Presentiamo on-line l’Introduzione ai lavori
del 3° Simposio Europeo dei Docenti Universitari (Roma, 30 giugno-3 luglio
2005), dal titolo Ora et labora: Il lavoro in Europa, pronunciata da
S.Em. il Card. Camillo Ruini, il 30 giugno 2005.
Più volte, nel corso degli anni, il cardinal Ruini ha invitato a coniugare la crescita spirituale con
la crescita culturale, poiché l’assenza della seconda comporterebbe il rischio di scadere nel fanatismo,
nello spiritualismo ed in un riduzionismo emotivo della fede.
Uno degli ambiti nei quali è evidente l’importanza di questo approccio “riflesso”,
“pensato” alla vita è quello del lavoro e dell’attività economica. Le considerazioni
che seguono ci orientano proprio ad una valorizzazione della capacità “creativa”
dell’uomo che si realizza attraverso il lavoro, strumento benedetto, anche se difficile e spesso faticoso,
della vita cristiana.
I cenni a Gaudium et Spes 37 – “l’uomo redento, infatti, da Cristo e diventato nuova
creatura nello Spirito Santo può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve, e le
guarda e le onora come se al presente uscissero dalle mani di Dio. Di esse ringrazia il Benefattore e, usando e
godendo (utens ac fruens) in povertà e libertà di spirito, viene introdotto nel vero possesso del
mondo, quasi al tempo stesso niente abbia e tutto possegga: Tutto, infatti, è vostro, ma voi siete di
Cristo, Cristo di Dio (1Cor3,22-23) – sono certamente da approfondire, indicando come la destinazione
universale dei beni non sia da opporre alla possibilità di godere del frutto del lavoro, anzi come questo sia
un fine da non trascurare.
I neretti sono nostri ed hanno lo scopo di facilitare la lettura on-line del testo.
Il Centro Culturale Gli Scritti (22.12.2006)
Eminenza, Autorità, illustri Docenti,
è per me motivo di gioia introdurre i lavori del 3° Simposio europeo dei Docenti universitari, dedicato
ad un tema di grande rilevanza culturale, sociale e religiosa.
Il lavoro, infatti, costituisce la “chiave essenziale” (LE 3) di tutta la questione sociale.
Appartiene infatti alla condizione originaria dell’essere umano e – contrariamente a quanto spesso si
pensa – non riveste di per sé carattere di punizione e/o maledizione: "Il Signore Dio prese l'uomo e
lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse" (Gn 2,15).
Nessuna ipoteca negativa viene quindi posta dal testo biblico sull'attività dell'uomo nell'universo.
Ciò non significa, naturalmente, che essa non venga condizionata e non soffra, come ogni altro aspetto della
vita umana e cosmica, della tensione negativa del peccato.
L'originalità della prospettiva biblica si manifesta nella comprensione dell'uomo in se stesso e nelle sue
relazioni dinamiche con Dio e con il mondo. L'uomo non appare – come invece nelle culture antiche del vicino
Oriente – creato per la fatica, il conflitto, la morte, ma per la vita. Ciò si legge in
filigrana nel racconto biblico, in cui l'uomo, trasferito dalla terra arida e inospitale nel giardino di Eden, vive
in perfetta armonia con se stesso, con le cose, gli animali, e con Dio. Appare evidente la divaricazione teologica
rispetto alla letteratura religiosa circostante, ad esempio il poema di Gilgamesh, che afferma: "Quando gli
dei hanno creato l'umanità, la morte hanno stabilito all'umanità, la vita hanno tenuto nelle loro
mani"[1]. Questa netta diversità di prospettiva
trova espressione nei temi biblici dell'uomo come immagine di Dio e del suo "dominio" sul creato.
Tutto ciò delinea lo spessore antropologico della questione. Senza antropologia adeguata non c’è
soluzione della questione sociale: la crisi delle antropologie nel cosiddetto “postmoderno” si
riflette nello smarrimento del soggetto in rapporto all’attività lavorativa, ristretta nel peso della
necessità o esaltata nell’illusione del possesso: in realtà incapace di senso e di autentica
soddisfazione.
Il riduzionismo che il pensiero strumentale compie riducendo l’attività dell’uomo al campo
funzionale dell’uti (usare) impedisce che egli ne goda nell’ambito autenticamente umano del
frui (fruire, godere) (cfr Concilio Vaticano II, Gaudium et spes 37).
La creatività umana deve esprimersi nella libertà e promuovere libertà, come sovranamente
libero è l'atto creatore di Dio. Per l'uomo storico ciò rimane di fatto un ideale da perseguire, data
la sua situazione condizionata dal peccato. L'universo è posto nelle mani dell'uomo, che ne deve fruire
come immagine di Dio e non come sfruttatore dispotico. La terra é certamente data "ai figli dell'uomo"
(Sal115,16); ma non per essere saccheggiata, bensì "per essere abitata" (Is45,18): dopo Descartes, la
filosofia ha generalmente esasperato l'uomo come soggetto ponendolo in una vera e propria posizione di principato
assoluto. E dimenticando che l'uomo, se é creatore, é anche un essere che riceve; in concreto, che
riceve un cosmo, questo mondo, che egli non deve soltanto manipolare a proprio piacimento, ma gestire; egli ne
é certo il signore, ma non il tiranno[2].
In realtà, l'azione dell'uomo nell'universo é creativa in quanto connessa costitutivamente e
dinamicamente con l'azione creatrice di Dio, che è orientata in concreto alla nostra salvezza: anche il lavoro
dell’uomo, dunque, può e deve essere via di salvezza.
Se l’antropocentrismo, vanto del pensiero moderno, perde il suo legame con il teocentrismo e si ripiega su
se stesso, anche il lavoro tende a ridiventare soltanto “opus servile”. Il legame con il
teocentrismo, invece, riconsegna all’uomo il senso antropologico pieno della sua attività e lo spessore
non retorico della sua dignità, secondo la bella immagine di S. Ambrogio di Milano: ciascun lavoratore
è la mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene (De obitu Valentiniani consolatio, 62;
PL 16, 1438).
La religione cristiana non si giustappone al vissuto, ma è posta dentro di esso; ne segna e caratterizza
la logica fondamentale, nell’ambito sia individuale, sia comunitario. Non si dà pertanto un agire
eticamente neutrale. Diventa chiara così la mutua interiorità tra Vangelo e storia, tra divino e
umano, quell’ “’antropo-centrismo’ del Vangelo che fa parte del suo
‘teo-centrismo’ poiché ‘Dio ha tanto amato il mondo – ed in questo mondo soprattutto
l’uomo – da dare il suo Figlio unigenito, perché nessuno muoia, ma abbia la vita eterna’ (Gv
3,17)”[3].
Si comprende bene, allora, l’attualità della regola benedettina: “ora et labora”. Non
semplice scansione dei tempi (pur piena di saggezza), ma articolazione dei valori fondanti: “con il suo lavoro
e la sua laboriosità, l’uomo, partecipe dell’arte e della saggezza divina, rende più bello
il creato, il cosmo già ordinato dal Padre; suscita quelle energie sociali e comunitarie che alimentano il
bene comune, a vantaggio soprattutto dei più bisognosi” (Compendio della Dottrina Sociale della
Chiesa, 266).
In questa prospettiva, la dimensione religiosa appare come l’energia profonda capace di dare profondità
e orizzonte al lavoro dell’uomo: “In questa visione superiore, il lavoro, pena ed insieme premio
dell’attività umana, comporta un altro apporto, quello cioè essenzialmente religioso, che
è stato felicemente espresso nella formula benedettina: ‘Ora et labora’” (Giovanni Paolo II,
Discorso durante la visita a Pomezia, 14 settembre 1979, n.3).
Emerge da queste considerazioni il compito delle Università europee, memori, nonostante il volgere
variegato di eventi secolari, della sorgente viva che le ha originate e vi mantiene, come radice culturale e come
presenza testimoniale, un ruolo saliente: quella visione antropologica, cioè, che trae dalla fede cristiana i
suoi capisaldi e, intrecciandoli sapientemente con l’eredità classica, delinea il volto dell’uomo
europeo, nella sua identità non meramente formale e nella sua storica vocazione di civiltà.
Le trasformazioni epocali che toccano in profondità le strutture e le forme del lavoro dell’uomo
chiamano le Università europee a rinnovare il loro impegno per la formazione delle nuove generazioni,
chiamate ad essere – e rese capaci di essere - costruttori e non semplici operatori. È necessario
che l’Università riprenda con vigore la sua originaria vocazione di luogo di elaborazione culturale, in
cui la questione sociale non si attarda nei luoghi comuni della ripetizione, e ancor meno inclina alla
strumentalità di precomprensioni ideologiche, ma si apre alla responsabilità del pensiero creativo e a
quella testimonianza culturale che è il contrassegno degli autentici maestri.
Nel pensiero attuale sembra trovare spazio una contestazione radicale ad ogni Weltanschauung: viene
rifiutato così, o sospettato di essere illusorio ogni tentativo di individuare risposte certe e definitive. Ci
si limita quindi a ricercare, in forma del tutto provvisoria, le modalità pratiche più rispondenti alla
realizzazione di scopi contingenti.
Di fronte alla complessità sempre crescente, è certamente giusto respingere i dogmatismi
aprioristici, ma non per consegnarsi a forme di empirismo funzionale che rinuncino ad ogni istanza veritativa.
Occorre piuttosto un ardimento nuovo del pensiero e della ricerca, per aprire al lavoro, o meglio
all’umanità che lavora, strade praticabili di crescita e di realizzazione di sé.
A una simile ambizione risponde questo vostro simposio, a cui auguro passione di ricerca, intensità di
scambio, illuminazione dello Spirito.
[1] IX, 4, in G.FURLANI (ed.), Miti babilonesi e assiri, Firenze 1958, 224.
[2] Cfr A.GESCHE', La création: cosmologie et anthropologie, in "Revue théologique de Louvain" 14 (1983) 156 n. 18.
[3] K.WOJTYLA, Intervista sulla Dottrina sociale, 33.