Ripresentiamo per il progetto Portaparola l’articolo che Raniero Cantalamessa ha scritto per Avvenire di sabato 18.11.2006. Il titolo originario dell’articolo è I Vangeli alla prova: la storia e i fantasmi del mito. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (25.11.2006)
Il ciclone Il Codice da Vinci di Dan Brown non è passato invano. Sulla sua scia stanno fiorendo, come sempre avviene in questi casi, nuovi studi sulla figura di Gesù di Nazareth con l'intenzione di svelarne il vero volto ricoperto finora sotto la coltre dell'ortodossia ecclesiastica. Anche chi ne prende a parole le distanze, se ne mostra per più versi influenzato.
A tale filone mi pare appartenga il libro a quattro mani di
Corrado Augias e Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù (Mondadori). Vi
sono, come è naturale, differenze tra l'uno e l'altro autore, tra il
giornalista e lo storico. Ma non voglio cadere io stesso nell'errore che
più di ogni altro compromette a mio parere questa "inchiesta" su Gesù
che è di tener conto solo e sempre delle differenze tra gli evangelisti,
mai delle convergenze.
Parto perciò da ciò che è comune ai due autori, Augias
e Pesce. Esso si può riassumere così: Sono esistiti, all'inizio,
non uno ma diversi cristianesimi. Una delle sue versioni ha preso il sopravvento
sulle altre; ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone delle
Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango
di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie
a nuove scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico,
ristabilire la verità e presentare finalmente Gesù di Nazareth
per quello che fu veramente e che egli stesso intese essere, cioè
una cosa totalmente diversa da quello che le varie Chiese cristiane hanno finora
preteso che fosse.
Nessuno contesta il diritto di accostarsi alla figura di Cristo da storici,
prescindendo dalla fede della Chiesa. È quello che la critica, credente
e non credente, va facendo da almeno tre secoli con gli strumenti più
raffinati. La domanda è se la presente inchiesta su Gesù raccoglie
davvero, per quanto in forma divulgativa e accessibile al gran pubblico,
il frutto di questo lavoro, o se invece opera in partenza una scelta drastica
all'interno di esso, finendo per essere una ricostruzione di parte.
Io credo che, purtroppo, questo secondo è il caso. Il filone scelto
è quello che va da Reimarus, a Voltaire, a Renan, a Brandon, a Hengel,
e oggi a critici letterari e «professori di umanità», quali
Harold Bloom e Elaine Pagels. Del tutto assente l'apporto della grande esegesi
biblica, protestante e cattolica, sviluppatasi nel dopo guerra, in reazione
alle tesi di Bultmann, molto più positiva circa possibilità di
attingere, attraverso i Vangeli, il Gesú della storia. Sui racconti
della passione e morte di Gesù, per fare un esempio, nel 1998, è
stata pubblicata da Raymond Brown («il più distinto tra gli studiosi
americani del Nuovo Testamento, con pochi rivali a livello mondiale»,
secondo il New York Times), un'opera di 1608 pagine. Essa è stata
definita dagli specialisti del settore «il metro in base al quale ogni
futuro studio della Passione sarà misurato», ma di tale studio
non c'è traccia nel capitolo dedicato ai motivi della condanna e della
morte di Cristo, né esso figura nella bibliografia finale che pure riporta
diversi titoli di opere in inglese.
All'uso selettivo degli studi corrisponde un uso altrettanto selettivo delle
fonti. I racconti evangelici sono adattamenti posteriori quando smentiscono
la propria tesi, sono storici quando si accordano con essa. Anche la risurrezione
di Lazzaro, benché attestata dal solo Giovanni, viene presa in considerazione,
se può servire a fondare la tesi della motivazione politica e di ordine
pubblico dell'arresto di Gesù (pag. 140).
