Mettiamo a disposizione on-line il testo della prima lezione tenute da d.Manrico Accoto il 19 dicembre 2005, all’interno del Corso di formazione dei catechisti della XXVII Prefettura, organizzato dall’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma. Delle successive lezioni, per ragioni di tempo, non è stato preparato un testo scritto.
4 Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5 per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. 6 E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7 Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.
8 Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; 9 ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? 10 Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! 11 Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo.
Dice Bonhoeffer: ogni dottrina su Cristo inizia nel silenzio.
Dice Kierkegaard: rimani in silenzio, poiché è l’assoluto.
Dice Cirillo d’Alessandria: prostrati in silenzio davanti all’ineffabile.
Dovremmo arrenderci al fatto che ogni discorso su Cristo risulta impersonale perché non
nasce dal silenzio. Il silenzio è il luogo di fede per eccellenza. È
l’atteggiamento di fede che non è ancora contenuto di fede, ma che lascia che
questo contenuto sia narrato dall’altro, dall’evento dell’incarnazione del
Verbo, del trascendente che si fa prossimo a noi. Fare silenzio, è fede; anche se non
è ancora fede in Cristo. Per cui dobbiamo parlare… dobbiamo cioè indagare
quel contenuto di fede che Cristo stesso ci rivela.
Nel nostro tempo, non meno che nelle altre epoche storiche, Gesù di
Nazaret esercita la sua irresistibile attrattiva. La figura di Gesù richiama ogni uomo
ponendo interrogativi decisivi. Ogni uomo poi si accosta a Gesù e alla Chiesa portando
con sé domande importanti, alcune risposte solo abbozzate, porta con sé tristezze
e gioie che chiedono un senso. Ogni uomo porta con sé la domanda sul proprio destino e
sul proprio cammino. La domanda così viva ai tempi di Gesù: "Sei tu colui che
deve venire?" (Matteo 11,3) è tuttora attuale e mette alla prova la validità di
un discorso cristologico che sia in grado di porre nella giusta luce la pretesa salvifica
universale di Cristo.
Viviamo poi un particolare momento storico e culturale dove l'interrogativo sulla
umanità dell'uomo si fa inquietante: l'uomo diviene sempre più problema a se
stesso in mezzo alle sue miserie. È possibile parlare ancora di un Dio che interviene,
quando la storia sembra affermare l’esatto opposto? Per il cristiano Gesù di
Nazaret è la risposta di Dio al problema della storia universale e del singolo uomo. Dio
interviene in un mondo di male, inviando suo Figlio. Il successo dell’annuncio di
Gesù di Nazaret sta proprio nel riconoscimento di Lui, da parte degli uomini, come il
messia della storia e l’atteso di ogni uomo. Tuttavia tale successo è condizionato
oggi da un contesto pluralistico: vale a dire che viene concesso alle religioni la
possibilità di un annuncio, purché esso si ponga come una possibile teoria
sull’uomo e su Dio e non l’unica e definitiva risposta agli interrogativi degli
uomini.
Oggi predomina il volto storico-umano del profeta.
Al centro della riflessione degli studi recenti sulla figura del Nazareno sta "Gesù,
uomo libero", di una libertà incarnata nella storia, che si adempie nel dono di
sé fino al sacrificio della vita; una libertà capace di fare della morte stessa,
inflittagli dalle resistenze del potere oppressivo, una testimonianza del suo essere totalmente
per gli altri. Gesù non è studiato come il Cristo della fede, il Figlio di Dio,
ma l’uomo capace di vivere il suo essere giusto fino al martirio.
L’interesse per la vicenda umana di Gesù è amplificata da una
sensibilità nuova dell'uomo contemporaneo per la realtà della storia. Si è
alla ricerca di verità storiche che svelino “finalmente” un mistero nascosto
dietro alle credenze di una Chiesa che ha celato la verità sull’uomo Gesù
dietro a falsi riti e congetture.
L’uomo contemporaneo cerca di interpretare Gesù attraverso quelle categorie con
le quali interpreta la propria storia: vale a dire la realizzazione della propria
umanità oltre la mediocrità dell’individuo comune. L’uomo di oggi si
comprende come un essere proteso in avanti verso un compimento non ancora raggiunto, appare
come un essere essenzialmente in attesa, che porta con sé la coscienza del suo esistere
al di sotto delle proprie aspirazioni. Per cui Gesù diviene l’uomo che riesce a
vivere all’altezza della propria umanità e invita ogni uomo a fare come lui.
Dall'altro l'uomo prende coscienza nella storia sempre più della impossibilità di
realizzarsi da solo, oltre i limiti in cui si dibatte. Gesù è l’uomo che ha
saputo vivere la sua missione di martire senza cadere sotto il peso dei limiti personali e
storici.
In definitiva Gesù non svela il volto di Dio, ma semplicemente è un uomo la cui
vicenda è eccezionale e diviene modello per gli uomini. A Gesù è tolto
ogni riferimento con Dio. Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo.
Una seconda corrente culturale non esclude il Gesù della fede, per
cui Gesù non è considerato semplicemente un uomo. Il nostro mondo contemporaneo
è alla ricerca di una "amicizia" (soprannaturale) che ricolmi il vuoto interiore che
corrode l'uomo inserito in una cultura di benessere che genera quel senso di spersonalizzazione
e di depressione della speranza. Per cui, dicevamo, in questi ambienti culturali si fa strada
un Gesù che va oltre la sua vicenda umana, un Gesù della fede che non è il
Gesù della Chiesa, ma il Gesù di ogni individuo che interpella l’uomo
contemporaneo direttamente e nella sua radicalità.
La ricerca della comprensione del Nazareno si incentra in una immagine del Gesù amico.
Questi però non è il Gesù dei dogmi e della predicazione, ma il
Gesù terreno accolto e creduto nell’intimità.
Secondo molti studiosi il Cristo delle chiese sarebbe divenuto, infatti, prigioniero delle
interpretazioni ecclesiastiche, perdendo tutto il suo fascino. Di qui un programma per
"liberare Gesù dalla chiesa" per ritornare alla sua più pura immagine storica,
affinché egli possa ancora "liberamente parlare".
Un tale luogo ermeneutico (ossia l’ambito in cui si arriva a formulare
l’interpretazione esatta dell’oggetto o del soggetto indagato), per sé
essenziale ed irrinunciabile, tende di fatto a prevalere, scavalcando del tutto o subordinando
"il luogo ermeneutico della fede ecclesiale" considerato irrilevante, relativo, come un
qualsiasi luogo semplicemente culturale ed anzi, come il più delle volte, nocivo alla
attualità della immagine di Gesù Cristo. Paradossalmente, allora, proprio la
chiesa che ha la sua identità nell’essere "segno di Cristo" viene respinta come
filtro opaco che ne rende mitica la figura, mentre in alternativa, si pensa di poter
raggiungere, antropologicamente, il vero Gesù sfuggito alle comunità
cristiane.
La perdita del riferimento a Dio e alla Chiesa in ambiente culturale se trasferita tout court nella mentalità comune trova una corrispondenza ancora più preoccupante: Gesù è completamente scomparso. Non si sa nulla di Gesù. La pretesa dell’individuo di una relazione intima e a-storica con Gesù, “facile” per i più (quando, ad esempio, si giustifica il rifiuto della Chiesa per la ricchezza che essa ostenta; esso non corrisponde poi, nella maggior parte dei casi, ad una scelta personale di povertà), completamente soggettiva e superficiale, fa sì che in tempi più o meno brevi Gesù scompaia dalla vita delle persone e rimanga relegato nei meandri di una identità culturale (vedi i crocifissi nelle scuole) o segno di una sensibilità religiosa.
La cristologia è essenzialmente un discorso di fede su Gesù di Nazaret confessato ed annunciato come Cristo, cioè come salvezza e speranza dell'uomo e del mondo, da parte di una chiesa che proprio in questa fede e in questo annuncio missionario trova la sua identità e il suo scopo di esistere. (MARCELLO BORDONI) |
Riprendiamo allora la frase di Cirillo da cui eravamo partiti:
pròstrati in silenzio davanti all’ineffabile. Cristo, la Parola di Dio per Cirillo
è l’ineffabile (dal greco αρρητον,
“arreton”: ciò che non si dice, l’inesprimibile perché
massimamente grande o massimamente orribile). È ciò che non si può dire,
è l’ineffabile, l’indicibile, il non racchiudibile in uno schema, in una
narrazione. Cristo è trascendente in quanto persona, vale a dire che mi supera, è
oltre me stesso (trascendente) non perché più grande di quanto io possa pensare,
ma perché fuori di me, è un altro, non un’altra cosa. Il Cristo raccontato
nelle catechesi non è una storiella, un’idea, un modello di vita astratto, fosse
anche il “più” perfetto, ma è la Parola. È l’altro che
viene, è una persona, in questo senso è l’unica Parola di Dio, più
che una parola tra le parole. Parlare di Cristo significa fare di Lui un mito, annunciare
Cristo invece è proclamarlo Risorto e Signore. La cristologia non tratta il Cristo di
cui si parla, ma il Cristo che si annuncia.
