Ripresentiamo on-line i due discorsi e l’omelia di Benedetto XVI ai vescovi svizzeri in visita ad limina. Pur essendo rivolti a vescovi di un determinato paese, con problemi peculiari come quelli della Svizzera, affrontano in maniera sintetica e penetrante alcuni dei grandi temi della testimonianza cristiana nel nostro tempo. Abbiamo omesso i riferimenti iniziali alla concreta situazione ed inserito neretti e titoletti – che quindi non appartengono al testo originale – all’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26.11.2006)
Eminenze, Eccellenze, cari Confratelli!
(...) Non ho potuto preparare un vero discorso; vorrei ora, in vista dei singoli grandi complessi di problemi che
toccheremo, fare solo qualche “primo tentativo”, che non intende presentare delle affermazioni
definitive, ma vuole soltanto avviare il colloquio. È questo un incontro tra i Vescovi svizzeri e i
vari Dicasteri della Curia, nei quali si rendono visibili e sono rappresentati i singoli settori del nostro compito
pastorale. Ad alcuni di essi vorrei cercare di offrire qualche commento.
In accordo col mio passato, comincio con la Congregazione per la Dottrina della Fede, o meglio:
col tema della fede. Già nell’omelia ho cercato di dire che, in tutto il travaglio del nostro
tempo, la fede deve veramente avere la priorità. Due generazioni fa, essa poteva forse essere ancora
presupposta come una cosa naturale: si cresceva nella fede; essa, in qualche modo, era semplicemente presente come
una parte della vita e non doveva essere cercata in modo particolare. Aveva bisogno di essere plasmata ed
approfondita, appariva però come una cosa ovvia.
Oggi appare naturale il contrario, che cioè in fondo non è possibile credere, che di fatto Dio
è assente. In ogni caso, la fede della Chiesa sembra una cosa del lontano passato. Così anche
cristiani attivi hanno l’idea che convenga scegliere per sé, dall’insieme della fede della Chiesa,
le cose che si ritengono ancora sostenibili oggi.
E soprattutto ci si dà da fare per compiere mediante l’impegno per gli uomini, per così dire,
contemporaneamente anche il proprio dovere verso Dio. Questo, però, è l’inizio di una specie di
“giustificazione mediante le opere”: l’uomo giustifica se stesso e il mondo in cui svolge quello
che sembra chiaramente necessario, ma manca la luce interiore e l’anima di tutto.
Perciò credo che sia importante prendere nuovamente coscienza del fatto che la fede è il centro di
tutto – “Fides tua te salvum fecit” dice il Signore ripetutamente a coloro che ha
guarito. Non è il tocco fisico, non è il gesto esteriore che decide, ma il fatto che quei malati hanno
creduto. E anche noi possiamo servire il Signore in modo vivace soltanto se la fede diventa forte e si rende
presente nella sua abbondanza.
Vorrei sottolineare in questo contesto due punti cruciali. Primo: la fede è soprattutto fede in Dio. Nel
cristianesimo non si tratta di un enorme fardello di cose diverse, ma tutto ciò che dice il Credo e che lo
sviluppo della fede ha svolto esiste solo per rendere più chiaro alla nostra vista il volto di Dio. Egli
esiste ed Egli vive; in Lui crediamo; davanti a Lui, in vista di Lui, nell’essere-con Lui e da Lui viviamo.
Ed in Gesù Cristo, Egli è, per così dire, corporalmente con noi. Questa centralità di
Dio deve, secondo me, apparire in modo completamente nuovo in tutto il nostro pensare ed operare. È ciò
che poi anima anche le attività che, in caso contrario, possono facilmente decadere in attivismo e diventare
vuote. Questa è la prima cosa che vorrei sottolineare: che la fede in realtà guarda decisamente
verso Dio, e così spinge pure noi a guardare verso Dio e a metterci in movimento verso di Lui.
L’altra cosa è che non possiamo inventare noi stessi la fede componendola di pezzi
“sostenibili”, ma che crediamo insieme con la Chiesa. Non tutto ciò che insegna la Chiesa
possiamo comprendere, non tutto deve essere presente in ogni vita. È però importante che siamo
con-credenti nel grande Io della Chiesa, nel suo Noi vivente, trovandoci così nella grande comunità
della fede, in quel grande soggetto, in cui il Tu di Dio e l’Io dell’uomo veramente si toccano; in
cui il passato delle parole della Scrittura diventa presente, i tempi si compenetrano a vicenda, il passato è
presente e, aprendosi verso il futuro, lascia entrare nel tempo il fulgore dell’eternità,
dell’Eterno. Questa forma completa della fede, espressa nel Credo, di una fede in e con la Chiesa come
soggetto vivente, nel quale opera il Signore – questa forma di fede dovremmo cercare di mettere veramente
al centro delle nostre attività.
Lo vediamo anche oggi in modo molto chiaro: lo sviluppo, là dove è stato promosso in modo esclusivo
senza nutrire l’anima, reca danni. Allora le capacità tecniche crescono, sì, ma da esse emergono
soprattutto nuove possibilità di distruzione. Se insieme con l’aiuto a favore dei Paesi in via di
sviluppo, insieme con l’apprendimento di tutto ciò che l'uomo è capace di fare, di tutto
ciò che la sua intelligenza ha inventato e che la sua volontà rende possibile, non viene
contemporaneamente anche illuminata la sua anima e non arriva la forza di Dio, si impara soprattutto a distruggere. E
per questo, credo, deve nuovamente farsi forte in noi la responsabilità missionaria: se siamo lieti della
nostra fede, ci sentiamo obbligati a parlarne agli altri. Sta poi nelle mani di Dio in che misura gli uomini potranno
accoglierla.
Da questo argomento vorrei ora passare all'“Educazione Cattolica”, toccando due
settori. Una cosa che, penso, causa a tutti noi una “preoccupazione” nel senso positivo del termine,
è il fatto che la formazione teologica dei futuri sacerdoti e degli altri insegnanti ed annunciatori della
fede debba essere buona; abbiamo quindi bisogno di buone Facoltà teologiche, di buoni seminari maggiori e
di adeguati professori di teologia che comunichino non soltanto conoscenze, ma formino ad una fede intelligente,
così che fede diventi intelligenza ed intelligenza diventi fede.