Ma veniamo alla discussione più diretta della tesi
di fondo del libro. Anzitutto a proposito delle scoperte di nuovi testi che
avrebbero modificato il quadro storico sulle origini cristiane. Esse sono
essenzialmente alcuni Vangeli apocrifi scoperti in Egitto a metà del
secolo scorso, soprattutto i codici di Nag Hammadi. Su di essi viene fatta
un'operazione assai sottile: ritardare il più possibile la data di composizione
dei Vangeli canonici e avanzare il più possibile la data di composizione
degli apocrifi in modo da poterli usare come valide fonti alternative ai primi.
Ma qui si urta contro un muro non facilmente scavalcabile: nessun Vangelo canonico
(neppure quello di Giovanni secondo la critica moderna) si lascia datare dopo
l'anno 100 dopo Cristo e nessun apocrifo si lascia datare prima di tale anno
(i più arditi arrivano, con congetture, a datarli all'inizio del III
o a metà del II secolo). Tutti gli apocrifi attingono o suppongono i
Vangeli canonici; nessun Vangelo canonico attinge o suppone un vangelo apocrifo.
Per fare l'esempio oggi più in voga, dei 114 detti di Cristo nel Vangelo
copto di Tommaso, 79 hanno un parallelo nei Sinottici, 11 sono varianti delle
parabole sinottiche. Solo tre parabole non sono attestate altrove.
Augias, sulla scia di Elaine Pagels, crede di poter superare questo scarto
cronologico tra i Sinottici e il Vangelo di Tommaso ed è istruttivo
vedere in che modo. Nel Vangelo di Giovanni si assiste, secondo l'autore, a
un chiaro tentativo di screditare l'apostolo Tommaso, una vera persecuzione
nei suoi confronti, paragonabile a quella contro Giuda. Prova: l'insistenza
sulla incredulità di Tommaso! Ipotesi: l'autore del Quarto Vangelo
non vuole per caso screditare le dottrine che già a suo tempo circolavano
sotto il nome dell'apostolo Tommaso e che confluiranno in seguito nel vangelo
che porta il suo nome? Così è superato lo scarto cronologico.
Si dimentica, in questo modo, che l'evangelista Giovanni mette proprio sulla
bocca di Tommaso la più commovente dichiarazione di amore a Cristo («Andiamo
anche noi a morire con lui») e la più solenne professione di
fede in lui: «Mio Signore e mio Dio!» che, a detta di molti
esegeti, costituisce il coronamento di tutto il suo Vangelo. Se è un
perseguitato dai Vangeli canonici Tommaso, che dire del povero Pietro con tutto
quello che riferiscono sul suo conto! A meno che non sia avvenuto, anche nel
suo caso, per screditare i futuri apocrifi che portano il suo nome…
Ma il punto principale non è neppure quello della data, è quello
dei contenuti dei vangeli apocrifi. Essi dicono esattamente il contrario di
quello per cui si invoca la loro autorità. I due autori sostengono
la tesi di un Gesù pienamente inserito nell'ebraismo, che non ha inteso
innovare in nulla rispetto ad esso, ma i vangeli apocrifi professano tutti,
chi più chi meno, una rottura violenta con l'Antico Testamento, facendo
di Gesù il rivelatore di un Dio diverso e superiore. La rivalutazione
della figura di Giuda nel vangelo omonimo si spiega in questa logica: con il
suo tradimento, egli aiuterà Gesù a liberarsi dell'ultimo residuo
del Dio creatore, il corpo!
Gli eroi positivi dell'Antico Testamento diventano negativi per loro e quelli
negativi, come Caino, positivi. Gesù è presentato nel libro come
un uomo che solo la Chiesa posteriore ha elevato al rango di Dio; i vangeli
apocrifi al contrario presentano un Gesù che è vero Dio, ma non
vero uomo, avendo rivestito solo l'apparenza di un corpo (docetismo). Per essi,
ciò che fa difficoltà non è la divinità di Cristo
ma la sua umanità. Si è disposti a seguire i vangeli apocrifi
su questo loro terreno?