Riassumendo: La cristologia come parola su Cristo è una scienza particolare
poiché ha come oggetto Cristo l’Arretos. La sua trascendenza fa della
Cristologia la scienza per eccellenza. La sua trascendenza sta nella
“personalità” di Gesù quale Parola di Dio e contenuto studiato dalla
cristologia. La cristologia non parla dell’interpretazione di Gesù da parte della
Chiesa, come se l’annuncio fosse il sistema teologico e morale che la chiesa possiede. La
cristologia parla di Cristo, persona annunciata dalla Chiesa, ma nello stesso tempo presente
come soggetto presente e non solo raccontato.
Cristo è il Verbo fatto carne, il Figlio di Dio inviato dal Padre che entra nella storia
degli uomini. Quando la Parola entra nella storia, sia nell’incarnazione sia
nell’annuncio, diviene inevitabilmente evento della storia. Ora ogni evento in quanto
storico è ambiguo in quanto ogni fatto non si dà semplicemente per come è,
ma per come può essere interpretato. Ogni storia, ogni evento non è semplicemente
un fatto, né semplicemente l’interpretazione del medesimo; ma è una
realtà che chiede di essere interpretata. Gesù di Nazaret è un evento che
è un fatto, ma un fatto che chiede di essere interpretato perché si acceda al
mistero della sua persona. Il Cristo chiede, nell’evento della sua storia terrena e
nell’evento del suo annuncio, che l’altro non si fermi al fatto ma colga il mistero
della sua persona. Cristo ci chiede di interpretare l’evento per incontrare la sua
persona e non un nudo fatto o una nuda interpretazione.
Ma come accedere all’evento? Come non fermarsi al fatto o alla sola interpretazione?
Non c’è altro accesso all’uomo, alla persona di Cristo che il suo stesso
rivelarsi. Dobbiamo accostarci al problema della storia ben coscienti che questo mistero parte
dall’intenzione di Cristo di comunicare se stesso. Il principio che
muove l’accostarci all’evento Gesù come fatto e come interpretazione
è l’autocomunicazione di Cristo stesso. È importante notare come
Gesù abbia voluto rivelare se stesso nella logica dell’umiliazione, vale a dire
che Gesù è la gloria del Padre, ma tale gloria è nascosta dietro una
apparente stoltezza. Gesù si rivela come Dio e l’uomo può riconoscere in
Lui la sua divinità, tuttavia essa si mostra nella dinamica dell’abbassamento che
richiede l’atto di fede dell’uomo. Gesù si rivela anche da Risorto come Dio
e come Crocifisso. Questo rivelarsi di Gesù è scandaloso, è indicibile:
infatti è massimamente grande (non si poteva pronunciare il nome di Dio, tanto meno
farsi Dio) e massimamente orribile (non si poteva nemmeno pronunciare il nome della croce).
Cristo personalmente comunica se stesso, ma la massima comunicazione di sé coincide con
il suo massimo nascondimento, la sua quasi incomprensibilità. La sua rivelazione
richiede lo sguardo della fede: ecco perché Cristo non smette di narrare se stesso sulla
croce (fine della sua vicenda umana), ma continua attraverso un tempo totalmente nuovo in cui
Egli è presente nell’annuncio ecclesiale: Cristo stesso si fa prossimo
all’uomo per rivelare la sua identità di Salvatore anche se celato
nell’annuncio degli apostoli. Cristo si comunica massimamente proprio nell’annuncio
ecclesiale in cui apparentemente scompare.
La comunità ecclesiale, nella sua fede e predicazione, è un
necessario punto di partenza ed una norma invalicabile che deve costantemente guidare tutto il
cammino della riflessione. Il punto di partenza collocato nella comunità di fede, intesa
come il solo luogo teologico, nel quale, ed attraverso il quale, è possibile realizzare
un autentico incontro con la vera immagine e con la realtà di Gesù Cristo
salvatore dell'uomo, consente di superare gli opposti sbilanciamenti con il predominio o di uno
storicismo positivistico o di un kerigmaticismo esistenziale che perde contatti con l'evento
stesso cristologico della rivelazione che sta alla base della fede e della predicazione
cristiana.
Una cristologia che vuole arrivare alla domanda: “Chi sei?”, sulla persona del
Cristo, non può non partire dalle istanze che la storia pone, in quanto Gesù si
è incarnato nella storia. La storia chiede di essere interpretata. E se necessitiamo di
un principio ermeneutico necessariamente teologico (l’autocomunicazione di Cristo),
necessitiamo ancora di più di un luogo ermeneutico anch’esso
teologico. Esiste cioè un luogo proprio di interpretazione dell’evento di
svelamento della persona del Cristo. Da qui vogliamo partire. Se i nostri contemporanei ci
chiedono di porre al centro l’evento Cristo, la chiesa non solo nella teoria ma anche
nella prassi deve ricostruire se stessa a partire da una credibilità cristologica. Deve
apparire chiara l’identità propria della chiesa come luogo ermeneutico
totalizzante dell’evento Cristo. Non esiste altro luogo, nemmeno quello intimo della
coscienza, che interpreti Cristo nella maniera più completa. Questo non vuol dire che
non esistano altri luoghi di riflessione su Gesù, ma la chiesa ne è il luogo
princeps. Questo può avvenire solo se la chiesa si fa carico della istanza
cristologica come istanza primaria: ossia la comprensione di se stessa alla luce della presenza
di Cristo deve essere l’unica autocomprensione vitale e performante. Va bene il dialogo
con il mondo, va bene il dialogo con la natura dell’uomo, con la morale, con la
religiosità, la più varia, ma si riparta da Cristo, anche a livello
personale.
Ho detto anche a livello personale non a caso e non in un senso omeletico o parenetico, ma in
senso propriamente teologico. Infatti se ritroviamo nell’annuncio della chiesa apostolica
l’automanifestarsi di Cristo Crocifisso e Risorto che interpella storicamente colui al
quale viene annunciato, questo avviene non in un evento di comunicazione impersonale, ma
personale. Cristo non è presente nel contenuto di un annuncio, ma nell’annuncio
stesso: è nella trasmissione vitale di testimoni che Cristo si dice al mondo, è
nella vita degli apostoli, vita con al centro il mistero cristologico vissuto in una logica
trinitaria, che abbiamo la potenza della presenza del Crocifisso Risorto. Gli apostoli non
hanno badato alla loro storia, non hanno badato alla loro natura, né alla loro
religione, ma alla presenza di Cristo in loro.
Possiamo dire allora che i due problemi di partenza che una cristologia a
servizio della catechesi deve affrontare sono: da una parte la concezione della storia che
l'iniziato alla catechesi porta con sé, dall'altra la questione della credibilità
ecclesiale.
Per quanto riguarda la questione storica esiste un problema di chiusura aprioristica della
storia alla trascendenza, esiste cioè il problema del linguaggio che si sta
desacralizzando. L'iniziato alla catechesi, ragazzo o adulto che sia, porta con sé una
storia che richiede un senso, ma ha anche una precomprensione chiusa alla trascendenza che si
mostra in un linguaggio totalmente profano. Il linguaggio dell'uomo contemporaneo è un
linguaggio chiuso, antropocentrico, che porta con sé un rifiuto del trascendente,
è assetato di amore, ma è chiuso all'amore di Dio; vive di una cultura della
storia mai letta come storia sacra, è la storia dei miracoli ma non dei segni. Invece
l’evento Gesù di Nazaret chiede di essere vissuto in tutta la sua
trascendentalità: non è un fatto, né una interpretazione di un fatto
passato che si applica all’oggi, ma è l’incontro reale con la Parola
Presente, nascosta nell’evento dell’annuncio, che si autocomunica.