A questo riguardo ho un desiderio molto specifico. La nostra esegesi ha fatto grandi progressi; sappiamo davvero
molto sullo sviluppo dei testi, sulla suddivisione delle fonti ecc., sappiamo quale significato può aver avuto
la parola in quell'epoca… Ma vediamo anche sempre di più che l’esegesi storico-critica, se
rimane soltanto storico-critica, rimanda la parola nel passato, la rende una parola dei tempi di allora, una parola
che, in fondo, non ci parla affatto; e vediamo che la parola si riduce in frammenti perché, appunto, essa si
scioglie in tante fonti diverse.
Il Concilio, la Dei Verbum, ci ha detto che il metodo storico-critico è una dimensione essenziale
dell’esegesi, perché fa parte della natura della fede dal momento che essa è factum
historicum. Non crediamo semplicemente a un’idea; il cristianesimo non è una filosofia, ma un
avvenimento che Dio ha posto in questo mondo, è una storia che Egli in modo reale ha formato e forma come
storia insieme con noi.
Per questo, nella nostra lettura della Bibbia l’aspetto storico deve veramente essere presente nella sua
serietà ed esigenza: dobbiamo effettivamente riconoscere l'evento e, appunto, questo “fare
storia” da parte di Dio nel suo operare. Ma la Dei Verbum aggiunge che la Scrittura, che
conseguentemente deve essere letta secondo i metodi storici, va letta anche come unità e deve essere letta
nella comunità vivente della Chiesa. Queste due dimensioni mancano in grandi settori dell'esegesi.
L'unità della Scrittura non è un fatto puramente storico-critico, benché l'insieme, anche dal
punto di vista storico, sia un processo interiore della Parola che, letta e compresa sempre in modo nuovo nel corso
di successive relectures, continua a maturare. Ma questa unità è in definitiva, appunto, un
fatto teologico: questi scritti sono un'unica Scrittura, comprensibili fino in fondo solo se letti
nell'analogia fidei come unità in cui c'è un progresso verso Cristo e, inversamente, Cristo
attira a sé tutta la storia; e se, d'altra parte, questo ha la sua vitalità nella fede della
Chiesa.
Con altre parole, mi sta molto a cuore che i teologi imparino a leggere e ad amare la Scrittura così come,
secondo la Dei Verbum, il Concilio lo ha voluto: che vedano l'unità interiore della Scrittura –
una cosa aiutata oggi dall'“esegesi canonica” (che senz'altro si trova ancora in un timido stadio
iniziale) – e che poi di essa facciano una lettura spirituale, che non è una cosa esterna di carattere
edificante, ma invece un immergersi interiormente nella presenza della Parola. Mi sembra un compito molto
importante fare qualcosa in questo senso, contribuire affinché accanto, con e nell'esegesi storico-critica sia
data veramente un'introduzione alla Scrittura viva come attuale Parola di Dio.
Non so come realizzarlo concretamente, ma credo che, sia nell'ambito accademico, sia nel seminario, sia in un corso
d'introduzione, si possano trovare dei professori adeguati, affinché avvenga questo incontro attuale con la
Scrittura nella fede della Chiesa – un incontro sulla base del quale diventa poi possibile l'annuncio.
L'altra cosa è la catechesi che, appunto, negli ultimi cinquant'anni circa, da un lato, ha fatto grandi
progressi metodologici, dall'altro, però, si è persa molto nell'antropologia e nella ricerca di punti
di riferimento, cosicché spesso non si raggiungono neanche più i contenuti della fede. Posso
capirlo: addirittura al tempo in cui io ero viceparroco – quindi 56 anni fa – risultava già molto
difficile annunciare nella scuola pluralistica, con molti genitori e bambini non credenti, la fede, perché
essa appariva un mondo totalmente estraneo ed irreale.
Oggi, naturalmente, la situazione è ancora peggiorata. Tuttavia è importante che nella
catechesi, che comprende gli ambienti della scuola, della parrocchia, della comunità ecc., la fede
continui ad essere pienamente valorizzata, che cioè i bambini imparino veramente che cosa sia
“creazione”, che cosa sia “storia della salvezza” realizzata da Dio, che cosa, chi sia
Gesù Cristo, che cosa siano i Sacramenti, quale sia l'oggetto della nostra speranza…
Io penso che noi tutti dobbiamo, come sempre, impegnarci molto per un rinnovamento della catechesi, nella quale sia
fondamentale il coraggio di testimoniare la propria fede e di trovare i modi affinché essa sia compresa ed
accolta. Poiché l'ignoranza religiosa ha raggiunto oggi un livello spaventoso. E tuttavia, in Germania i
bambini hanno almeno dieci anni di catechesi, dovrebbero quindi in fondo sapere molte cose. Per questo dobbiamo
certamente riflettere in modo serio sulle nostre possibilità di trovare vie per comunicare, anche se in modo
semplice, le conoscenze, affinché la cultura della fede sia presente.
E ora qualche osservazione sul “Culto divino“. L'Anno Eucaristico, a questo riguardo,
ci ha donato molto. Posso dire che l'Esortazione postsinodale è a buon punto. Sarà sicuramente un
grande arricchimento. Inoltre abbiamo avuto il documento della Congregazione per il Culto divino circa la giusta
celebrazione dell'Eucaristia, cosa molto importante. Io credo che a seguito di tutto ciò man mano diventi
chiaro che la Liturgia non è un'“auto-manifestazione“ della comunità la quale, come si
dice, in essa entra in scena, ma è invece l'uscire della comunità dal semplice
“essere-se-stessi“ e l'accedere al grande banchetto dei poveri, l'entrare nella grande comunità
vivente, nella quale Dio stesso ci nutre. Questo carattere universale della Liturgia deve entrare nuovamente
nella consapevolezza di tutti.
Nell'Eucaristia riceviamo una cosa che noi non possiamo fare, ma entriamo invece in qualcosa di più
grande che diventa nostro, proprio quando ci consegniamo a questa cosa più grande cercando di celebrare la
Liturgia veramente come Liturgia della Chiesa.
È poi connesso con ciò anche il famoso problema dell'omelia. Dal punto di vista puramente funzionale
posso capirlo molto bene: forse il parroco è stanco o ha predicato già ripetutamente o è anziano
e i suoi incarichi superano le sue forze. Se allora c'è un assistente per la pastorale che è molto
capace nell'interpretare la Parola di Dio in modo convincente, vien spontaneo dire: perché non dovrebbe
parlare l'assistente per la pastorale; lui riesce meglio, e così la gente ne trae maggior profitto. Ma questo,
appunto, è la visione puramente funzionale. Bisogna invece tener conto del fatto che l'omelia non è
un'interruzione della Liturgia per una parte discorsiva, ma che essa appartiene all'evento sacramentale, portando la
Parola di Dio nel presente di questa comunità. È il momento, in cui veramente questa comunità
come soggetto vuole essere chiamata in causa per essere portata all'ascolto e all'accoglimento della Parola.
Ciò significa che l'omelia stessa fa parte del mistero, della celebrazione del mistero, e quindi non
può semplicemente essere slegata da esso. Soprattutto, però, ritengo anche importante che il sacerdote
non sia ridotto al Sacramento e alla giurisdizione – nella convinzione che tutti gli altri compiti potrebbero
essere assunti anche da altri – ma che si conservi l'integrità del suo incarico. Il sacerdozio è
una cosa anche bella soltanto se c'è da compiere una missione che è un tutt'uno, dal quale non si
può tagliare qua e là qualcosa. E a questa missione appartiene già da sempre – anche nel
culto antico-testamentario – il dovere del sacerdote di collegare col sacrificio la Parola che è parte
integrante dell'insieme.
Dal punto di vista puramente pratico dobbiamo poi certamente provvedere a fornire i sacerdoti degli aiuti necessari
perché possano svolgere in modo giusto anche il ministero della Parola. In linea di massima, questa
unità interiore sia dell'essenza della Celebrazione eucaristica, sia dell'essenza del ministero sacerdotale,
è molto importante.
Il secondo tema, che vorrei toccare in questo contesto, riguarda il sacramento della Penitenza
la cui pratica in questi circa cinquanta ultimi anni è progressivamente diminuita. Grazie a Dio esistono
chiostri, abbazie e santuari, verso i quali la gente va in pellegrinaggio e dove il loro cuore si apre ed è
anche pronto alla confessione. Questo Sacramento lo dobbiamo veramente imparare di nuovo. Già da un punto di
vista puramente antropologico è importante, da una parte, riconoscere la colpa e, dall'altra, esercitare il
perdono. La diffusa mancanza di una consapevolezza della colpa è un fenomeno preoccupante del nostro
tempo. Il dono del sacramento della Penitenza consiste quindi non soltanto nel fatto che riceviamo il perdono, ma
anche nel fatto che ci rendiamo conto, innanzitutto, del nostro bisogno di perdono; già con ciò
veniamo purificati, ci trasformiamo interiormente e possiamo poi comprendere anche meglio gli altri e perdonarli.
Il riconoscimento della colpa è una cosa elementare per l'uomo – è malato se non l'avverte
più – e altrettanto importante è per lui l'esperienza liberatrice del ricevere il perdono.
Per ambedue le cose il sacramento della Riconciliazione è il luogo decisivo di esercizio. Inoltre lì
la fede diventa una cosa del tutto personale, non si nasconde più nella collettività. Se l'uomo
affronta la sfida e, nella sua situazione di bisogno di perdono, si presenta, per così dire, indifeso davanti
a Dio, allora fa l'esperienza commovente di un incontro del tutto personale con l'amore di Gesù Cristo.
Infine vorrei ancora occuparmi del ministero episcopale. Di questo, in fondo, abbiamo
implicitamente già parlato per tutto il tempo. Mi sembra importante che i Vescovi, come successori degli
Apostoli, da una parte portino veramente la responsabilità delle Chiese locali che il Signore ha loro
affidate, facendo sì che lì la Chiesa come Chiesa di Gesù Cristo cresca e viva. Dall'altra
parte, essi devono aprire le Chiese locali all'universale.
Viste le difficoltà che gli Ortodossi hanno con le Chiese autocefale, come anche i problemi dei nostri
amici protestanti di fronte alla disgregazione delle Chiese regionali, ci rendiamo conto di quale grande significato
abbia l'universalità, quanto sia importante che la Chiesa si apra alla totalità, diventando
nell'universalità veramente un'unica Chiesa. Di questo, d'altra parte, è capace soltanto se nel
territorio suo proprio è viva. Questa comunione deve essere alimentata dai Vescovi insieme con il Successore
di Pietro nello spirito di una consapevole successione al Collegio degli Apostoli. Tutti noi dobbiamo sforzarci
continuamente di trovare in questo rapporto vicendevole il giusto equilibrio, cosicché la Chiesa locale viva
la sua autenticità e, contemporaneamente, la Chiesa universale da ciò riceva un arricchimento,
affinché ambedue donino e ricevano e così cresca la Chiesa del Signore.
Il Vescovo Grab ha già parlato delle fatiche dell'ecumenismo; è un campo che devo solo affidare al
cuore di tutti Voi. Nella Svizzera siete posti a confronto quotidianamente con questo compito che è faticoso,
ma crea anche gioia. Penso che importanti siano, da un lato, i rapporti personali, nei quali ci riconosciamo e ci
stimiamo l'un l'altro in modo immediato come credenti e, come persone spirituali, ci purifichiamo e ci aiutiamo anche
a vicenda. Dall'altro lato, si tratta – come ha già detto il Vescovo Grab – di farsi garanti dei
valori essenziali, portanti, provenienti da Dio della nostra società.