Si potrebbe allungare la lista degli equivoci nell'uso dei vangeli apocrifi.
Dan Brown si basa su di essi per avallare l'idea di un Gesù che esalta
il principio femminile, non ha problemi con il sesso, sposa la Maddalena…
E per provare questo si appoggia al Vangelo di Tommaso dove si dice che, se
vuole salvarsi, la donna deve cessare di essere donna e diventare uomo! Il
fatto è che i vangeli apocrifi, in particolare quelli di matrice gnostica,
non sono stati scritti con l'intento di narrare fatti o detti storici su Gesù,
ma per veicolare una certa visione di Dio, di se stessi e del mondo, di
natura esoterica e gnostica. Fondarsi su di essi per ricostruire la storia
di Gesù è come fondarsi su Così parlò Zarathustra
non per conoscere il pensiero di Nietzsche, ma quello di Zarathustra.
Per questo in passato, pur essendo quasi tutti già noti, almeno in ampi
stralci, nessuno aveva mai pensato di potere usare i vangeli apocrifi come fonti
di informazioni storiche su Gesù. Solo la nostra era mediatica, alla
ricerca esasperata di scoop commerciali, lo sta facendo. Ci sono certo fonti
storiche su Gesù al di fuori dei Vangeli canonici ed è strano
che esse siano lasciate praticamente fuori da questa «inchiesta».
La principale è Paolo, che scrive meno di trent'anni dopo la scomparsa
di Cristo e dopo essere stato un suo fiero oppositore. La sua testimonianza
viene solo discussa a proposito della risurrezione, ma per essere naturalmente
screditata.
Eppure, cosa c'è di essenziale nella fede e nei "dogmi" del cristianesimo
che non si trovi già attestato (nella sua sostanza se non nella forma)
in Paolo, prima cioè che esso abbia avuto il tempo di assorbire elementi
estranei? Si può, per esempio, definire non storico e frutto della
preoccupazione posteriore di non allarmare l'autorità romana il contrasto
tra Gesù e i farisei e la stessa mentalità legalistica di un gruppo
di essi, senza tener conto di quello che dice Paolo che era stato uno di essi
e che proprio per questo aveva perseguitato accanitamente i cristiani? Ma su
questo tornerò più avanti parlando della storia della Passione.
Vengo ora al punto principale condiviso dai due autori. Gesù
è stato un ebreo, non un cristiano; non ha inteso fondare nessuna nuova
religione; si è considerato mandato solo per gli ebrei, non anche per
i pagani; «Gesù è molto più vicino agli ebrei religiosi
di oggi che non ai sacerdoti cristiani»; il cristianesimo «nasce
addirittura nella seconda metà del II secolo». Come conciliare
quest'ultima affermazione con la notizia degli Atti (11,26) secondo cui,
non più di 7 anni dopo la morte di Cristo, circa l'anno 37, «ad
Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani»? Plinio
il Giovane (una fonte non sospetta!), tra il 111 e il 113 parla ripetutamente
dei «cristiani», di cui descrive la vita, il culto e la fede in
Cristo «come in un Dio». Intorno agli stessi anni, Ignazio d'Antiochia
parla per ben 5 volte di cristianesimo come distinto dal giudaismo, scrivendo:
«Non è il cristianesimo che ha creduto nel giudaismo, ma il
giudaismo che ha creduto nel cristianesimo» (Lettera ai Magnesiani
10, 3). In Ignazio, cioè all'inizio del II secolo, non troviamo attestati
solo i nomi «cristiano» e «cristianesimo», ma anche
il contenuto di essi: fede nella piena umanità e divinità di Cristo,
struttura gerarchica della Chiesa (vescovi, presbiteri, diaconi), perfino un
primo chiaro accenno al primato del vescovo di Roma, «chiamato a presiedere
nella carità».