Nella catechesi emerge anche l'altro problema, quello della credibilità ecclesiale. Si
parla di sé e non di Cristo. La cristologia a servizio della catechesi deve affrontare
come problema primario, prima ancora di "dire" la Parola in un linguaggio accessibile, quello
dell'identificazione tra credente e Cristo. Se in un senso teologico non è la prima
identificazione, in senso catechetico è la prima. La credibilità della chiesa
passa per l'identificazione tra Cristo e l'annunciante: Cristo è presente innanzitutto
nell'uomo ecclesiale che con la sua vita e il suo annuncio reclama innanzitutto questa
identificazione. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, io sono il corpo di
Cristo, io sono il corpo spezzato e dato. Il DNA di Cristo si identifica con il DNA del
credente, del catechista, dell’ecclesiastico. Questa corrispondenza al dettaglio è
visibile all'iniziato che vive l'esperienza dell'incontro con Cristo stesso nella catechesi,
nella liturgia ecc. Nella liturgia battesimale il sacerdote mentre unge il battezzato dice:
“Cristo stesso ti unge”. La liturgia pone in primo piano questa identificazione:
è Cristo che unge anche se materialmente è il sacerdote ad ungere. Il famoso
motto: "vi riconosceranno da come vi amerete", non lo leggiamo in senso morale, ma è
l'identificazione tra l'amore di Cristo e l'amore che la comunità ecclesiale mostra in
tutta la sua pienezza. Non si parla mai di similitudine, ma di identificazione. Quel "vi
perseguiteranno a causa mia" è la credenza reale ancora una volta che ad essere
perseguitato, rinnegato, odiato è Cristo stesso nella vita di colui che annuncia, e ad
amare, perdonare, consolare è Cristo stesso nella vita di colui che annuncia.
Questa identificazione per grazia e non per merito, spirituale e non morale, pneumatica e non
istituzionale, deve essere visibile agli occhi di chi intraprende un'iniziazione al
cristianesimo o meglio alla vita in Cristo. Questo può avvenire solo se colui che funge
da strumento si percepisce e si vive alla luce di un mistero di identificazione. È
possibile una catechesi solo se il catechista vive una continua mistagogia: vale a dire un
porsi continuamente davanti al mistero a cui si è già iniziati, ma del quale ogni
giorno si comprende la profondità.
Questa identificazione reale e non soggettiva, teologica e non psicologica, non è un
autoconvincimento, né un semplice modo di leggere la propria giornata e la propria vita,
ma è l'esistenza stessa di Dio che irrompe dall'alto e pretende di dare forma alla mia
umana esistenza senza annullarla. L'opera della grazia mi rende Cristo senza annullarmi, senza
togliermi il mio essere Manrico o Luca o Maria o Giovanni.
Qui entriamo allora nel vero mistero e scandalo dell'evento Gesù: quello di una parola incarnata che compie la storia senza interromperla. È un mistero grande, lo dico di Cristo e della Chiesa. Cristo muore e risorge e così compie la storia eppure non la interrompe. Cristo muore e risorge in me e compie in me il mistero dell'amore del Padre eppure io continuo ad essere me stesso e a fare le cose degli uomini. Non capire, non accogliere questo paradosso è non vivere il mistero di Cristo e della Chiesa. In Cristo esiste la storia ma esiste anche il compimento. Cristo è un fatto, compiuto, ma è anche il compimento che si sta attuando. Cristo è nato, e nasce; Cristo è morto, e muore; Cristo è risorto, e risorge. Altrimenti la liturgia sarebbe una metafora, altrimenti la cristificazione del credente sarebbe una via morale di perfezione, altrimenti la storia di salvezza sarebbe uno dei tanti modi di leggere la storia.
Il Nuovo Testamento ci annuncia Gesù il Risorto mantenendo un
forte legame con la storia.
Innanzitutto esiste un legame tra l’evento nuovo della Resurrezione e la storia di
Israele: infatti l'evento salvifico Gesù Cristo, compiutosi nella Pasqua, non è
un fatto isolato, a sé stante, ma è collocato essenzialmente nel cuore della
storia della salvezza. Le diverse linee delle attese giudaiche circa la venuta di Dio nel suo
popolo per instaurare la sua regalità escatologica e la venuta del suo inviato, il
Messia, che dovrà instaurare questo regno, convergono verso Gesù di Nazaret,
confessato come Signore e Cristo. Il richiamo alla economia dell'antico testamento è
costante. Non solo il messaggio del nuovo testamento, ma tutto il cristianesimo antico ha con
costanza ribadito questo aspetto della fede che annuncia il mistero di Cristo come compimento
della storia di salvezza, strutturalmente ad essa legato.
Questo legame con la storia però trova il suo luogo proprio nel rapporto tra la
proclamazione del Gesù Risorto e la vicenda storica del Nazareno.
La struttura delle testimonianze di fede nel nuovo testamento ci mostra una profonda
unità tra la storia di Gesù e il suo annuncio come Risorto. Il riferimento al
passato storico terreno di Gesù è in essi evidente, ma a fugare ogni dubbio circa
l'importanza della memoria di Gesù di Nazaret per l'origine stessa della fede apostolica
sta, nel Nuovo Testamento, la presenza del genere letterario del “vangelo”, che ha
la caratteristica di realizzare l'annuncio, proprio attraverso la forma della narrazione
storica. I Vangeli continuano ad essere una testimonianza della fede ecclesiale, ma in essi,
l'annuncio del Risorto è inseparabilmente unito con la storia della sua vita
prepasquale. Questa proclamazione del Risorto attraverso la memoria della storia è detta
anamnesi, quindi i Vangeli non sono il ricordo del Gesù terreno, ma la fede della
comunità cristiana nella morte e resurrezione di Gesù attraverso
l’anamnesi.
Il Nuovo Testamento ci presenta l’identità di Gesù sotto due forme letterarie: l’annuncio della morte e resurrezione di Gesù (formule kerigmatiche) e le narrazioni (storia di Gesù nei Vangeli). |
Queste due forme letterarie sono strettamente connesse: i vangeli sono
l’autenticazione storica dell’annuncio e della fede delle prime comunità
cristiane. Sono la definitiva risposta della Chiesa a coloro che volevano fare di Gesù
un mito. I Vangeli ci dicono che l’annuncio ha un fondamento storico nella storia di
Gesù, di cui gli apostoli sono i testimoni. Nello stesso tempo le formule di annuncio ci
mostrano come i vangeli non siano una semplice cronologia, ma sono l’anamnesi della prima
comunità cristiana, vale a dire lo stesso annuncio di fede espresso in forma
narrativa.
Dunque lo storico, oggi, non potrà mai arrivare con esattezza ad isolare, negli scritti
neotestamentari, le parole di Gesù, come se esse non fossero legate all'atto
dell'anamnesi cristiana; né tuttavia si può dire che questa anamnesi non abbia a
suo fondamento la verità storica di Gesù di Nazaret, conosciuto dai testimoni
diretti.
Potremmo concludere dicendo che non era intenzione dei cristiani scrivere una storia
“morta”, una cronologia di Gesù, perché lo consideravano vivo in
mezzo a loro; dall’altra non volevano annunciare una storia falsa di Gesù,
perché era in quella storia che ai loro occhi si era mostrato il Salvatore.
La struttura narrativa della fede e della predicazione cristiana evidenzia
dunque quella coscienza di chiesa che comprende se stessa come comunità di salvezza
fondata su un avvenimento di rivelazione di Dio: Dio si è rivelato nella storia
attraverso i patriarchi, i profeti e in pienezza nella storia di Gesù di Nazaret,
crocifisso e risorto. La conoscenza storica del Gesù terreno corrisponde
ad un'esigenza imprescindibile della fede cristiana per la quale tale Gesù possiede un
significato costitutivo. Non si può adeguatamente comprendere Pasqua se si fa astrazione
dal Gesù terrestre (Kasemann). La conoscenza storica di Gesù viene allora a
mostrare tutta la sua rilevanza teologica: essa sottolinea la distanza della fede cristiana
dalla mitologia, mostra come questa fede ecclesiale non sia chiusa in se stessa, ma abbia il
suo contenuto e fondamento oggettivo prefissato da Dio: “Dio ha operato prima che noi che
credessimo”. È Gesù stesso, il suo personale messaggio, i suoi gesti
misericordiosi e potenti, le sue parole che ne esprimono il senso, che costituisce "la fonte
divina della rivelazione per l'uomo ed è quindi il fondamento di ogni cristologia
ecclesiale" e di ogni ulteriore discorso di fede e di teologia.
Dire che i vangeli, come anamnesi cristiana, non ci descrivono una storia falsa di Gesù
(punto precedente) non basta.
Dobbiamo dire che l’evento storico di Gesù è l’origine del processo
dell’anamnesi cristiana. Cosa vuol dire questa precisazione?
