Ripresentiamo on-line, per il progetto Portaparola, un articolo di Danilo Paolini, apparso su Avvenire del 16 febbraio 2006, che presenta la decisione del Consiglio di Stato in merito alla permanenza del simbolo del crocifisso nella scuola italiana. Sempre sul nostro sito trovate, nella sezione Approfondimenti, un articolo del prof.Giuseppe Dalla Torre, dal titolo “E Cavour mise al croce in classe”, che presenta le origini risorgimentali della decisione della presenza del crocifisso nella scuola italiana. In Appendice al testo di Paolini mettiamo a disposizione i Motivi di merito addotti dal Consiglio di Stato nella Decisione del 13 febbraio 2006. Il testo integrale della Decisione è facilmente reperibile in numerosi siti Internet.
L’Areopago
È un segno che non discrimina ma unisce, non offende ma educa: fuori
dalle chiese, in un ufficio pubblico come può essere una scuola, il crocifisso resta un
riferimento alla fede per i cristiani, «ma per credenti e non credenti la sua esposizione
sarà giustificata e assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo
religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica
immediatamente percepibile e intuibile (al pari d'ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e
segnatamente quei valori che soggiacciono e ispirano il nostro ordine costituzionale,
fondamento del nostro convivere civile». Ovvero «tolleranza, rispetto reciproco,
valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti, riguardo alla sua libertà,
autonomia della coscienza morale nei confronti dell'autorità, solidarietà umana,
rifiuto di ogni discriminazione». Valori che «hanno impregnato di sé
tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano». In questo senso «il
crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte "laico", diverso da quello religioso
che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla
religione professata dagli alunni».
Con la sentenza numero 556/2006, depositata in segreteria lunedì scorso, la sesta
sezione del Consiglio di Stato presieduta da Giorgio Giovannini fissa alcuni punti fermi, in
termini strettamente giuridici, in un dibattito, quello sulla libertà religiosa e sulla
laicità della Repubblica italiana, troppo spesso ispirato da interpretazioni che gli
stessi giudici hanno descritto come «ideologiche». Non a caso, anche dopo la
pubblicazione del verdetto si sono levate voci di contestazione che ricorrono esattamente agli
stessi argomenti respinti dai giudici di Palazzo Spada.
Questi, infatti, hanno giudicato «infondato» il ricorso in appello della signora
Soile Lauti, che nel 2002 si era rivolta al Tribunale amministrativo regionale del Veneto per
chiedere la rimozione, dalla scuola di Abano Terme frequentata dai suoi figli, del crocifisso,
la cui esposizione avrebbe a suo dire violato i principi di laicità dello Stato e
d'imparzialità dell'amministrazione. Il Tar del Veneto, dopo aver sollevato la questione
davanti alla Corte costituzionale (che l'aveva dichiarata inammissibile), aveva respinto il
ricorso.
Lo stesso ha fatto, in grado d'appello, il Consiglio di Stato, massimo organo giurisdizionale
amministrativo. Che ha motivato la decisione proprio con il principio di laicità dello
Stato: «Non si può pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come a una
suppellettile, oggetto di arredo - scrivono infatti i magistrati - e neppure come a un oggetto
di culto; si deve pensare piuttosto come a un simbolo idoneo a esprimere l'elevato fondamento
dei valori civili sopra richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità
nell'attuale ordinamento dello Stato». Uno Stato laico, dunque, che rispetta la
sensibilità e la libertà religiosa di ciascuno, riaffermando al tempo stesso
valori comuni a tutti i cittadini.
Anzi, si legge ancora nella sentenza, «nel contesto culturale italiano appare difficile
trovare un altro simbolo, in verità, che si presti più di esso (del crocifisso,
ndr) a farlo; e l'appellante del resto auspica (e rivendica) una parete bianca,
la sola che alla stessa appare particolarmente consona con il valore della laicità dello
Stato». La decisione delle autorità scolastiche «in esecuzione di norme
regolamentari» di esporre il crocifisso - ha osservato il Consiglio di Stato - «non
appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato
italiano».
Né vale obiettare - come hanno fatto gli avvocati della signora nel ricorso e
continuano a fare sistematicamente alcuni esponenti politici - che quelle norme regolamentari
(contenute nel regio decreto 965 del 1924) furono emanate quando la religione cattolica era
«la sola religione dello Stato» perché «è altrettanto vero che
tale norma non impedì minimamente al legislatore, nel corso di vari decenni, di adottare
in molteplici settori della vita dello Stato una normativa contraria agli interessi della
confessione cattolica» e perfino «di ascrivere la Chiesa cattolica tra le
associazioni illecite».