Prima ancora, del resto, che entrasse nell'uso comune il nome di cristiani,
i discepoli erano coscienti della identità propria e la esprimevano con
termini come «i credenti in Cristo», «quelli della via»,
o «quelli che invocano il nome del Signore Gesù». Ma tra
le affermazioni dei due autori che ho appena riportate ce n'è una che
merita di essere presa sul serio e discussa a parte. «Gesù non
ha inteso fondare nessuna nuova religione. Era ed è rimasto ebreo».
Verissimo, difatti neanche la Chiesa, a rigore, considera il cristianesimo
una "nuova" religione. Si considera insieme con Israele (una volta si diceva
a torto «al posto di Israele») l'erede della religione monoteistica
dell'Antico Testamento, adoratori dello stesso Dio «di Abramo, di Isacco
e di Giacobbe» (dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con l'ebraismo
non è portato avanti dall'organismo vaticano che si occupa del dialogo
tra le religioni, ma di quello che si occupa dell'unità dei cristiani!).
Il Nuovo Testamento non è un inizio assoluto, è il "compimento"
(categoria fondamentale) dell'Antico. Del resto, nessuna religione è
nata perché qualcuno ha inteso "fondarla". Forse Mosè aveva inteso
fondare la religione d'Israele o Buddha il buddhismo? Le religioni nascono e
prendono coscienza di sé in seguito, da coloro che hanno raccolto il
pensiero di un Maestro e ne hanno fatto ragione di vita. Ma fatta questa precisazione,
si può dire che nei Vangeli non c'è nulla che faccia pensare
alla convinzione di Gesù di essere portatore di un messaggio nuovo? E
le sue antitesi: «Avete inteso che fu detto…, ma io vi dico»
con le quali reinterpreta perfino i 10 comandamenti e si pone sullo stesso piano
di Mosè? Esse riempiono tutta una sezione del Vangelo di Matteo (5,
21-48), cioè di quel medesimo evangelista su cui si fa leva, nel libro,
per affermare la piena ebraicità di Cristo!
Gesù aveva l'intenzione di dare vita a una sua comunità e prevedeva
che la sua vita e il suo insegnamento avrebbero avuto un seguito? Il fatto indiscutibile
dell'elezione dei 12 apostoli sembra proprio indicare di sì. Anche
lasciando da parte la grande commissione: «Andate in tutto il mondo, predicate
il Vangelo ad ogni creatura» (qualcuno potrebbe attribuirla, nella sua
formulazione, alla comunità post-pasquale), non si spiegano diversamente
tutte quelle parabole, il cui nucleo originario contiene proprio la prospettiva
di un allargamento alle genti. Si pensi alla parabola dei vignaioli omicidi,
degli operai nella vigna, al detto sugli ultimi che saranno i primi, sui molti
che «verranno dall'oriente e dall'occidente per sedersi a mensa con Abramo»,
mentre altri ne saranno esclusi e innumerevoli altri detti…
Durante la sua vita Gesù non è uscito dalla
terra d’Israele, eccetto qualche breve puntata nei territori pagani del
Nord, ma questo si spiega con la sua convinzione di essere mandato anzitutto
per Israele, per poi spingerlo, una volta convertito, ad accogliere nel suo
seno tutte le genti, secondo le prospettive universalistiche annunciate dai
profeti. È molto curioso: c’è tutto un filone del pensiero
ebraico moderno (F. Rosenzweig, H. J. Schoeps, W. Herberg) secondo cui Gesù
non sarebbe venuto per gli ebrei, ma solo per i gentili; secondo Augias e Pesce
egli sarebbe invece venuto solo per gli ebrei, e non per i gentili.
Va dato merito a Pesce che non accetta di liquidare la storicità dell’istituzione
dell’Eucaristia e la sua importanza nella primitiva comunità.
Qui è uno dei punti dove più emerge l’inconveniente segnalato
all’inizio di tener conto solo delle differenze, e non delle convergenze.