Vuol dire che i vangeli narrano la memoria della Chiesa della vicenda di Gesù e questa
memoria, grazie ai testimoni diretti, aveva come matrice il linguaggio di Gesù, lo stile
di Gesù, le interpretazioni che Gesù aveva dato di se stesso. Non è la
fede della Chiesa a ricostruire Gesù colmando i vuoti di memoria, ma è la memoria
di Gesù a dischiudere le cose che vanno credute.
Concludendo i vangeli sono la eco fedele del linguaggio di Gesù, del suo stile, delle
sue azioni e del suo modo di comprendersi, anche se non sono la riproposizione esatta di quanto
lui ha detto e fatto.
Il linguaggio di Gesù che si trova nei Vangeli non è quindi solo il risultato di una ricostruzione posteriore che interpreta la sua prassi storica. Il suo linguaggio costituisce la intrinseca e fondamentale matrice del linguaggio evangelico. Quest’ultimo è la norma primaria della fede insieme all’evento stesso. |
Il primo stadio di sviluppo della fede ecclesiale è profondamente
legata all'incontro storico-umano con Gesù di Nazaret. Le parole di Giovanni 1,14 (E
il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria
come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità) sottolineano il carattere
incarnato di una fede che non è solo visione interiore per il carisma dello Spirito, ma
anche un'esperienza veramente umana di incontro. Questa esperienza storica, da parte di alcuni
uomini prima della Pasqua, era già fede autentica anche se in fase iniziale: vale a dire
che gli apostoli non restarono alla superficie dei fatti nella loro umana constatazione, ma ne
penetrarono già in qualche modo il mistero che in essi si compiva. Esiste quindi un
atteggiamento della fede proprio dei giorni della carne che comprese il vedere, l’udire,
il sentir umano. La fede dei discepoli durante la vicenda storica di Gesù non fa ancora
di loro dei santi, ma sicuramente dei testimoni credibili. Ora questo legame essenziale del
credere al vedere e al sentire non dovrà essere superato nelle future generazioni
cristiane da uno stadio di fede disincarnata dall'esperienza storica.
Certo, con il ritorno del Cristo al Padre e la venuta dello Spirito entra in vigore un regime
nuovo: quello del credere senza vedere, ma anche in questo stadio ulteriore della fede,
interiormente più approfondita ed evoluta, rimarrà sempre essenziale e normativa
per tutte le generazione dei credenti l'esperienza storica dei testimoni prescelti
dall'inizio.
Importante per noi quanto ci dice Giovanni: l’esperienza storica dei detti e dei fatti
di Gesù viene trasmessa fedelmente nella forma di testimonianza (prima lettera di
Giovanni 4,14).
Grazie a questa testimonianza diretta la fede di coloro che crederanno senza vedere
sarà sempre una fede incarnata, cioè legata al fatto della trasmissione
(kerigmatica e narrativa) della testimonianza di coloro che allora hanno visto e udito.
Per cui possiamo dire che all’origine della fede di ogni cristiano vi è sempre la
vicenda storica di Gesù anche se essa arriva all’uomo attraverso la trasmissione
della fede.
Questa considerazione è decisiva per una cristologia che intende evolvere un discorso
di fede in Cristo: essa non potrà non tener conto della genesi della fede in lui e della
importanza costante e fondamentale della conoscenza storica di Gesù di Nazaret. Essa si
raggiunge però non storicisticamente, ma attraverso la testimonianza di coloro che non
solo hanno visto, ma anche creduto.
Il secondo stadio di sviluppo della fede ecclesiale è caratterizzato dal permanere di
Gesù come presenza attuale di Risorto che insegna mediante l'opera dello Spirito e del
ministero apostolico. Per tale insegnamento la Chiesa avanza in una comprensione progressiva
sempre più adeguata della sua verità. La tradizione apostolica non è solo
un atto interpretativo istituzionale, bensì è un portare alla luce, sotto la
ispirazione dello Spirito Santo, il significato intimo che appartiene all’evento
cristologico.
La cristologia della chiesa apostolica non si sovrappone alla cristologia di Gesù, ma
è l'atto con cui la chiesa condotta dallo Spirito di Cristo raggiunge le nascoste
dimensioni cristologiche dell'evento originario costituendo perciò la norma più
adeguata della fede della chiesa per ogni tempo.
Per cui la cristologia apostolica per noi diviene uno strumento imprescindibile per arrivare alla cristologia di Gesù. |
Entrare nella Scrittura ora ci sembra necessario, ma possiamo dire che tutto
il parlare precedente ci consente di non entrarvi a caso: infatti se tutta la Scrittura ci
parla direttamente o allegoricamente di Gesù, esiste per noi un accesso obbligato al
Cristo del NT, l’annuncio (Kerigma) degli apostoli.
Storicamente non possiamo accertare la Resurrezione di Gesù, ma possiamo dire con
certezza che dopo la sua morte alcuni lo hanno proclamato come Risorto e hanno dato la vita per
questo annuncio. Approfondiamo questo dato:
Con la morte violenta e ignominiosa di Gesù sulla croce sembrava che tutto fosse ormai
finito.( cfr. Discepoli di Emmaus). Gesù aveva legato così intimamente alla
propria persona la sua causa che questa non poteva semplicemente continuare dopo la sua morte.
Secondo la testimonianza unanime degli scritti biblici, subito dopo la morte di Gesù i
suoi discepoli annunciarono che Dio l'aveva risuscitato, che il crocifisso si era loro mostrato
di nuovo in vita e di averli inviati a proclamare questo messaggio al mondo intero. Ma
ovviamente tanta chiarezza di linguaggio non doveva trasparire nei discorsi dei discepoli nei
primi giorni. I Vangeli e gli atti degli apostoli ci parlano di una iniziale incredulità
e durezza di cuore (Marco 16,14), di dubbi (Matteo 28,17), vaneggiamenti (Luca 24,11)
rassegnazione (Luca 24,21), stupore e spavento (Luca 24,37; Giovanni 20,24-29). Ma questa
descrizione così disincantata e critica nei confronti dei discepoli (per lo più
traditori), alieno da ogni fanatismo, depone a favore degli apostoli e della loro
testimonianza, una testimonianza tanto più convincente se si pensa che tutti questi
testimoni sono stati pronti successivamente a dare la propria vita per il loro messaggio. Il NT
ci presenta i protagonisti dell’annuncio in modo tale che in noi sorga la domanda: cosa
è successo tra la notte del Getsemani, dove tutti fuggono, e la Pentecoste, dove tutti
annunciano pieni di sicurezza?
Vogliamo allora approfondire il modo dell’annuncio per cercare di rispondere a questa
questione. Questo ci permetterà anche di comprendere il mistero del Cristo Crocifisso e
Risorto che sta dietro tutta la vicenda di questi uomini.
Il kerigma pasquale ci si presenta nelle formulazioni rigide
e concise della professione di fede liturgica. La formula più celebre
e importante è quella di 1Cor15,3-5:
3 Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
Paolo la ripropone come formula ormai nota (quello che anch’io ho
ricevuto), e quindi deve trattarsi di un testo molto antico, già in uso negli anni
40, forse addirittura alla fine degli anni 30, nelle più antiche comunità
missionarie, probabilmente ad Antiochia. Questo testo si traspone dunque nel tempo molto vicino
a quello in cui si verificarono gli eventi tramandati della morte e risurrezione di
Gesù.
Il testo pretende di essere normativo (vv.1-2: Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho
annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la
salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste
creduto invano!).
Importante per noi il nucleo, il Kerigma stesso che è costruito in modo parallelo, in
modo tale che si formino due asserzioni corrispondenti: vale a dire che ogni elemento della
prima asserzione corrisponde ad un elemento della seconda, il modo in cui gli elementi sono
collegati illuminano il senso delle asserzioni stesse, cioè non si possono capire le due
asserzioni se non insieme.
Vediamo allora la struttura delle due asserzioni cercando di comprendere solo gli elementi
chiave che ci chiariscono la natura della testimonianza di Paolo e degli apostoli.
Ogni asserzione è composta di quattro elementi:
Prima asserzione:
A: Cristo morì | C: secondo le Scritture |
B: per i nostri peccati | D: fu sepolto |
Seconda asserzione:
A: è risuscitato | C: secondo le Scritture |
B: il terzo giorno | D: apparve a Cefa e quindi ai dodici |
Le due A: ci presentano la morte e la resurrezione come due eventi della
storia. L’intento è di mostrare come la resurrezione sia l’evento storico
che ha suscitato il cambiamento degli apostoli. Come la morte è un evento che ha
caratterizzato la vicenda di Gesù, così la resurrezione ha inaugurato un tempo
nuovo in questa nostra storia.
