l'eredità freudiana ha influito sull'avvento del permissivismo
nell'educazione ?
«La vulgata di Freud ha certamente a che fare col permissivismo, e con l'idea che si
debbano liberare gli istinti repressi dalla società. Ma il suo pensiero autentico non
è questo. Egli affermava che la formazione di un Super Io adeguato è un fattore
di sanità, e dunque la repressione è fattore di sviluppo. La nevrosi, nel suo
pensiero, è il risultato della mancata repressione dell'innamoramento del bambino per la
madre - quindi, quella repressione è necessaria. Certamente Freud non era un
permissivista».
E quale è stato invece il peso di Freud, che definiva la religione nevrosi
ossessiva, nella secolarizzazione dell'Occidente?
«Il suo attacco alla religione rientra nell'opzione positivista: la religiosità
è sublimazione che non riguarda il mondo reale. L'influenza sulla secolarizzazione
è grandissima, più di quella del marxismo, perché qui il materialismo
è portato a livello di esperienza individuale. E l'urto formidabile col cristianesimo
è, oltre che nel problema della libertà, nel sopprimere la coscienza del mistero
e la necessità di aderirvi».
Anche la rivoluzione sessuale rientra fra i portati della psicoanalisi?
«Su di questa ha avuto un'influenza fortissima: il ricondurre tutto l'agire umano al
principio del piacere e la sovradeterminazione della libido su ogni altra spinta ha dato alla
sessualità un peso inusitato».
In positivo, Freud cosa ci ha insegnato?
«Personalmente giudico molto importante il suo avere definito il disturbo mentale come
una patologia dell'istinto, intendendo per istinto l'aspetto psicologico della biologia. Il
collegamento della malattia mentale con un'alterazione della sfera istintiva salvaguarda, in
contrasto col resto della teoria freudiana, la misteriosità della libertà umana.
Se il disturbo mentale è legato a un disordine della istintività è insomma
paragonabile a una malattia organica, a un mal di fegato; ma, come il malato organico, il
nevrotico continua a essere libero. Ancora più importante però in Freud è
l'avere indicato il legame profondo fra l'attrazione che l'uomo prova per la realtà, e
la conoscenza. La conoscenza, dunque, come fatto affettivo».
La relazione intensa che si crea reciprocamente fra terapeuta e paziente non era anch'essa
qualcosa di inedito?
«Il processo di tranfert e controtransfert descrive molto bene la dinamica del rapporto
fra gli uomini. È interessante che il procedimento analitico si fondi sull'aspetto
affettivo, in modo del resto paragonabile all'educazione. Melanie Klein sosteneva addirittura
che per affrontare il problema di un bambino autistico occorreva un maternage, un
ridiventare "mamma" del paziente . La dinamica affettiva del transfert riproduce un aspetto
centrale dei rapporti umani».
Cosa ne è oggi della pratica terapeutica della psicoanalisi?
«Gli psicoterapeuti attuano spesso una psicoanalisi volgarizzata e portata in
superficie: più un'analisi dell'Io che dell'inconscio, perché è più
comodo, e più veloce. Una sorta di psicoanalisi annacquata ha invaso tutte le
psicoterapie, sconfinando in campi in cui non c'entra niente. L'educazione stessa è
diventata una forma di psicologia, e per questo non funziona. Non si riferisce più alla
libertà di chi viene educato, non cerca un'adesione al vero, ma tende a convincere a
comportarsi nel modo più socialmente conveniente. Oggi si crede, inoltre, di poter
risolvere anche il problema del dolore con la psicologia. Si mandano terapeuti a chi ha appena
subito un lutto, come se ogni perdita fosse aggiustabile con un trattamento, o una pillola. Ma
il dolore ha a che fare con la questione della libertà. Il dolore dell'uomo, è
l'uomo che non sa a cosa aderire per essere felice. E questo, non lo risolverà nessuna
psicoanalisi».
A 150 anni di distanza dalla nascita di Sigmund Freud parla lo psichiatra
Leonardo Ancona:
«Da una parte la religione, con il primato della coscienza, dall’altra
l’invito a soffermarsi sulla sessualità per risolvere i conflitti. Lo scontro era
inevitabile, ed è proseguito fino agli anni ’50. Poi ci si è avviati verso
una accettazione reciproca»
“Il concetto di inconscio dinamico di Freud è qualcosa di tanto innovativo da
essere paragonabile alla rivoluzione di Galilei, che ha posto la Terra alla periferia
dell’universo; o alla rivoluzione biologica di Darwin, che ha tolto l’uomo dal
centro del creato. Quella di Sigmund Freud è stata la rivoluzione psicologica:
l’affermazione dell’inconscio, al posto della pretesa dell’Io di determinare
totalmente la libertà dell’uomo». È una svolta epocale quella
impressa dal fondatore della psicoanalisi alla cultura d’Occidente, secondo Leonardo
Ancona, professore emerito di Psichiatria e Psicologia presso la Università Cattolica di
Roma, che ha appena scritto un saggio sul rapporto fra psicoanalisi e cultura cattolica.
«La psicoanalisi, - spiega il professore - interviene sulla percezione stessa che
l’uomo ha di sé: supera l’idea di un’Io unitario e monolitico e
comincia a pensarsi come un soggetto "multipartito", diviso fra una sfera cosciente, una
inconscia e una ancora più profonda e radicata nel soma».
Freud descrive un uomo come "spezzato" nelle sue componenti interiori, e dalle sue pulsioni
dominato al punto, che la libertà appare quantomeno dubbia. Lei, studioso di Freud e
credente, come si è posto di fronte a una tale prospettiva?
«Su questi argomenti Freud è stato profondamente ambivalente. Il determinismo
iniziale è stato smussato e anzi addirittura talvolta contraddetto. In principio aveva
scritto che l’evoluzione umana non è in nulla diversa dall’evoluzione degli
animali. Ma è lo stesso uomo che nel 1938 arriva a dire che "nell’oscurità
in cui ci muoviamo l’unica luce che brilla è quella della profondità della
coscienza"; e che "tutto ciò che ha a che fare con l’origine della religione ha
qualcosa di grandioso di cui le nostre precedenti spiegazioni non hanno dato ragione". Verso la
Chiesa cattolica, poi, l’ambivalenza è ancora più netta: nel 1938 la
definisce "la nemica implacabile della libertà di pensiero e del progresso verso la
conoscenza". Quattro mesi dopo, esule a Londra, scrive che nazismo è barbarie
preistorica e che "solo la Chiesa cattolica stranamente oppone una potente difesa alla
diffusione di un simile pericolo per la civiltà".»