Non pare corretto porre il principio di confessionalità dello Stato a
fondamento della norma regolamentare in questione (sicché venuto meno quello sarebbe
venuta meno la ragion d’essere di questa). È ben vero infatti che nel 1924,
allorché la norma fu emanata vigeva in Italia lo Statuto Albertino, il cui art. 1
proclamava la religione cattolica, apostolica e romana come "la sola religione dello Stato"
(gli altri culti essendo tollerati conformemente alle leggi); ma è altrettanto vero che
tale norma non impedì minimamente al legislatore, nel corso di vari decenni, di adottare
in molteplici settori della vita dello Stato una normativa contraria agli interessi della
confessione cattolica, ed in dottrina ad alcuni autori, anche assai qualificati, di ascrivere
la Chiesa cattolica fra le associazioni illecite.
Il problema della vigenza dell’art. 118 r. d. 1924 n. 965 non può pertanto essere
adeguatamente risolto attraverso la mancata menzione nell’accordo di Villa Madama di un
principio (quello della confessionalità dello Stato), richiamato nel trattato del
Laterano nel 1929 (vale a dire cinque anni dopo l’emanazione della norma stessa), ma va
affrontato attraverso la verifica della compatibilità di quanto da esso disposto con i
principi oggi ispiranti l’ordinamento costituzionale dello Stato, ed in particolare con
il principio di laicità, invocato dalla stessa appellante.
Al riguardo, più volte la Corte costituzionale ha riconosciuto nella laicità un
principio supremo del nostro ordinamento costituzionale, idoneo a risolvere talune questioni di
legittimità costituzionale (ad esempio, tra le tante pronunce, quelle riguardanti norme
sull’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola, o sulla
competenza giurisdizionale per le cause concernenti la validità del vincolo matrimoniale
contratto canonicamente e trascritto nei registri dello stato civile).
Trattasi di un principio non proclamato expressis verbis dalla nostra Carta fondamentale; un
principio che, ricco di assonanze ideologiche e di una storia controversa, assume però
rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento. In
realtà la Corte lo trae specificamente dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 Cost.
Il principio utilizza un simbolo linguistico ("laicità") che indica in forma abbreviata
profili significativi di quanto disposto dalle anzidette norme, i cui contenuti individuano le
condizioni di uso secondo le quali esso va inteso ed opera. D’altra parte, senza
l’individuazione di tali specifiche condizioni d’uso, il principio di
"laicità" resterebbe confinato nelle dispute ideologiche e sarebbe difficilmente
utilizzabile in sede giuridica.
In questa sede, le condizioni di uso vanno certo determinate con riferimento alla tradizione
culturale, ai costumi di vita, di ciascun popolo, in quanto però tale tradizione e tali
costumi si siano riversati nei loro ordinamenti giuridici. E questi mutano da nazione a
nazione.
Così non v’è dubbio che in un modo vada inteso ed opera quel principio
nell’ordinamento inglese, laico, benché strettamente avvinto alla chiesa
anglicana, nel quale è consentito al legislatore secolare dettare norme in materie
interne alla chiesa stessa (esempio relativamente recente è dato dalla legge sul
sacerdozio femminile); in altro modo nell’ordinamento francese, per il quale la
laicità, costituzionalmente sancita (art. 2 Cost. del 1958), rappresenta una
finalità che lo Stato potrà perseguire, e di fatto ha perseguito, anche con
mortificazione dell’autonomia organizzativa delle confessioni (lois Combes) e della
libera espressione individuale della fede religiosa (legge sull’ostensione dei simboli
religiosi); in altro modo ancora nell’ordinamento federale degli Stati Uniti
d’America, nel quale la pur rigorosa separazione fra lo Stato e le confessioni religiose,
imposta dal I emendamento alla Costituzione federale, non impedisce un diffuso pietismo nella
società civile, ispirato alla tradizione religiosa dei Padri pellegrini, che si esplica
in molteplici forme anche istituzionali (da un’esplicita attestazione di fede religiosa
contenuta nella carta moneta - in God we trust -, al largo sostegno tributario assicurato agli
aiuti economici elargiti alle strutture confessionali ed alle loro attività
assistenziali, sociali, educative, nell’orizzonte liberal privatistico tipico della
società americana); in altro modo, infine, nell’ordinamento italiano, in cui quel
simbolo linguistico serve ad indicare reciproca autonomia fra ordine temporale e ordine
spirituale e conseguente interdizione per lo Stato di entrare nelle faccende interne delle
confessioni religiose (artt. 7 e 8 Cost.); tutela dei diritti fondamentali della persona (art.
2), indipendentemente da quanto disposto dalla religione di appartenenza; uguaglianza giuridica
fra tutti i cittadini, irrilevante essendo a tal fine la loro diversa fede religiosa (art. 3);
rispetto della libertà delle confessioni di organizzarsi autonomamente secondo i propri
statuti purché non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano (art. 8,
2° co.), e per tutti, e non solo per i cittadini, tutela della libertà in materia
religiosa, e cioè di credere, non credere, di manifestare in pubblico o in privato la
loro fede, di esercitarne il culto (art. 19); divieto, infine, di discriminare gli enti
confessionali a motivo della loro ecclesiasticità e del fine di religione o di culto
perseguito (art. 20). Dalle norme costituzionali italiane richiamate dalla Corte per delineare
la laicità propria dello Stato si evince, inoltre, un atteggiamento di favore nei
confronti del fenomeno religioso e delle confessioni che lo propugnano, avendo la Costituzione
posto rilevanti limiti alla libera esplicazione della attività legislativa dello Stato
in materia di rapporti con le confessioni religiose; attività che potrà
praticarsi ordinariamente soltanto in forma concordata sia con la religione di maggioranza sia
con le altre confessioni religiose (art. 7, 2° co., e art. 8, 3° co.).
Ne deriva che la laicità, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione
fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale e fra gli ordini e le società cui
tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei
diversi Paesi, ma, pur all’interno di una medesima "civiltà", è relativa
alla specifica organizzazione istituzionale di ciascuno Stato, e quindi essenzialmente storica,
legata com’è al divenire di questa organizzazione (in modo diverso, ad esempio,
dovendo essere intesa la laicità in Italia con riferimento allo Stato risorgimentale,
ove, nonostante la confessionalità di principio dello stesso, proclamata dallo Statuto
fondamentale del Regno, furono consentite discriminazioni restrittive in danno degli enti
ecclesiastici, e con riferimento allo Stato odierno, sorto dalla Costituzione repubblicana, ed
ormai non più confessionale, ove però quelle discriminazioni non potrebbero
aversi).
Quale poi dei sistemi giuridici ora ricordati, o di altri ancora qui non considerati, sia
meglio rispondente ad un’idea astratta di laicità, che alla fine coincide con
quella che ciascuno trova più consona con i suoi postulati ideologici, è
questione antica; una questione che però va lasciata alle dispute dottrinarie.
In questa sede giurisdizionale, per il problema innanzi ad essa sollevato della
legittimità della esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, disposto dalle
autorità competenti in esecuzione di norme regolamentari, si tratta in concreto e
più semplicemente di verificare se tale imposizione sia lesiva dei contenuti delle norme
fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio di
"laicità" che connota oggi lo Stato italiano, ed al quale ha fatto più volte
riferimento il supremo giudice delle leggi.
È evidente che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere
diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo ove è
posto.
In un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un "simbolo
religioso", in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della
religione cristiana.
In una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il
crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per
credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un
significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di
rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al
pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono
ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile. In tal
senso il crocifisso potrà svolgere, anche in un orizzonte "laico", diverso da quello
religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere
dalla religione professata dagli alunni.
Ora è evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in
chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di
rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di
riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti
dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione,
che connotano la civiltà italiana.
Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo
italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale,
accolte tra i "Principi fondamentali" e la Parte I della stessa, e, specificamente, da quelle
richiamate dalla Corte costituzionale, delineanti la laicità propria dello Stato
italiano.
Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine religiosa di tali valori e della loro
piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in evidenza la
loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia
(non la contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non
trova riscontro alcuno nella nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto
all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica "laicità", confacente al
contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato
italiano. Essi, pertanto, andranno vissuti nella società civile in modo autonomo (di
fatto non contraddittorio) rispetto alla società religiosa, sicché possono essere
"laicamente" sanciti per tutti, indipendentemente dall’appartenenza alla religione che li
ha ispirati e propugnati.
Come ad ogni simbolo, anche al crocifisso possono essere imposti o attribuiti significati
diversi e contrastanti, oppure ne può venire negato il valore simbolico per trasformarlo
in suppellettile, che può al massimo presentare un valore artistico. Non si può
però pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad una suppellettile,
oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto; si deve pensare piuttosto come ad un
simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati, che
sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello
Stato.
Nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità,
che si presti, più di esso, a farlo; e l’appellante del resto auspica (e
rivendica) una parete bianca, la sola che alla stessa appare particolarmente consona con il
valore della laicità dello Stato.
La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di
esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento
al principio di laicità proprio dello Stato italiano.
La pretesa che lo Stato si astenga dal presentare e propugnare in un luogo educativo,
attraverso un simbolo (il crocifisso), reputato idoneo allo scopo, i valori certamente laici,
quantunque di origine religiosa, di cui è pervasa la società italiana e che
connotano la sua Carta fondamentale, può semmai essere sostenuta nelle sedi (politiche,
culturali) giudicate più appropriate, ma non in quella giurisdizionale.
In questa sede non può, quindi, trovare accoglimento la richiesta dell’appellante
che lo Stato e i suoi organi si astengano dal fare ricorso agli strumenti educativi considerati
più efficaci per esprimere i valori su cui lo Stato stesso si fonda e che lo connotano,
raccolti ed espressi dalla Carta costituzionale, quando il ricorso a tali strumenti non solo
non lede alcuno dei principi custoditi dalla medesima Costituzione o altre norme del suo
ordinamento giuridico, ma mira ad affermarli in un modo che sottolinea il loro alto
significato.