Le due B: svelano il senso della vicenda storica “morte-resurrezione” di
Gesù. Si può comprendere Gesù solo alla luce del rapporto che lega Dio
all’uomo. Solo l’azione di Dio per l’uomo spiega la vicenda umana di
Gesù: Dio voleva togliere l’uomo dalla condizione di peccato ed è sempre
Dio che risuscita il giusto (il terzo giorno non indica il tempo trascorso tra la morte e la
resurrezione, ma richiama la Scrittura che dice che il Signore non lascerà il giusto
soffrire più di tre giorni).
Le due C: ci svelano come sia la morte sia la resurrezione sono il compimento di quanto
promesso nella Scrittura. La resurrezione di Gesù secondo le Scritture svela che la
morte di Gesù non è la morte violenta del profeta dell’AT, ma la morte
salvifica del giusto per la salvezza dei molti.
Importanti per noi sono le due D: la sepoltura era la prova della morte, la
constatazione, lo stadio definitivo. Un uomo sepolto era un uomo effettivamente morto. Dunque
in questa logica la sepoltura rappresenta la prova storica della morte. In che senso allora le
apparizioni vengono addotte da Paolo come prova storica della resurrezione?
Le testimonianze sulla resurrezione parlano di un avvenimento che trascende la sfera di tutto
ciò che si può storicamente constatare. Costituiscono quindi un problema limite
di carattere storico ed esegetico. Importante approccio ermeneutico: in che senso le
apparizioni di resurrezione sono un fatto storico? Ciò che storicamente è
accertabile non è la risurrezione ma soltanto la fede che i primi testimoni ebbero
eventualmente nel sepolcro vuoto. Eppure Paolo non ci presenta come prova della fede il
sepolcro vuoto, bensì le apparizioni.
Tutti i problemi convergono nel sapere se i racconti delle apparizioni siano soltanto delle
formule per esprimere la fede in Gesù Risorto oppure esprimano l'esperienza di una
realtà vissuta dagli apostoli. La riflessione di fede da parte degli apostoli sulla
vicenda del loro Maestro basta a spiegare la loro nuova fede, oppure dobbiamo ammettere la
necessità di un intervento di Cristo da Risorto che sia stato per loro a fondamento
della fede in Lui?
Secondo Paolo l’atteggiamento dei discepoli cambiò in quanto Gesù apparve
loro come Risorto. La resurrezione di Cristo non è deducibile dalla riflessione che gli
apostoli avrebbero potuto effettuare dopo la morte di Gesù, essa implica che Gesù
stesso la manifesti. Dunque tutto sembra dire che per Paolo le apparizioni sono eventi storici,
anche se rientrano in un ordine nuovo della storia inaugurato appunto con la resurrezione di
Cristo.
Dobbiamo allora capire meglio in che senso Paolo parli di apparizioni.
Riprendiamo il nostro testo: Cristo apparve a Cefa e quindi ai dodici. Il termine chiave
è “apparve”. Esso si comprende alla luce del modello scritturistico delle
“teofanie”: Cristo è il soggetto attivo di un’azione, è Lui che
si è voluto far vedere, si è “rivelato” come Risorto.
Le apparizioni così concepite sono sottratte ad ogni possibilità umana e
contrassegnate dalla volontà di Cristo di mostrarsi. Cristo si manifesta e rivelandosi
non si svela ma rivela piuttosto il proprio essere mistero. Il discorso non verte sul vedere
degli apostoli, piuttosto su una volontà di manifestazione del Cristo (Gal 1,15-16:
con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in
mezzo ai pagani). Le apparizioni sono dunque degli eventi escatologici in cui Gesù
si mostra come il Risorto: vale a dire che viene visto nella gloria di Dio colui che prima era
il crocifisso. Per quanto riguarda poi i testimoni, in essi con gli occhi della fede è
possibile contemplare in quell’evento di apparizione come la gloria di Dio si identifica
con il crocifisso e lo risuscita dalla morte alla vita.
Le apparizioni non sono eventi riducibile ad un piano puramente oggettivo-materiale, in quanto
chi ne fa esperienza non è l'osservatore distaccato e neutrale, ma colui che è
interpellato da Gesù stesso in modo totale. In questa apparizione Gesù acquista
definitivamente credito e riconoscimento da parte dei discepoli che in lui crederanno fino al
martirio. Bisogna dunque partire dal fatto che questo loro vedere è stato reso possibile
dalla fede o meglio si è trattato di un'esperienza condotta nella fede. Naturalmente
ciò non significa che queste apparizioni siano state semplicemente delle esperienze di
fede, sono invece degli incontri con il Cristo Risorto. Non è la fede a fondare la
realtà della resurrezione, ma è la realtà stessa del Risorto che appare ai
discepoli a legittimare il loro credere. È questo il vero fondamento della fede pasquale
e della fede in genere: in questo senso possiamo dire che Gesù di Nazaret è
diventato, in questa apparizioni, teste della fede e suo fondamento.
Vediamo ora come l’evento morte e resurrezione è descritto nei vangeli.
Datazione
Che Gesù di Nazaret sia stato giustiziato con la morte di croce, questo è uno
dei fatti più certi della storia di Gesù. Meno certa invece è la data
precisa della crocifissione. Tutti e quattro gli evangelisti sono concordi nell'affermare che
la vicenda si sia svolta nel venerdì santo della settimana della Pasqua ebraica,
tuttavia è controverso se quel giorno fosse il 14 o il 15 di Nisan. Stando ai sinottici
sembra che l'ultima cena di Gesù sia stata la cena di Pasqua. In tal caso egli sarebbe
morto il 15. Diversa la testimonianza di Giovanni secondo la quale la morte di Gesù si
sarebbe verificata quando nel tempio si sgozzava l'agnello pasquale quindi il 14. Di
conseguenza Giovanni descrive l'ultima cena, che Gesù ha consumato con i suoi, non come
cena pasquale bensì come cena d'addio. Il problema storico non si presenta quindi di
facile soluzione. Esistono però dei buoni motivi per ritenere che l'esposizione
giovannea sia la più aderente ai fatti: è improbabile infatti che l'alto
consiglio ebraico si sia riunito nella giornata festiva più importante per gli ebrei,
che i discepoli di Gesù siano armati nel giorno di Pasqua, che Simone di Cirene ritorni
dalla campagna come fosse un normale giorno lavorativo.
Motivo della condanna per ebrei e romani
La pena della morte di croce è applicata dai romani soprattutto nei confronti degli
schiavi e dei ribelli politici. Non si trattava infatti soltanto di una condanna
particolarmente crudele, ma anche di un atto profondamente discriminatorio. Dice Cicerone: "Il
concetto di croce deve rimaner lontano non soltanto dal corpo dei romani ma anche dai loro
pensieri, dai loro occhi, dai loro orecchi". Gesù venne quindi giustiziato perché
lo si ritenne un ribelle politico. Lo attesta anche il titolo della croce "Re dei giudei".
Più difficile invece precisare i motivi che hanno indotto l'alto consiglio ebraico a
condannare Gesù. Sembra comunque che in questo processo due siano stati i motivi che
giocarono un ruolo decisivo: la questione messianica e il detto di Gesù sulla
distruzione del Tempio. (cfr. Lv 24,16: Chi bestemmia il nome del Signore dovrà
essere messo a morte; Dt 13,2-6: Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore
che ti proponga un segno o un prodigio… tu non dovrai ascoltare le parole di quel
profeta o di quel sognatore… quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà
essere messo a morte; Dt 18,20: Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in
mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri
dei, quel profeta dovrà morire ; Ger 14,15: I profeti che predicono in mio nome,
senza che io li abbia inviati, e affermano: Spada e fame non ci saranno in questo paese, questi
profeti finiranno di spada e di fame; Ger 28,15-16: Ascolta, Anania! Il Signore non ti
ha mandato e tu induci questo popolo a confidare nella menzogna; perciò dice il Signore:
Ecco, ti mando via dal paese; quest'anno tu morirai, perché hai predicato la ribellione
contro il Signore).
Gesù sembra essere stato accusato di essere stato un falso profeta, a
conferma infatti sono le scene in cui Gesù viene deriso, queste scene sono importanti
perché il modo della derisione ricalca l’accusa che viene mossa
all’accusato. Si deride cioè il delinquente mettendogli addosso i panni del
personaggio che in vita si era vantato di essere per i romani un re (vedi le scene dei soldati
nel pretorio) e per l'alto consiglio appunto - tutto sembra dire questo - un falso profeta.