Un dualismo quasi schizoide.
«Un dualismo che è stato interpretato. Freud, benché di famiglia ebraica,
aveva da piccolo una tata cattolica di nazionalità ceca, che lo portava a messa, e gli
parlava del paradiso e dell’inferno. Questa tata, di nome Nanni, un giorno fu accusata di
furto e improvvisamente arrestata. Il bambino visse questo repentino abbandono come un
tradimento e proiettò il suo rancore su tutto ciò che era cattolico. Non
pronunciò mai più una parola in ceco, che pure parlava come una lingua
madre».
Al di là della vicenda personale, però, sembra comunque evidente che almeno
all’inizio ci fosse un forte contrasto fra l’antropologia cristiana e quella
freudiana.
«Freud era uno scienziato del suo tempo, impregnato di positivismo. Le colonne del suo
pensiero erano l’inconscio e la sessualità come luogo di conflittualizzazione
dell’inconscio. Mentre il cristianesimo è fondato sul primato della coscienza. La
Chiesa proibiva di soffermare il pensiero sui fatti della sessualità, la psicoanalisi
invitava a farlo invece, per risolvere i conflitti. Lo scontro fra le due culture era
inevitabile, ed è proseguito fino agli anni ’50. Poi poco per volta ci si è
avviati verso una accettazione reciproca - padre Gemelli ne è stato uno dei protagonisti
- e nella direzione di un riconoscimento del valore di Freud da parte della cultura cattolica.
Dall’altra parte, oggi siamo al punto che su una della maggiori riviste di psicoanalisi
scientifica del mondo si legge che "vi sono forme di pratica religiosa che si debbono valutare
positivamente come sani sviluppi emotivi morali e spirituali analoghi a quelli che ci si
può aspettare da un riuscito processo psicoanalitico"».
Ma, professore, in quale senso si può paragonare una «buona»
psicoanalisi a una «buona» pratica religiosa?
«Le rispondo citando quelli che sono i fini del trattamento psicoanalitico secondo il
grande psicoanalista agnostico e ebreo Servadio. Questi fini, o alcuni di essi, dunque sono: il
passaggio dall’egocentrismo alla socialità. Il passaggio dallo stadio magico delle
proprie proiezioni a quello in cui si valuta obiettivamente la realtà. Il cambiamento
dall’inibizione nevrotica alla spontaneità, cioè anche da una bontà
"coartata" a una bontà autentica. La riduzione dell’aggressività tramite la
addomesticazione degli impulsi libidici, e la sua mobilitazione per scopi superiori... Non sono
forse gli stessi fini della pedagogia cristiana?»
Il dissidio originario per cui secondo Freud la religione era nevrosi ossessiva, o,
comunque, sublimazione della realtà, è stato alla fine composto, e come?
«L’avvicinamento è accaduto nella verifica che oggi sia la psicoanalisi che
il pensiero giudaico cristiano muovono da una sincera ricerca della verità. Se è
vero che la preoccupazione della ricerca della verità sta alla base del loro contrasto,
può costruire anche un terreno di dialogo, nel riconoscimento reciproco di una tensione
fondamentale. Sia psicoanalisi che pensiero giudaico cristiano tendono a riconoscere la
verità tramite idee che vengono dal passato, non scientificamente provabili e in qualche
modo inaccessibili alla mente. Noi di fronte alla fede siamo nell’oscurità, e gli
psicoanalisti più moderni ammettono che di fronte all’inconscio occorre ammettere
che procediamo senza certezze. Una comune tensione, dunque. Ma non solo: lo stesso Freud nel
1929, parlando di Francesco d’Assisi, scriveva che "lo stato che raggiungono in questo
modo queste persone con il loro sentire inalterabile e pieno di dolcezza somiglia ben poco alle
tempeste dell’amore sessuato da cui pure è derivato. Francesco d’Assisi
è forse l’esempio più insigne di come ci si possa servire dell’amore
ai fini del senso interiore di felicità"».
Una delle più ripetute accuse di Freud alla società era però di
inibire le pulsioni dell’eros, reprimendo dunque l’autentico sviluppo
dell’uomo.
«Beh, questa è una delle topiche della psicoanalisi originaria. Il pansessualismo
che poi lo stesso Freud abbandonò, è uno dei suoi limiti. Come anche
l’istinto di morte. Non è vero che siamo dominati dall’istinto di morte:
viviamo in una dialettica fra questo istinto e l’istinto di vita. La stessa
rappresentazione che della famiglia dà Freud è oggi in parte superata, legata
com’è alla borghesia viennese del primo Novecento. Ma questo nulla toglie alla
grandezza insuperata della svolta freudiana, paragonabile, l’ho detto, alla rivoluzione
di Galileo. Una rivoluzione ancora in parte da scoprire, colma di semi che devono ancora
germogliare».
Il lavoro... Tre saggi sulla teoria della sessualità (1905)
merita ampia considerazione, sia per l’importanza dei punti in essa trattati e gli spunti
teorici che ne sono stati tratti, sia per gli equivoci che ne sono derivati, nonché per
le violente proteste che provocò al momento della pubblicazione e in taluni non manca di
suscitare anche ora. Nei suoi precedenti contributi Freud aveva già parlato di
sessualità infantile; ma specialmente all’inizio, facendo appello ad
attività che il bambino aveva subito, a delle antropomorfizzazioni della vita infantile
per cui gli adulti proiettavano nei bambini la propria sessualità, e non aveva mai
trattato della sessualità dei bambini come di qualcosa emanante dalla loro costituzione.
Ammettere questo era quindi un concetto nuovo, che turbava gli animi in quanto ognuno crede
legittimo e doveroso salvare l’infanzia dalle spire del sesso, dal momento che agli
adulti riesce così difficile farlo, e soprattutto si trattava di un fatto che nessuno
riusciva a scoprire nella propria infanzia passata.