In questo campo, tutti insieme – protestanti, cattolici ed ortodossi – abbiamo un grande compito. E sono
lieto che stia crescendo la consapevolezza di questo. Nell'occidente è la Chiesa in Grecia che, pur avendo
ogni tanto qualche problema con i Latini, dice sempre più chiaramente: in Europa possiamo svolgere il nostro
compito soltanto se ci impegniamo insieme per la grande eredità cristiana. Anche la Chiesa in Russia lo vede
sempre di più ed altrettanto i nostri amici protestanti sono consapevoli di questo fatto. Io penso che, se
impariamo ad agire in questo campo insieme, possiamo realizzare una buona parte di unità anche là dove
la piena unità teologica e sacramentale non è ancora possibile.
Per concludere vorrei esprimerVi ancora una volta la mia gioia per la Vostra visita, augurandoVi molti colloqui
fruttuosi durante questi giorni.
(...) Ho pensato che forse è giusto ritornare ancora una volta, stasera nella conclusione, sui grandi temi che ci occupano e che sono, in definitiva, il fondamento di tutti i dettagli – anche se ogni dettaglio, ovviamente, è importante.
Nella Chiesa l'istituzione non è soltanto una struttura esteriore, mentre il Vangelo
sarebbe puramente spirituale. In realtà, Vangelo e Istituzione sono inseparabili, perché il Vangelo
ha un corpo, il Signore ha un corpo in questo nostro tempo. Perciò le questioni che a prima vista appaiono
quasi soltanto istituzionali, sono in realtà questioni teologiche e questioni centrali, perché vi si
tratta della realizzazione e concretizzazione del Vangelo nel nostro tempo. Pertanto, la cosa giusta è ora
ribadire ancora una volta le grandi prospettive entro le quali si muove tutta la nostra riflessione. Mi permetto, con
l'indulgenza e la generosità dei membri della Curia Romana, di ritornare alla lingua tedesca, perché
abbiamo ottimi interpreti, che altrimenti resterebbero disoccupati. Ho pensato a due temi specifici, dei quali ho
già parlato e che adesso vorrei ulteriormente approfondire.
Ancora, quindi, il tema "Dio". Mi è venuta in mente la parola di sant'Ignazio: "Il cristianesimo non
è opera di persuasione, ma di grandezza" (Lettera ai Romani 3,3). Non dovremmo permettere che la nostra
fede sia resa vana dalle troppe discussioni su molteplici particolari meno importanti, ma aver invece sempre sotto
gli occhi in primo luogo la sua grandezza. Mi ricordo, quando negli anni ottanta-novanta andavo in Germania,
mi si chiedevano delle interviste, e sempre sapevo già in anticipo le domande. Si trattava
dell'ordinazione delle donne, della contraccezione, dell'aborto e di altri problemi come questi che ritornano in
continuazione. Se noi ci lasciamo tirare dentro queste discussioni, allora si identifica la Chiesa con alcuni
comandamenti o divieti e noi facciamo la figura di moralisti con alcune convinzioni un po' fuori moda, e la vera
grandezza della fede non appare minimamente. Perciò ritengo cosa fondamentale mettere sempre di nuovo in
rilievo la grandezza della nostra fede – un impegno dal quale non dobbiamo permettere che ci distolgano simili
situazioni.
Sotto questo aspetto vorrei ora continuare completando le nostre riflessioni di martedì scorso ed insistere
ancora una volta: è importante soprattutto curare il rapporto personale con Dio, con quel Dio che si
è mostrato a noi in Cristo. Agostino ha sottolineato ripetutamente i due lati del concetto cristiano di
Dio: Dio è Logos, e Dio è Amor – fino al punto di farsi totalmente piccolo, di
assumere un corpo umano e alla fine di darsi come pane nelle nostre mani.
Questi due aspetti del concetto cristiano di Dio dovremmo sempre tenere presenti e far presenti. Dio è
Spiritus creator, è Logos, è ragione. E per questo la nostra fede è una cosa che
ha da fare con la ragione, può essere trasmessa mediante la ragione e non deve nascondersi davanti alla
ragione, neanche a quella del nostro tempo. Ma questa ragione eterna ed incommensurabile, appunto, non è
soltanto una matematica dell'universo e ancora meno qualche prima causa che, dopo aver provocato il Big
Bang, si è ritirata. Questa ragione, invece, ha un cuore, tanto da poter rinunciare alla propria
immensità e farsi carne. E solo in ciò sta, secondo me, l'ultima e vera grandezza della nostra
concezione di Dio. Sappiamo: Dio non è un'ipotesi filosofica, non è qualcosa che forse
esiste, ma noi Lo conosciamo ed Egli conosce noi. E possiamo conoscerLo sempre meglio, se rimaniamo in colloquio
con Lui.
Per questo è un compito fondamentale della pastorale, insegnare a pregare ed impararlo personalmente sempre
di più. Esistono oggi scuole di preghiera, i gruppi di preghiera; si vede che la gente lo desidera. Molti
cercano la meditazione da qualche parte altrove, perché pensano di non poter trovare nel cristianesimo la
dimensione spirituale. Noi dobbiamo mostrare loro di nuovo che questa dimensione spirituale non solo esiste, ma che
è la fonte di tutto. A questo scopo dobbiamo moltiplicare tali scuole di preghiera, del pregare insieme, dove
si può imparare la preghiera personale in tutte le sue dimensioni: come silenzioso ascolto di Dio, come
ascolto che penetra nella sua Parola, penetra nel Suo silenzio, sonda il Suo operare nella storia e nella mia
persona; comprendere anche il Suo linguaggio nella mia vita e poi imparare a rispondere nel pregare con le grandi
preghiere dei Salmi dell'Antico e del Nuovo Testamento.
Da noi stessi non abbiamo le parole per Dio, ma ci sono state donate delle parole: lo Spirito Santo stesso ha
già formulato parole di preghiera per noi; possiamo entrarci, pregare con esse e così imparare poi
anche la preghiera personale, sempre di più “imparare“ Dio e così divenire certi di Lui,
anche se tace – diventare lieti in Dio. Questo intimo essere con Dio e quindi l'esperienza della presenza di
Dio è ciò che sempre di nuovo ci fa, per così dire, sperimentare la grandezza del cristianesimo
e ci aiuta poi anche ad attraversare tutte le piccolezze, tra le quali, certamente, esso deve poi essere vissuto e
– giorno per giorno, soffrendo ed amando, nella gioia e nella tristezza – essere realizzato.
E da questa prospettiva si vede, secondo me, il significato della Liturgia anche come scuola, appunto, di
preghiera, nella quale il Signore stesso ci insegna a pregare, nella quale preghiamo con la Chiesa, sia nella
celebrazione semplice ed umile con solo pochi fedeli, sia anche nella festa della fede. L'ho percepito nuovamente
proprio ora nei vari colloqui, quanto importante sia per i fedeli, da una parte, il silenzio nel contatto con Dio e,
dall'altra, la festa della fede, quanto importante poter vivere la festa. Anche il mondo ha le sue feste.
Nietzsche addirittura ha detto: Solo se Dio non esiste possiamo far festa. Ma ciò è
un'assurdità: solo se Dio c'è ed Egli ci tocca, può esserci una vera festa. E sappiamo come
queste feste della fede spalancano i cuori della gente e producono impressioni che aiutano per il futuro. Io l'ho
visto nuovamente nelle mie visite pastorali in Germania, in Polonia, in Spagna, che lì la fede è
vissuta come festa e che essa accompagna poi le persone e le guida.
Vorrei in questo contesto menzionare ancora un'altra cosa che mi ha molto colpito ed impressionato durevolmente.
Nell'ultima opera, rimasta incompiuta, di san Tommaso d'Aquino, il Compendium Theologiae, che egli
intendeva strutturare semplicemente secondo le tre virtù teologali fede, speranza, carità, il grande
Dottore era giunto a cominciare e parzialmente sviluppare il capitolo sulla speranza. Lì egli identifica, per
così dire, la speranza con la preghiera: il capitolo sulla speranza è al contempo il capitolo sulla
preghiera. La preghiera è speranza in atto. E, di fatto, nella preghiera si schiude la vera
ragione, per cui ci è possibile sperare: Noi possiamo entrare in contatto con il Signore del mondo, Egli ci
ascolta e noi possiamo ascoltare Lui. Questo è ciò a cui alludeva sant'Ignazio e che io volevo
ricordarVi oggi ancora una volta: Ou peismones to ergon, alla megethous estin ho Christianismos (Rom
3,3) – la cosa veramente grande nel Cristianesimo, che non dispensa dalle cose piccole e quotidiane, ma che non
deve neanche essere coperta da esse, è questo poter entrare in contatto con Dio.
La seconda cosa, che proprio in questi giorni mi è tornata in mente, riguarda la morale.
Sento spesso dire che una nostalgia di Dio, di spiritualità, di religione esiste oggi nelle persone e che
si ricomincia anche a vedere nella Chiesa una possibile interlocutrice, dalla quale, a questo riguardo, è
possibile ricevere qualcosa. (C'è stato un periodo in cui questo lo si cercava in fondo solo nelle altre
religioni.) Cresce nuovamente la consapevolezza: la Chiesa è una grande portatrice di esperienza spirituale;
è come un albero, nel quale possono porre il loro nido gli uccelli, anche se poi vogliono di nuovo volar via
– ma è , appunto, il luogo dove ci si può posare per un certo tempo.
Quello che invece risulta molto difficile alla gente è la morale che la Chiesa proclama. Su questo ho
riflettuto – ci rifletto già da molto tempo – e vedo sempre più chiaramente che, nella
nostra epoca, la morale si è come divisa in due parti. La società moderna non è semplicemente
senza morale, ma ha, per così dire, “scoperto” e rivendica un'altra parte della morale che,
nell'annuncio della Chiesa negli ultimi decenni e anche di più, forse non è stata abbastanza proposta.
Sono i grandi temi della pace, della non violenza, della giustizia per tutti, della sollecitudine per i poveri e del
rispetto della creazione. Questo è diventato un insieme etico che, proprio come forza politica, ha un
grande potere e costituisce per molti la sostituzione o la successione della religione.
In luogo della religione, che è vista come metafisica e cosa dell'al di là – forse anche come
cosa individualistica – entrano i grandi temi morali come l'essenziale che poi conferisce all'uomo
dignità e lo impegna. Questo è un aspetto, che cioè questa moralità esiste ed
affascina anche i giovani, che si impegnano per la pace, per la non violenza, per la giustizia, per i poveri, per
la creazione. E sono davvero grandi temi morali, che appartengono del resto anche alla tradizione della Chiesa. I
mezzi che si offrono per la loro soluzione sono poi spesso molto unilaterali e non sempre credibili, ma su questo non
dobbiamo soffermarci ora. I grandi temi sono presenti.
L'altra parte della morale, che non di rado viene colta in modo assai controverso dalla politica, riguarda la
vita. Fa parte di essa l'impegno per la vita, dalla concezione fino alla morte, cioè la sua difesa contro
l'aborto, contro l'eutanasia, contro la manipolazione e contro l'auto-legittimazione dell'uomo a disporre della vita.
Spesso si cerca di giustificare questi interventi con gli scopi apparentemente grandi di poter con ciò essere
utili alle generazioni future e così appare addirittura come cosa morale anche il prendere nelle proprie mani
la vita stessa dell'uomo e manipolarla. Ma, dall'altra parte, esiste anche la consapevolezza che la vita umana
è un dono che richiede il nostro rispetto e il nostro amore dal primo fino all'ultimo momento, anche per i
sofferenti, gli handicappati e i deboli.
In questo contesto si pone poi anche la morale del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio viene, per così
dire, sempre di più emarginato. Conosciamo l'esempio di alcuni Paesi, dove è stata fatta una
modifica legislativa, secondo la quale il matrimonio adesso non è più definito come legame tra uomo e
donna, ma come un legame tra persone; con ciò ovviamente è distrutta l'idea di fondo e la
società, a partire dalle sue radici, diventa una cosa totalmente diversa. La consapevolezza che
sessualità, eros e matrimonio come unione tra uomo e donna vanno insieme – "I due saranno una sola
carne", dice la Genesi – questa consapevolezza s'attenua sempre di più; ogni genere di legame
sembra assolutamente normale – il tutto presentato come una specie di moralità della non-discriminazione
e un modo di libertà dovuta all'uomo.
Con ciò, naturalmente, l'indissolubilità del matrimonio è diventata un'idea quasi utopica che,
proprio anche in molte persone della vita pubblica, appare smentita. Cosi anche la famiglia si disfa
progressivamente. Certo, per il problema della diminuzione impressionante del tasso di natalità esistono
molteplici spiegazioni, ma sicuramente ha in ciò un ruolo decisivo anche il fatto che si vuole avere la vita
per se stessi, che ci si fida poco del futuro e che, appunto, si ritiene quasi non più realizzabile la
famiglia come comunità durevole, nella quale può poi crescere la generazione futura.
In questi ambiti, dunque, il nostro annuncio si scontra con una consapevolezza contraria della società, per
cosi dire, con una specie di antimoralità che si appoggia su di una concezione della libertà vista come
facoltà di scegliere autonomamente senza orientamenti predefiniti, come non-discriminazione, quindi come
approvazione di ogni tipo di possibilità, ponendosi così in modo autonomo come eticamente corretto.
Ma l'altra consapevolezza non è scomparsa. Essa esiste, e io penso che noi dobbiamo impegnarci per
ricollegare queste due parti della moralità e rendere evidente che esse vanno inseparabilmente unite tra loro.
Solo se si rispetta la vita umana dalla concezione fino alla morte, è possibile e credibile anche l'etica
della pace; solo allora la non violenza può esprimersi in ogni direzione, solo allora accogliamo veramente la
creazione e solo allora si può giungere alla vera giustizia. Penso che in ciò abbiamo davanti un
grande compito: da una parte, non far apparire il cristianesimo come semplice moralismo, ma come dono nel quale ci
è dato l'amore che ci sostiene e ci fornisce poi la forza necessaria per saper "perdere la propria vita";
dall'altra, in questo contesto di amore donato, progredire anche verso le concretizzazioni, per le quali il
fondamento ci è sempre offerto dal Decalogo che, con Cristo e con la Chiesa, dobbiamo leggere in questo tempo
in modo progressivo e nuovo.
Questi erano dunque i temi che credevo di dover e poter ancora aggiungere. Vi ringrazio per la Vostra indulgenza e
per la Vostra pazienza. Speriamo che il Signore ci aiuti tutti nel nostro cammino!
Cari confratelli,
i testi appena ascoltati – la Lettura, il Salmo responsoriale e il Vangelo
– hanno un tema comune che potrebbe essere riassunto nella frase: Dio
non fallisce. O più esattamente: inizialmente Dio fallisce sempre, lascia
esistere la libertà dell’uomo, e questa dice continuamente “no”.
Ma la fantasia di Dio, la forza creatrice del suo amore è più
grande del “no” umano. Con ogni “no” umano viene
dispensata una nuova dimensione del suo amore, ed Egli trova una via nuova,
più grande, per realizzare il suo sì all’uomo, alla sua
storia e alla creazione.
Nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi con cui abbiamo iniziato,
ascoltiamo innanzitutto un’allusione alla storia di Adamo, il quale non
era soddisfatto dell’amicizia con Dio; era troppo poco per lui, volendo
essere lui stesso un dio. Considerò l’amicizia una dipendenza e
si ritenne un dio, come se egli potesse esistere da sé soltanto.
Perciò disse “no” per diventare egli stesso un dio, e proprio
in tal modo si buttò giù lui stesso dalla sua altezza. Dio “fallisce”
in Adamo – e così apparentemente nel corso di tutta la storia.
Ma Dio non fallisce, poiché ora diventa lui stesso uomo e ricomincia
così una nuova umanità; radica l’essere Dio nell’essere
uomo in modo irrevocabile e scende fino agli abissi più profondi dell’essere
uomo; si abbassa fino alla croce. Vince la superbia con l’umiltà
e con l’obbedienza della croce.
E così ora avviene ciò che Isaia, cap. 45, aveva profetizzato.
All’epoca in cui Israele era in esilio ed era scomparso dalla cartina
geografica, il profeta aveva predetto che il mondo intero – “ogni
ginocchio” – si sarebbe piegato dinanzi a questo Dio impotente.
E la Lettera ai Filippesi lo conferma: Ora ciò è accaduto. Per
mezzo della croce di Cristo, Dio si è avvicinato alle genti, è
uscito da Israele ed è diventato il Dio del mondo. E ora il cosmo piega
le ginocchia dinanzi a Gesù Cristo, cosa che anche noi oggi possiamo
sperimentare in modo meraviglioso: in tutti i continenti, fino alle più
umili capanne, il Crocifisso è presente. Il Dio che aveva “fallito”,
ora, attraverso il suo amore, porta davvero l’uomo a piegare le ginocchia,
e così vince il mondo con il suo amore.
Come Salmo responsoriale abbiamo cantato la seconda parte del Salmo della passione
21/22. È il Salmo del giusto sofferente, prima di tutto di Israele sofferente
che, dinanzi al Dio muto che lo ha abbandonato, grida: “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato? Come hai potuto dimenticarmi? Ora quasi non
ci sono più. Tu non agisci più, non parli più… Perché
mi hai abbandonato?”. Gesù si identifica con l’Israele sofferente,
con i giusti sofferenti di ogni tempo abbandonati da Dio, e porta il grido dell’abbandono
di Dio, la sofferenza dell’essere dimenticato lo porta su fino al cuore
di Dio stesso, e trasforma così il mondo.
La seconda parte del Salmo, quella che abbiamo recitato, ci dice che cosa ne
deriva: I poveri mangeranno e saranno saziati. È l’eucaristia universale
che proviene dalla croce. Ora Dio sazia gli uomini in tutto il mondo, i poveri
che hanno bisogno di lui. Egli dà loro la sazietà di cui hanno
bisogno: dona Dio, dona se stesso. E poi il Salmo dice: “Torneranno al
Signore tutti i confini della terra”. Dalla croce deriva la Chiesa
universale. Dio va oltre l’ebraismo e abbraccia il mondo intero per unirlo
nel banchetto dei poveri.
E, infine, il messaggio del Vangelo. Di nuovo il fallimento di Dio. Coloro
che sono stati invitati per primi disdicono, non vengono. La sala di Dio rimane
vuota, il banchetto sembra essere stato preparato invano. È ciò
che Gesù sperimenta nella fase finale della sua attività: i
gruppi ufficiali, autorevoli dicono “no” all’invito di Dio,
che è Lui stesso. Non vengono. Il suo messaggio, la sua chiamata
finisce nel “no” degli uomini. E però anche qui: Dio non
fallisce. La sala vuota diventa un’opportunità per chiamare un
maggior numero di persone.
L’amore di Dio, l’invito di Dio si allarga – Luca ci racconta
questo in due ondate: Prima, l’invito è rivolto ai poveri, agli
abbandonati, a quelli non invitati da nessuno nella stessa città. In
tal modo Dio fa ciò che abbiamo sentito nel Vangelo ieri. (Il Vangelo
di oggi fa parte di un piccolo simposio nel quadro di una cena presso un fariseo.
Troviamo quattro testi: prima la guarigione dell’idropico, poi la parola
sugli ultimi posti, poi l’insegnamento di non invitare gli amici i quali
contraccambierebbero tale gesto, ma coloro che hanno davvero fame, i quali,
però, non possono contraccambiare l’invito, e poi, appunto, segue
il nostro racconto).
Dio ora fa ciò che ha detto al fariseo: Egli invita coloro che non possiedono
nulla; che hanno davvero fame, che non possono invitarlo, che non possono dargli
nulla. E poi avviene la secondo ondata. Esce fuori dalla città, nelle
strade di campagna; sono invitati i senza dimora. Possiamo supporre che Luca
abbia inteso queste due ondate nel senso che primi ad entrare nella sala sono
i poveri d’Israele e dopo – poiché non sono sufficienti,
essendo l’ambiente di Dio più grande – l’invito si
estende al di fuori della Città Santa verso il mondo delle genti.
Coloro che non appartengono affatto a Dio, che stanno fuori, vengono ora invitati
per riempire la sala.
E Luca che ci ha tramandato questo Vangelo, in ciò ha visto sicuramente
la rappresentazione anticipata in modo immaginifico degli avvenimenti che poi
narra negli Atti degli Apostoli, dove proprio ciò accade: Paolo inizia
la sua missione sempre nella sinagoga, da quanti sono stati invitati per primi,
e solo quando le persone autorevoli hanno disdetto ed è rimasto soltanto
un piccolo gruppo di poveri, egli esce fuori verso i pagani.
Così il Vangelo, attraverso questo percorso di crocifissione sempre
nuovo, diventa universale, afferra il tutto, finalmente fino a Roma. A Roma
Paolo chiama a sé i capi della sinagoga, annuncia loro il mistero di
Gesù Cristo, il Regno di Dio nella persona di Lui. Ma le parti autorevoli
disdicono, ed egli si congeda da loro con queste parole: Ebbene, poiché
non ascoltate, questo messaggio viene annunziato ai pagani ed essi l’ascolteranno.
Con tale fiducia si conclude il messaggio del fallimento: Essi ascolteranno;
la Chiesa dei pagani si formerà. E si è formata e continua a formarsi.
Durante le visite ad limina sento parlare di molte cose gravi e faticose,
ma sempre – proprio dal Terzo Mondo – sento anche questo: che gli
uomini ascoltano, che essi vengono, che anch’oggi il messaggio giunge
per le strade fino ai confini della terra e che gli uomini affluiscono nella
sala di Dio, al suo banchetto.
Dovremmo quindi domandarci: Che cosa tutto ciò significa per noi? Innanzitutto
significa una certezza: Dio non fallisce. “Fallisce” continuamente,
ma proprio per questo non fallisce, perché ne trae nuove opportunità
di misericordia più grande, e la sua fantasia è inesauribile.
Non fallisce perché trova sempre nuovi modi per raggiungere gli uomini
e per aprire di più la sua grande casa, affinché si riempia del
tutto. Non fallisce perché non si sottrae alla prospettiva di sollecitare
gli uomini perché vengano a sedersi alla sua mensa, a prendere il cibo
dei poveri, nel quale viene offerto il dono prezioso, Dio stesso. Dio non
fallisce, nemmeno oggi. Anche se sperimentiamo tanti “no”, possiamo
esserne certi. Da tutta questa storia di Dio, a partire da Adamo, possiamo
concludere: Egli non fallisce. Anche oggi troverà nuove vie per chiamare
gli uomini e vuole avere con sé noi come suoi messaggeri e suoi servitori.
Proprio nel nostro tempo conosciamo molto bene il “dire no” di quanti
sono stati invitati per primi. In effetti, la cristianità occidentale,
cioè i nuovi “primi invitati”, ora in gran parte disdicono,
non hanno tempo per venire dal Signore. Conosciamo le chiese che diventano sempre
più vuote, i seminari che continuano a svuotarsi, le case religiose che
sono sempre più vuote; conosciamo tutte le forme nelle quali si presenta
questo “no, ho altre cose importanti da fare”. E ci spaventa
e ci sconvolge l’essere testimoni di questo scusarsi e disdire dei primi
invitati, che in realtà dovrebbero conoscere la grandezza dell’invito
e dovrebbero sentirsi spinti da quella parte. Che cosa dobbiamo fare?
Innanzitutto dobbiamo porci la domanda: perché accade proprio così?
Nella sua parabola il Signore cita due motivi: il possesso e i rapporti umani,
che coinvolgono talmente le persone che esse ritengono di non avere più
bisogno di altro per riempire totalmente il loro tempo e quindi la loro esistenza
interiore. San Gregorio Magno nella sua esposizione di questo testo ha cercato
di andare più a fondo e si è domandato: ma com’è
possibile che un uomo dica “no” a ciò che vi è di
più grande; che non abbia tempo per ciò che è più
importante; che chiuda in se stesso la propria esistenza? E risponde: In realtà,
non hanno mai fatto l’esperienza di Dio; non hanno mai preso “gusto”
di Dio; non hanno mai sperimentato quanto sia delizioso essere “toccati”
da Dio! Manca loro questo “contatto” – e con ciò il
“gusto di Dio”. E solo se noi, per così dire, lo gustiamo,
solo allora veniamo al banchetto. San Gregorio cita il Salmo, dal quale è
tratta l’odierna Antifona alla Comunione: Gustate ed assaggiate e vedete;
assaggiate ed allora vedrete e sarete illuminati!
Il nostro compito è di aiutare affinché le persone possano assaggiare,
affinché possano sentire di nuovo il gusto di Dio. In un’altra
omelia San Gregorio Magno ha ulteriormente approfondito la stessa questione,
e si è domandato: Come mai avviene che l’uomo non vuole nemmeno
“assaggiare” Dio? E risponde: Quando l’uomo è occupato
interamente col suo mondo, con le cose materiali, con ciò che può
fare, con tutto ciò che è fattibile e che gli porta successo,
con tutto ciò che può produrre o comprendere da se stesso, allora
la sua capacità di percezione nei confronti di Dio s’indebolisce,
l’organo volto a Dio deperisce, diventa incapace di percepire ed insensibile.
Egli non percepisce più il Divino, perché il corrispondente organo
in lui si è inaridito, non si è più sviluppato. Quando
utilizza troppo tutti gli altri organi, quelli empirici, allora può accadere
che proprio il senso di Dio si appiattisca; che questo organo muoia; e che l’uomo,
come dice San Gregorio, non percepisca più lo sguardo di Dio, l’essere
guardato da Lui – questa cosa preziosa che è il fatto che il suo
sguardo mi tocchi!
Ritengo che San Gregorio Magno abbia descritto esattamente la situazione del
nostro tempo – in effetti, era un’epoca molto simile alla nostra.
E ancora sorge la domanda: che cosa dobbiamo fare? Ritengo che la prima cosa
sia quella che il Signore ci dice oggi nella Prima Lettura e che San Paolo grida
a noi a nome di Dio: “Abbiate gli stessi sentimenti di Gesù Cristo!
- Touto phroneite en hymin ho kai en Christo Iesou”. Imparate a
pensare come ha pensato Cristo, imparate a pensare con Lui! E questo pensare
non è solo quello dell’intelletto, ma anche un pensare del cuore.
Noi impariamo i sentimenti di Gesù Cristo quando impariamo a pensare
con Lui e quindi, quando impariamo a pensare anche al suo fallimento e al suo
attraversare il fallimento, l’accrescersi del suo amore nel fallimento.
Se entriamo in questi suoi sentimenti, se incominciamo ad esercitarci a pensare
come Lui e con Lui, allora si risveglia in noi la gioia verso Dio, la fiducia
che Egli è comunque il più forte; sì, possiamo dire, si
risveglia in noi l’amore per Lui. Sentiamo quanto è bello che Egli
c’è e che possiamo conoscerLo – che lo conosciamo nel volto
di Gesù Cristo, che ha sofferto per noi. Penso che sia questa la prima
cosa: che noi stessi entriamo in un contatto vivo con Dio – con il Signore
Gesù, il Dio vivente; che in noi si rafforzi l’organo volto a Dio;
che portiamo in noi stessi la percezione della sua “squisitezza”.
Ciò dà anima anche al nostro operare; poiché anche noi
corriamo un pericolo: Si può fare molto, tanto nel campo ecclesiastico,
tutto per Dio …, e in ciò rimanere totalmente presso sé
stessi, senza incontrare Dio. L’impegno sostituisce la fede, ma poi si
vuota dall’interno. Ritengo, pertanto, che dovremmo impegnarci soprattutto:
nell’ascolto del Signore, nella preghiera, nella partecipazione intima
ai sacramenti, nell’imparare i sentimenti di Dio nel volto e nelle sofferenze
degli uomini, per essere così contagiati dalla sua gioia, dal suo zelo,
dal suo amore e per guardare con Lui, e partendo da Lui, il mondo. Se riusciamo
a fare questo, allora anche in mezzo a tanti “no” troviamo di nuovo
gli uomini che Lo attendono e che spesso forse sono bizzarri – la parabola
lo dice chiaramente – ma che comunque sono chiamati ad entrare nella sua
sala.
Ancora una volta, con altre parole: Si tratta della centralità di
Dio, e precisamente non di un dio qualunque, bensì del Dio che ha il
volto di Gesù Cristo. Questo, oggi, è importante. Ci sono
tanti problemi che si possono elencare, che devono essere risolti, ma che –
tutti - non vengono risolti se Dio non viene messo al centro, se Dio non diventa
nuovamente visibile nel mondo, se non diventa determinante nella nostra vita
e se non entra anche attraverso di noi in modo determinante nel mondo.
In questo, ritengo, si decide oggi il destino del mondo in questa situazione
drammatica: se Dio – il Dio di Gesù Cristo – c’è
e viene riconosciuto come tale, o se scompare. Noi ci preoccupiamo che sia presente.
Che cosa dovremmo fare? In ultima istanza? Ci rivolgiamo a Lui! Noi celebriamo
questa Messa votiva dello Spirito Santo, invocandoLo: “Lava quod est
sordidum, riga quod est aridum, sana quod est saucium. Flecte quod est rigidum,
fove quod est frigidum, rege quod est devium”.Lo invochiamo affinché
irrighi, scaldi, raddrizzi, affinché ci pervada con la forza della sua
sacra fiamma e rinnovi la terra. Per questo lo preghiamo di tutto cuore in questo
momento, in questi giorni. Amen.
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