I tre Sinottici e Paolo unanimemente attestano il fatto quasi con le stesse
parole, ma per Augias questo conta meno del fatto che l’istituzione è
taciuta da Giovanni e che, nel riferirla, Matteo e Marco abbiano «Questo
è il mio sangue», mentre Paolo e Luca hanno «Questo è
il calice della nuova alleanza nel mio sangue». La parola di Cristo: «Fate
questo in memoria di me», pronunciata in tale occasione, si richiama a
Esodo 12, 14 e mostra l’intenzione di dare al "memoriale" pasquale un
nuovo contenuto. Non per nulla di lì a poco Paolo parlerà della
«nostra Pasqua» (1 Cor 5, 7), distinta da quella dei giudei.
Se all’Eucaristia e alla Pasqua si aggiunge il fatto incontrovertibile
dell’esistenza di un battesimo cristiano fin dall’indomani della
Pasqua che progressivamente sostituisce la circoncisione, abbiamo gli elementi
essenziali per parlare, se non di una nuova religione, di un modo nuovo di vivere
la religione d’Israele.
Quanto al canone delle Scritture, è vero ciò che afferma Pesce
(pag. 16) che l’elenco definitivo degli attuali 27 libri del Nuovo
Testamento viene fissato solo con Atanasio nel 367, ma non si dovrebbe tacere
il fatto che il suo nucleo essenziale, composto dai quattro Vangeli più
13 lettere paoline, è molto più antico; si è formato verso
l’anno 130 e alla fine del II secolo gode ormai della stessa autorità
dell’Antico Testamento (frammento Muratoriano).
«Anche Paolo, come Gesù, – si dice – non è un
cristiano, ma un ebreo che rimane nell’ebraismo». Anche questo è
vero; non dice forse lui stesso: «Sono ebrei? Anch’io! Anzi io più
di loro!»? Ma questo non fa che confermare ciò che ho appena rilevato
sulla fede in Cristo come "compimento" della legge. Per un verso Paolo si sente
nel cuore stesso di Israele (del «resto di Israele», preciserà
egli stesso), per l’altro si distacca da esso (dall’ebraismo del
suo tempo) con il suo atteggiamento verso la legge e la sua dottrina della giustificazione
mediante la grazia. Sulla tesi di un Paolo «ebreo e non cristiano»,
sarebbe interessante sentire cosa ne pensano gli stessi ebrei…
Merita una discussione a parte il capitolo del libro di Corrado
Augias e Mauro Pesce sul processo e la condanna di Cristo. La tesi centrale
non è nuova; ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della
Shoah ed è stata adottata da quelli che propugnavano negli anni Sessanta
e Settanta la tesi di un Gesù zelota e rivoluzionario. Secondo essa,
la responsabilità della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse
esclusivamente, su Pilato e l’autorità romana, il che indica che
la sua motivazione è più di ordine politico che religioso.
I Vangeli hanno scagionato Pilato e accusato di essa i capi dell’ebraismo
per tranquillizzare le autorità romane sul loro conto e farsele amiche.
Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo:
togliere alla radice ogni pretesto all’antisemitismo che tanto male ha
procurato al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave
che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con
argomenti sbagliati. La lotta all’antisemitismo va posta su un fondamento
più solido che una discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti
della Passione. L’estraneità del popolo ebraico, in quanto tale,
alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica
che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli
è stata stranamente dimenticata: «Colui che ha peccato deve morire.
Il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità
del figlio» (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato
che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale,
nessun altro.
Messo al sicuro il rifiuto dell’antisemitismo, vorrei spiegare perché
non si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità
ebraiche alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica
di essa. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all’anno
50, dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei
Vangeli. Dice che i «giudei hanno messo a morte Gesù» (1
Ts 2,15), e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo
in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo,
un tempo, approvato e difeso "accanitamente" la condanna del Nazareno.