Freud fu molto esplicito al riguardo: nessuno può ricordarsi del proprio passato
infantile, e della componente sessuale che lo ha caratterizzato, perchè un sipario
è sceso ad impedire questa reminescenza; il sipario della rimozione, che ha
confinato quel passato nell’inconscio, è la causa di tale universale
“amnesia infantile”. In realtà l’aspetto sessuale della vita dei
bambini è fuori discussione: basta osservarli con attenzione e senza pregiudizi per
convincersene. Nel suo trattato O.Fenichel si è espresso con una frase molto efficace a
questo proposito: “E’ impossibile osservare dei bambini senza vedere manifestazioni
di questo tipo ed è più appropriato chiedersi non se esista una sessualità
infantile, ma come sia stato possibile che un fenomeno così evidente non sia stato
osservato prima da Freud. Questa inavvertenza è uno degli esempi migliori di
‘rimozione’ ”. Ma questa ammissione è da Freud integrata con una
considerazione che la completa: “Si conviene di dire che questo istinto manca
nell’infanzia, che si costituisce al momento della pubertà, ed in rapporto stretto
con i processi che portano a maturità, che si manifesta sotto la forma di attrazione
irresistibile esercitata da un sesso sull’altro, e che il suo fine sarebbe l’unione
sessuale o, almeno, un insieme di atti che tendono a tal fine. Noi abbiamo tutte le ragioni per
credere che questa descrizione non rende che assai imperfettamente la realtà. Se la si
analizza da vicino, vi si scopre una quantità di errori, di inesattezze, di giudizi
precipitati”.
Freud ha così contrapposto a quelle tradizionali, le sue vedute a proposito della vita
sessuale:
A questi assiomi corrisponde il fatto che, per riferirsi al bisogno
sessuale, Freud ha usato un termine specifico, libido, che appare come una
variabile psicologica pervasiva di tutti gli stadi della vita, dalla nascita alla morte, per
quanto con aspetti fondamentalmente diversi nelle diverse fasi di essa.
Da queste premesse deriva che la sessualità infantile è del tutto differente
da quella della vita adulta ed anche nella stessa vita infantile si manifesta in forme di
attività volta a volta diverse. La dimostrazione di ciò viene offerta dalla
esposizione del secondo dei tre contributi teorici presentati da Freud, che si riferisce al
problema delle fonti dalle quali deriva la libido. Intesa come capacità di provocare
piacere elettivo, la libido appare innanzitutto come il risultato della eccitazione di
particolari zone corporee, limitate ed ordinate in successione a seconda dell’età;
a queste zone è stato dato il nome di zone “erogene” per la specifica
funzione che svolgono.
Prima zona erogena, e primo aspetto della libido, è quella che con Freud si è
convenuto di denominare “orale”; tutta l’attività psichica dalla
nascita fino alla fine del primo anno, si concentra sulla soddisfazione che dà la
stimolazione della mucosa orale. Tale funzionamento si adagia sulla funzione nutritiva, che
è prevalente in questo primo anno di vita, ma non è solo, e non è tanto,
il bisogno di alimentazione che determina la libido: il bambino continua a succhiare anche
quando è sazio e, se affamato, può trovare sollievo anche semplicemente
succhiando. Tale soddisfazione è di carattere esclusivamente privato, senza
considerazione di nessuna altra persona, per cui questa forma di libido è detta
auto-erotica.
Seconda zona erogena, e relativo aspetto della libido, è quella c.d.
“anale”, perchè l’esperienza elettiva del piacere si connette con
la funzione intestinale. “I bambini che utilizzano l’eccitabilità erogena
della zona anale... trattengono le loro materie fecali, fino a quando l’accumulo di
queste materie produce delle violente contrazioni muscolari, e, passando per lo sfintere anale,
provocano sulla mucosa una viva eccitazione;... il contenuto intestinale, il bambino lo
considera evidentemente come una parte del proprio corpo; per lui è un regalo che gli
serve a provare, se lo concede, la sua obbedienza e, se lo rifiuta, la sua impuntatura”.
In questa formulazione di Freud (1905) sono contenuti tre importanti fatti; il primo è
che l’esperienza di piacere viene provata sia durante l’accumulo e la ritenzione
delle feci, che durante la loro espulsione, fatti contraddittori in se stessi e che hanno
ridotto E.Bleuler a chiamare questo periodo con il riuscito termine di
“ambivalente” (1910); il secondo è che il modo di manifestarsi libidico non
è più autoerotico come nel primo stadio evolutivo, ma implica direttamente la
presenza e la interazione con gli altri ed il modo positivo e negativo con cui si strutturano
le relazioni con essi; il bambino è per la prima volta padrone di una funzione e sembra
servirsene per affermare il suo volere nei riguardi degli altri. Il terzo fatto è che
il modo con cui le feci vengono tesaurizzate (con compressione) ed eliminate, richiama un
comportamento aggressivo, che ha fatto chiamare questo periodo col nome di
“sadico-anale”.
Terza zona erogena, e terzo modo di presentarsi della libido, è quella che si
instaura a partire dal terzo fino al quinto, quinto anno e mezzo. L’esperienza elettiva
del piacere abbandona in questa epoca le altre mucose e si concentra infine su
quell’organo genitale che la conserverà per tutto il resto della vita. Questo
periodo viene di conseguenza chiamato “fallico” ed è da esso che
prenderà avvio la vita sessuale adulta, sia perchè è da qui che le altre
tendenze si subordinano a quella fallica, sia perchè la ricerca generale del piacere si
integra nella funzione sessuale. Allo stadio fallico, tuttavia, la sessualità adulta
è ancora lungi dall’essere raggiunta, come è dimostrato dal fatto che
la libido trova soddisfazione esclusivamente nella urinazione e nella manipolazione
dell’organo (che per la bambina è rappresentato dal clitoride). La comparsa della
masturbazione infantile, ordinariamente prevalente a questa età in confronto alle
precedenti, è un indice di tale localizzazione della libido.
Infine la teoria freudiana considera un ultimo periodo di maturazione, che è proprio
della vita adulta; la libido è ancora polarizzata agli organi genitali, ma a differenza
del periodo immediatamente precedente non trova la sua specifica espressione nella
manipolazione degli stessi, la trova invece nel loro uso strumentale. Ciò non implica
soltanto l’esercizio della attività sessuale vera e propria, ma particolarmente il
fatto che essa venga prestata in modo reciprocamente donativo, perchè solo in tal
caso la libido di questo stadio trova la sua specifica soddisfazione: l’attività
sessuale è a questo punto unificata, polarizzata da un solo oggetto e da un solo fine,
in una parola dall’organo genitale della persona amata dell’altro sesso.
La quarta zona erogena e il quarto modo di manifestazione libidinale hanno ricevuto da
Freud il nome di “genitale” per tale connotazione di oblatività che la
collega direttamente alla generazione di nuove vite. Il carattere di maturità che
è intrinseco alla libido genitale, giustifica il fatto che fra il periodo
“fallico” e quello “genitale” il passaggio sia meno immediato che fra
gli altri periodi; di fatto, esso è caratterizzato da un lungo periodo di
neutralità, come di sopimento degli istinti, che dura dai cinque, sei anni fino al
periodo dell’adolescenza, e che per il suo carattere è chiamato periodo di
latenza. Allo stesso modo si giustifica il fatto che alla libido genitale venga
riconosciuto un valore qualitativamente diverso da quella orale, anale e fallica, per cui a
queste, riunite nella espressione di “pregenitali”, viene attribuito un carattere
di auto-erotismo, di narcisismo, mentre alla libido genitale spetta la qualifica di
“allo-erotica” o altruista, per la considerazione degli altri che le è
intrinseca. (...)
L’importanza della distinzione fra i concetti di fallico e genitale, sovente assimilati
negli scrittori di psicoanalisi, è stata sottolineata nel recente contributo di
F.Fornari, Genitalità e cultura (1975). Questo A. è partito dalla distinzione in
parola per riformulare i modelli freudiani di genitalità e virilità e per
dimostrare un rapporto originale, promotivo tra sessualità e cultura.
Vorrei esporre, in questa introduzione, i punti di riferimento essenziali
che mi serviranno per sviluppare nel libro una concezione della sessualità che si
discosta sia da quella pessimistica di Freud, sia da quella biologistica di W.Reich, sia infine
da quella orfico-narcisistica di H.Marcuse.
I vari tentativi di rivoluzione sessuale che si sono succeduti nella scia della teoria
freudiana della sessualità hanno fallito in gran parte il loro scopo. La causa di
tale fallimento può essere attribuita al fatto che essi si sono sempre fondati
sull’antagonismo fra natura e cultura ed hanno sempre sperato di arrivare alla
“liberazione” attraverso il recupero della natura repressa dalla cultura.
Si tratta di solito di progetti liberatori che non solo si collocano su un certo sfondo
utopico, ma si scontrano, di fatto, con un vero e proprio compito impossibile, quale è
quello che si trova davanti inevitabilmente chi, come l’uomo, essendo animale culturale
voglia ritornare ad essere animale puramente animale. Il fatto stesso di porsi in una
prospettiva di ritorno alla natura non può essere per l’uomo, che un progetto
essenzialmente culturale. Colui che si propone di ritornare alla natura prescrive infatti
un qualche cosa che proibisce qualche cosa d’altro: instaura cioè un codice
culturale. Ogni progetto di recupero della natura non può aver senso che
all’interno di un discorso culturale.
Con questo saggio mi propongo pertanto di favorire un disegno di liberazione sessuale partendo
anziché da un impossibile progetto di ritorno alla natura, da una valorizzazione della
cultura, quindi da un supplemento di cultura.
Come tutte le altre attività umane, l’amore può essere fatto bene o fatto
male, con buon gusto o con cattivo gusto. Il fare all’amore si trova pertanto
sottoposto a fondamentali criteri di valore, ai quali sottostanno in genere tutte le
attività culturali.
Alla sessualità è però capitato in sorte di essere considerata una specie
di forza naturale imprigionata, che si tratta di liberare anziché essere considerata una
forza naturale che deve essere simbolizzata e che lo può essere in modi più o
meno adeguati, seguendo determinati criteri di valore. Personalmente sono però persuaso
che quest’ultima prospettiva sia la migliore, e questo libro vuole essere una
testimonianza in questo senso.
L’idea della sessualità come forza naturale incatenata può essere
considerata centrale nella psicoanalisi. La teoria freudiana della sessualità è
fondamentalmente basata sulla rimozione e sulla repressione come momenti apicali del conflitto
tra sessualità e civiltà, cioè tra natura e cultura.
Questo libro intende sviluppare una teoria della sessualità che, partendo dalle
concezioni psicoanalitiche classiche, arriva ad una formulazione diversa della concezione
freudiana. Io ritengo infatti che il vero conflitto non si collochi nel rapporto tra
genitalità e cultura, bensì nel rapporto tra genitalità e
pregenitalità. Non esiste, a mio avviso, una evidenza clinica che supporti un conflitto
di base tra genitalità e cultura.(...)
Desidero prendere in esame due fattori specifici. Il primo di questi fatti riguarda
l’eiaculazione precoce e il secondo riguarda i tentativi di rapporti sessuali che si
verificano in bambini al di sotto di sei anni. Nella mia esperienza clinica riguardante il
trattamento di eiaculazione precoce, sono rimasto colpito da una relazione inaspettata tra
il piacere genitale e la comunicazione verbale durante il rapporto sessuale. Benché
si tratti di un settore piuttosto inesplorato, è noto che durante il rapporto sessuale
l’uomo e la donna comunichino tra di loro per mezzo di parole. A proposito di tale
comportamento, ho avuto l’opportunità di avere informazioni su diverse forme di
comunicazione verbale, durante l’esperienza d’amore. Esiste ad esempio la
tendenza da parte di alcuni di parlare del più e del meno, cioè a parlare di
qualcosa di indifferente rispetto al fare all’amore, durante il rapporto sessuale.
Discorsi del genere possono essere considerati una difesa contro l’ansia mobilitata
dall’accoppiamento. Esiste un secondo modo di verbalizzare i propri pensieri concentrando
il discorso sull’accoppiamento, ma in modo sadico. Si tratta della tendenza a dire parole
oscene durante la copula. Esiste poi un terzo modo di verbalizzare il rapporto sessuale, che
non solo è centrato sull’accoppiamento ma ha un contenuto affettuoso, tenero e
poetico. Per i problemi attinenti al rapporto tra genitalità e cultura, sono
particolarmente interessanti gli ultimi due modi di verbalizzazione: il linguaggio sporco e
quello tenero-poetico.
Il linguaggio sporco può essere considerato il linguaggio pregenitale, mentre il
linguaggio tenero-poetico può essere considerato il linguaggio genitale. Le parole
sporche sono in realtà parole “anali”. Le parole tenere possono essere
considerate parole genitali perchè hanno la funzione di trasmettere vocalmente il dono
reciproco di simboli d’amore, allo stesso modo in cui il contatto genitale trasmette
il desiderio reciproco del dono del piacere.
Nel caso di alcuni pazienti affetti da disturbi della potenza sessuale ho constatato una
relazione specifica tra il linguaggio sporco e l’eiaculazione precoce. Tale relazione si
contrappone a un’altra altrettanto specifica tra il rapporto sessuale normale e il
linguaggio affettuoso e tenero. Il linguaggio sporco durante l’accoppiamento è
collegato a fantasie inconsce a contenuto pregenitale espresse in sogni e sintomi nevrotici.
Non solo, ma ho potuto anche verificare che il linguaggio tenero-poetico è connesso con
fantasie genitali preconsce riferite specificamente a scambio di doni.
Poiché sia il linguaggio sporco che quello tenero sono ambedue espressioni culturali, i
fatti clinici che ho brevemente illustrato offrono la possibilità di mostrare la
relazione tra la funzione sessuale e la simbolizzazione culturale: più precisamente tra
la funzione sessuale e la simbolizzazione genitale e pregenitale. Di fatto, la
simbolizzazione pregenitale (linguaggio osceno) tende a innalzare il piacere preliminare in
modo che questo arriva a prevaricare sul piacere finale, provocando in tal modo la
precocità della eiaculazione. La simbolizzazione genitale (linguaggio
affettuoso-poetico) sembra invece avere la funzione specifica di favorire il primato genitale,
in quanto promuove la possibilità di controllare il piacere preliminare e impedisce che
questo prevarichi sul piacere finale.
Si può pertanto constatare che la più specifica manifestazione
dell’attività culturale umana, cioè il linguaggio, nelle sue due forme di
linguaggio osceno e tenero-poetico può essere presa come punto di riferimento per una
sperimentazione clinica sull’influenza che la cultura esercita sulla sessualità
umana. Si arriva in tal modo a verificare che il linguaggio, attraverso la sua funzione
simbolica, promuove effetti diversi sull’andamento dell’eccitazione sessuale
durante la copula, in relazione ai contenuti opposti, genitali o pregenitali, della
simbolizzazione verbale stessa.
Dal momento che il processo di simbolizzazione verbale costituisce l’aspetto essenziale
della cultura umana si può pertanto ritenere che l’influenza del linguaggio
sull’attività sessuale non è, in sé e per sé, di tipo
repressivo. La cultura attraverso il linguaggio, può intervenire in effetti in modi
antitetici sul processo di eccitazione, orientandolo nel senso del primato genitale e della
possibilità di controllo del piacere preliminare, oppure nel senso della prevaricazione
del piacere preliminare sul finale.
Com’è noto il rapporto sessuale umano comprende due fasi: una prima fase nella
quale l’eccitamento è sottoposto a controllo volontario, e può essere
mantenuto in stato di relativa sospensione, e una seconda fase nella quale l’eccitamento
assume il carattere di urgenza dello scarico, che non tollera sospensione se non a scapito di
una interferenza negativa nella possibilità di fruire adeguatamente dell’orgasmo.
La prima fase, sottoposta ad un relativo controllo volontario può avere durata
variabile, cioè un tempo di discrezione. Il tempo di discrezione della prima fase del
rapporto sessuale è molto importante per il buon andamento del rapporto sessuale.
Dipende infatti dal tempo di discrezione la possibilità per l’uomo o per la donna
di adeguare l’accoppiamento alle esigenze del reciproco scambio del dono del piacere. La
parola durante l’atto interviene di solito nella prima fase e con effetti diversi.
Allorché si tratta infatti di parola indifferente, di un parlare d’altro, si
produce inibizione del processo di eccitamento. La parola sporca porta invece alla contrazione
del tempo di discrezione, mentre la parola tenera porta alla dilatazione del tempo di
discrezione.
Si può pertanto vedere come la cultura, attraverso la parola, può
specificatamente influenzare il processo sessuale, ma in modi diversi: in senso negativo, ma
anche in senso positivo.
Sul piano clinico non esiste quindi la possibilità di dimostrare semplicemente
l’antagonismo tra natura e cultura, in quanto tale relazione si presenta sotto certi
aspetti antagonistica e sotto certi altri isomorfica. Si può dire cioè che una
cultura che privilegi lo scambio reciproco di cose buone non solo è isomorfica alla
genitalità, ma produce una specifica influenza positiva, se espressa attraverso i
simboli, sulla quantità e qualità del piacere e sul tempo di discrezione nel
quale il piacere può essere fruito.(...)
In realtà nell’esaminare i rapporti tra sessualità e cultura, mi sono
trovato ad assumere una posizione che si discosta, sotto molti aspetti dalla posizione di
Freud. La teoria freudiana non è però monolitica, né definitiva.
E’ anzi sfaccettata ed aperta a diverse sistemazioni possibili di fronte a fatti nuovi.
Per questo si possono riscontrare in Freud stesso alcune posizioni che giustificano un
cambiamento di impostazione nella teoria generale della sessualità.
E’ mia impressione che la scoperta della sessualità infantile abbia abbagliato
Freud fino al punto di fargli oscurare la visione della sessualità adulta.
Nonostante Freud abbia nettamente distinto genitalità e sessualità, ogni
discorso analitico sulla sessualità rischia di diventare sempre un discorso di
sessualità infantile. Anche questo libro non fa eccezione a questa regola
perchè in effetti un discorso che non parta dalla fondazione infantile non può
considerarsi psicoanalitico.
Il riferimento all’infanzia implica il transfert, ed il transfert, assieme alla
resistenza, costituisce, per Freud, la condizione indispensabile e sufficiente per qualificare
una ricerca come psicoanalitica.
Anche il mio discorso sulla genitalità parte dunque dall’infanzia. Poiché
però ritengo che si debba accentuare la specificità che la genitalità ha
rispetto alla sessualità infantile, il mio riferimento all’infanzia riguarda
soprattutto la pregenitalità.
Il punto nel quale mi discosto da Freud è quello riguardante l’esistenza di
una fase genitale e perfino di un abbozzo di primato genitale nel bambino. A maggior
ragione mi discosto, su tale punto, da Melanie Klein, che ha radicalizzato il concetto di fase
genitale infantile attraverso la teoria della genitalizzazione precoce. Cercherò di
mostrare che anche l’edipo non può essere inteso come organizzazione genitale ma
dev’essere considerato un universo di fantasie pregenitali. Nella mia ricerca rivolta
ad una nuova teoria della sessualità, soprattutto in riferimento al suo rapporto con la
cultura, mi è sembrato degno di particolare interesse il concetto di “pulsione
di appropriazione”.(...)
Anche sotto questo aspetto la posizione di Freud è sfaccettata ed aperta. Dopo avere
sottolineato l’importanza della repressione sociale come repressione esogena, legata al
sentimento di colpa di accatto, egli è stato portato a valorizzare il sentimento di
colpa inconscio che considera una cultura pura di istinto di morte. Questa ultima posizione del
pensiero freudiano sposta il conflitto all’interno della vita istintiva sotto forma di
conflitto tra istinti anziché nel rapporto tra questi e la cultura. Non solo, ma il
legame tra istinti di morte e pregenitalità, evidenziato dallo stesso Freud, fa supporre
che l’antagonismo fondamentale che è nella sessualità umana si collochi
nella contrapposizione tra genitalità e pregenitalità. Un tale antagonismo
può essere formulato come conflitto tra pregenitalità, come pulsione di
appropriazione e accoppiamento distruttivo, e genitalità, come pulsione di scambio e
accoppiamento creativo.
Per Freud, però, pur esistendo una pulsione di appropriazione, non esiste una
pulsione di scambio. Si può parlare di pulsione di scambio, a mio avviso, solo andando
al di la della teoria della libido come puramente pulsionale, per collegarla invece
all’Eros come istinto di vita che presiede al formarsi di aggregati sempre più
vasti: una libido ad opera della quale il soggetto è più volto a creare
nuovi legami che non preoccupato di mantenere basso il livello di tensione.(...)
Mentre Freud ipotizzava un conflitto di base tra cultura e sessualità, spero, partendo
dallo stesso Freud, di riuscire a porre in evidenza come esista una forma di
solidarietà tra genitalità e cultura. Ciò non significa evidentemente che
il conflitto tra cultura e sessualità non esista. Esso esiste, ma si colloca
all’interno di due organizzazioni istintuali, e cioè tra genitalità e
pregenitalità. Ciò equivale a dire che il conflitto che travaglia la vita
psichica umana è intraistintivo. Non è tra istinti e cultura, bensì tra
due organizzazioni istintuali: tra l’organizzazione pregenitale e l’organizzazione
genitale.(...)
L’identificare la pregenitalità con l’istinto di morte richiede una
contrapposizione radicale tra pregenitalità e genitalità che va al di là
di Freud. Prima di Al di là del principio del piacere (1920), anzi, egli sembra
spesso confondere le due cose. Nei suoi scritti sulla sessualità, tale confusione
è così spesso palese da lasciare perplessi. D’altra parte Freud non ha
potuto rivedere le sue concezioni della sessualità dopo avere enunciato l’istinto
di morte, nel quale il sadismo e il masochismo hanno una parte essenziale. Egli cioè
riteneva che non fosse possibile trovare l’istinto di morte se non mescolato agli istinti
di vita, per cui la confusione tra pregenitalità e genitalità, che si riscontra
nei suoi scritti sulla sessualità, permane anche con l’ultima sua formulazione
della vita istintiva.
Affermare che Freud ha confuso genitalità e pregenitalità può apparire
ingiusto. Dei Tre saggi (1905), il terzo è dedicato alle trasformazioni della
pubertà e al primato genitale. Il saggio in cui enuncia la teoria
dell’organizzazione genitale infantile, che a mio parere è il principale
responsabile della confusione tra pregenitalità e genitalità, è
però del 1923, posteriore quindi all’Al di là del principio del
piacere (1920). In tutti i saggi sulla sessualità scritti dopo il 1920, manca una
revisione dei concetti di organizzazione genitale e organizzazione pregenitale, che sarebbe
stata da attendersi se, come egli afferma nell’Al di là del principio del
piacere (1920), le fasi pregenitali, caratterizzate dal sadomasochismo, sono fortemente
interferite dall’istinto di morte.(...)
A mio avviso, il modo in cui il comportamento maschile e il comportamento femminile si
integrano nel concreto rapporto genitale, è di complessità tale che non si
lascia ridurre ad attività e passività. E d’altra parte il ridurre il ruolo
femminile alla passività e al masochismo, e il ruolo maschile all’attività
e al sadismo, costituisce proprio una descrizione del maschile e del femminile in termini
pregenitali.(...)
La riflessione svolta sul significato delle perversioni come discorso confusivo e di
rinnegamento della dipendenza dall’oggetto genitale e di sopravvalutazione
dell’oggetto pregenitale, si riferisce in realtà anche all’inversione.
Prescindendo dai rapporti anali che possono intervenire negli omosessuali, l’inversione
appare soprattutto prodotta, oltre che dalla confusione corporea, dalla confusione di
persone, sia in riferimento al self che al non-self. Nell’esperienza
clinica l’omosessualità appare fondamentalmente sostenuta da un processo di
identificazione introiettiva, in cui il soggetto è identificato confusivamente con la
madre, e da un processo di identificazione proiettiva, in cui l’oggetto (il partner)
è identificato confusivamente con se stesso. L’omosessuale costruisce
cioè un fondamentale rapporto narcisistico negando la propria distinzione dal proprio
partner.(...)
La capacità di simbolizzazione diacritica è raggiunta dal bambino con il
costituirsi del pensiero operativo, verso i 6-7 anni: al periodo cioè del tramonto del
complesso edipico. A mio avviso, la rimozione dell’edipo comporta la rimozione della
pregenitalità, come condizione per il costituirsi dell’uomo come animale
simbolico, non solo in senso affettivo-confusivo, ma anche in senso operativo-diacritico.
L’accesso alla genitalità esige cioè l’instaurarsi di un processo
che ho chiamato rimozione cognitiva, in quanto l’edipo, inteso come organizzazione
pregenitale fallica, contiene in sé il progetto cognitivamente assurdo della
reversibilità del rapporto generante-generato. L’eccitamento genitale adulto
per il suo espletarsi normale richiede il superamento della confusività, sia a livello
di prevaricazioni anatomiche, cioè a livello di confusione corporea sia a livello di
confusione di persone tra genitore e bambino. Non solo, ma l’accesso alla
genitalità richiede anche il superamento della confusione tra significante, significato
e referente, della confusione tra piacere e dolore e tra amico e nemico ed infine della
“confusione” relativa alla indistinzione tra il self e il non- self.
La genitalità esige la fusione, ma non la confusione. Il piacere genitale
è accompagnato da un particolare sentimento di mescolanza tra i partner. Tale sentimento
è piacevole proprio perchè si colloca in un luogo a cui si può accedere
solo dopo che si è stabilita una distinzione a tutti i livelli che ho cercato di
illustrare.
Si può quindi dire che, la genitalità implica da parte dell’uomo, come
animale culturale, la capacità di fare, attraverso un discorso corporeo, un discorso
culturale. Ciò implica una relazione di traducibilità tra il discorso della
natura e il discorso della cultura. La simbolizzazione primaria e confusiva che è
implicita in ogni discorso pregenitale, dominato dall’onnipotenza, è forse
indispensabile per tradurre il corpo in equazioni simboliche primarie, espresse a proposito del
seno, del fallo, delle feci e delle varie relazioni contenitore-contenuto.
Tutti i simboli primari che caratterizzano le diverse fasi della sessualità infantile,
le traducono in termini di parti corporee ed in termini di genitore e di bambino. Tale
simbolizzazione primaria, anche se deve essere già considerata una specie di cultura,
è però confusiva. Essa rappresenta il linguaggio del corpo mucoso legato
all’universo perverso delle prevaricazioni anatomiche: tuttavia è già un
linguaggio centrato sulla onnipotenza semiotica. La genitalità non può fare a
meno della simbolizzazione primaria né della confusività del corpo mucoso. Essa
però instaura un discorso che collega il corpo mucoso al corpo eido-acustico, che
presiede alle percezioni diacritiche e che è specificatamente legato al linguaggio.
Mentre la pregenitalità è un processo non solo confusivo, ma anche coatto e
ripetitivo, la genitalità implica il tradurre un discorso confuso in un discorso chiaro
e distinto, ma anche libero e innovativo. In questo senso la genitalità è
molto più vicina ai linguaggi creativo-artistici, che non alla nevrosi, alla
sessualità infantile e alle perversioni. Ciò che accomuna sessualità
infantile, nevrosi e perversioni, non è tanto l’universo perverso, quanto
piuttosto un comune difetto di simbolizzazione. Si tratta cioè di discorsi goffi,
privati e quindi esclusi dalla possibilità di costituire codici consensuali.
La genitalità invece sembra implicare, attraverso la pulsione di scambio, i fondamenti
stessi di ogni codice consensuale e presiede alla creatività. Per questo può
essere utilmente confrontata con la costituzione dei codici artistici. Come per i codici
artistici, per la genitalità è indispensabile avvalersi della possibilità
di regressione controllata dall’Io nella pregenitalità. Tale discesa agli
inferi è sempre minacciata dalla confusività, dal ritorno al caos, espresso dalla
equiprobabilità di tutto. La genitalità esige il cosmos. Come tutta la
cultura umana la genitalità ha bisogno di consenso tra diversi; per questo deve
elaborare forme ostensibili di codici che possano essere riconosciuti come consensuali non solo
rispetto a due o più partner, ma rispetto anche a codici etici o estetici. Attraverso
questi, l’accoppiamento privato può integrarsi in un più vasto
accoppiamento di valori collettivi. È questa la ragione per la quale la
genitalità è così profondamente radicata nel mondo dei valori. Sul
piano pregenitale, il problema dei valori si allaccia alla sopravvalutazione dell’oggetto
sessuale, che Freud ha collegato alla perversione. La sopravvalutazione si collega
all’idealizzazione dell’oggetto e questa, a sua volta, è collegata alla
difesa dalla persecuzione. In questa prospettiva la pregenitalità non presiede
all’accoppiamento, ma all’appropriazione e, attraverso di essa, è
intimamente unita allo schema amico-nemico, di cui è un’organizzazione. Per
quanto ciò possa scandalizzare, anche l’innamoramento, quando è portato
alla sopravvalutazione dell’oggetto ed alla svalutazione del soggetto, si collega alla
pregenitalità. Molto spesso gli innamorati vivono l’accoppiamento genitale come
una cosa impura.(...)
Sul piano pulsionale, la pregenitalità è imperniata sulla pulsione di
appropriazione, mentre la genitalità è sostenuta dalla pulsione di scambio. Sul
piano cognitivo, la pregenitalità è caratterizzata dalla simbolizzazione
affettiva confusiva, mentre la genitalità è caratterizzata dalla simbolizzazione
affettiva diacritica.(...)
Le illusioni che sono possibili a livello di identificazione sono superate a livello di
costituzione dell’identità. L’identificazione permette al soggetto di essere
ciò che non è, mentre l’identità definisce il soggetto in base a
ciò che realmente è, in quanto diverso dagli altri. Così, mentre la
pregenitalità si fonda sull’identificazione, la genitalità si fonda invece
sull’identità e più precisamente sulla identità sessuale che si
instaura nella pubertà. Mentre l’edipo omologa genitore e bambino e maschile e
femminile, l’identità genitale pone il sesso maschile come irriducibile al sesso
femminile e pone la condizione di genitore come irriducibile alla condizione di bambino.
L’identificazione del bambino con ambedue i genitori porta questo non solo a confondere
il sesso maschile con il sesso femminile, ma anche a fantasticare la reversibilità del
rapporto generante-generato. L’identificazione confusiva, con il sesso che non si ha
e con il genitore che non si è, partecipa in modo diverso al costituirsi
dell’identità sessuale maschile e femminile. La confusione generata
dall’identificazione con un sesso che non si ha, costituisce, nella pubertà,
l’antefatto illusorio che permette l’instaurarsi di un processo di verifica.
L’adolescente maschio e femmina, realizzando il proprio sesso, scoprono la mancanza di
quel sesso che, tramite l’identificazione, fantasticavano di avere, nell’infanzia,
come espressione del desiderio di possedere un genitale totale. Il costituirsi della
identità sessuale puberale si attua così attraverso il riconoscimento che
l’avere un genitale di un determinato sesso è accompagnato dalla constatazione di
essere mancanti dell’altro sesso.
La confusione generata dalla identificazione con il genitore che non si è, prepara,
nella pubertà, la deillusione nei riguardi della fantasia di essere genitori di se
stessi e nello stesso tempo crea la possibilità di passare dall’identificazione
all’identità, attraverso l’identificazione del proprio corpo ormai maturo
che realmente si ha. Le identificazioni confusive edipiche vengono pertanto verificate come
illusorie e tale verifica prepara il costituirsi della genitalità come fondata non
più su fantasmi ma sulla realtà. L’identità sessuale è
pertanto acquistata da parte dell’uomo e della donna attraverso due rinunce: una relativa
ad appropriarsi del genitale totale e l’altra relativa all’essere il genitore
totale.
Il costituirsi dell’identità sessuale adulta, intesa come genitalità,
porta alla coscienza di una eccedenza costituita dal proprio genitale reale. Essa però
comporta anche la presa di coscienza di una mancanza, generata dalla deillusione nei riguardi
dell’appropriazione di un sesso che non si ha. Se si rimane in una pura simbolizzazione
confusiva onnipotente, centrata sulla pulsione di appropriazione, ogni sesso può eludere
la necessità di un altro sesso, allo stesso modo che ogni bambino può eludere la
necessità di un genitore. Ho pertanto postulato che l’instaurarsi della
genitalità non implichi solo uno sviluppo biologico libidico quantitativo, ma comporti
anche il costituirsi di una specifica pulsione genitale che ho chiamata pulsione di scambio,
per distinguerla dalla pulsione di appropriazione, che caratterizza tutta la sessualità
infantile.
Considero la pulsione di scambio una metapulsione, perchè va al di là del
puro bisogno di scarico e subordina il piacere al vissuto intersoggettivo ed intercorporeo
dell’uomo e della donna. La pulsione di scambio costituirebbe pertanto una fusione tra
teoria freudiana della libido, centrata sul bisogno di scarico, e teoria freudiana
dell’Eros, inteso come istinto di vita originatosi dal rapporto con l’esterno e
tendente alla creazione di unità più complesse, così come Freud lo
descrive in Al di là del principio del piacere (1920).
La genitalità può essere considerata una metapulsione anche per i suoi legami
con gli aspetti cognitivi dell’esperienza sessuale. Essa non solo investe
l’oggetto, ma lo investe come specificatamente diverso dal soggetto. Anche il neonato
investe il seno, ma non sa di investirlo e soprattutto lo confonde confusivamente con una parte
di sé. In questa prospettiva se si vuole parlare di genitalità nel bambino
bisogna riferirsi anziché al concetto di scarico a quello di relazione che si instaura
attraverso il legame con la realtà esterna. Il realizzarsi della genitalità
sembra implicare un andare verso un grado di maggiore complicazione e una tendenza al crearsi
di un’eccedenza all’interno del vivente che avrebbe un significato antientropico,
in quanto è centrata su una relazione più complessa di scambio, anziché
sullo scarico. In questa prospettiva, la genitalità è solidale con il principio
di realtà come principio di piacere dilazionato, favorito dal sorgere del pensiero come
processo di simbolizzazione affettiva e operativa.(...)
Ricevere qualcosa è possibile in quanto c’è un altro che la dà.
La ricettività reciproca non implica la passività che si contrappone
all’attività, ma è piuttosto qualcosa che si integra con
l’oblatività reciproca. Il dare e il ricevere si collegano cioè alla
categoria del dono, che a sua volta presuppone l’appartenenza di qualcosa a due soggetti
e uno scambio di essa tra di loro. L’uso linguistico sottolinea il fatto che nel
rapporto genitale ogni partner vive il genitale dell’altro nella propria appartenenza
attraverso l’espressione di “avercelo dentro” riferibile sia all’uomo
che alla donna.
L’appartenenza reciproca del genitale dell’altro durante l’amplesso sessuale
esprime un’esperienza che è mediata dalla identificazione confusiva infantile e
nello stesso tempo della realtà del rapporto sessuale adulto. In questa prospettiva non
ha molto senso parlare di primato dell’attività maschile sulla passività
femminile. Si tratta piuttosto dello scambio di un dare e di un ricevere reciproco e
simmetrico, in cui la ricettività si articola reciprocamente con
l’oblatività.(...)
Partendo dalla regola fondamentale, che implica il dire tutto quello che passa per la
mente, la psicoanalisi tende a trasformare il campo in selva. L’associazione libera
tende a far entrare l’inconscio, come erba selvatica, nel campo della coscienza. La
psicoanalisi però, operando sulla simbolizzazione confusiva, rappresentata dalle
erbacce, tende a farla evolvere in senso operativo. Nello stesso tempo in cui comporta un
processo di invasione della coscienza da parte di ciò che è selvatico tende anche
a trasformare il selvatico emergente in coltivato, il confusivo in diacritico,
l’affettivo in operativo.
La coltivazione del campo corrisponde alla genitalità, nel senso che il campo
potenzia la generatività, scegliendo di far prosperare alcune piante in luogo di altre e
pertanto somministrando un codice. Anche la genitalità ha una base naturale e quindi
anch’essa appartiene alla selva. Essa è forse la pianta più preziosa della
selva. Per diventare cultura deve però diventare codice, cioè deve essere
coltivata a preferenza di altre piante. Se non fosse separata dalla selva
(pregenitalità) e seminata nel campo (cultura) deperirebbe allo stesso modo che
deperisce il grano soffocato da erbe selvatiche. Per accedere alla cultura la
genitalità deve essere separata dalla selva come il bambino per accedere alla cultura
deve separarsi dalla confusività che lo lega alla madre. Se non viene separata dalla
pregenitalità, la genitalità non può crescere con il rigoglio che essa
può avere nel campo coltivato. Il rigoglio che la genitalità ha nel campo
coltivato, cioè nel suo allearsi con la cultura, dipende soprattutto dal fatto che essa,
essendo centrata sul reale, è una pianta che tende ad accoppiarsi con il logos,
come istanza che scopre le leggi che presiedono allo sviluppo degli accoppiamenti nel
campo.(...)
La cultura nasce fondamentalmente dal fatto che l’uomo ha, a differenza degli altri
animali, la specifica prerogativa di produrre simboli. Esiste una forma naturale, selvatica, di
produzione del simbolo ed è quella operante nel sogno. Tale forma di simbolo, che
l’uomo riceve in dotazione dalla natura, è però confusiva. In quanto porta
alla confusione di ogni cosa con tutte le cose, il simbolo selvatico si presenta come
pericoloso per la sopravvivenza e per l’adattamento all’ambiente. Il simbolo
confusivo è pertanto imparentato con Thanatos. E’ per questo che deve essere
verificato da una forma coltivata di simbolo. Il privilegiamento della genitalità
rispetto alla pregenitalità contiene quindi non solo il primato del coltivato sul
selvatico, ma anche il primato degli istinti di vita rispetto agli istinti di morte. Nella
prospettiva che ho cercato di sviluppare in questo libro la genitalità è pertanto
non solo l’espressione degli istinti di vita, ma è anche isomorfica alla cultura.
Ne viene come conseguenza una non identità tra cultura e libido, ma una tendenziale
identità tra Eros e cultura umana.(...)
Sia la società patriarcale, che quella matriarcale appaiono... l’espressione di
due culture che istituzionalizzano la pregenitalità, istituzionalizzando cioè
rispettivamente il fantasma del genitale unico e del genitore unico. A livello di
simbolizzazione confusiva, il capitalismo e il socialismo che si disputano il potere
culturale del nostro tempo, al di là dei loro aspetti economici, appaiono da una parte
come espressione di una cultura fallocentrica, centrata sul principio di prestazione per il
capitalismo, dall’altra come espressione di una cultura onfalocentrica, centrata
sul rapporto bambino-madre, inteso come sistema di potere centrato sul bisogno. La
genitalità ha il difficile compito di saldare la condizione di bisogno con il principio
di prestazione.(...)