Infatti lo si deride picchiandolo e chiedendogli: "Profetizza chi ti ha percosso", ma anche
sotto la croce l’ammonire Gesù con frasi del tipo “se Dio è con te ti
salvi”, richiamano la constatazione che Dio è colui che dà testimonianza
per il suo profeta.
Le parole del processo al Sinedrio nei sinottici (Mc14,53-65; Lc22,66-71; Mt26,69-75) vertono
non solo intorno all’accusa di aver profetato non veracemente, ma, più
profondamente, intorno alle accuse di essersi fatto Cristo (Messia), Figlio dell’Uomo
(secondo la profezia di Daniele7,13), Figlio di Dio, Figlio del Dio benedetto. Esse sembrano
condensare l’imbarazzo suscitato da Gesù che si manifestava come “ben
più di un profeta”. Come vedremo meglio più avanti nel nostro corso, ci
orientano in questa direzione sia la preghiera di Gesù che si rivolgeva a Dio
chiamandolo Abba, Padre, sia il suo differenziarsi dai profeti nell’annuncio delle
parabole (cfr. ad esempio Mc12,1-13, “Ne aveva ancora uno, il figlio prediletto”),
sia lo scandalo destato dal fatto che egli rimettesse i peccati, come solo Dio poteva fare, sia
la sua autorità dinanzi alla Legge che non si limitava ad una interpretazione di essa,
come nel caso dei Rabbini, ma innalzava la propria persona al livello della stessa Torah, anzi
superiore ad essa.
Il valore della morte di Gesù nei racconti
Per il Nuovo Testamento e la tradizione cristiana, la morte di Gesù contiene una
dimensione ancora più profonda. Non è sufficiente sottolineare l'aspetto politico
e ambiguo di questa morte. Non basta nemmeno vedere in Gesù l'uomo libero, il
trasgressore della legge, lo scomodo anticonformista liquidato dai suoi avversari. È
indubbio che tutto questo ha giocato un suo ruolo, ma per il nuovo testamento la morte di
Gesù non è soltanto frutto degli intrighi dei giudei e dei romani, ma anche un
atto salvifico di Dio e un'autodonazione libera di Gesù. L'interrogativo per noi
essenziale suona: come ha compreso Gesù stesso la propria morte? Quale interpretazione
ha dato del suo fallimento?
La morte di Gesù è solo frutto delle decisioni dell’alto consiglio e dei
governatore romano oppure coinvolge anche la libera decisione di Gesù?
Il problema del modo in cui Gesù comprese la propria morte solleva, date le fonti di cui
disponiamo, tutta una serie di questioni molto complesse. Ciò che sorprende è il
fatto che la fonte dei detti originali non solo non conserva alcuna traccia della storia della
passione, ma non contiene nemmeno un qualche accenno ad essa. Vale a dire che non disponiamo di
parole di Gesù durante la passione che ci spieghino il valore che lui stesso dava agli
accadimenti che stava vivendo.
Prima serie di testi: il riferimento all’AT
Alla domanda se Gesù potesse pensare la sua missione come sacrificio della vita,
l'unico riferimento biblico è quello della sorte violenta cui i profeti vanno incontro
nella predicazione, Gesù stesso afferma in Luca 11,49: Per questo la sapienza di Dio
ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e
perseguiteranno. Ma in questo testo e nell’AT non si dà alla morte del profeta
alcun significato propriamente salvifico.
Seconda serie di testi: le predizioni della passione
Diverso invece è l’accento che gli evangelisti pongono nelle
“predizioni” della passione da parte dello stesso Gesù (vedi ad esempio le
tre predizioni in Marco 8,31; 9,31; 10,33). Queste ci attestano che egli prevedeva la propria
morte e sottolineano la sua piena disponibilità ad accettare questo destino ed
interpretano anche la passione come una sorte necessaria, voluta da Dio stesso per la salvezza
degli uomini. Questi testi sono parole che Gesù ha pronunciato? Oggi gli esegeti
concordano nel ritenere che queste predizioni, almeno nella forma in cui ci si presentano oggi,
sono delle interpretazioni post pasquali della morte di Gesù e non detti autentici del
maestro (ciò vale soprattutto per la terza predizione).
Terza serie di testi: le narrazioni della passione
Analizziamo i racconti veri e propri della passione che leggiamo nei quattro Vangeli. Troviamo
in essi un'armonia ben maggiore di quella che si riscontra in tutti gli altri testi
neotestamentari, questa consonanza fa pensare all’esistenza di una tradizione della
passione che costituisce un brano antico indipendente e ripreso dagli evangelisti. Ciò
che a noi più interessa è che la tradizione della passione risulta chiaramente
determinata da interessi di tipo teologico.
Questi racconti non vogliono dunque essere una pura narrazione, essi interpretano la passione come la sofferenza del Messia, del Giusto e come l'adempimento dell'Antico Testamento e quindi della stessa volontà di Dio. A livello narrativo questo viene reso molto bene immettendo i dati storici in un impianto teologico dato dai continui riferimenti all’AT, in particolare vengono riportati il cantico del servo di Dio sofferente (Isaia 53) e i salmi 22 e 69. |
Conclusione possibile
Dato l'attuale stato delle fonti sembrerebbe a prima vista estremamente difficile precisare
quale sia stata l'interpretazione che Gesù diede della sua morte. Per superare queste
difficoltà si è cercato di dimostrare che già nell'Antico Testamento e nel
giudaismo del tempo di Gesù c'erano i presupposti che consentivano un'interpretazione
della morte in chiave soteriologia (ossia per la salvezza dell’uomo). L'osservazione
indubbiamente pertinente e di rilievo, tuttavia non risponde alla vera questione: vale a dire
che il problema non sta nel sapere se Gesù avesse potuto comprendere la propria morte
come morte di salvezza, ma piuttosto se l'abbia effettivamente compresa in tal modo. Secondo
altri dobbiamo vedere le predicazioni durante la vita pubblica: questi studiosi affermano che
dall'annuncio del Regno parte una direttrice che senza deviazioni di rilievo sfocia nel mistero
stesso della passione. Queste interpretazioni rispecchiano lo svolgimento reale della vita di
Gesù. Dobbiamo supporre infatti che gli abbia previsto e dovesse prevedere una fine
violenta della propria vita: Gesù era cosciente che il suo ministero lo aveva portato ad
essere l'oggetto dell'ostilità da parte del potere religioso, si aggiunga poi che la
sorte riservata a Giovanni Battista doveva prospettare anche a Gesù l'eventualità
di una morte violenta.
Ma la prospettiva escatologica e sacrificale risulta particolarmente chiara nei testi
dell'ultima cena (Marco 14,17-25;1Cor 11,23-25). Sicuramente la loro composizione
rispecchia il culto delle comunità cristiane, in ogni caso c'è almeno un detto
che non verrà ripreso dalla successiva liturgia e che dev'essere quindi considerato come
un detto originario di Gesù (o almeno significativo): "In verità vi dico che io
non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di
nuovo nel Regno di Dio" (Marco 14,25). L'ultima cena che Gesù ha consumato con i suoi
discepoli è indubbiamente un gesto simbolico ed escatologico. Nell'ultima cena lo
sguardo di Gesù non è rivolto soltanto alla morte imminente, ma pure al regno di
Dio che sta per venire, dunque Gesù concepisce la sua morte come strettamente legata
all'avvento del Regno. Gesù ha dunque conferito sempre un'impronta escatologica alla sua
predicazione e manifestazione pubblica, anche e proprio in vista della sua morte.
Se prendiamo l'evento della croce, questo viene confermato (Marco 15,34; Matteo 27,46; Luca
23,46; Giovanni 19,3). La fede di Gesù non ha subito alcun tracollo. Egli ha soltanto
sperimentato più intensamente di qualsiasi altro uomo, la notte e il travaglio della
fede. Ma la sua fede non ha ceduto davanti a queste tenebre.
Già negli strati più antichi della tradizione post pasquale la morte di
Gesù venne interpretata come morte di salvezza e di espiazione "per noi" e "per i
molti". Se l'interpretazione della morte di Gesù come donazione a Dio e per gli uomini,
non trovasse alcun sostegno nella vita e morte di Gesù, allora il cuore della fede
cristiana si troverebbe pericolosamente vicino alla zona riservata alla mitologia e
all'ideologia. Con la predicazione successiva Dio avrebbe quindi conferito alla morte del
Figlio un significato che lo stesso Gesù non avrebbe minimamente presentito, che anzi
avrebbe addirittura escluso, se dovessimo accettare l'opinione di coloro che sostengono il suo
crollo finale, ma questa tesi non trova nessuna conferma storica, anzi non si comprenderebbe la
genesi di una fede così chiara nella prima comunità cristiana.
Se non si può parlare di ipsissima verba,
si deve parlare di ipsissima intentio: Primo: Gesù comprese la propria morte strettamente legata al messaggio della venuta del Regno di Dio (Gesù Servo del Regno). Secondo: Gesù si comporta nei confronti dei discepoli come un servitore. Terzo: la sequela di Gesù significa sequela in questo servizio. Quarto: l'idea che anche la suprema offerta della propria vita dovesse venir intesa da Gesù nel quadro del suo atteggiamento di servizio agli altri s'imponeva. Il fatto che Gesù non si sia arrogato direttamente il titolo di servo di Dio e neppure quelli di Messia e Figlio di Dio, non significa dunque che egli non abbia avuto coscienza di essere quel servo di Dio che soffre e presta servizio a favore di molti. |
Conclusione: Gesù dunque nella sua vita come nella sua morte,
è l'uomo per gli altri, servo di Dio, del Regno e degli uomini. Questo essere per gli
altri costituisce la sua più profonda essenza, Gesù vive questa sua
identità in ogni tratto del suo ministero rivelando il vero volto di Dio, dunque
è impensabile che non abbia vissuto il suo essere proprio nel momento cruciale della sua
vicenda.
Gesù ha vissuto tutta la sua esistenza annunciando la venuta del Regno nella sua
persona e rivelando con il suo esistere il Volto misericordioso del Padre, in questo suo
ministero ha ammesso anche la possibilità del rifiuto di accettare per fede il suo
messaggio. Possiamo infatti constatare che neanche i discepoli più vicini a Gesù,
alla fine, sapevano cosa pensare del loro maestro. Egli fu allora costretto a percorrere da
solo, nella solitudine anonima, il suo ultimo tratto di cammino. E lo percorse come sempre,
nell'obbedienza al Padre e nel servizio agli altri. Questa sua obbedienza e servizio fino alla
morte di croce divennero così il luogo unico in cui il Regno di Dio poteva realizzarsi
secondo uno schema che infrangeva tutti precedenti. Alla fine, nella solitudine più
completa e nell'assoluta obbedienza, Gesù consegnava al Padre il modo di
quest’avvento, così facendo, il moto obbediente di Gesù diviene il
compendio e il vertice insuperabile della sua comunicazione. Il significato salvifico di
Gesù non investe dunque soltanto la sua morte, tuttavia proprio in questa morte esso si
rivela in tutta la sua univocità e definitività. Univoco e definitivo nella morte
di Gesù divenne anche il tratto misterioso del suo messaggio e della sua rivelazione:
l'impotenza, la povertà e quasi l’insignificanza caratterizzano la Signoria
Divina, il vero Volto del Dio per l’uomo e che vuole comunicare all’uomo la sua
stessa divinità. La vita terrena di Gesù si conclude con questa apertura suprema:
la consegna del proprio essere al Padre, un essere obbediente e in favore degli uomini,
lasciando fiducioso la possibilità a Dio di intervenire secondo il suo mirabile
progetto. E tale risposta di Dio può essere soltanto quella di un nuovo tempo iniziato
proprio con la morte del Figlio: è proprio questo il contenuto della confessione di fede
che lega inscindibilmente la morte e la risurrezione di Gesù.
I racconti offertici dai quattro evangelisti presentano delle
discordanze sostanziali. Tutti e quattro parlano dell'esperienza che alcune
donne hanno fatto presso il sepolcro di Gesù il mattino di Pasqua. Ma
Marco e Luca ricordano tre donne (e non le stesse) mentre Matteo riconosce due
e Giovanni soltanto una. Diversi anche i motivo che spingono queste donne a
recarsi al sepolcro: secondo Marco e Luca è l'intenzione di ungere il
cadavere, secondo Matteo è invece il desiderio di vedere la tomba. Secondo
Marco le donne non raccontarono poi a nessuno quanto avevano visto, ma stando
a Matteo esse sarebbero corse a dare l'annuncio ai discepoli. Matteo e Marco
parlano di un angelo che sarebbe apparso alle donne, Luca invece di due. A differenza
dei sinottici in Giovanni l'angelo non annuncia alle donne la risurrezione.
Tutte queste ed altre differenze irriducibili stanno a dimostrare che è
ormai impossibile una ricostruzione degli eventi del mattino di Pasqua e addirittura
che dai racconti pasquali non traspare per nulla la preoccupazione di offrire
un simile resoconto di tipo storicistico.
Il racconto del mattino di Pasqua più antico è quello di Marco
(richiamiamo il fatto che Matteo e Luca tra loro coincidono soltanto quando
coincidono entrambi con Marco). Gli altri vangeli (Matteo, Luca e Giovanni ed
ancora la prosecuzione del testo di 1Cor15 che già abbiamo analizzato)
ci testimoniano le apparizioni successive del Risorto. Potendo analizzare una
sola pericope, per motivi di brevità, scegliamo il brano di Marco 16,
1-8:
1 Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. 2 Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole. 3 Esse dicevano tra loro: «Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?». 4 Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. 5 Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura. 6 Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E' risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto. 7 Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto». 8 Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.
La prima conclusione che se ne trae è che esso, almeno nella forma in
cui ci si presenta, non è un racconto storico. Del resto, già quanto si afferma
nell'introduzione suona poco probabile. Il desiderio di ungere un cadavere, sepolto tre giorni
prima e avvolto in un lenzuolo di lino, non trova riscontro in alcun usanza del tempo, anzi
sembra addirittura assurdo se si pensa alle condizioni climatiche della Palestina. Inoltre il
racconto di queste donne che solo sulla via che conduce al sepolcro pensano di aver bisogno di
aiuto, per spostare il masso dell'ingresso della tomba e quindi entrarvi, sembra troppo
superficiale per essere un resoconto storico. Dobbiamo allora supporre che non si tratti di
cenni storici, ma soltanto di artifizi stilistici, escogitati per richiamare l'attenzione e
creare suspance. È chiaro che il racconto viene articolato in modo tale che si evidenzi
la parola dell’angelo: è risorto, non è qui. Ecco il luogo dove
l'avevano deposto.
Non si capisce invece perché le donne ricevano l'incarico di avvertire i discepoli
mentre stando alla conclusione finale della pericope esse tacciono e non raccontano a nessuno
la loro esperienza, senza pensare che Marco non parlasse soltanto di un silenzio temporaneo, ma
di un segreto permanente: la resurrezione è il mistero nascosto nei secoli e rivelato in
Cristo Gesù.
Per diversi aspetti dunque il racconto sta chiaramente ad indicare una redazione ad opera di
Marco. Interessante notare allora le intenzioni di Marco:
Primo: Marco richiama l’attenzione non sul sepolcro vuoto, bensì
sull’annuncio della resurrezione da parte dell’angelo, il sepolcro viene
considerato soltanto come segno di questa fede. Ne consegue che questo antico brano della
tradizione non è il racconto storico della scoperta del sepolcro vuoto, bensì una
testimonianza della fede suscitata dall’annuncio della resurrezione fatto ad alcune donne
che giungevano a vedere il segno di per sé ambiguo del sepolcro vuoto (in questo il
Vangelo di Giovanni è chiarissimo: più persone vedono il sepolcro vuoto e non
credono, solo l’apparizione di Gesù susciterà la fede. Interessante sarebbe
analizzare l’unicum rappresentato dal discepolo amato che vide e credette).
Secondo: Marco comunque ci fornisce il dato del sepolcro vuoto. La domanda che ci poniamo
è: il sepolcro è stato realmente trovato vuoto? La narrazione della scoperta del
sepolcro vuoto dal punto di vista storico-formale potrebbe venir qualificata benissimo come una
eziologia cultuale: si tratta cioè di un racconto che vuole legittimare una celebrazione
di culto, vale a dire che sin dalle origini la prima comunità cristiana venerava un
luogo a motivo della credenza che quello fosse il luogo in cui Gesù era stato sepolto,
ma trovato poi vuoto il terzo giorno e questo brano ne vuole fondare il culto. Questa
considerazione però non dice ancora nulla sulla storicità o la non
storicità dell’avvenimento raccontato: anzi nel nostro caso ci sono delle buone
ragioni per ritenere che in questo racconto ci siano rielaborate alcune reminiscenze storiche.
L'argomento più importante a favore di un nucleo storico è che una tradizione
così antica, formatasi a Gerusalemme, non avrebbe resistito nemmeno un giorno nel caso
in cui non fosse ormai acquisito che il sepolcro non conteneva il cadavere di Gesù.
La rivelazione di un nucleo storico, presente nei racconti del sepolcro vuoto, non
costituisce, certo, una prova della risurrezione. Storicamente probabile può essere
ritenuto soltanto il fatto che la tomba è stata trovata vuota, mentre circa il modo con
cui essa fu trovata in tale condizione non possiamo ricavarlo dai dati storici. In se stesso il
sepolcro vuoto rappresenta un fenomeno ambiguo, aperto a diverse possibilità di
interpretazioni. Univoco esso diventa soltanto con la predicazione e questa si fonda
sull'apparizione del Risorto. Il sepolcro vuoto non costituisce dunque alcuna prova della fede,
certo però ne è un segno. Per la Chiesa primitiva davvero importanti non furono
le narrazioni del sepolcro vuoto, quanto piuttosto le testimonianze di fede sull'apparizione di
Risorto (Maria in Giovanni). Le diverse narrazioni concordano nell'affermare che Gesù
dopo la morte apparve a certi discepoli, dimostrando di essere ancora vivo ed è stato
successivamente a queste apparizioni annunciato come risorto dei morti. Questo il centro, il
fulcro attorno al quale ruotano tutte queste tradizioni.
Terzo: Il vero centro (la resurrezione) non viene tuttavia mai narrato e descritto. Nessun
testo neotestamentario asserisce di aver visto Cristo risorgere. Ciò richiede che la
resurrezione non è soltanto un avvenimento del passato, un fatto del tutto singolare e
irripetibile; essa è ancora una realtà presente: Cristo sta risorgendo, Risorto
è solo il Capo, come primizia, ma il corpo sta risorgendo. I fatti storici, specialmente
quello del sepolcro vuoto, possono servire alla fede come indicazione, ma non sono una prova
della risurrezione in quanto la resurrezione non è un fatto storico conclusosi. Molto
più importante allora è la prova esistenziale di credibilità che i
testimoni della Resurrezione danno per la propria fede con la loro vita e con la loro
morte.
Quarto: pur nella diversità dei dati, appare costante e incontrovertibile il fatto che
gli apostoli, i discepoli e le donne vivano un travaglio di comprensione dell’evento
della resurrezione del Maestro che non hanno avuto difficoltà ad ammettere, negli
scritti del NT. Al di là dei dettagli cronachistici che sono discutibili, le donne in
Mc16,1-8, vanno al sepolcro per un servizio funebre, non attendendosi la Resurrezione. Lo
stesso possiamo dire per le donne in Lc e Mt e per Maria di Magdala in Gv.
Solo un annuncio esterno e, successivamente, l’apparizione dello stesso Signore,
aprirà la mente alla possibilità della resurrezione.
Nei brani evangelici narranti al resurrezione non il ritrovamento del sepolcro vuoto, che pure
rimane un fatto ed un segno, è il motivo della fede nella resurrezione, ma, come
già abbiamo visto analizzando i testi kerigmatici, la causa di essa è
l’apparizione di Gesù che si rivela come crocifisso risorto. Concludendo, le
apparizioni sono un fatto storico reale che trasforma gli apostoli da discepoli ormai delusi in
martiri della fede. Per questo motivo essi hanno voluto trasmetterci questi eventi come motivo
della loro conversione e come fondamento storico di ogni futura esistenza cristiana.
Nello stesso tempo ci narrano le apparizioni come evento meta-storico (che supera la storia):
infatti Gesù non viene immediatamente riconosciuto. Uno dei motivi per cui questo
avviene è che la resurrezione non è un fatto conclusosi con Gesù di
Nazaret, bensì è un evento di trasformazione che coinvolge ogni uomo e tutta la
creazione; vale a dire, Gesù sta risorgendo nella storia di ogni credente. La
resurrezione di Gesù è il fatto storico dell’intervento di Dio, alla morte
del Figlio, che restituisce la vita. Questo fatto inaugura un tempo nuovo che abbraccia e
supera tutti i tempi: Gesù è la primizia che attende il suo compimento nella
trasfigurazione di tutta la storia degli uomini.
Una cristologia a servizio della catechesi deve partire dalla comprensione
della possibilità reale di incontro con il Crocifisso Risorto. Deve saper rispondere
alla seguente domanda: come è possibile un incontro reale con il Risorto dopo la vicenda
del Gesù terreno?
Se la catechesi è la via primaria della parrocchia all’iniziazione alla vita in
Cristo, essa deve saper comprendere il mistero dell’incontro personale con
Gesù Crocifisso e Risorto. Il catechista deve saper comprendere questo mistero per poter
condurre l’iniziato a tale incontro personale. Tutta la catechesi deve essere un servizio
volto a fare in modo che il singolo si senta chiamato personalmente da Cristo a fare parte
della comunità ecclesiale e a condurre una vita conforme alla vocazione che gli
verrà donata.
Dobbiamo interpretare non in senso metaforico, ma reale, la fede della Chiesa quando dice che
è Cristo stesso che è presente nella preghiera, nella carità, nella
catechesi, nel servizio, nella memoria di Lui, nei sacramenti, nell’annuncio
missionario.
Una cristologia a servizio della catechesi può avere come oggetto della propria
riflessione solo il Cristo permanentemente presente nella comunità
cristiana che crede in Lui e lo annuncia ad ogni uomo bisognoso di salvezza.
La nostra riflessione non può partire dal Gesù terreno, come se il Cristo fosse
un evento, un personaggio del passato, conclusosi duemila anni fa.
La nostra riflessione non può partire dal Gesù dei dogmi, come se il Cristo
fosse un’invenzione, un’interpretazione della Chiesa, senza nessun legame con il
Gesù terreno.
La nostra riflessione parte dalla constatazione che Gesù stesso viene ad incontrare ogni
uomo, di ogni razza, lingua e cultura per chiamarlo alla salvezza e annunciargli l’amore
misericordioso del Padre.
La persona di Gesù è il nostro punto di partenza. Non il Gesù morto e
sepolto, ma il Crocifisso Risorto che ancora oggi incontriamo nella nostra vita di credenti. In
questo senso potremmo azzardare questa affermazione: non siamo noi a fare cristologia, ma
è Lui che ci dispiega il suo mistero.
Come accostarci alla persona di Gesù?
Come interpretare la sua persona?
Chi è Gesù, Signore e Salvatore?
Passo primo: solo una persona può svelare se stessa. Nessuno può dedurre una
persona per via teoretica. Ci sono dei gemelli cresciuti nei medesimi ambienti che arrivano ad
essere diversissimi. Solo una persona può dire se stessa. Se questo vale per gli uomini,
vale anche per Gesù. Gesù è presente per rivelare se stesso. Gesù
vuole dire chi sia. Lo vuole dire in un incontro personale con noi uomini. Gesù si
rivela personalmente e chiama personalmente alla Vita e alla sequela.
Passo secondo: se a ognuno è data la possibilità di incontrare Gesù nella
propria storia, questo vuol dire che la storia ha in sé la possibilità di aprirsi
a una dimensione che va oltre la materialità. Il catechista deve saper insegnare a
leggere la storia oltre la materialità dei fatti. Gesù si incontra nella storia
non materialmente, ma realmente. Questo perché la storia ha una dimensione
trascendente, vale a dire: esiste una realtà che si nasconde dietro i fatti, ma con
gli occhi della fede può essere vista.
Passo terzo: esiste un luogo privilegiato in cui Gesù rivela se stesso? Il luogo
privilegiato in cui Gesù non solo viene incontrato, ma anche interpretato nella fede
è la comunità ecclesiale. Nella comunità ecclesiale che annuncia
Gesù Crocifisso e Risorto troviamo il luogo in cui Gesù si fa prossimo ad ogni
uomo e svela la sua identità di Figlio e Salvatore.
Passo quarto: la credibilità della chiesa come luogo cristologico, non è data a
livello istituzionale, ma testimoniale. Esiste una identificazione tra credente e Cristo, che
rimane evidente agli occhi di colui che riceve l’annuncio.
L’annuncio degli apostoli dopo la pentecoste della resurrezione
di Cristo è l’evento esemplare che ci mostra come Gesù incontri
l’uomo svelando se stesso.
Il testo per noi chiave è il Kerigma in 1 Cor 15:
3 Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, 4 fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, 5 e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
Gesù si rivela come il Crocifisso Risorto.
Gesù adempie le scritture proprio facendosi Crocifisso Risorto.
Gesù svela l’azione del Padre proprio essendo il Crocifisso Risorto.
Dobbiamo allora vedere nelle narrazioni evangeliche come venga descritta
l’identità di Gesù come Crocifisso e come Risorto.