Durante questa fase più antica il cristianesimo si considerava ancora
destinato principalmente a Israele; le comunità nelle quali si erano
formate le prime tradizioni orali confluite in seguito nei Vangeli erano costituite
in maggioranza da giudei convertiti; Matteo, come notano anche Augias e Pesce,
è preoccupato di mostrare che Gesù è venuto a compiere,
non ad abolire, la legge. Se c’era dunque una preoccupazione apologetica,
questa avrebbe dovuto indurre a presentare la condanna di Gesù come opera
piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche, al fine di rassicurare
i giudei di Palestina e della diaspora sul conto dei cristiani.
D’altra parte, quando Marco e, sicuramente, gli altri evangelisti scrivono
il loro Vangelo c’è stata già la persecuzione di Nerone;
ciò avrebbe dovuto spingere a vedere in Gesù la prima vittima
del potere romano e nei martiri cristiani coloro che avevano subito la stessa
sorte del Maestro. Se ne ha una conferma nell’Apocalisse, scritta
dopo la persecuzione di Domiziano, dove Roma è fatta oggetto di una invettiva
feroce («Babilonia», la «Bestia», la «prostituta»)
a causa del sangue dei martiri (cfr. Ap. 13 ss.). Pesce ha ragione di scorgere
una «tendenza antiromana» nel Vangelo di Giovanni (pag. 156), ma
Giovanni è anche quello che più accentua la responsabilità
del Sinedrio e dei capi ebrei nel processo a Cristo: come si concilia la cosa?
Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò
che li precede. I quattro Vangeli attestano, si può dire a ogni pagina,
un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei
(farisei, dottori della legge, scribi) sull’osservanza del sabato, sull’atteggiamento
verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull’impuro. Jeremias
ha dimostrato la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole
di Gesù. Il dato evangelico è tanto più credibile in
quanto il contrasto con i farisei non è affatto pregiudiziale e generale.
Gesú ha degli amici tra di loro (uno è Nicodemo); lo troviamo
a volte a pranzo in casa di qualcuno di loro; essi accettano almeno di discutere
con lui e di prenderlo sul serio, a differenza dei Sadducei. Pur non escludendo
dunque che la situazione posteriore abbia influito a calcare ulteriormente le
tinte, è impossibile eliminare ogni contrasto tra Gesù e una parte
influente della leadership ebraica del suo tempo, senza disintegrare completamente
i Vangeli e renderli storicamente incomprensibili.
L’accanimento del fariseo Saulo contro i cristiani non era nato dal nulla
e non se l’era portato dietro da Tarso! Una volta però dimostrata
l’esistenza di questo contrasto, come si può pensare che esso non
abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità
ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura
di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore? Pilato non era certo
una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale da preoccuparsi della sorte
di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue
ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò è verissimo. Egli
però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima,
ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali era in atto una
guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea.
Naturalmente, questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato
nella condanna di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei.
Non è il caso, oltre tutto, di volere essere «più ebrei
degli ebrei». Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel
Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie),
emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione
delle autorità religiose del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato
la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto
di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna
ingiusta.
Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti neotestamentarie
che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione delle autorità
ebraiche (dei sadducei forse più ancora che dei farisei) alla condanna
di Cristo, dall’altra spesso la scusano, attribuendola a ignoranza (cf.
Lc 23,34; Atti 3, 17; 1 Cor 2,8). È il risultato a cui giunge anche
Raymond Brown, nel suo libro di 1608 pagine su «La morte del Messia».
Una nota marginale, ma che tocca un punto assai delicato. Secondo Augias, Luca
attribuisce a Gesù le parole: «E quei miei nemici che non volevano
che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me» (Lc
19, 27) e commenta dicendo che: «È a frasi come queste che si rifanno
i sostenitori della "guerra santa" e della lotta armata contro i regimi ingiusti».
Va precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesù, ma al re della
parabola che sta narrando e si sa che non si possono trasferire di peso dalla
parabola alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni
caso essi vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso
metaforico di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesù non
è senza conseguenze; è una questione di vita o di morte, ma vita
e morte spirituale, non fisica. La guerra santa non c’entra proprio.
L'ora di chiudere questa mia lettura critica con qualche riflessione
conclusiva. Io non condivido molte risposte di Pesce, ma le rispetto riconoscendo
ad esse pieno diritto di cittadinanza in una ricerca storica. Molte di esse
(sull’atteggiamento di Gesù verso la politica, i poveri, i bambini,
l’importanza della preghiera nella sua vita) sono anzi illuminanti.
Alcuni dei problemi sollevati – il luogo di nascita di Gesù, la
questione dei fratelli e delle sorelle di lui, il parto verginale – sono
oggettivi e discussi anche tra gli storici credenti (l’ultimo non tra
i cattolici), ma non sono i problemi con cui sta o cade il cristianesimo della
Chiesa.
Meno giustificata in una "inchiesta" storica su Gesù mi sembra la
cura con cui Augias raccoglie tutte le insinuazioni su presunti legami omosessuali
esistenti tra i discepoli, o tra lui stesso e «il discepolo che egli amava»
(ma non doveva essere innamorato della Maddalena?), come pure la dettagliata
descrizione delle vicende scabrose di alcune donne presenti nella genealogia
di Cristo. Dall’inchiesta su Gesù si ha l’impressione che
si passi a volte al pettegolezzo su Gesù. Il fenomeno ha però
una spiegazione. È sempre esistita la tendenza a rivestire Cristo dei
panni della propria epoca o della propria ideologia.
In passato, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande respiro: il
Cristo idealista, socialista, rivoluzionario… La nostra epoca, ossessionata
dal sesso, non riesce a pensarlo che alle prese con problemi sentimentali. Io
credo che il fatto di aver messo insieme una visione di taglio giornalistico
dichiaratamente alternativa con una visione storica anch’essa radicale
e minimalista ha portato a un risultato d’insieme inaccettabile, non solo
per l’uomo di fede, ma anche per lo storico.
A lettura ultimata uno si pone la domanda: come ha fatto Gesù, che
non ha portato assolutamente nulla di nuovo rispetto all’ebraismo, che
non ha voluto fondare nessuna religione, che non ha fatto nessun miracolo e
non è risorto se non nella mente alterata dei suoi seguaci, come ha fatto,
ripeto, a diventare «l’uomo che ha cambiato il mondo»?
Una certa critica parte con l’intenzione di dissolvere i vestiti messi
addosso a Gesù di Nazareth dalla tradizione ecclesiastica, ma alla fine
il trattamento si rivela così corrosivo da dissolvere anche la persona
che c’è sotto di essi.
A forza di dissipare i "misteri" su Gesù per ridurlo a un uomo ordinario,
si finisce per creare un mistero ancora più inspiegabile. Un grande esegeta
inglese parlando della risurrezione di Cristo dice: «L’idea che
l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme
piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno
credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè
il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente
occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il
Nuovo Testamento» (Ch. H. Dodd).
La fede condiziona la ricerca storica? Innegabilmente, almeno in una certa
misura. Ma io credo che l’incredulità la condiziona enormemente
di più. Se uno si accosta alla figura di Cristo e ai Vangeli da non credente
(è il caso, mi sembra di capire, almeno di Augias) l’essenziale
è già deciso in partenza: la nascita verginale non potrà
che essere un mito, i miracoli frutto di suggestione, la risurrezione prodotto
di uno «stato alterato della coscienza» e così via.
Una cosa tuttavia ci consola e ci permette di continuare a rispettarci a vicenda
e a proseguire il dialogo: se ci divide la fede, ci accomuna in compenso «la
buona fede». In essa i due autori dichiarano di aver scritto il libro
e in essa io assicuro di averlo letto e discusso.
Il vangelo apocrifo di Giuda e la storicità
degli apocrifi
L’ignoranza delle Scritture
Per altri articoli e studi sul Gesù storico presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici