III incontro sul pensiero di papa Benedetto XVI (anche a partire da testi dell’allora cardinal J.Ratzinger): Cristo unico Salvatore del mondo, il cattolicesimo, le confessioni cristiane, l’ebraismo, l’islam e le altre religioni di un Dio non personale (tpfs*)

N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. La differente ampiezza dedicata all’uno o all’altro dei temi e delle religioni non dipende necessariamente dall’interesse intrinseco, ma è spesso dipendente dal materiale che abbiamo avuto a disposizione.

L’Areopago (18.01.2006)


Indice


Come un preambolo: il rapporto ecumenico ed il rapporto inter-religioso nello “spirito di Assisi”

Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno?...
Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.

Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.
(da Lo splendore della pace di Francesco, articolo apparso su 30giorni del gennaio 2002)

È chiaro... che in quest' ora, in cui l'umanità ha acquisito la possibilità dell' autodistruzione e della distruzione del proprio pianeta, le religioni sono coinvolte nella comune responsabilità di vincere questa tentazione. Esse vengono valutate in modo particolare in base a questa scala di valori, che appare sempre più come il loro compito comune e, di conseguenza, anche la formula della loro conciliazione. Hans Küng, facendosi portavoce di molti, ha proposto lo slogan «Nessuna pace nel mondo senza pace tra le religioni», dichiarando in tal modo la pace religiosa, l'ecumenismo delle religioni, compito primario di tutte le comunità religiose.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.60)

Il rapporto con coloro che sono della stessa religione cristiana, ma di un’altra confessione

Provenendo io stesso da questo paese, conosco bene la situazione penosa che la rottura dell'unità nella professione della fede ha comportato per tante persone e tante famiglie. Anche per questo motivo, subito dopo la mia elezione a vescovo di Roma, quale successore dell'apostolo Pietro, ho manifestato il fermo proposito di assumere il ricupero della piena e visibile unità dei cristiani come una priorità del mio pontificato.

La Germania nel dialogo ecumenico riveste senza dubbio un posto di particolare importanza. Noi siamo il paese d'origine della Riforma; però la Germania è anche uno dei paesi da cui è partito il movimento ecumenico del XX secolo.

A seguito dei flussi migratori del secolo scorso, anche cristiani delle Chiese ortodosse e delle antiche Chiese dell'Oriente hanno trovato in questo paese una nuova patria. Ciò ha indubbiamente favorito il confronto e lo scambio, cosicché ora esiste fra noi un dialogo a tre.

Insieme ci rallegriamo nel constatare che il dialogo, col passare del tempo, ha suscitato una riscoperta della nostra fratellanza e creato tra i cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali un clima più aperto e fiducioso. Il mio venerato predecessore nella sua enciclica “Ut Unum Sint” (1995) ha indicato proprio in questo un frutto particolarmente significativo del dialogo (cfr nn. 41s.; 64).

Ritengo che non sia poi così scontato che ci consideriamo veramente fratelli, che ci amiamo, che ci sentiamo insieme testimoni di Gesù Cristo. Questa fraternità è in sé, come credo, un frutto molto importante del dialogo, di cui dobbiamo essere lieti e che dovremmo continuare a curare e a praticare.

La fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata... sulla realtà soprannaturale dell'unico battesimo, che ci inserisce tutti nell'unico corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12, 13; Gal 3, 28; Col 2, 12).

Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr 1 Tm 2, 5), sottolineando la nostra comune appartenenza a lui (cfr “Unitatis Redintegratio”, 22; “Ut Unum Sint”, 42).

A partire da questo essenziale fondamento del battesimo, che è una realtà da lui proveniente, una realtà nell'essere e poi nel professare, nel credere e nell'agire, a partire da questo decisivo fondamento il dialogo ha portato i suoi frutti e continuerà a farlo.

Vorrei menzionare il riesame, auspicato da papa Giovanni Paolo II durante la sua prima visita in Germania, delle reciproche condanne. Penso con un po' di nostalgia a quella prima visita. Ho potuto essere presente quando eravamo insieme a Magonza in un circolo relativamente piccolo e autenticamente fraterno. Furono poste delle questioni e il papa elaborò una grande visione teologica, nella quale la reciprocità aveva un suo spazio.

Da quel colloquio scaturì poi la commissione a livello episcopale e cioè ecclesiale, sotto la responsabilità ecclesiale, che con l'aiuto dei teologi portò infine all'importante risultato della "Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione" del 1999 e a un accordo su questioni fondamentali che fin dal XVI secolo erano state oggetto di controversie.

Ed ora chiediamoci: che cosa significa ristabilire l'unità di tutti i cristiani? Sappiamo tutti che esistono numerosi modelli di unità e voi sapete anche che la Chiesa cattolica si prefigge il raggiungimento della piena unità visibile dei discepoli di Gesù Cristo secondo la definizione che ne ha dato il Concilio Ecumenico Vaticano II in vari suoi documenti (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8;13; “Unitatis Redintegratio”, nn. 2; 4 ecc.). Tale unità, secondo la nostra convinzione, sussiste, sì, nella Chiesa cattolica senza possibilità di essere perduta (cfr “Unitatis Redintegratio”, n. 4); la Chiesa infatti non è scomparsa totalmente dal mondo.

D'altra parte questa unità non significa quello che si potrebbe chiamare ecumenismo del ritorno: rinnegare cioè e rifiutare la propria storia di fede. Assolutamente no! Non significa uniformità in tutte le espressioni della teologia e della spiritualità, nelle forme liturgiche e nella disciplina. Unità nella molteplicità e molteplicità nell'unità: nell'omelia per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, lo scorso 29 giugno, ho rilevato che piena unità e vera cattolicità nel senso originario della parola vanno insieme. Condizione necessaria perché questa coesistenza si realizzi è che l'impegno per l'unità si purifichi e si rinnovi continuamente, cresca e maturi.

A questo scopo può recare un suo contributo il dialogo. Esso è più di uno scambio di pensieri, di un'impresa accademica: è uno scambio di doni (cfr “Ut Unum Sint”, n. 28), nel quale le Chiese e le Comunità ecclesiali possono mettere a disposizione i loro tesori (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8; 15; “Unitatis Redintegratio”, nn. 3; 14s; “Ut Unum Sint”, nn. 10-14).

Desidero anche io in questo contesto ricordare il grande pioniere dell'unità, padre Roger Schutz, che è stato strappato alla vita in modo così tragico. Lo conoscevo personalmente da tempo e avevo con lui un rapporto di cordiale amicizia.

Mi ha spesso reso visita e, come ho già detto a Roma, il giorno della sua uccisione ho ricevuto una sua lettera che mi è rimasta nel cuore perché in essa sottolineava la sua adesione al mio cammino e mi annunciava di volermi venire a trovare. Ora ci visita dall'alto e ci parla. Penso che dovremmo ascoltarlo, ascoltare dal di dentro il suo ecumenismo vissuto spiritualmente e lasciarci condurre dalla sua testimonianza verso un ecumenismo interiorizzato e spiritualizzato.

Vedo un confortante motivo di ottimismo nel fatto che oggi si sta sviluppando una sorta di "rete" di collegamento spirituale tra cattolici e cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali: ciascuno si impegna nella preghiera, nella revisione della propria vita, nella purificazione della memoria, nell'apertura della carità.

Il padre dell'ecumenismo spirituale, Paul Couturier, ha parlato a questo riguardo di un "chiostro invisibile", che raccoglie tra le sue mura queste anime appassionate di Cristo e della sua Chiesa. Io sono convinto che, se un numero crescente di persone si unirà interiormente alla preghiera del Signore "perché tutti siano una sola cosa" (Gv 17, 21), una tale preghiera nel nome di Gesù non cadrà nel vuoto (cfr Gv 14, 13; 15, 7.16 ecc.).
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

Quello dei modelli di unità è un grande e difficile problema. Viene subito da chiedersi: che cosa è possibile? Che cosa possiamo o non possiamo sperare? E in secondo luogo, che cosa è veramente bene? Non oso sperare in una unità di cristiani pienamente compiuta all’interno della storia. Vediamo anzi che, contemporaneamente agli sforzi che si compiono per arrivare all’unità, avvengono continuamente ulteriori frammentazioni. Non solo continuano a formarsi nuove sette (tra le quali anche sette sincretistiche, con grandi componenti pagane e non cristiane), ma, anzi, aumentano anche le divisioni all’interno delle Chiese: tanto in quelle riformate, in cui si approfondisce sempre più la frattura tra elementi più evangelici e movimenti modernisti (anche nel protestantesimo tedesco vediamo come le due correnti siano sempre più distanti), quanto nell’ortodossia. Qui l’unità è comunque sempre meno forte a causa delle autocefalie, ma anche lì ci sono movimenti di separazione, anche lì vediamo all’opera lo stesso fermento. Anche nella stessa Chiesa cattolica esistono profonde spaccature, cosicché talvolta si ha letteralmente la sensazione che in essa convivano due chiese l’una accanto all’altra. Si devono vedere entrambi gli aspetti, sia l’avvicinarsi di cristiani separati, sia il contemporaneo nascere di spaccature interne. Ci si dovrebbe cautelare da speranze utopistiche. L’importante è che si rifletta sempre sull’essenziale, cioè che ognuno cerchi di andare oltre se stesso e di guardare con fede a ciò che conta davvero. Sarebbe già un risultato se non si verificassero ulteriori fratture e se comprendessimo che anche nella separazione possiamo essere uniti in molte cose. Non credo che si arriverà molto rapidamente a grandi “unioni confessionali”. Molto più importante è che noi ci accettiamo reciprocamente con profondo rispetto, con amore, che ci riconosciamo come cristiani e che tentiamo, nelle cose essenziali, di portare nel mondo una testimonianza comune, tanto a favore di un giusto ordinamento mondiale, quanto per dare una risposta ai grandi interrogativi su Dio, sull’origine e sul destino dell’uomo.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.273-274)

E’ per me importante distinguere due tempi, o due fasi dell’ecumenismo: la finalità ultima, lo scopo ultimo al quale tendiamo, che deve essere sempre il vero dinamismo e il movente principale del nostro impegno ecumenico e, diciamo, il tempo intermedio, con soluzioni intermedie. Finalità ultima è, ovviamente, l’unità delle chiese nella chiesa unica, ma questa ultima finalità non implica uniformità, ma unità nella pluriformità. Mi sembra che la chiesa antica ci offra un po’ un modello. La chiesa antica era unita nei tre elementi fondamentali: Sacra Scrittura, regula fidei, struttura sacramentale della chiesa; per il resto era una chiesa molto pluriforme, come sappiamo tutti. C’erano le chiese di area o di lingua semitica, la chiesa Copta nell’Egitto, c’erano le chiese greche dell’impero bizantino, le altre chiese greche, le chiese latine, con grande diversità tra la chiesa d’Irlanda, per esempio, e la chiesa di Roma. Con altre parole, troviamo una chiesa unita nell’essenziale, ma una chiesa con grande pluriformità. Naturalmente non possiamo ripristinare le forme della chiesa antica, ma possiamo ispirarci ad esse per vedere come sia possibile comporre unità e pluriformità. Questo quindi è lo scopo, la finalità ultima di ogni lavoro ecumenico: arrivare all’unità reale della chiesa, la quale implica pluriformità in forme che adesso non possiamo ancora definire.
Ma dobbiamo anche tener presente che questa unità, questo ultimo scopo dell’ecumenismo, non è una cosa che possiamo semplicemente fare noi. Noi dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, ma dobbiamo anche riconoscere che in ultima analisi questa unità è un dono di Dio, perché è la sua chiesa, e non la nostra. Una unità costruita tutta da noi, in modo politico o intellettuale, potrebbe creare solo una unità, una chiesa nostra e non sarebbe quindi quella unità della chiesa di Dio alla quale tendiamo. Perciò, dato che ultimamente non sta nelle nostre mani creare questa unità, dobbiamo trovare anche dei modelli per il tempo intermedio. Questo modello sarebbe, per me, da esprimere con la formula ben conosciuta della “diversità riconciliata”, e su questo punto mi sento molto vicino alle idee formulate dal caro collega Oscar Cullmann.
Ma per spiegare cosa intendo dire con queste parole, mi sia concesso di citare un brano di una conferenza che ho tenuto nell’autunno scorso davanti a giovani vescovi europei su diversi problemi, tra cui anche sull’ecumenismo. Secondo me, molti problemi derivano dal fatto che l’ecumenismo spesso viene inteso secondo un modello politico e considerato come le negoziazioni tra stati o anche fra le parti del mondo economico. Tutto dipende qui dalla prudenza e dalla buona volontà dei partners che, dopo un certo tempo, devono arrivare ad un contratto con compromessi accettabili da tutti. Così, si pensa, le negoziazioni tra le diverse chiese dovrebbero man mano produrre dei compromessi e tramite questi pervenire a “contratti” sui diversi elementi della separazione: dottrina della giustificazione, ministero, primato del papa, intercomunione ecc. e, finalmente, sfociare in un “contratto di riunificazione”. Questo modello è costruito senza tener conto della specificità della realtà chiesa. Si mette tra parentesi la dipendenza radicale della chiesa da Dio e si dimentica che il vero soggetto agente nella chiesa è Dio. Solo Dio può creare l’ultima vera unità ecclesiale; le unificazioni solamente fatte da noi non arriverebbero all’altezza dell’unità sacramentale e dottrinale. Per un vero ecumenismo è importante, quindi, riconoscere il primato dell’azione divina e trarre le conseguenze di un tale atteggiamento. Anzitutto: l’ecumenismo esige pazienza; il vero successo dell’ecumenismo non consiste in sempre nuovi contratti, ma consiste nella perseveranza dell’andare insieme, dell’umiltà che rispetta l’altro, anche dove la compatibilità in dottrina o prassi della chiesa non è ancora ottenuta; consiste nella disponibilità ad imparare dall’altro e a lasciarsi correggere dall’altro, in gioia e gratitudine per le ricchezze spirituali dell’altro, in una permanente essenzializzazione della propria fede, dottrina e prassi, sempre di nuovo da purificare e da nutrire alla Scrittura, tenendo fisso lo sguardo al Signore e, nello Spirito Santo, col Signore al Padre. Consiste nella disponibilità di perdonare e di cominciare sempre di nuovo nella ricerca dell’unità e, finalmente, nella collaborazione nelle opere di carità e nella testimonianza per il Dio rivelato davanti al mondo.
Se Dio è il primo agente della causa ecumenica, il comune avvicinarsi al Signore è la condizione fondamentale di ogni vero avvicinamento delle chiese.Con altre parole, ecumenismo è innanzitutto un atteggiamento fondamentale, un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. La caratteristica fondamentale di un ecumenismo teologico e non politico è dunque la disponibilità di stare e di camminare insieme anche nella diversità non superata; la regola pratica è fare tutto ciò che possiamo fare noi per l’unità e lasciare al Signore quanto può fare soltanto il Signore. “Oportet et haereses esse”, dice san Paolo.
Forse non siamo tutti maturi per l’unità e abbiamo bisogno della spina nella carne, che è l’altro nella sua alterità, per risvegliarci da un cristianesimo dimezzato, riduttivo. Forse il nostro dovere è essere spina l’uno per l’altro. Ed esiste un dovere di lasciarsi purificare ed arricchire dall’altro. Forse ci aiuta più l’ascolto umile, reciproco nella diversità che non una unità superficiale. Tutti questi atteggiamenti devono sempre essere collegati con la volontà ferma di diventare maturi per il momento dell’unità. Il modello della diversità riconciliata è da interpretarsi in questo senso dinamico e processuale. Questo è per me molto importante: diversità riconciliata non vuol dire essere contenti della situazione che abbiamo, ma è un processo dinamico; è un ecumenismo positivo se interpretato in questo senso.
Anche nel momento storico nel quale Dio ancora non ci dà l’unità perfetta, riconosciamo l’altro, il fratello cristiano, riconosciamo le chiese sorelle, amiamo la comunità dell’altro, ci vediamo insieme in un processo di educazione divina nella quale il Signore usa le diverse comunità l’una per l’altra, per farci capaci e degni dell’unità definitiva.

Detto ciò, posso ora brevemente passare al problema del papato. In questo modello si inserisce anche una visione dinamica dello sviluppo, non solo dell’unità, ma anche degli organi dell’unità. Dalla storia sappiamo bene che il ministero dell’unità, che secondo la nostra fede è affidato a Pietro e ai suoi successori, si può realizzare in modi molto diversi. La storia ci offre dei modelli, ma la storia naturalmente non è ripetibile; ci ispira, ma dobbiamo rispondere alle situazioni nuove. Io non oserei, per il momento, suggerire per il futuro realizzazioni concrete possibili e pensabili. Vorrei dire solo due cose, e così finire.
La prima: negli anni settanta ero in contatto con un gruppo di luterani della Germania e dei paesi Scandinavi ed abbiamo un po’ riflettuto su come dovrebbe presentarsi una “ecclesia catholica confessionis augustanae”; abbiamo formulato diverse ipotesi. Lo ricordo solo per dire che in situazioni concrete si possono pensare possibilità concrete, sebbene non osi presentare un modello astratto per un futuro che non è ancora presente.
La seconda cosa: io ripeto anche oggi quanto ho detto venti anni fa in una conferenza a Graz in Austria circa le chiese ortodosse. Dissi che non dovrebbero cambiare al loro interno molto, anzi quasi niente, nel caso di una unità con Roma. Due osservazioni concrete. Gli ortodossi hanno un modo diverso di garantire l’unità e la stabilità della comune fede, diverso da come lo abbiamo noi nella Chiesa cattolica dell’occidente. Non hanno una Congregazione per la dottrina della fede. Ma nella Chiesa ortodossa la liturgia e il monachesimo sono due fattori molto forti che garantiscono una fermezza e una coerenza della fede. La storia mostra che sono mezzi adeguati e sicuri, in questo contesto storico ed ecclesiale, per servire all’unità fondamentale.
In secondo luogo mi ha molto illuminato un contributo del teologo ortodosso Meyendorf, il quale, con una franchezza rara, direi, compie sia un’autocritica del problema dell’unità nelle chiese ortodosse, sia una critica della chiesa romana, e così apre strade per pensare al futuro (senza di nuovo indicare già modelli concreti). Meyendorf critica l’universalismo nella sua forma romana, ma critica anche, come dice, il regionalismo come si è formato nella storia delle chiese ortodosse. Rileva che anche le chiese ortodosse (le quali probabilmente non avrebbero intenzione di definire il ministero dell’unità in termini di “jus divinum”, ma piuttosto di “jus ecclesiasticum”), devono necessariamente proporre delle forme istituzionali per garantire ed esprimere in modo reale la dimensione universale della chiesa. Inoltre afferma che tre livelli sono necessari, e devono penetrarsi reciprocamente perché sia realizzata la chiesa nella sua pienezza. Primo livello: la chiesa locale è chiesa reale nella celebrazione dell’ eucaristia. Secondo, la chiesa deve poi anche implicare e realizzarsi nella dimensione regionale, cioè culturale, nazionale, sociale. Ma infine la chiesa deve anche realizzarsi nella dimensione universale. Il regionalismo, dice il teologo ortodosso, deve sempre riconciliarsi anche coll’universalismo. Solo così siamo nella chiesa voluta dal Signore e tutti insieme dobbiamo trovare come queste tre dimensioni possano riconciliarsi.
Mi sembra che questa non sia ancora una risposta concreta, ma l’indicazione di un cammino, un’autocritica sincera, insieme con una critica oggettiva degli altri, nella quale possiamo incontrarci e che, nella sostanza, vale non solo per le chiese ortodosse, ma anche per quelle nate dalla Riforma.

Quando ho un po’ riflettuto, nel tempo molto limitato a mia disposizione, sulla risposta da dare a questa domanda, mi è venuta in mente (e qui il mio pensiero coincide con quello del professor Ricca), la “essenzializzazione”. Dobbiamo realmente ritornare al centro, all’essenziale o, in altre parole: il problema centrale del nostro tempo è l’assenza di Dio e perciò il dovere prioritario dei cristiani è testimoniare il Dio vivente. Mi sembra che prima di tutti i moralismi, di tutti quei doveri che abbiamo, noi con forza e con chiarezza dobbiamo testimoniare il centro della nostra fede. Dobbiamo rendere presente nella nostra fede, nella nostra speranza e nella nostra carità la realtà del Dio vivente. Se oggi esiste un problema di moralità, di ricomposizione morale nella società, mi sembra che risulti dall’assenza di Dio nel nostro pensiero, nella nostra vita. Risulta ancora, per essere più concreti, dall’assenza della fede nella vita eterna, che è vita con Dio. Io sono convinto che oggi il deismo - cioè l’idea che Dio può esistere, ma non entra finalmente nella nostra vita - è presente non solo nel mondo cosiddetto secolarizzato, ma è determinante fino a una misura pericolosa, direi, all’interno delle chiese e della nostra vita di cristiani.
Non abbiamo più osato parlare sulla vita eterna e sul giudizio. Dio è divenuto per noi un Dio lontano, un Dio astratto. Non abbiamo più il coraggio di credere che questa creatura, l’uomo, sia così importante agli occhi di Dio che Dio si occupa e preoccupa con noi e per noi. Pensiamo che tutte queste cose che facciamo siano finalmente cose nostre e per Dio, se esiste, non possano avere molta importanza. Così abbiamo deciso di costruire da noi stessi, di ricostruire il mondo, e non contiamo realmente sulla realtà di Dio, la realtà del giudizio e della vita eterna. Ma se prescindiamo nella nostra vita di oggi e di domani dalla vita eterna, cambia tutto: perché l’essere umano perde il suo grande onore, la sua grande dignità, e tutto diventa finalmente manipolabile. Perde la sua dignità, questa creatura immagine di Dio, e perciò la conseguenza inevitabile è una decomposizione morale, un cercare se stesso nel breve tempo di questa vita; dobbiamo inventare noi quale sarebbe il migliore modo di costruire la nostra vita e la vita in questo mondo. Perciò il nostro compito fondamentale, proprio se vogliamo contribuire alla vita umana e alla umanizzazione della vita in questo mondo, è rendere presente, e per così dire quasi tangibile, questa realtà di un Dio che vive, di un Dio che ci conosce e ci ama, nel cui sguardo viviamo, un Dio che riconosce la nostra responsabilità e aspetta da essa la risposta del nostro amore realizzato e concretizzato nella nostra vita di ogni giorno.
A me sembra che il più grande pericolo delle chiese, dei cristiani, è rifugiarsi in un certo moralismo per essere più accettabili, più comprensibili nel mondo secolarizzato, lasciando da parte l’essenziale. E questo moralismo può avere, ha spesso degli scopi realmente validi, buoni, ma se diventa moralismo puro e non è animato dalla fede nel Dio vivente, alla fine non ha forza e non può realmente cambiare la vita umana. Perciò questa priorità per la testimonianza del Dio vivente mi sembra l’imperativo più urgente per tutti i cristiani, e mi sembra anche l’imperativo che ci unisce, perché tutti i cristiani siamo uniti nella fede in questo Dio che si è rivelato, incarnato in Gesù Cristo. Rendere questa testimonianza essenziale per il mondo di oggi, il mondo cristiano e il mondo non cristiano, ci unisce proprio se non intendiamo immediatamente le cose ecclesiastiche, ecumeniche, ma se intendiamo (senza guardare a noi stessi) la testimonianza essenziale per Dio. E mi sembra che tutto il resto segua. Se viviamo sotto gli occhi di Dio e se Dio è la priorità della nostra vita, del nostro pensiero e della nostra testimonianza, il resto segue. Segue cioè l’impegno per la pace, segue necessariamente l’impegno per la creatura, segue la protezione e l’impegno per i deboli, segue l’impegno per la giustizia e l’amore.
(da Ecumenismo: crisi o svolta? Dialogo tra il cardinal Joseph Ratzinger e il pastore Paolo Ricca, Roma, Facoltà valdese di teologia, 29 gennaio 1993, pubblicato in NEV Dossier/2, supplemento al numero 7 del 17 febbraio 1993 del settimanale NEV)

Le persone perseverano nella chiesa non perché vi trovano feste comunitarie e gruppi di azione, bensì perché sperano di trovarvi risposte a domande vitali indispensabili. Tali risposte non sono state escogitate dai parroci o da altre autorità, ma vengono da un’autorità più grande e sono fedelmente mediate e amministrate, semmai, dai parroci. Gli uomini soffrono anche oggi, forse ancora più di prima; non basta ad essi la risposta che viene dalla testa del parroco o da qualche “gruppo attivistico”. La religione penetra oggi come sempre in profondità nella vita degli uomini per attingervi un punto di assoluto e, a tanto, serve solo una risposta che viene dall’assoluto. Là dove i parroci o i vescovi non appaiono più come i mediatori di quanto è assoluto anche per essi, ma hanno solamente da offrire le proprie azioni, è allora che diventano una “chiesa ministeriale” e, come tali, superflui.

Una unità operata dagli uomini non potrà essere logicamente che un affare iuris humani. Non attingerebbe per principio l’unità teologica intesa da Gv 17 e non potrà essere di conseguenza neppure una testimonianza del pensiero di Gesù Cristo, ma parlerà unicamente a favore dell’abilità diplomatica e della capacità compromissoria dei responsabili della trattativa. E’ già qualcosa, ma non tocca il piano veramente religioso, di cui si tratta appunto in fatto di ecumenismo. Anche le dichiarazioni teologiche di consenso rimangono di necessità sul piano dell’intelligenza umana (scientifica), la quale è in grado di approntare certe condizioni essenziali per l’atto di fede, ma non concerne l’atto di fede in quanto tale. Nella prospettiva dell’avvenire mi sembra quindi importante riconoscere i limiti dell’”ecumene contrattuale” e non aspettarsi da essa più di ciò che può dare: avvicinamento su importanti aspetti umani, ma non l’unità stessa.

Ma, stando così le cose, che cosa dobbiamo fare? In vista di una risposta mi è assai di aiuto la formula che Oscar Cullmann ha coniato per tutta la discussione: unità attraverso pluralità, attraverso diversità. Certamente la spaccatura è dal male, specie quando porta all’inimicizia e all’impoverimento della testimonianza cristiana. Ma se a questa spaccatura viene a poco a poco sottratto il veleno dell’ostilità, e se, nell’accoglimento reciproco della diversità, non c’è più riduzionismo, bensì ricchezza nuova di ascolto e di comprensione, allora la spaccatura può diventare nel trapasso una felix culpa, anche prima che sia del tutto guarita. Caro signor collega Seckler, verso la fine degli anni da me trascorsi Tubinga, Lei mi diede da leggere un lavoro compiuto sotto la sua guida, lavoro che esponeva l’interpretazione agostiniana della misteriosa sentenza di Paolo: “E’ necessario che avvengano divisioni tra voi” (1Cor 11,19). Il problema esegetico nell’interpretazione di 1Cor 11,19 non è in discussione qui; a me sembra che i padri non avevano gran torto a trovare in questa annotazione localizzata un’affermazione aperta sull’universale, ed anche H. Schlier pensa che si tratti per Paolo di un principio escatologico-dogmatico (ThWNT, I, 182). Se è legittimo pensare in questa direzione, assume un peso speciale l’affermazione esegetica secondo cui il dei (N.d.C. “dei”: espressione greca che traduciamo in italiano con “è necessario”) biblico rinvia sempre in qualche modo a un agire di Dio, cioè a una necessità escatologica (così per es. Grundmann, ThWNT, II, 22-25). Ma allora ciò significa che, se le divisioni sono anzitutto opera umana e colpa umana, esiste tuttavia in esse anche una dimensione che corrisponde a disposizioni divine. Perciò noi le possiamo trasformare solo fino a un certo punto con la penitenza e la conversione; ma quando le cose sono arrivate al punto che noi non abbiamo più bisogno di questa rottura e che il dei viene a cadere, questo lo decide tutto da sé il Dio che giudica e perdona.
Sulla strada mostrata da Cullmann noi dovremmo per prima cosa cercare di trovare l’unità attraverso diversità, cioè a dire: assumere nella divisione ciò che è fecondo, disintossicare la divisione stessa e ricevere proprio dalla diversità quanto è positivo; naturalmente nella speranza che alla fine la rottura smetta radicalmente di essere rottura e sia invece solo una “polarità” senza contraddizione. Ma quando ci si protende troppo direttamente verso quest’ultimo stadio con la fretta superficiale di voler fare tutto da sé, si approfondisce la separazione invece di sanarla. Mi permetta di dire il mio pensiero con un esempio molto pratico. Non è stato forse in tanti modi un bene per la Chiesa cattolica in Germania e altrove il fatto che sia esistito accanto alla Chiesa il protestantesimo con la sua liberalità e la sua devozione religiosa, con le sue lacerazioni e la sua elevata pretesa spirituale? Certo, ai tempi delle lotte per la fede, la spaccatura è stata quasi soltanto contrapposizione; ma poi sono cresciuti sempre di più elementi positivi per la fede in entrambe le parti, un positivo che ci permette di comprendere qualcosa del misterioso “è necessario” di San Paolo. Giacché, viceversa, ci si potrebbe immaginare un mondo interamente protestante? O non è forse vero che il protestantesimo in tutte le sue affermazioni, e proprio come protesta, è del tutto riferito al cattolicesimo, al punto che senza di questo sarebbe quasi impensabile?

A tanto vale davvero e in tutta serietà il detto di Melantone “ubi et quandum visum est Deo”. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che l’unità non la facciamo noi (come non facciamo noi la giustizia con le nostre opere) e che inoltre non possiamo tuttavia rimanere con le mani in mano. Ciò che qui importa è di accogliere sempre daccapo l’altro in quanto altro nel rispetto della sua alterità. Possiamo essere uniti anche come divisi.
Questa specie di unità, per la cui crescita continua possiamo e dobbiamo impegnarci, senza collocarla sotto la pressione troppo umana del successo e della “meta finale”, conosce molte e varie strade ed esige molti e vari impegni. Anzitutto è importante trovare, conoscere e riconoscere le unità che già ci sono e che non sono piccola cosa. Il fatto che leggiamo insieme la Bibbia come parola di Dio; che ci è comune la professione di fede, formatasi negli antichi concilii in base alla lettura della Bibbia, in Dio uno e trino, in Gesù Cristo vero Dio e uomo, del battesimo e della remissione dei peccati, e che ci è quindi comune l’immagine fondamentale di Dio e dell’uomo: tutto ciò deve essere sempre nuovamente attualizzato, pubblicamente testimoniato ed approfondito nella pratica. Ma comune a noi è pure la forma della preghiera cristiana ed unico tra noi pure l’essenziale comandamento etico del decalogo, interpretato nella luce del Nuovo Testamento. All’unità di fondo della confessione di fede dovrebbe corrispondere una unità di fondo operativa. Si tratta dunque di rendere effettiva l’unità che già sussiste, di concretizzarla e di ampliarla.

All’”unità attraverso la diversità” potrebbero e dovrebbero aggiungersi certamente azioni di carattere simbolico, per tenerla costantemente presente nella coscienza delle comunità. Il suggerimento di O.Cullmann quanto alle collette ecumeniche meriterebbe di essere richiamato alla memoria. L’uso del pane dell’eulogia presente nella Chiesa d’oriente potrebbe essere utile anche per l’occidente. Dove la comunità eucaristica non è possibile, questo pane è un modo reale e corporeo di essere accanto nell’alterità e di “comunicare”; di portare la spina dell’alterità e al tempo stesso cambiare la divisione in una preghiera reciproca.

Immaginiamo che i concetti appena accennati non piaceranno a molti. Credo che una considerazione dovrebbe in ogni caso essere evitata: che tutte queste non siano che delle idee stagnanti e rassegnate, o addirittura un rifiuto dell’ecumenismo. E’ molto semplice il tentativo di lasciare a Dio quello che è affare unicamente suo, e di esplorare poi, in tutta serietà, che cosa è nostro compito. A questa sfera dei nostri compiti appartiene agire e soffrire, attività e pazienza. Se si cancella una delle due cose, si guasta l’insieme. Se noi ci impegniamo su ciò che spetta a noi, allora l’ecumenismo sarà anche in futuro, e più ancora di prima, un compito altamente vivace e ardimentoso.
(da Progressi dell’ecumenismo. Una lettera alla “Theologische Quartalschrift di Tubinga, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.131-137)

Mi sia concessa soltanto una piccola annotazione: si dice che ora, dopo il chiarimento relativo alla dottrina della giustificazione, l'elaborazione delle questioni ecclesiologiche e delle questioni relative al ministero sia l'ostacolo principale che rimane da superare. Ciò in definitiva è vero, ma devo anche dire che non amo questa terminologia e da un certo punto di vista questa delimitazione del problema, poiché sembra che ora dovremmo dibattere delle istituzioni invece che della Parola di Dio, come se dovessimo porre al centro le nostre istituzioni e fare per esse una guerra. Penso che in questo modo il problema ecclesiologico così come quello del "ministerium" non vengano affrontati correttamente.

La questione vera è la presenza della Parola nel mondo. La Chiesa primitiva nel II secolo ha preso una triplice decisione: innanzitutto di stabilire il canone, sottolineando in tal modo la sovranità della Parola e spiegando che non solo il Vecchio Testamento è "hài graphài" [le Scritture], ma che il Nuovo Testamento costituisce con esso un'unica Scrittura e in tal modo è per noi il nostro vero sovrano.

Ma al contempo la Chiesa ha formulato la successione apostolica, il ministero episcopale, nella consapevolezza che la Parola e il testimone vanno insieme, che cioè la Parola è viva e presente solo grazie al testimone e, per così dire, da esso riceve la sua interpretazione, e che reciprocamente il testimone è tale solo se testimonia la Parola.

E infine, la Chiesa ha aggiunto come terza cosa la "regula fidei" [la regola della fede] quale chiave interpretativa. Credo che questa vicendevole compenetrazione costituisca oggetto di dissenso fra noi, sebbene siamo uniti su cose fondamentali.

Quindi, quando parliamo di ecclesiologia e di ministero, dovremmo parlare preferibilmente di questo intreccio di Parola, testimone e regola di fede, e considerarlo come questione ecclesiologica e quindi insieme come questione della Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, in quanto il Signore affida la sua Parola ai testimoni e ne concede l'interpretazione, che però deve commisurarsi sempre alla "regula fidei" e alla serietà della Parola. Scusatemi se ho espresso qui un'opinione personale, ma mi sembrava giusto farlo.
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

(Vorrei) circoscrivere, partendo da lati differenti, quell’unico punto che... si è mostrato come il centro del problema: la questione dell’Autorità, che è identica a quella della tradizione e non può essere disgiunta da quella circa il rapporto tra Chiesa e Chiesa particolare.

Tra i cristiani è indiscusso che la Sacra Scrittura è la misura fondamentale della fede cristiana, l’autorità centrale attraverso cui Cristo stesso esercita la Sua autorità sulla Chiesa e nella Chiesa. Perciò ogni insegnamento nella Chiesa è ultimamente interpretazione della S.Scrittura, così come questa da parte sua è solo interpretazione della Parola vivente che è Gesù Cristo. Orbene, la cosa ultima non è allora lo scritto, ma la vita, che il Signore ha trasmesso alla Sua Chiesa, e in cui la Scrittura ha vita ed è vita. Il Vaticano II ha formulato questa connessione con parole molto belle: «E’ la stessa tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Lettere; così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del Suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti nella verità tutta intera e in essi fa risiedere la Parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16)» (Dei Verbum II,8). La precedenza della Scrittura come testimonianza e la precedenza della Chiesa come spazio vitale di questa testimonianza stanno perciò in un indissolubile rapporto scambievole, nel quale l’una non sarebbe pensabile senza l’altra. Questa precedenza relativa della Chiesa nei confronti della Scrittura presuppone certamente allo stesso tempo l’esistenza della Chiesa universale come una realtà concreta e capace di agire, poiché solo la Chiesa nel suo insieme può essere in simile maniera spazio vitale della S. Scrittura. Così il problema della determinazione del rapporto tra Chiesa singola e Chiesa universale entra chiaramente a far parte delle questioni fondamentali.

Al contrario, proprio dal punto di vista della fede testimoniata nel Nuovo Testamento e della vita della Chiesa antica, si deve tener per fermo che non ci può essere una verificabilità ulteriore di quanto la Chiesa universale insegna come Chiesa universale; chi potrebbe mai arrogarsi il potere di intraprenderla? Si può approfondire la parola della Chiesa universale; la si può purificare nella sua forma linguistica; la si può sviluppare ulteriormente in avanti guardando verso il centro della fede e tenendo conto di nuove prospettive che si mostrano all’orizzonte, ma non la si può «discutere» nel senso che questo termine comunemente esprime.

La Chiesa antica, infatti, non ha certo riconosciuto l’esercizio del Primato nel senso della teologia romano-cattolica del secondo millennio, conosceva però certamente forme viventi di unità ecclesiale universale che non avevano solo carattere di manifestazione, ma erano costitutive per l’esser chiesa delle Chiese singole. In tal senso ci fu certamente la precedenza della Chiesa universale nei confronti della Chiesa particolare.
Ricordo qui solo tre fenomeni noti: le lettere di comunione, che vincolavano le Chiese tra di loro; la rappresentanza della Collegialità nella consacrazione episcopale, che era sempre collegata col reciproco controllo e riconoscimento del Credo, della Tradizione viva il cui carattere ecclesiale universale veniva chiaramente in luce nella rappresentanza (Darstellung) dei titolari delle grandi sedi: qui non bastava più il riconoscimento dei vicini, qui si doveva dimostrare la comunione delle grandi sedi tra loro, che poi a sua volta garantiva il carattere ecclesiale universale delle sedi singole. Il fatto che Roma come sede di Pietro fosse in modo particolare espressione dell’effettivo ancoramento nella Chiesa universale, non ha qui bisogno di alcuna particolare menzione. In fin dei conti rientra qui ciò che oggi si chiama volentieri la conciliarità della Chiesa, la cui presentazione non di rado appare romanticamente abbreviata. E’ noto infatti che questa conciliarità non ha mai funzionato semplicemente da sé, in virtù della pura e autonoma armonia della molteplicità, come si potrebbe supporre da molte esposizioni correnti. Di fatto, per la convocazione dei Concili c’era bisogno dell’autorità dell’imperatore. Se si toglie la figura dell’imperatore, non si parla più della realtà conciliare della Chiesa antica, ma di una finzione teologica. Un’osservazione più precisa mostra che anche l’assenso di Roma, la sede in cui erano morti Pietro e Paolo, era di importanza essenziale per la piena validità di un concilio, anche se questo fattore si pose in luce meno della posizione dell’imperatore. In ogni caso Vincent Twomey ha mostrato, in una ricerca accuratamente documentata, che già nella polemica attorno a Nicea si formano due opzioni contrapposte: l’eusebiana e quella di Atanasio, cioè la concezione di Chiesa universale nei termini di Chiesa imperiale, e una concezione propriamente teologica in cui non l’imperatore, ma Roma gioca il ruolo decisivo. Ma comunque stiano le cose, la Chiesa regno è sparita, e con essa l’imperatore (Dio sia lodato, possiamo dire). Perciò è inevitabile la domanda su quale entità propriamente teologica può sostituire e assumere la funzione rivestita dall’imperatore, se si vuol parlare sensatamente e concretamente di conciliarità della Chiesa.

Jean Meyendorff ha recentemente affrontato questo insieme di questioni con un realismo e una franchezza che devono essere considerati esemplari per una ricerca proiettata in avanti. Egli mostra come la rinuncia ad organi di unità teologicamente fondati dopo la caduta dell’antica Chiesa imperiale di fatto e con una stringente logica interiore condusse ovunque a Chiese-stato, che non corrispondono affatto al romanticismo della chiesa locale o della comunità con cui si tenta di legittimarle teoricamente. Esse portano con sé piuttosto una interiore particolarizzazione della realtà cristiana e della chiesa che contraddice all’essenza di ciò che dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa delle origini è inteso con «Chiesa» (Meyendorff, J., p. 311: «Come si vede, il nazionalismo dell’epoca moderna ha mutato la forma del legittimo regionalismo ecclesiale e ne ha fatto una copertura del separatismo etnico.»). Infatti con la scomparsa della Chiesa universale come realtà che forgia concretamente la chiesa parziale e con il legame ad una realtà politica o etnica come cornice della Chiesa, cambia la costituzione stessa della Chiesa, cambia il valore del ministero episcopale e cambia così la struttura della Chiesa. Non cade via solo una «manifestazione» esteriore, ma una forza animante dall’interno. In questo contesto Meyendorff si pone poi la domanda se in effetti non si debba dare più spazio all’idea di sviluppo della Chiesa e poi dall’idea di sviluppo avvicinarsi al contenuto propriamente teologico del Primato, cui rinvia la legge costante e negativa delle particolarità, subentrata dopo la frantumazione dell’antico Impero, in ogni luogo dove mancava la connessione con la funzione unificante del ministero di Pietro.
Simili riflessioni non devono affatto condurre ad unilaterali conferme del «Romano». Esse rinviano al principio di un ministero dell’unità, ma provocano anche un’autocritica della teologia romano-cattolica, in cui gli sviluppi sbagliati della teologia e prassi del Primato, che indiscutibilmente ci sono stati, vengono messi in luce in maniera così consapevole e franca, allo stesso modo in cui Meyendorff ha presentato gli sviluppi errati di una teologia e prassi che mirano semplicemente alla Chiesa locale. In questo modo potrebbe davvero evidenziarsi e divenire accettabile il nucleo teologico. Il principio di un ministero petrino della Chiesa universale non sopporta a mio avviso alcun indebolimento nel senso di venire sminuito a semplice manifestazione, eliminando così teologicamente la realtà della Chiesa universale. I modi di realizzazione pratica del ministero sono invece mutabili e devono sempre di nuovo essere verificati in base al principio.

Nella questione circa la Chiesa universale e il Primato come suo organo reale non si tratta di un particolare problema romano, cui si può attribuire maggiore o minore significato. In nuce si tratta invece della questione della presenza autorizzata e comunionale della Parola di Dio nella Chiesa, che in base a quanto detto include la questione circa la Chiesa universale e la sua autorità, o circa gli organi di questa autorità. Ancora in altri termini, si tratta della questione di cosa propriamente si debba intendere col termine «Tradizione».

Molto rozzamente si potrebbe si potrebbe forse brevemente dire: nella Chiesa cattolica col principio «Tradizione» non si intende esclusivamente e neppure principalmente un patrimonio di dottrine o testi giuntici dall’antichità, ma una precisa determinazione della relazione tra la parola viva della Chiesa e la parola, canonica, della Bibbia. «Tradizione» significa qui soprattutto che la Chiesa vivente nella struttura della successione apostolica, col ministero petrino come centro, è la dimora in cui la Bibbia viene vissuta e interpretata con autorità. Questa interpretazione costituisce un continuum storico, che pone termini di confronto non più spostabili, ma non diventa mai un passato definitivamente chiuso. Conclusa è la «Rivelazione», ma non è conclusa l’interpretazione vincolante. Contro un’interpretazione ultimamente vincolante non c’è più alcuna possibilità di appello. La tradizione è allora qui essenzialmente caratterizzata dall’elemento «voce vivente», cioè dalla normativa della dottrina della Chiesa universale.

Simili ragionamenti a cui ho preso parte anch’io, sono nel frattempo cresciuti a formare l’opinione secondo cui i Concili e le decisioni dogmatiche del secondo millennio non sono da considerare ecumenici, bensì sviluppi particolari della Chiesa latina, suoi beni propri nel senso di «our two traditions». In questo modo però l’argomento iniziale è trasformato in una tesi del tutto nuova e dalle ampie portate. Infatti una simile concezione significa che di fatto l’esistenza della Chiesa universale viene negata per il secondo millennio, e la Tradizione come grandezza viva, portatrice di verità, viene congelata alla svolta del secondo millennio. Così però resta colpito nel suo nucleo il concetto di Chiesa e quello di Tradizione, giacché in ultima analisi il criterio dell’antichità soppianta la potestà apostolica della Chiesa, la quale allora non ha più voce alcuna nel presente. Del resto, di fronte ad una simile concezione, ci sarebbe anche da chiedersi con quale diritto in una Chiesa particolare, quale è allora la «latina», le coscienze possono venire vincolate da simili affermazioni. Ciò che si presentò sulla scena come verità, sarebbe allora da qualificare come semplice usanza. La pretesa di verità sinora elevata dovrebbe adesso venir qualificata come abuso. ..

L’autentico nucleo di ciò che là s’intende io lo vedo nel fatto che l’unità rappresenta un principio ermeneutico fondamentale di ogni teologia, e che dobbiamo perciò imparare a leggere i documenti della Tradizione in un’ermeneutica dell’unità, la quale permette di vedere realtà nuove e può aprire porte là dove prima si erano visti solo chiavistelli. Una tale ermeneutica dell’unità consisterà nel leggere le singole affermazioni nel contesto dell’intera Tradizione e di una approfondita comprensione della Bibbia.

Le grandi Confessioni della Riforma come anche la comunità anglicana hanno assunto i Simboli della Chiesa antica come parte della loro propria Confessione, e così hanno tenuto fuori dalle dispute la fede trinitaria e cristologia dei Concili della Chiesa antica: accanto alla Sacra Scrittura e insieme con essa è questo il nucleo vero e proprio dell’unità che ci unisce e che dà speranza in una piena riunificazione. Perciò per amore dell’unità ci si deve opporre con tutte le forze a tutti i tentativi di demolire questo centro ecclesiale, e la comune lettura della Bibbia da esso sostenuta, come non più al passo coi tempi. Un biblicismo ora davvero nudo, quale quello sostenuto oggi da molti, non ci ricondurrebbe insieme, ma dissolverebbe ben presto la Bibbia stessa, la quale senza questo centro non è più libro e non è più autorità.
Mentre dunque nei diversi «Credo» l’unità rimase, la frattura fu totale nella forma della liturgia eucaristica. In effetti però era la liturgia eucaristica della Chiesa antica (insieme con la liturgia battesimale), costruita e compresa in modo strutturalmente unitario, nonostante tutte le diversità testuali e rituali, lo spazio vitale in cui il Dogma della Chiesa antica era radicato. L’autorità di Tradizione di questo typus eucaristico non è inferiore all’autorità di Tradizione dei Concili e delle loro Confessioni, anche se essa si è espressa in modo diverso, non per mezzo di decreti conciliari, ma attraverso una ininterrotta celebrazione vitale. Solo artificiosamente le due autorità possono essere divise l’una dall’altra; ma è l’unica forma di fondo in cui si esprimeva la Chiesa antica.

Se al contrario venisse riconosciuta la forma fondamentale della Liturgia della Chiesa antica come bene della Tradizione di uguale solidità dei Simboli conciliari, allora sarebbe data un’ermeneutica dell’unità che renderebbe superflue le dispute. Non è la Liturgia della Chiesa come originaria forma di comprensione dell’eredità biblica a doversi giustificare di fronte alle ricostruzioni storiche; essa è piuttosto la misura proveniente dalla vita che dà un orientamento alla ricerca delle origini. …”.

Per il fatto che la maggior parte delle comunità, che una volta vivevano come Chiesa nazionale o Chiesa di stato, hanno oltrepassato i confini delle nazioni e dei continenti, si è destata una nuova sensibilità per ciò che significa «cattolicità» nel senso più originario del termine. Così pure l’attuazione di una vita comunitaria ecclesiale ha relativizzato concezioni del principio scritturistico e ha fatto rinascere la sensibilità per l’importanza della Tradizione e della potestà d’insegnamento fondata nel sacramento. In entrambi i casi l’incontro con la Chiesa Ortodossa ha trasmesso importanti impulsi. La Chiesa dell’Oriente ha potuto trasmettere alle Comunità della Riforma una figura di cattolicità non sovraccarica del peso della storia occidentale; essa ha potuto viceversa, partendo dalla comune struttura della Chiesa Cattolica d’Occidente, scoprire alcune estremizzazioni e unilateralità e aiutare a distinguere meglio ciò che è propriamente caratterizzante da ciò che è invece particolare.

In realtà c’è più unità nella ricerca appassionata della verità da parte delle comunità separate le quali hanno una volontà decisa di non imporre l’una all’altra nulla che non provenga dal Signore, ma anche di non lasciar cadere nulla di ciò che da Lui ci è stato affidato. Proprio così noi viviamo in tensione gli uni verso gli altri, perché viviamo in tensione verso Cristo. Forse la divisione istituzionale partecipa anche del senso storico-salvifico che Paolo attribuisce alla divisione fra Israele e i Gentili: «rendersi gelosi» reciprocamente per la maggior vicinanza al Signore (Rm 11,11).

Che il Cattolicesimo è divenuto un partito all’interno dell’Anglicanesimo nessuno realisticamente può metterlo in discussione... Ma rimane vero che Gesù non volle fondare un partito cattolico all’interno di una società di dibattiti cosmopolita, bensì una Chiesa cattolica, alla quale Egli ha promesso la pienezza della verità... Una corporazione che riduce i suoi cattolici ad un partito all’interno di un parlamento religioso difficilmente può pretendere di essere denominata un ramo della Chiesa cattolica. Essa è una religione nazionale, governata e strutturata secondo i principi dell’idea di tolleranza, in cui l’Autorità della Rivelazione è subordinata alla democrazia e all’opinione privata.

Nel mio libro Il nuovo popolo di Dio ho potuto, sulla base di dettagliate analisi filologiche, evidenziare la profonda differenza semantica e oggettiva che nel linguaggio e nel pensiero della Chiesa antica separa l’uno dall’altro i cosiddetti Communio e Concilium. Mentre Communio può figurare addirittura come equivalente per Chiesa, accenna alla sua essenza, al suo centro vitale e anche alla sua forma costituzionale, la stessa cosa non si può affatto dire per il concetto di Concilio. Concilio, al contrario di Comunione, di unificazione nel e col Corpo di Cristo, non è l’atto vitale della Chiesa stessa, bensì un determinato e importante evento operativo in essa. Il Concilio ha la sua importanza grande ma limitata e mai può esprimere la vita della Chiesa, ma la Chiesa non serve il Concilio. Nella visuale dei Padri è completamente insensato e impensabile spiegare la Chiesa intera come una specie di Concilio permanente. Il Concilio discute e prende decisioni, ma poi finisce. La Chiesa però non esiste per deliberare sul Vangelo, ma per viverlo. Perciò il Concilio presuppone la costituzione della Chiesa, ma non è esso stesso la costituzione.

Ma è falsa anche l’ultima concezione di Concilio presupposta dallo slogan della «conciliarità». Qui si vuole sostenere in effetti che il Concilio, l’accordo di tutte le chiese locali, è allo stesso tempo anche l’unica forma di espressione della Chiesa universale come Chiesa universale, il suo unico organo costituzionale. Già... ho richiamato l’attenzione sul fatto che non si vede come con queste premesse possa svolgersi un Concilio universale. Le difficoltà incontrate ai nostri giorni dalla Chiesa d’Oriente sulla via ad un Sinodo panortodosso rappresenta una verifica molto concreta di questo problema. Di fatto la Chiesa dei Padri non si è mai considerata come un puro intreccio di chiese particolari con gli stessi diritti. A grandi linee si possono distinguere in essa tre concezioni fondamentali della costituzione della Chiesa universale, che certo solo lentamente si sono formate nella loro forma specifica e poi distinte l’una dall’altra. L’Oriente conosceva due modelli fondamentali: uno era la Pentarchia, nella quale si ampliarono nel quarto secolo i tre Primati del Concilio niceno e nella quale un fondamento petrino-teologico si univa a finalità politico-pratiche: Roma e Antiochia sono sedi di Pietro, Alessandria con la figura di San Marco reclama parimenti per sé una derivazione petrina. Se Gerusalemme originariamente, per l’idea della translatio della sua missione a Roma, era stata eliminata dal numero delle sedi normative, ora rientra nel loro novero come luogo di origine della fede. Allo stesso tempo la nuova translatio imperii da Roma a Costantinopoli rende possibile alla città imperiale sul Bosforo di entrare nella schiera delle sedi primaziali. Il riferimento ad Andrea diventa allora una specie di variante teologica dell’idea di traslazione e nel pensiero in esso insito della fraterna uguaglianza delle sue città. Comunque stiano le cose, l’antica Chiesa episcopale, sullo sfondo dell’idea petrina e delle sue variazioni storiche, si è concepita come pentarchia, non come generale conciliarità o come «patto d’amore» (come «sobornost»). Il modello misto teologico-politico della pentarchia, che non fu considerato affatto come frutto di semplici casualità storiche o di opportunità politiche, fu poi sostituito sempre più dal modello della Chiesa imperiale, nel quale all’imperatore spettano le funzioni del ministero petrino, egli diviene l’espressione completa della Chiesa universale. Adeguandosi a questa evoluzione nella Chiesa-stato bizantina, la pentarchia viene visibilmente rimodellata nella monarchia del Patriarca ecumenico. Se possiamo considerare questa connessione fra la monarchia dell’imperatore e la monarchia del Patriarca ecumenico come secondo modello, allora l’idea della successione romana di Pietro, niente affatto limitata alla città di Roma e al suo immediato ambito d’influsso, deve infine venir considerata come il terzo modello. Per questo modello l’unico successore di Pietro, il Vescovo di Roma, è il vero organo della Chiesa universale biblicamente fondato, senza che in un primo momento la Pentarchia e la posizione dell’imperatore fossero considerate del tutto inconciliabili con questo modello. La mia riflessione conclusiva è che il modello di «conciliarità» come forma di rappresentazione dell’unità della Chiesa universale dalle e nelle chiese particolari è inadatto e dovrebbe essere abbandonato.

Chi legge attentamente i testi di consenso ecumenici, che diventano sempre più numerosi, ne ricava con sempre maggiore chiarezza l’impressione che il classico Sola Scriptura non venga quasi più impiegato: al suo posto, invece, sembra formarsi un nuovo principio formale, che io a mo’ di tentativo sono portato a descrivere con lo slogan «traditionibus».

Un paio di esempi possono chiarire questa circostanza. In Africa, così ci dice il BEM, ci sono comunità che battezzano solo con l’imposizione delle mani, senza acqua. La conseguenza? Si deve studiare il rapporto di questa prassi con il Battesimo con l’acqua. In alcune «tradizioni» è costume dare ai bambini solo una benedizione per unirli alla Chiesa. Solo allorquando essi stessi possono compiere la confessione di fede vengono anche battezzati. Altre comunità battezzano i bambini, i quali più tardi – quando sono maturi per farlo – aggiungono la propria confessione di fede. Cosa bisogna fare? Guardare ad entrambe le «tradizioni» come in fondo omogenee. Alcune chiese hanno cominciato con l’ordinazione delle donne, le altre la respingono. Cosa ne consegue? La benedizione, che manifestamente è presente nell’ordinazione delle donne, la legittima senz’altro, ma non tutti devono riceverla... Questi esempi dovrebbero bastare per chiarire l’essenza del nuovo principio formale: le «tradizioni» sono da accettare come tali in un primo momento; esse sono la realtà con cui l’Ecumenismo ha a che fare. Compito del dialogo ecumenico è poi quello di cercare in giusta maniera i necessari compromessi tra le tradizioni, senza distruggere l’identità di nessuno, ma rendendo possibile a tutti il reciproco riconoscimento. Questo non è più il principio scritturistico di Lutero o di Calvino; su ciò non è necessario spendere alcuna ulteriore parola. Ma è anche qualcosa di completamente diverso dal principio cattolico (o ortodosso) di «Tradizione». In questo, infatti, si trattava di «tradizioni apostoliche» «di diritto divino», cioè di tradizioni che riposavano sulla Rivelazione, senza come tali essere chiaramente contenute per iscritto nella Scrittura. Pure e semplici «tradizioni umane», la cui esistenza nessuno contesta, potevano esigere rispetto, ma non venire portate a livello di Rivelazione. Ora però nella crisi dell’esegesi l’idea di una vera e propria derivazione da Gesù (istituzione) e quindi di una reale qualità di rivelazione sembra essere divenuta così insicura che quasi non vi si ricorre più. Quel che è sicuro sono appunto le «tradizioni», e non ha più molta rilevanza se esse sono sorte nel primo, nel decimo, nel sedicesimo o nel ventesimo secolo e in quale maniera sono sorte.

Se infatti ci si accordasse completamente nel considerare tutte le Confessioni semplicemente come tradizioni, allora ci si sarebbe completamente allontanati dalla questione circa la verità, e la teologia sarebbe oramai solo una forma di diplomazia, di politica. In questo caso i nostri Padri, nella polemica, erano in realtà molto più vicini: pur in mezzo ad ogni conflittualità essi sapevano tuttavia che potevano essere servitori solo di una Verità che deve essere riconosciuta così grande e così pura, quale da Dio è stata pensata per noi.
(da Problemi e speranze del dialogo anglicano-cattolico, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.71-95)

Nel secolo XIX si era a poco a poco costituito il movimento ecumenico, inizialmente a partire dall'esperienza missionaria delle Chiese protestanti, le quali, incontrando il mondo pagano, avevano trovato un ostacolo fondamentale alla loro testimonianza nella divisione dei cristiani in numerose confessioni e avevano così riconosciuto l'unità della Chiesa come condizione essenziale della missione. In questo senso l'ecumenismo fu all'inizio un fenomeno del protestantesimo, scaturito dall'uscita dal mondo tradizionalmente cristiano.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.58)

1. Le delucidazioni che seguono sottolineano il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (DG) al riguardo di verità fondamentali della giustificazione; risulta pertanto chiaro che le reciproche condanne dei tempi passati non si applicano alla dottrina cattolica e alla dottrina luterana della giustificazione così come tali dottrine sono presentate nella Dichiarazione congiunta.

2. “Insieme confessiamo che soltanto per grazia e nella fede nell'opera salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere” (DG 15).

A) “Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che, nel contempo, egli lo libera dal potere assoggettante del peccato [...]” (DG 22). La giustificazione è perdono dei peccati e azione che rende giusti, attraverso la quale Dio dona all’uomo “la vita nuova in Cristo” (DG 22). “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio” (Rm 5,1). Siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1 Gv 3,1). Noi siamo in verità ed interiormente rinnovati dall’azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi. “Quindi se uno è in Cristo, è una creazione nuova ; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). In questo senso i giustificati non restano peccatori.
Se però diciamo che siamo senza peccato non siamo nel giusto (cfr. 1 Gv 1, 8-10, cfr. DG 28). “Tutti quanti manchiamo in molte cose” (Gc 3,2). “Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,12). E quando preghiamo, possiamo soltanto dire, come l’esattore, “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Ciò è espresso in svariati modi nelle nostre liturgie. Insieme, noi ascoltiamo l’esortazione: “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12). Ciò ci ricorda il perdurante pericolo che proviene dal potere del peccato e dalla sua azione nei cristiani. In questa misura, luterani e cattolici possono insieme comprendere il cristiano come simul justus et peccator, malgrado i modi diversi che essi hanno di affrontare tale argomento, così come risulta in DG 29-30.

B) Il concetto di “concupiscenza” è adoperato con significati diversi da parte cattolica e da parte luterana. Negli scritti confessionali luterani la concupiscenza è compresa nei termini del desiderio egoistico dell’essere umano che, alla luce della Legge spiritualmente intesa, è considerato come peccato. Secondo il modo di comprendere cattolico, la concupiscenza è una inclinazione che permane negli esseri umani perfino dopo il battesimo, la quale proviene dal peccato e spinge verso il peccato. Malgrado le differenze riscontrabili in questo contesto, si può riconoscere, da una prospettiva luterana, che il desiderio può diventare il varco attraverso il quale il peccato assale. Dato il potere del peccato, l’essere umano nella sua interezza ha la tendenza ad opporsi a Dio. Tale tendenza, secondo la concezione cattolica e luterana, “non corrisponde al disegno originario di Dio sull’umanità” (DG 30). Il peccato ha un carattere personale e, come tale, conduce alla separazione da Dio. Esso è desiderio egoistico dell'uomo vecchio e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio.
La realtà di salvezza nel battesimo ed il pericolo che proviene dal potere del peccato possono essere espressi in maniera tale da enfatizzare, da una parte, il perdono dei peccati e il rinnovamento dell'umanità in Cristo per mezzo del battesimo; dall'altra, si può intendere che anche il giustificato “non è svincolato dal dominio che esercita su di lui il peccato e che lo stringe nelle sue spire (cfr. Rm 6, 12-14) né può esimersi dal combattimento di tutta una vita contro l'opposizione a Dio […]” (DG 28).

C) La giustificazione avviene “soltanto per mezzo della grazia” (DG 15 e 16); soltanto per mezzo della fede, la persona è giustificata “indipendentemente dalle opere” (Rm 3,28, cfr. DG 25). “La grazia crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura” (Tommaso d'Aquino, S. Th. II/II 4, 4 ad 3). L'opera della grazia di Dio non esclude l'azione umana: Dio produce tutto, il volere e l'operare, pertanto noi siamo chiamati ad agire (cfr. Fil 2,12 ss). “Immediatamente quando lo Spirito Santo ha iniziato in noi la sua opera di rigenerazione e di rinnovamento, attraverso la Parola e i santi sacramenti, è certo che noi possiamo e dobbiamo collaborare per mezzo della potenza dello Spirito Santo (…)” (Formula di Concordia, FC SD II, 64 s; BSLK 897, 37 s).

D) La grazia quale comunione del giustificato con Dio nella fede, nella speranza e nell'amore, proviene sempre dall'opera salvifica e creatrice di Dio (cfr. DG 27). Nondimeno il giustificato ha la responsabilità di non sprecare questa grazia e di vivere in essa. L'esortazione a compiere le buone opere è l'esortazione a mettere in pratica la fede (cfr. BSLK 197,45). Le buone opere dei giustificati “dovrebbero essere realizzate in modo da confermare la loro chiamata, cioè, affinché essi non disattendano la loro chiamata peccando di nuovo” (Apol. XX, 13, BSLK 316, 18-24; con riferimento a 2 Pt 1,10. Cfr. anche FC SD IV,33; BSLK 948, 9-23). In questo senso, luterani e cattolici possono comprendere insieme ciò che viene affermato circa la “preservazione della grazia” in DG 38 e 39. Certamente “la giustificazione non si fonda né si ottiene in tutto ciò che precede e segue nell'uomo il libero dono della fede” (DG 25).

E) Per mezzo della giustificazione siamo incondizionatamente condotti alla comunione con Dio. Ciò comprende la promessa della vita eterna: «se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione» (Rm 6,5, cfr. Gv 3,36, Rm 8,17). Nel giudizio finale, i giustificati saranno giudicati anche in base alle loro opere (cfr. Mt 16,27; 25,31-46; Rm 2,16; 14,12; 1 Cor 3,8; 2 Cor 5,10, ecc.). Noi stiamo di fronte ad un giudizio nel quale la benevola sentenza di Dio approverà ogni cosa nella nostra vita e nella nostra azione che corrisponde alla sua volontà. Nondimeno, ogni cosa nella nostra vita che è sbagliata sarà messa a nudo e non entrerà nella vita eterna. La Formula di Concordia afferma anche: «È volontà ed espresso comandamento di Dio che i credenti debbano compiere buone opere che lo Spirito Santo opera in loro, e Dio si compiace di esse per amore di Cristo e promette di ricompensarli gloriosamente in questa vita e nella vita futura» (FC SD IV,38). Ogni ricompensa è una ricompensa di grazia, della quale non possiamo in alcun modo vantarci.

3. La dottrina della giustificazione è metro o termine di paragone per la fede cristiana. Nessun insegnamento può contraddire tale criterio. In questo senso, la dottrina della giustificazione è un «criterio irrinunciabile che orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della Chiesa» (DG 18). In quanto tale, essa ha la sua verità e il suo significato specifico nel contesto d’insieme della fondamentale Confessione di fede trinitaria della Chiesa. Noi [luterani e cattolici] tendiamo «insieme alla meta di confessare in ogni cosa Cristo, il solo nel quale riporre ogni fiducia poiché egli è l’unico Mediatore (1 Tim 2,5s) attraverso il quale Dio nello Spirito Santo fa dono di sé ed effonde i suoi doni che tutto rinnovano” (DG 18).
(Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999. Questo testo è in allegato alla Dichiarazione che porta la firma del Pontificio Consiglio dell’Unità dei Cristiani, ma lo leggiamo per la sua rilevanza in merito al nostro tema)

Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato. E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.

In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.

E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.

Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)

Essa, la scomunica, si è estinta con la sua morte, perché il giudizio dopo la morte è solo di Dio. Non c’è bisogno di togliere la scomunica di Lutero; da lungo tempo essa non esiste più.
Del tutto diversa è la domanda se le dottrine proposte da Lutero possano dividere ancora oggi la Chiesa ed escludano così la comunione ecclesiale. Di tale domanda si occupa il dialogo ecumenico. La commissione mista istituita in occasione della visita del Papa in Germania intende precisamente studiare il problema delle esclusioni del secolo XVI e della loro oggettiva, futura validità o superamento. Giacché bisogna considerare che esistono anatemi non solo cattolici contro la dottrina di Lutero, ma che esistono riprovazioni molto esplicite del cattolicesimo da parte del riformatore e dei suoi compagni, riprovazioni che culminano nella frase di Lutero che noi siamo divisi per l’eternità. Non c’è proprio bisogno di rifarsi alle parole piene di rabbia pronunciate da Lutero nei riguardi del Concilio di Trento, dove la decisività del suo rifiuto della Chiesa cattolica è fin troppo chiara:”Bisognerebbe arrestare il Papa, i cardinali e tutta la plebaglia che lo idolatra e lo santifica, arrestarli come bestemmiatori, e strappar loro la lingua fin dal fondo della gola ed inchiodarli tutti in fila alla forca... Li si potrebbe così lasciar fare il concilio o quel che vogliono sulla forca, oppure all’inferno tra i diavoli”. Lutero dopo la rottura definitiva ha non solo respinto categoricamente il papato, ma ha reputato idolatrica la dottrina cattolica della Messa, perché vi vedeva una ricaduta nella Legge e quindi il rifiuto del Vangelo. Ricondurre tutte queste contrapposizioni semplicemente a malintesi è a mio vedere una pretesa illuministica, con la quale non si dà veramente la misura delle appassionate lotte di allora, né del peso di realtà presente nei loro discorsi. La vera questione può dunque unicamente consistere nel domandarci fino a che punto è oggi possibile superare le posizioni di allora e raggiungere una conoscenza che vada oltre quei tempi. In altre parole, l’unità postula passi nuovi; non si realizza mediante artifici interpretativi. Se a suo tempo si realizzò con esperienze religiose contrapposte, che non potevano trovare spazio entro lo spazio vitale della dottrina ecclesiastica tramandata, così anche oggi l’unità non si fa soltanto mediante discussioni di vario genere, ma con le forze dell’esperienza religiosa. L’indifferenza è un mezzo di unione solo apparente.

E’ interessante vedere come (E.Herms) evidenzia come particolarmente utile proprio quel passo della lettera che Manns vorrebbe affibbiare a me e spogliare del suo rilievo ecumenico, cioè l’affermazione che la rottura invalsa con la Riforma non è da condurre semplicemente a malintesi tra le due parti, ma che va più a fondo nei suoi fattori decisivi.

Quando alle celebrazioni del giubileo della pace di Augusta (1980) il card. Willebrands affermò che nelle divisioni del secolo XVI la radice era rimasta una sola, il card. Volk chiese con umorismo e serietà insieme: la realtà di cui qui si parla è una patata oppure (per esempio) un albero di mele? In altre parole: fuori della radice è solo erba da buttar via, oppure l’albero che ne è cresciuto è pure importante? Fino a che punto giunge la differenza?

Ciò che veniva inteso nella formula, del resto non inventata dal card. Willebrands, non è mai stato messo in discussione da noi, cioè che con l’adesione alla fede trinitaria e cristologica dell’antica Chiesa è rimasto comune il centro contenutistico della fede.

Dunque l’atto di fede a suo (N.d.C. di Lutero) vedere si era cambiato nel suo contrario, perché la fede è per lui la liberazione dalla legge, ma nella sua forma cattolica gli sembrava di nuovo una sottomissione alla legge. Egli credeva così di dover sostenere da parte sua, contro Roma e la tradizione cattolica, la stessa lotta combattuta da Paolo nella lettera ai Galati contro i giudaizzanti. L’identificazione tra le posizioni di combattimento della sua età e quelle di Paolo (e dunque una certa identificazione di se stesso e della sua missione con Paolo) appartiene agli elementi essenziali della sua strada. Oggi è ormai comune dire che non esiste più contrasto quanto alla dottrina della giustificazione. In realtà la forma con cui Lutero poneva allora la questione non è più possibile oggi: la coscienza del peccato e l’angoscia dell’inferno sussistono oggi nella stessa misura dello sconvolgimento davanti alla maestà di Dio e al grido che chiama la grazia, cioè non sussistono più o quasi. Anche la sua concezione della volontà schiava, che aveva allora provocato l’opposizione di Erasmo da Rotterdam, oggi risulta difficilmente concepibile. Viceversa già il decreto tridentino della giustificazione ha accentuato in modo così definitivo la preminenza della grazia che Harnack pensava che se questo testo fosse stato proposto all’inizio della Riforma, quest’ultima avrebbe avuto un altro corso. Ma dal momento che Lutero ha fissato per tutta la sua vita e con tale insistenza la differenza centrale nella dottrina della giustificazione, mi sembra giusto allora come oggi la congettura che è a partire di qui che si può quanto mai trovare la differenza fondamentale. Tutto questo io non lo posso esporre nello spazio di un’intervista.

L’elemento fondamentale (così mi sembra) è la paura di Dio, dalla quale Lutero è stato colpito fino alla radice del suo essere nella tensione tra divina pretesa e coscienza del peccato; a tal punto che Dio gli appare “sub contrario”, cioè come l’opposto di Dio, come diavolo, inteso all’annientamento dell’uomo. La liberazione da quest’angoscia diventa il vero problema risolutivo. Viene trovata nel momento in cui la fede appare come la salvezza rispetto alla pretesa di una giustizia propria, come personale certezza di salvezza. Nel piccolo catechismo di Lutero risulta molto chiaro questo nuovo asse nel concetto di fede:”Io credo che Dio mi ha creato .... Io credo che Gesù Cristo .... è il mio Signore che mi ha salvato .... affinché io sia suo proprio .... e lo serva nell’eterna giustizia, innocenza e beatitudine”.
Dunque la fede ora conferisce soprattutto la certezza della propria salvezza. La certezza personale della salvezza è il centro decisivo della fede. Senza di esso non ci sarebbe salvezza. In tal modo la coordinazione delle cosiddette tre virtù teologiche – fede, speranza, carità – nel cui nodo si può vedere una formula di esistenza cristiana, viene essenzialmente alterata: certezza di fede e certezza di speranza, finora diverse per essenza, ora si identificano. Per il cattolico la certezza di fede si riferisce a ciò che Dio ha fatto e che la Chiesa ci testimonia; la certezza di speranza si riferisce alla salvezza delle singole persone e dunque del proprio io. Per Lutero è invece precisamente quest’ultima cosa il vero punto sorgivo senza il quale tutto il resto non vale. Perciò la carità, che forma secondo il cattolico l’intima forma della fede, viene del tutto separata dal concetto di fede fino alla formulazione polemica del grande commento alla lettera ai Galati: maledicta caritas. Il sola fides, su cui Lutero ha tanto insistito, vuol dire esattamente e propriamente quest’esclusione della carità, o amore, dalla questione della salvezza. La carità appartiene al campo delle “opere” e diventa in tal modo “profana”.

Il cristianesimo altro non è che un costante esercizio su questo punto dottrinale, cioè nel sentire che tu non hai nessun peccato, anche se hai peccato; che i tuoi peccati stanno invece appesi a Cristo” (Lutero, WA25,331,7). Questo “personalismo” e questa “dialettica” hanno cambiato, insieme con l’antropologia e, in misura più o meno grande, anche la restante struttura della dottrina. Giacché questo principio-base significa che la fede nella visuale di Lutero non è più, come per il cattolico, per la sua essenza un concredere assieme a tutta la Chiesa; in ogni caso la Chiesa, secondo Lutero, non può assumere ne’ una garanzia di certezza per la salvezza personale, ne’ può decidere quanto ai contenuti della fede in maniera vincolante e definitiva. Per il cattolico la Chiesa è invece contenuta nel principio più interno dello stesso atto di fede. Solo nel credere insieme con la Chiesa io ho parte a quella certezza su cui può reggersi la mia vita. Ne segue che per la visione cattolica Scrittura e Chiesa sono indivisibili, mentre in Lutero la Scrittura diventa una misura indipendente sulla stessa Chiesa e tradizione.

L’unità della Scrittura, letta finora come unità di gradini storico-salvifici, come l’unità di analogia, viene ora dissolta per mezzo della dialettica Legge e Vangelo. Questa dialettica assume tutta la sua forza per il motivo che, dei due concetti complementari dell’evangelium – quello dei “vangeli” e quello delle lettere di Paolo – viene accettato solo quest’ultimo che viene poi radicalizzato nel senso della sola fides sopradescritta.

Secondo la mia opinione il termine “base” non è applicabile, nel modo indicato alla Chiesa. Il discorso della “base” ha per sua premessa una concezione filosofica e sociale, secondo cui nella struttura della società si contrappongono un “sopra” e un “sotto”, dove il “sopra” definisce il potere stabilito e predatorio, mentre il “sotto”, la base, intende le forze realmente portanti. Solo l’imporsi di queste forze è in grado di realizzare un progresso. Quando si parla di ecumene di base, vibra in chi parla l’emozione di queste ideologie.

Il Concilio Vaticano II sullo sviluppo della fede della Chiesa dice: “La comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse cresce con la riflessione dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali e con la predicazione di coloro i quali nella successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”. Vengono dunque presentati due fattori principali del progresso nella Chiesa: riflessione e studio delle parole sacre; intelligenza in base all’esperienza spirituale; predicazione dottrinale dei vescovi. In tal senso non esiste nella tradizione cristiana una monopolizzazione del ministero episcopale, in cose della dottrina e della fede, come invece spesso si afferma. Se si parla di “intelligenza in base all’esperienza spirituale”, viene assunto tutto il contributo della vita cristiana e in tal modo anche riconosciuto il contributo particolare della “base”, cioè delle comunità di credenti come “luogo teologico”. D’altra parte è chiaro che i tre fattori si appartengono: un’esperienza senza riflessione è cieca; uno studio senza esperienza è vuoto; una predicazione episcopale senza un fondo di base delle due cose appena dette è inefficace. Tutt’e tre insieme formano la vita della Chiesa, dove col mutare dei tempi può prendere maggior rilievo ora il primo, ora l’altro elemento, ma nessuno dei tre può mancare del tutto.

Anche e proprio il Vaticano II dice precisamente che l’unica Chiesa di Cristo “è realizzata” (subsistit) “nella Chiesa cattolica, che viene guidata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”. Questo “è realizzata” sostituisce come è noto il precedente “è” (la sola Chiesa “è” quella cattolica), perché anche fuori della Chiesa cattolica ci sono molti veri cristiani e c’è molto di veramente cristiano. Ma quest’ultimo riconoscimento, che forma la base dell’ecumenismo cattolico, non significa che d’ora in poi il cattolico debba concepire la “vera Chiesa” ancora come un’utopia, che verrà alla fine dei tempi. La vera Chiesa è realtà, realtà esistente, anche adesso, senza che si debba negare ad altri di essere cristiani o contestare alle loro comunità un carattere ecclesiale.

Gli scopi intermedi saranno diversi secondo i progressi fatti dai singoli dialoghi. La testimonianza della carità (opere caritative e sociali) dovrebbe essere compiuta per principio sempre insieme, o per lo meno dovremmo accordarci al riguardo a vicenda, quando organizzazioni distinte appaiono più efficaci per motivi tecnici. Allo stesso modo bisognerebbe sforzarsi di rendere insieme testimonianza quanto alle grandi questioni morali. E infine si dovrebbe realizzare una fondamentale testimonianza comune della fede davanti a un mondo sconvolto da dubbi e paure, e quanto più ampiamente tanto meglio. Ma se ciò può accadere solo in misura minima, bisognerebbe egualmente dire insieme quanto è possibile dire. Tutto ciò dovrebbe anche far sì che la comune esistenza cristiana venga internamente sempre più riconosciuta e amata nonostante le divisioni; che la divisione non sia più una ragione di opposizione, bensì una sfida in direzione di una comprensione e accettazione vicendevole dell’altro, il che significa di più che semplicemente tolleranza: significa un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. Forse in questo atteggiamento, che non perde di vista l’ultima meta, ma ogni volta mira alla meta prossima, si potrà realizzare una maturazione più profonda, in ordine all’intera unità, che non con una accelerazione unionistica che rimane superficiale e che agisce in modo fittizio.
(da Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.99-118)

A conti fatti io mi sono dichiarato fortemente contrario a forme di riunificazione superficiali e affrettate ed avevo argomentato dicendo che la divisione non può più essere un’opposizione, ma che deve diventare il postulato di una comprensione reciproca, che è di più che non solo tolleranza: un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. In questo contesto avevo parlato anche di una indistruttibile unità già data.

Vorrei sollevare la questione se una personalizzazione così estrema dell’atto di fede corrisponda realmente alla totalità delle acquisizioni della Riforma; se questo totale rinvio della parola e del sacramento, e così anche della chiesa e del suo ministero spirituale, alla dimensione unicamente umana sia veramente la sua ultima parola. La teologia cattolica sa di trovarsi su solido terreno biblico quando non riferisce esclusivamente al singolo e alla sua coscienza l’azione illuminativa e salutare di Dio, ma sa che Dio agisce proprio anche mediante il Corpo di Cristo. Nulla ci autorizza, secondo la mia convinzione, a rinviare tutto il comunitario nell’unicamente umano e a limitare l’azione propria di Dio unicamente a un intimo contatto di Dio percepito dal singolo eletto. Anzi, del tutto al contrario: l’agire di Dio è sempre un agire divino umano, dunque un agire mediato da un altro uomo (il Dio-uomo Gesù Cristo e la sua corporeità). La sua azione consiste precisamente nel fatto che, nell’incontro con Gesù Cristo, vale il detto paolino “io, ma non più io” (Gal 2,20). L’“ubi et quando visum est Deo” non è più dopo Cristo un ignoto chisadove o chissacome, ma si chiama Cristo, e noi non possiamo voler essere più divini di Dio se egli ha legato in tal modo la sua disponibilità al Corpo di Gesù Cristo. Perciò questo ”ubi et quando visum est Deo” opera per prima cosa quanto segue: che l’uomo viene come estratto dal suo io limitato e riceve un nuovo io, una nuova soggettività, nella comunione con Colui che ha patito per noi e per noi è morto e risorto (mistero della sostituzione vicaria!). Così ogni fede cristiana è sapere unitamente con Lui. L’illuminazione consiste appunto nel fatto che io non sono più solo insieme con un Dio lontano, ma con-vivendo nel Corpo di Cristo attingo io stesso il fondo di ogni realtà, perché è diventato il mio proprio fondamento vitale. L’illuminazione è a un tempo salvezza; poiché mi trasforma, io vedo ora in modo nuovo. Ed essa mi trasforma con il restituirmi il mio io nel noi della comunione dei santi.

La fede, ho detto, è essenzialmente una con-fede insieme con la chiesa come nuovo io più grande. L’“io” dell’“io credo” non è il mio io vecchio, in sé chiuso; è l’io dell’anima ecclesiastica, cioè l’io dell’uomo in cui si esprime tutta la comunità della Chiesa in cui lui vive, che in lui vive e di cui vive. Ma ciò significa anche che l’autorità nella Chiesa non è quella di un capo assoluto e neppure quella di un’autorità democratica. Per essa vale la stessa cosa che per ogni singolo: solo in quanto di fatto riflette la totalità della vera Chiesa, essa è autorità.

(K.Rahner) pensa che “pur riconoscendo una differenza non irrilevante della vita comunitaria nelle comunità cattoliche ed evangeliche in rapporto alla guida delle chiese, tuttavia di fatto anche nelle chiese evangeliche è solitamente presente nelle comunità medie una disponibilità verso l’autorità della chiesa quale è in uso nelle chiese cattoliche”, e che conseguentemente “il pericolo di una ribellione “dal basso” contro le risoluzioni di unione dei capi non si dovrebbe sopravvalutare, se i portatori di questa autorità... si sforzano con sufficiente zelo di ottenere una comprensione per la scelta fatta da parte dei membri delle chiese”.
Io trovo in ogni caso questa posizione inaccettabile. Contro di essa deve protestare non solo un teologo protestante; ma neppure un teologo cristiano la può approvare. Riflette il malinteso illuministico sulla gerarchia, che manipola in modo illecito le coscienze e minaccia chiaramente la tenuta interna della chiesa cattolica. Gerarchia – qui bisogna ricordarlo – non significa sacro dominio, ma sacra origine. Un servizio gerarchico è perciò la custodia di un’origine, che è sacra, non disposizione e decisione autonome. Il ministero ecclesiale e il magistero in genere nella chiesa non è quindi una “guida” nel senso del dominatore illuministico, che si sa in possesso della ragione migliore, la traduce in ordini e conta al riguardo sull’obbedienza dei sudditi, i quali devono accettare la sua ragione e le sue decisioni come una misura voluta per essi da Dio. Il ministero gerarchico non corrisponde neppure a un’istanza democratica, in cui i singoli delegano la loro volontà a dei rappresentanti e si dichiarano in tal modo d’accordo che la volontà della maggioranza deve essere legge. Questa delega e vincolo della volontà di maggioranza non è totalmente senza problemi neppure in campo politico, come si vede nel desiderio crescente di democrazia di base. Ad ogni modo esistono limiti nella delegabilità. Nessun deputato può votare contro la propria coscienza e su certi valori fondamentali della società non si può decidere per via di votazione. Ma nella chiesa, dove c’è davvero chiesa e non un corpo amministrativo, si tratta proprio di quei beni fondamentali che sono sottratti alle nostre votazioni, perché ne rappresentano la direttiva che non è da noi inventata. Per questo motivo l’idea di un concilio delle religioni è una proposta assurda. Chi potrebbe conferire agli eventuali delegati il potere di decidere sulle coscienze dei loro fedeli, o addirittura sulle coscienze di tutti gli uomini in qualche modo religiosi della terra?
Che debbano insorgere simili incongruenze dipende dal fatto (lo dobbiamo riconoscere con vergogna) che anche da noi si è imposta largamente un’idea del potere e del dominio della Chiesa, costruita su modello illuministico, e un’idea del tutto corrispondente del concilio. Ma un concilio non è un parlamento che fa delle leggi alle quali poi le “comunità” si devono adeguare. E’ un luogo di testimonianza. Certo si fonda, per un certo aspetto, sull’idea di rappresentanza. Ma questa rappresentanza non si fonda su una delega delle volontà, bensì sul sacramento. Aver ricevuto il “sacramento dell’ordine” significa: rappresentare la fede di tutta la Chiesa, la “santa origine”; significa essere testimoni della fede della Chiesa. E’ una forma, fondata sulla fede, della vocazione alla “sostituzione vicaria” (Stellvertretung). Dato, però, che questa vicarietà è sacramentale, essa può rappresentare unicamente ciò che è Chiesa, e non operare ciò che essa dovrebbe diventare secondo l’opinione di questi o di quelli (o del rappresentante stesso). Un sacramento è per sua essenza eliminazione dell’arbitrio, del far da sé. Stare nel sacramento significa: vivere dalla radice dell’io nuovo, di cui si è detto poco sopra, e così parlare veramente nel senso della totalità (non nel senso di un’opinione media). Praticamente significa: le affermazioni di fede, che vengono “decise” al concilio, non sono “decisioni” nel senso corrente. L’accordo morale, che per esse è necessario, è per la Chiesa il segno che così si è affermata la fede comune della Chiesa. Non creano qualcosa, ma danno espressione a ciò che già è nella Chiesa del Signore, e lo rendono pubblicamente vincolante in quanto espressione dell’anima ecclesiastica.
Esiste dunque la sola fede della Chiesa in cui e per cui i credenti si riconoscono come membri di essa. Ed esiste perciò un diritto e un dovere della Chiesa di dire chi è colui che non condivide questa fede e che dunque non appartiene ad essa. Ma tutto questo è qualcosa di molto diverso da una decisone di alcuni capi, che dichiarano qualcosa di vero e obbligano gli altri ad accettarlo o almeno a non opporvisi. Bisogna riconoscere che la questione del rapporto intrinseco tra io e noi, tra evidenza di coscienza ed evidenza comune dell’unica fede, che noi possiamo accogliere solamente nella comunione di fede, è lungi dall’essere risolta con chiarezza.

Anche Caietano ha cercato di interpretare il problema dell’esistenza cristiana a partire da questo testo (di Gal2,20). Dall’indissolubile comunione del cristiano con Cristo, descritta in Gal 2,20, “segue che io posso dire in tutta verità: ”Io agisco meritando, ma non io bensì il Cristo opera il merito in me” …. In questo modo il merito della vita eterna viene attribuito non tanto alle nostre opere, quanto piuttosto alle opere di Cristo, del Capo, in noi e attraverso di noi”.

Se le cose stanno così, se nella nebbia generale nessuno vede l’altro e nessuno vede la verità, allora si è in ogni caso verificata la “tolleranza teoretico-conoscitiva”, il fatto cioè che nessuno è in contraddizione con l’altro. Nell’oscurità delle “tendenze alla differenziazione” della nostra cultura resta ancora chiaramente visibile il comandamento di unità di Cristo, il quale comandamento diventa allora, in fondo, l’unico contenuto in qualche modo chiaro. Le “autorità” esistono per dar corso a quest’unità e, dal momento che evidentemente nessuno può giudicare il proprio pensiero, tanto meno quello altrui, non dovrebbe essere proprio difficile un’obbedienza di fronte a questo comandamento.
Ma quale unità è allora un’unità come questa? Un’unità formale senza contenuti chiari non è in fondo nessuna unità, e una semplice congiunzione delle istituzioni non è, in se stessa, un valore. Una unità così concepita è fondata sullo scetticismo comune, non sulla conoscenza comune. Si fonda sulla capitolazione di fronte alla possibilità di avvicinarsi nella verità. E’ fuor di dubbio che una parte non piccola di cristiani d’oggi la pensa così e che una parte dei superiori ecclesiastici opera su questa base. Ma è altrettanto evidente che in questo modo noi non camminiamo verso l’unità. Io vorrei a questo punto riformulare la domanda circa l’autorità nella Chiesa. Un’autorità che serve alla verità, come dovrebbe essere un’autorità nella Chiesa fondata sul sacramento, è un’autorità di obbedienza. Un’autorità fondata sullo scetticismo è un’autorità autonoma. E non si deve forse dire che, spesso, proprio coloro che, dopo il Concilio, si pensano come le punte del progresso, in tutta la loro critica dell’obbedienza presuppongono e impongono come ovvia l’obbedienza dei fedeli, per poter fare della Chiesa ciò che ad essi sembra utile?

Nella divisione, non solo rispettarsi ma amarsi, nella convinzione che noi siamo a vicenda necessari anche nella divisione, che riceviamo l’uno dall’altro, viviamo uno per l’altro, siamo cristiani l’uno insieme con l’altro. La divisione – fino a che il Signore la permette – può essere anche feconda, può portare a una ricchezza maggiore della fede e in tal modo preparare l’una-molteplice Chiesa, che noi non ci sappiamo ancora immaginare, ma nella quale nulla sarà perduto di ciò che di positivo è cresciuto nella storia, dappertutto nel mondo. Forse abbiamo bisogno di separazioni per arrivare a tutta la pienezza che il Signore aspetta.
(da Appendice a Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.119-130)

10. In effetti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese particolari; per esempio i patriarcati o province metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro, quando l'espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.

11. Si può anche parlare in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come ricordato più sopra, non si può affermare correttamente che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese. Non è semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto una questione di rispetto di una verità fondamentale della fede cattolica: quella dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, c'è un'unica Chiesa, e perciò il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle Chiese particolari.

Di conseguenza, si deve evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di confusione teologica, l'uso di formulazioni quali "le nostre due Chiese" che, se applicate alla Chiesa cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma anche a livello dell'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene in questo modo oscurata.
Infine, si deve anche tenere in mente che l'espressione Chiese sorelle in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato ed un'eucaristia validi.
(Nota sull'espressione "chiese sorelle", 30 giugno 2000, preceduta dallalettera ai presidenti delle Conferenze episcopali: La Chiesa cattolica è "madre", non "sorella")

Ormai la parte evangelica considera la definizione "comunità ecclesiale" un'offesa. Le dure reazioni al suo documento ne sono una chiara dimostrazione.
La pretesa dei nostri amici luterani mi sembra francamente assurda, cioè che noi consideriamo queste strutture sorte da casualità storiche come Chiesa nello stesso modo in cui crediamo Chiesa la Chiesa cattolica, fondata sulla successione degli apostoli nell'Episcopato. Sarebbe più giusto che i nostri amici evangelici ci dicessero che per loro la Chiesa è qualcosa di diverso, una realtà più dinamica e non così istituzionalizzata, neanche nella successione apostolica. La questione allora non è se le Chiese esistenti siano Chiesa tutte allo stesso modo, cosa che evidentemente non è, ma in che cosa consista o non consista la Chiesa. In questo senso non offendiamo nessuno dicendo che le strutture evangeliche effettive non sono Chiesa nel senso in cui quella cattolica vuole esserlo. Esse stesse non desiderano esserlo.

Questa questione è stata affrontata dal Concilio Vaticano II?
Il Concilio Vaticano II ha cercato di accogliere questo diverso modo di determinare il luogo della Chiesa, affermando che le Chiese evangeliche effettive non sono Chiese nello stesso modo in cui ritiene di esserlo quella cattolica, ma in esse esistono "elementi dì salvezza e verità". Può darsi che il termine "elementi" non sia il migliore. In ogni caso il suo senso fu di indicare una visione ecclesiologica, per la quale la Chiesa non esiste in strutture, ma nell'avvenimento della predicazione e dell'amministrazione dei sacramenti. Il modo in cui lo scontro viene condotto ora è senz'altro errato. Vorrei che non ci fosse bisogno di precisare che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla.

Invece Eberhard Jüngel vi vede qualcosa di diverso. Il fatto che a suo tempo il Concilio Vaticano II non avrebbe affermato che l'unica e sola Chiesa di Cristo è esclusivamente la Chiesa romana cattolica suscita in Jüngel delle perplessità. Nella Costituzione "Lumen gentium" si dice soltanto che la Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica governata dal Successore di Pietro e dai, Vescovi in comunione con lui", non esprimendo con la parola latina "subsistit" alcuna esclusività.
Purtroppo ancora una volta non riesco a seguire il ragionamento dello stimato collega Jüngel. Io ero presente quando durante il Concilio Vaticano II venne scelta l'espressione "subsistit" e posso dire di conoscerla bene. Purtroppo in un'intervista non si può scendere nei dettagli. Pio XII nella sua Enciclica aveva detto: la Chiesa cattolica romana "è" l'unica Chiesa di Gesù Cristo. Ciò parve esprimere una identità totale, per la quale al di fuori della comunità cattolica non c'era Chiesa. Tuttavia non è così: secondo la dottrina cattolica, condivisa ovviamente anche da Pio XII, le Chiese locali della Chiesa orientale separata da Roma sono autentiche Chiese locali, le comunità scaturite dalla Riforma sono costituite diversamente, come ho appena detto. In esse la Chiesa esiste nel momento in cui si verifica l'evento.

Ma allora non si dovrebbe dire: non esiste un'unica Chiesa. Essa si è disgregata in numerosi frammenti?
In effetti, molti contemporanei la considerano così. Esisterebbero solo frammenti ecclesiali e bisognerebbe cercare il meglio dei diversi pezzi. Ma se fosse così si consacrerebbe il soggettivismo: allora ognuno dovrebbe comporsi il proprio cristianesimo e alla fine risulterebbe determinante il gusto personale.

Forse è proprio la libertà che spetta al cristiano a far interpretare un tale "patchwork" anche come soggettivismo o individualismo.
La Chiesa cattolica, come quella ortodossa, è convinta che una definizione del genere sia inconciliabile con la promessa di Cristo e con la fedeltà a Lui. La Chiesa di Cristo esiste veramente e non a brandelli. Essa non è un'utopia irraggiungibile, ma una realtà concreta. Il "subsistit" intende proprio questo: il Signore garantisce l'esistenza della Chiesa contro tutti i nostri errori e i nostri peccati, che senza dubbio e in maniera palese sono presenti in essa. Con il "subsistit" si è voluto dire anche che, sebbene il Signore mantenga la sua promessa, esiste una realtà ecclesiale anche al di fuori della comunità cattolica ed è proprio questa contraddizione la più forte sollecitazione a perseguire l'unità. Se il Concilio avesse voluto dire semplicemente che la Chiesa di Gesù Cristo è anche nella Chiesa cattolica, avrebbe detto una banalità. Il Concilio sarebbe entrato in netta contraddizione con tutta la storia di fede della Chiesa, il che non sarebbe venuto in mente a nessun Padre conciliare.

Le argomentazioni di Jüngel sono di carattere filologico e in questo senso egli ritiene che l'interpretazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lei ha appena esposto, sia "fuorviante". Infatti secondo la terminologia della Vecchia Chiesa "sussiste" anche l'unico essere divino e non in una sola Persona, ma in tre Persone. La domanda che sorge da questa riflessione è la seguente: se dunque Dio stesso "sussiste" nella differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo e tuttavia non si separa da se stesso, creando così tre reciproche alterità, perché ciò non dovrebbe valere anche per la Chiesa che rappresenta il "mysterium trinitatis" nel mondo?
Mi rattrista dovermi opporre ancora una volta a Jüngel. Prima di tutto bisogna osservare che la Chiesa d'Occidente nella traduzione della formula trinitaria in latino non ha accolto direttamente la formula orientale, nella quale Dio è un essere in tre ipostasi ("sussistenze"), ma ha tradotto la parola ipostasi con il termine "persona" perché in latino la parola sussistenza come tale non esisteva e quindi non sarebbe adeguata per esprimere l'unità e la differenza fra Padre, Figlio e Spirito Santo. Ma soprattutto sono molto determinato a lottare contro questa tendenza sempre più diffusa a trasferire il mistero trinitario direttamente alla Chiesa. Non va bene. Così finiremo per credere in tre divinità.

Insomma, perché non si può paragonare "l'alterità" del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con la diversità delle comunità ecclesiali? Quella di Jüngel non è forse una formula affascinante e piena di armonia?
Fra le comunità ecclesiali esistono molti contrasti e che contrasti! Le tre "Persone" costituiscono un solo Dio in un'unità autentica e somma. Quando i Padri conciliari sostituirono la parola "è" con la parola "subsistit" lo fecero con uno scopo ben preciso. Il concetto espresso da "è" (essere) è più ampio di quello espresso da "sussistere". "Sussistere" è un modo ben preciso di essere, ossia essere come soggetto che esiste in sé. I Padri conciliari dunque intendevano dire che l'essere della Chiesa in quanto tale è un'entità più ampia della Chiesa cattolica romana, ma in quest'ultima acquista, in maniera incomparabile, il carattere di soggetto vero e proprio.

Facciamo un passo indietro. Colpisce la curiosa semantica a volte presente nei documenti ecclesiali. Lei stesso ha evidenziato che l'espressione "elementi di Verità", che è centrale nello scontro attuale, non è proprio felice. L'espressione elementi di verità non tradisce forse una sorta di concetto chimico di verità? La verità come sistema periodico degli elementi? Ossia: l'idea di poter separare mediante teoremi la verità dalla falsità o dalla verità parziale, non ha un che di prepotente, dal momento che certi teoremi pretendono di ridurre la complessa realtà di Dio a un modello disegnato con il compasso?
La costituzione ecclesiale del Concilio Vaticano II parla di "parecchi elementi di santificazione e di verità", che si trovano al di fuori dell'organismo visibile della Chiesa (I n. 8); il decreto sull'ecumenismo elenca alcuni di questi elementi: "La parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili" (I n. 3). Forse esiste un termine migliore di "elementi", ma il significato reale è chiaro: la vita della fede, al servizio della quale è la Chiesa, è una struttura molteplice e vi si possono distinguere diversi elementi che sono all'interno o anche all'esterno di essa.

Ciononostante, non deve forse sorprendere che si voglia rendere intelligibile mediante teoremi un fenomeno che si sottrae alla verificabilità empirica come quello della fede religiosa?
Per quanto riguarda la fede e il suo essere comprensibile attraverso teoremi, si travisa il Dogma se lo si considera una raccolta di teoremi: il contenuto della fede si esprime nella sua professione, che trova il suo momento privilegiato nell'amministrazione del Sacramento del Battesimo, e che dunque è parte di un processo esistenziale. E' l'espressione di un nuovo orientamento dell'esistenza che però non ci offriamo da soli, ma che riceviamo in dono. Questo nuovo orientamento dell'esistenza significa al contempo uscire dal nostro io e dal nostro individualismo ed entrare in quella comunità di fedeli che si chiama Chiesa. Il punto focale della formula del Battesimo è il riconoscimento del Dio trinitario. Tutti i dogmi successivi non sono altro che precisazioni di questa professione e fanno in modo che il suo orientamento di fondo, il dono di sé al Dio vivente, resti inalterato. Solo quando si interpreta il dogma in questo modo, lo si comprende in maniera giusta.

Ciò significa che da questa prospettiva spirituale non si giunge più così al contenuto della fede?
No, la fede cristiana ha una sua certezza contenutistica. Non è un'immersione in una dimensione mistico - inesprimibile, nella quale non si arriva mai ai contenuti. Il Dio, nel quale il cristiano crede, ci ha mostrato il suo volto e il suo cuore in Gesù Cristo: si è rivelato a noi. Come ha detto san Paolo, questa concretezza di Dio era già uno scandalo per i Greci e naturalmente lo è ancora oggi. Questo è inevitabile.

Allora, dopo la pubblicazione del suo Documento la formula ecumenica della "Diversità riconciliata" è ancora valida?
Accetto il concetto di "diversità riconciliata", se con esso non si intende uguaglianza di contenuti ed eliminazione della questione della verità al fine di considerarci una cosa sola, anche se crediamo in cose diverse e le insegniamo. Secondo me questo concetto è utilizzato bene se afferma che noi, nonostante i contrasti che non ci permettono di considerarci meri frammenti di una Chiesa di Gesù Cristo che in realtà non esisterebbe, ci incontriamo nella pace di Cristo riconciliati l'uno con l'altro, ossia quando riconosciamo la nostra divisione come contraddizione alla volontà del Signore e il dolore ci spinge a cercare l'unità e implorare il Signore sapendo che abbiamo tutti bisogno del suo amore.

Occasionalmente si leggono passaggi del Papa e anche suoi che relativizzano la divisione della Cristianità in una trattazione della storia della salvezza dialettica. Il Papa allora parla di "cause metastoriche" della divisione e nel suo libro "Varcare la soglia della speranza" si chiede: "Non potrebbe essere, dunque, che le divisioni siano state anche una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente". Così la divisione dei cristiani sembra un compito didattico dello Spirito Santo, poiché, come dice il Papa, per la conoscenza e l'azione umane è significativa anche una "certa dialettica". Lei stesso scrive: "Anche se le divisioni sono opere umane e colpe umane, esiste in esse una dimensione propria della compagine divina". Se le cose stanno così, ci si chiede con quale diritto si contrasta la didattica divina identificando la Chiesa di Cristo con la Chiesa romana cattolica. Le indeterminatezze concettuali che si deplorano nel dialogo ecumenico non esistono anche nelle speculazioni della storia della salvezza sulla didattica di Dio?
Questo è un argomento difficile che riguarda la libertà umana e il governo divino. Non esistono risposte valide in maniera assoluta perché noi non oltrepassiamo il nostro orizzonte umano e quindi non possiamo svelare il mistero che lega questi due elementi. Ciò che lei ha citato del Santo Padre e di me, si potrebbe applicare grossolanamente alla nota formula secondo la quale Dio scrive anche con righe storte. Le righe restano storte e ciò significa che le divisioni hanno a che fare con la colpa umana. La colpa non diventa qualcosa di positivo per il fatto che da essa può derivare un processo di maturazione quando la si interpreta come qualcosa che si può superare con la conversione e eliminare con il perdono.
Già Paolo aveva dovuto spiegare ai Romani l'equivoco scaturito dal suo insegnamento sulla grazia, secondo il quale dal momento che il peccato produce grazia, allora nel peccato si può stare tranquilli (Rm 6, 19). Il fatto che Dio possa trasformare in bene anche i nostri peccati non significa certo che il peccato sia una cosa buona. E il fatto che Dio possa trarre frutti positivi dalla divisione, non la trasforma in una cosa di per sé positiva. Le indeterminatezze concettuali che di fatto esistono sono dovute all'inquietante insondabilità del rapporto fra la libertà di peccare e la libertà della grazia. La libertà della grazia si mostra anche nel fatto che da una parte la Chiesa non affonda e non si disgrega in frammenti ecclesiali antitetici all'interno di un sogno irrealizzabile. Il soggetto Chiesa per la grazia di Dio esiste e sussiste realmente nella Chiesa cattolica; la promessa di Cristo è la garanzia che questo soggetto non sarà mai distrutto. Ma dall'altra parte è vero che questo soggetto è ferito, in quanto realtà ecclesiali esistono ed operano al di fuori di esso. In ciò si delinea al massimo il dramma della colpa e l'ampiezza paradossale della promessa di Dio. Se si rimuove questa tensione, per addivenire a formule chiare e si afferma che tutte le comunità ecclesiali sono Chiesa e tutte sono pur con i loro contrasti quella Chiesa una e santa, l'ecumenismo viene meno perché non esiste più alcun motivo per ricercare l'unità autentica.

La stessa questione si ripropone sotto un altro aspetto: se la questione della professione religiosa sia in rapporto con quella della salvezza personale. Perché missione, perché lo scontro sulla "verità" e documenti vaticani, se l'uomo alla fine può giungere a Dio attraverso tutte le vie?
Il Documento non riprende assolutamente la tesi soggettivistica e relativistica, secondo la quale ognuno può divenire santo a suo modo. Questa è un'interpretazione cinica, nella quale io percepisco disprezzo per la questione della verità e della giusta etica. Il Documento afferma con il Concilio che Dio dona luce ad ognuno. Chi cerca la verità si trova obiettivamente sulla via che porta a Cristo e con ciò anche sulla via verso la comunità, nella quale egli rimane presente alla storia, cioè alla Chiesa. Cercare la verità, ascoltare la coscienza, purificare il proprio ascolto interiore, queste sono condizioni di salvezza per tutti. In esse esiste un legame intimo e obiettivo con Cristo e con la Chiesa. In questo senso si dice allora che nelle religioni esistono riti e preghiere, che possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ma si dice anche che ciò non vale per tutti i riti. Ne esistono infatti alcuni (chiunque conosce un po' di Storia delle Religioni non può che essere d'accordo), che allontanano l'uomo dalla luce. Così la vigilanza e la purificazione interiori si ottengono mediante una vita che segue la coscienza, che aiuta a individuare le differenze, un'apertura che alla fine significa appartenenza interiore a Cristo.
Per questo il Documento può affermare che la missione resta importante in quanto offre quella luce di cui gli uomini hanno bisogno nella loro ricerca della verità e del bene.

Ma la domanda resta: se la salvezza, purché, come lei ha detto, si viva ascoltando la propria coscienza, si può ottenere mediante tutte le vie, allora la missione non perde urgenza teologica? Infatti, la tesi del "collegamento intimo e obiettivo" di vie di salvezza non cattoliche con Cristo cos'altro significa se non che Cristo stesso rende superflua la distinzione fra verità di salvezza "piena" e "deficitaria", dal momento che Egli, se è presente come strumento di salvezza, lo è sempre e logicamente in modo "pieno"?
Io non ho detto che la salvezza si può ottenere mediante tutte le vie. La via della coscienza, il tenere lo sguardo fisso sulla verità e sul bene obiettivo, è una strada unica, anche se assume molte forme a motivo del gran numero di persone e di situazioni. Tuttavia il bene è uno e la verità non si contraddice. Il fatto che l'uomo non raggiunga l'uno o l'altra, non relativizza l'esigenza di verità e di bene. Per questo non è sufficiente persistere nella religione ereditata, ma è necessario rimanere attenti al vero bene e così essere capaci anche di superare i confini della propria religione. Ciò ha un senso soltanto se esistono veramente la verità e il bene. Non si potrebbe essere sulla via di Cristo se egli non esistesse. Vivere con gli occhi del cuore aperti, purificarsi interiormente, cercare la luce sono condizioni indispensabili per la salvezza dell'uomo. Annunciare la verità, ossia lasciar risplendere la luce ("non sotto il moggio, ma sul candelabro") è assolutamente necessario.

A irritare il protestante non è il concetto di Chiesa, ma l'interpretazione biblica di "Dominus Iesus", in cui si afferma che "bisogna opporsi alla tendenza a leggere e ad interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione dal Magistero della Chiesa" e a "presupposti che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata". Dice Jüngel: "La rivalutazione inopportuna dell'autorìtà del Magistero ecclesiale corrisponde a una svalutazione altrettanto inopportuna dell'Autorità delle Sacre Scritture".
Forte di 500 anni di esperienza, l'esegesi moderna ha riconosciuto chiaramente, insieme alla moderna letteratura e filosofia del linguaggio, che la semplice autointerpretazione delle Scritture e la chiarezza che ne deriva semplicemente non esistono. Nel 1928, Adolf von Harnack, nel suo carteggio con Erik Peterson, dichiarò con la sua tipica crudezza che: "Il cosiddetto "principio formale" del vecchio luteranesimo è una impossibilità critica e che al contrario quello cattolico è il migliore". Ernst Käsernann ha dimostrato che il canone delle Sacre Scritture in quanto tale non fonda l'unità della Chiesa, ma la molteplicità delle confessioni. Di recente uno degli esegeti evangelici più importanti, Ulrich Luz, ha mostrato che la "Scrittura da sola" dà adito a tutte le possibili interpretazioni. Infine, anche nella prima generazione della Riforma si dovette cercare "il centro della Scrittura" per ottenere una chiave di interpretazione che non si riusciva a estrapolare dal testo in quanto tale. Ancora un esempio pratico: nello scontro con Gerd Lüdemann, un professore che negava la risurrezione di Cristo, la sua divinità ecc., si è evidenziato che anche la Chiesa evangelica non può fare a meno di una sorta di Magistero. Nello sfumare dei contorni della fede in un coro di sforzi esegetici antitetici (esegesi materialista, femminista, liberazionista, ecc.) appare evidente che proprio il rapporto con le professioni di fede, quindi con la tradizione viva della Chiesa, garantisce l'interpretazione letterale delle Sacre Scritture, proteggendole dal soggettivismo e conservandone l'originarietà e l'autenticità. Perciò il Magistero non sminuisce l'autorità delle Sacre Scritture, ma le protegge collocandosi in un posizione inferiore rispetto ad esse e lasciando affiorare la fede che da esse deriva.

Quale criterio decisivo per la definizione di "Chiesa sorella" della Chiesa cattolica romana, la Dichiarazione della sua Congregazione indica l'accettazione della "Successione apostolica". Un protestante come Jüngel rifiuta questo principio come non biblico. Per lui successore degli apostoli non è il Vescovo, ma il Canone biblico. Secondo lui chi vive secondo le Scritture è successore degli apostoli.
L'affermazione che il Canone sarebbe il successore degli apostoli è un'esagerazione e mescola cose troppo diverse fra loro. Il canone della Scrittura è stato trovato dalla Chiesa in un processo che sarebbe durato fino al quinto secolo. Il canone quindi non esiste senza il ministero dei successori degli apostoli, e nello stesso tempo stabilisce il criterio del loro servizio. La parola scritta non sostituisce i testimoni vivi, così come questi ultimi non possono sostituirsi alla parola scritta. Testimoni vivi e parola scritta rimandano l'uno all'altro. Condividiamo la struttura episcopale della Chiesa come modo per essere in comunione con gli Apostoli, con tutta la Chiesa antica e con le Chiese ortodosse e ciò dovrebbe far riflettere. Quando si afferma che chi vive secondo le Scritture è successore degli Apostoli, non si risponde alla seguente domanda: chi decide che cosa significa vivere secondo le Scritture e chi giudica se si viva effettivamente secondo le Scritture? La tesi secondo la quale il Successore degli Apostoli non è il Vescovo, bensì il Canone biblico è un chiaro rifiuto del concetto di Chiesa cattolica. Al contempo però si pretende che noi applichiamo questo stesso concetto per definire le Chiese della riforma. Francamente è una logica che non capisco.
(Intervista al card. J.Ratzinger di Christian Geyer per il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung del 22 settembre 2000, tradotta da L'Osservatore Romano dell'8 ottobre 2000)

Il discernimento necessario verso ogni altra religione: i sì ed i no del cristianesimo

In fondo la fede cristiana ha già da tempo formulato la posizione che assegna a se stessa nella storia delle religioni: essa vede in Cristo l’unica salvezza reale e perciò definitiva dell’uomo. Nei riguardi delle altre religioni, dunque, è possibile un duplice atteggiamento (così sembra): ci si può riferire ad esse come prov-visorie (vor-läufig) e dunque pre-corritrici (vor-läuferisch) rispetto al cristianesimo, valutandole positivamente, in certo senso, nella misura, cioè, in cui si possono inquadrare nell’attitudine del pre-cursore (Vor-läufer). Naturalmente le si può anche concepire come ciò che è insufficiente, contrario a Cristo, contrapposto alla verità, qualcosa che fa credere all’uomo di offrire salvezza senza mai poterla dare. Il primo atteggiamento, nei confronti della fede di Israele, vale a dire della religione dell’Antico Testamento, è tracciato esemplarmente da Cristo stesso. Solo in tempi recenti è stato messo in rilievo chiaramente e insistentemente che questo atteggiamento può aver luogo in certo senso anche nei confronti di tutte le altre religioni. Effettivamente si può dire che il racconto della stipulazione dell’alleanza con Noè (Gn 8,20-9,17) conferma la verità nascosta delle religioni mitiche. Nel ciclico “nascere e morire” del cosmo si compie l’opera del Dio fedele, che è legato da alleanza non solo con Abramo e la sua discendenza, ma con tutti gli uomini. E i Magi non sono forse pervenuti a Cristo (Mt 2,1-23) in virtù della stella, vale a dire tramite la “superstizione”, tramite la loro religione (seppure soltanto mediante la deviazione che passava per Gerusalemme, per gli scritti dell’Antico Testamento)? La loro religione non si è inginocchiata, per così dire, davanti a Cristo, non si è dimostrata tale da pre-correre, anzi da ac-correre a Cristo? In tale contesto sembra quasi un luogo comune citare una volta di più il discorso dell’Areopago (At 12,22-32), tanto più che la reazione degli ascoltatori, con il loro atteggiamento di rifiuto di fronte al messaggio sul Risorto, sembra piuttosto smentire la teologia ottimistica di questo discorso. Palesemente la religione delle persone lì lusingate non converge verso Gesù di Nazareth. L’opposizione, alla quale essa invece spinge, richiama così alla memoria l’altro aspetto – che è senz’altro molto più evidente – della concezione biblica delle religioni “delle genti”, presente fin dall’inizio nella linea profetica: quella dura critica agli idoli bugiardi che spesso, nella sua inesorabilità, quasi non si distingue dal piatto razionalismo dell’illuminista (cfr., per esempio Is 44,6-20).

La teologia del nostro tempo, come s’è detto, ha messo in luce specialmente l’aspetto positivo e, ciò facendo, ha chiarito soprattutto l’estensione del concetto di provvisorietà: anche secoli “dopo Cristo”, cronologicamente parlando, si può vivere ancora nella storia “avanti Cristo”, legittimamente dunque nel regime prov-visorio. In sintesi, perciò, possiamo dire che il cristianesimo, secondo la sua autocomprensione, sta al tempo stesso in un rapporto di “sì” e di “no” rispetto alle religioni. Sa, da una parte, che, se si tiene presente l’alleanza, è ad esse congiunto; vive nella convinzione che, come la storia e il suo mysterium, così anche il cosmo e il suo mito parlano di Dio e possono condurre a Lui. Conosce però un altrettanto deciso “no” alle religioni, vede in esse espedienti con cui l’uomo si assicura contro Dio invece di abbandonarsi alla sua pretesa. Nella sua teologia della storia delle religioni il cristianesimo non prende affatto partito per l’uomo religioso, per il conservatore, che si attiene alle regole del gioco delle sue istituzioni ereditarie; il “no” cristiano agli dei significa piuttosto un’opzione in favore del ribelle che per amore della coscienza osa evadere dalle consuetudini. Forse questo tratto rivoluzionario del cristianesimo è stato tenuto coperto troppo a lungo sotto modelli conservatori.

Il concetto di religione che ha l’ “uomo di oggi” (mi si consenta di mantenere questa real-fiction) è statico, di solito egli non contempla la possibilità del passaggio da una religione all’altra, ma si aspetta che ciascuno rimanga nella propria e che la viva nella coscienza che, nel suo nucleo spirituale, essa è senz’altro identica a tutte le altre. Esiste dunque una specie di cosmopolitismo religioso, che non esclude, ma include l’appartenenza a una determinata “provincia religiosa”, che non desidera un cambiamento della “cittadinanza” religiosa tranne che per singoli casi esemplari; in ogni caso solleva una pesante riserva di fronte all’idea di missione, in fondo la rifiuta.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.17-21)

2. Prendendo in considerazione i valori che esse testimoniano ed offrono all'umanità, con un approccio aperto e positivo, la Dichiarazione conciliare sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Proseguendo su questa linea, l'impegno ecclesiale di annunciare Gesù Cristo, «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), si avvale oggi anche della pratica del dialogo interreligioso, che certo non sostituisce, ma accompagna la missio ad gentes, per quel «mistero di unità», dal quale «deriva che tutti gli uomini e tutte le donne che sono salvati partecipano, anche se in modo differente, allo stesso mistero di salvezza in Gesù Cristo per mezzo del suo Spirito». Tale dialogo, che fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, comporta un atteggiamento di comprensione e un rapporto di conoscenza reciproca e di mutuo arricchimento, nell'obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà.

4. Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo.
Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa «incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere»; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa.
In base a tali presupposti, che si presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza. 

5. Per porre rimedio a questa mentalità relativistica, che si sta sempre più diffondendo, occorre ribadire anzitutto il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo. Deve essere, infatti, fermamente creduta l'affermazione che nel mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato, il quale è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), si dà la rivelazione della pienezza della verità divina: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27); «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18); «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza» (Col 2,9 10).
Fedele alla parola di Dio, il Concilio Vaticano II insegna: «La profonda verità, poi, sia su Dio sia sulla salvezza dell'uomo, risplende a noi per mezzo di questa rivelazione nel Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione». E ribadisce: «Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede il Padre (cf. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e manifestazione di Sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e con la gloriosa risurrezione dai morti e, infine, con l'invio dello Spirito di verità compie e completa la rivelazione e la conferma con la testimonianza divina [...]. L'economia cristiana, dunque, in quanto è l'alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non si dovrà attendere alcuna nuova rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cf. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)».
Per questo l'enciclica Redemptoris missio ripropone alla Chiesa il compito di proclamare il Vangelo, come pienezza della verità: «In questa Parola definitiva della sua rivelazione, Dio si è fatto conoscere nel modo più pieno: egli ha detto all'umanità chi è. E questa autorivelazione definitiva di Dio è il motivo fondamentale per cui la Chiesa è per sua natura missionaria. Essa non può non proclamare il vangelo, cioè la pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso». Solo la rivelazione di Gesù Cristo, quindi, «immette nella nostra storia una verità universale e ultima, che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai».

6. È quindi contraria alla fede della Chiesa la tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, che sarebbe complementare a quella presente nelle altre religioni. La ragione di fondo di questa asserzione pretenderebbe di fondarsi sul fatto che la verità su Dio non potrebbe essere colta e manifestata nella sua globalità e completezza da nessuna religione storica, quindi neppure dal cristianesimo e nemmeno da Gesù Cristo.
Questa posizione contraddice radicalmente le precedenti affermazioni di fede, secondo le quali in Gesù Cristo si dà la piena e completa rivelazione del mistero salvifico di Dio. Pertanto, le parole, le opere e l'intero evento storico di Gesù, pur essendo limitati in quanto realtà umane, tuttavia, hanno come soggetto la Persona divina del Verbo incarnato, «vero Dio e vero uomo», e perciò portano in sé la definitività e la completezza della rivelazione delle vie salvifiche di Dio, anche se la profondità del mistero divino in se stesso rimane trascendente e inesauribile. La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato. Per questo la fede esige che si professi che il Verbo fatto carne, in tutto il suo mistero, che va dall'incarnazione alla glorificazione, è la fonte, partecipata, ma reale, e il compimento di ogni rivelazione salvifica di Dio all'umanità, e che lo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, insegnerà agli Apostoli, e, tramite essi, all'intera Chiesa di tutti i tempi, questa «verità tutta intera» (Gv 16,13).
(Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa)

1. Nel vivace dibattito contemporaneo sul rapporto tra il Cristianesimo e le altre religioni, si fa sempre più strada l'idea che tutte le religioni siano per i loro seguaci vie ugualmente valide di salvezza. Si tratta di una persuasione ormai diffusa non solo in ambienti teologici, ma anche in settori sempre più vasti dell'opinione pubblica cattolica e non, specialmente quella più influenzata dall'orientamento culturale oggi prevalente in Occidente, che si può definire, senza timore di essere smentiti, con la parola: relativismo.
La cosiddetta teologia del pluralismo religioso in verità si era già affermata gradualmente fin dagli anni cinquanta del secolo XX, ma soltanto oggi ha assunto un'importanza fondamentale per la coscienza cristiana. Naturalmente le sue configurazioni sono molto diverse e non sarebbe giusto voler omologare tutte le posizioni teologiche che si rifanno alla teologia del pluralismo religioso in uno stesso sistema. La Dichiarazione pertanto non si propone nemmeno di descrivere i tratti essenziali di tali tendenze teologiche né tanto meno pretende di rinchiuderle in una formula unica. Piuttosto il nostro Documento segnala alcuni presupposti di natura sia filosofica sia teologica che stanno alla base delle pur diverse teologie del pluralismo religioso attualmente diffuse: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità completa della verità divina; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo esasperato di chi considera la ragione come unica fonte di conoscenza; lo svuotamento metafisico del mistero dell'incarnazione; l'eclettismo di chi nella riflessione teologica assume categorie derivate da altri sistemi filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza interna, né alla loro incompatibilità con la fede cristiana; la tendenza infine a interpretare testi della Scrittura, al di fuori della Tradizione e del Magistero della Chiesa (cf. Dich. Dominus Iesus, n.4).

Qual è la conseguenza fondamentale di questo modo di pensare e sentire in relazione al centro e al nucleo della fede cristiana ? E' il sostanziale rigetto dell'identificazione della singola figura storica, Gesù di Nazareth, con la realtà stessa di Dio, del Dio vivente. Ciò che è Assoluto, oppure Colui che è l'Assoluto, non può darsi mai nella storia in una rivelazione piena e definitiva. Nella storia si hanno soltanto dei modelli, delle figure ideali che ci rinviano al Totalmente Altro, il quale però non si può afferrare come tale nella storia. Alcuni teologi più moderati confessano che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, ma ritengono che a causa della limitatezza della natura umana di Gesù, la rivelazione di Dio in lui non può essere ritenuta completa e definitiva, ma sempre deve essere considerata in relazione ad altre possibili rivelazioni di Dio espresse nei geni religiosi dell'umanità e nei fondatori delle religioni del mondo. In tal modo, oggettivamente parlando, si introduce l'idea errata che le religioni del mondo siano complementari alla rivelazione cristiana. E' chiaro pertanto che anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto e considerarli anzi come uno strumento per un incontro reale con la verità di Dio, valida universalmente, significherebbe collocare su un piano assoluto ciò che è particolare e travisare la realtà infinita del Dio Totalmente Altro.
In base a tali concezioni, ritenere che vi sia una verità universale, vincolante e valida nella storia stessa, che si compie nella figura di Gesù Cristo ed è trasmessa dalla fede della Chiesa, viene considerato una specie di fondamentalismo che costituirebbe un attentato contro lo spirito moderno e rappresenterebbe una minaccia contro la tolleranza e la libertà. Lo stesso concetto di dialogo assume un significato radicalmente diverso da quello inteso nel Concilio Vaticano II. Il dialogo, o meglio, l'ideologia del dialogo, si sostituisce alla missione e all'urgenza dell'appello alla conversione: il dialogo non è più la via per scoprire la verità, il processo attraverso cui si dischiude all'altro la profondità nascosta di ciò che egli ha sperimentato nella sua esperienza religiosa, ma che attende di compiersi e purificarsi nell'incontro con la rivelazione definitiva e completa di Dio in Gesù Cristo; il dialogo nelle nuove concezioni ideologiche, penetrate purtroppo anche all'interno del mondo cattolico e di certi ambienti teologici e culturali, è invece l'essenza del "dogma" relativista e l'opposto della "conversione" e della "missione". In un pensiero relativista dialogo significa porre sullo stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, cosicché tutto si riduce ad uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo superiore di raggiungere il massimo di collaborazione e di integrazione tra le diverse concezioni religiose.

Il dissolvimento della cristologia e quindi dell'ecclesiologia, ad essa subordinata, ma con essa inscindibilmente collegata, diventa perciò la conclusione logica di tale filosofia relativista, che paradossalmente si ritrova sia alla base del pensiero post-metafisico dell'Occidente sia della teologia negativa dell'Asia. Il risultato è che la figura di Gesù Cristo perde il suo carattere di unicità e di universalità salvifica. Il fatto poi che il relativismo si presenti, all'insegna dell'incontro con le culture, come la vera filosofia dell'umanità, in grado di garantire la tolleranza e la democrazia, conduce a marginalizzare ulteriormente chi si ostina nella difesa della identità cristiana e nella sua pretesa di diffondere la verità universale e salvifica di Gesù Cristo. In realtà la critica alla pretesa di assolutezza e definitività della rivelazione di Gesù Cristo rivendicata dalla fede cristiana, si accompagna ad un falso concetto di tolleranza. Il principio della tolleranza come espressione del rispetto della libertà di coscienza, di pensiero e di religione, difeso e promosso dal Concilio Vaticano II, e nuovamente riproposto dalla stessa Dichiarazione, è una posizione etica fondamentale, presente nell'essenza del Credo cristiano, poiché prende sul serio la libertà della decisione di fede. Ma questo principio di tolleranza e rispetto della libertà viene oggi manipolato e indebitamente oltrepassato, quando esso si estende all'apprezzamento dei contenuti, quasi che tutti i contenuti delle diverse religioni e pure delle concezioni areligiose della vita fossero da porre sullo stesso piano, e non esistesse più una verità oggettiva e universale, poiché Dio o l'Assoluto si rivelerebbe sotto innumerevoli nomi, ma tutti i nomi sarebbero veri. Questa falsa idea di tolleranza è connessa con la perdita e la rinuncia alla questione della verità, che infatti oggi è sentita da molti come una questione irrilevante o di second'ordine. Viene così alla luce la debolezza intellettuale della cultura attuale: venendo a mancare la domanda di verità, l'essenza della religione non si differenzia più dalla sua "non essenza", la fede non si distingue dalla superstizione, l'esperienza dall'illusione. Infine senza una seria pretesa di verità, anche l'apprezzamento delle altre religioni diventa assurdo e contraddittorio, poiché non si possiede il criterio per constatare ciò che è positivo in una religione, distinguendolo da ciò che è negativo o frutto di superstizione e inganno.

2. A questo proposito la Dichiarazione riprende l'insegnamento di Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio: «Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica» (RM 29).
Questo testo si riferisce esplicitamente all'azione dello Spirito non solo «nel cuore degli uomini», ma anche «nelle religioni». Tuttavia il contesto pone questa azione dello Spirito all'interno del mistero di Cristo, da cui non può mai essere separata; inoltre le religioni sono accostate alla storia e alle culture dei popoli, dove la mescolanza tra bene e male non può mai essere messa in dubbio. Quindi è da considerarsi come praeparatio evangelica non tutto ciò che si trova nelle religioni, ma soltanto «quanto lo Spirito opera» in esse. Da ciò segue una importantissima conseguenza: via alla salvezza è il bene presente nelle religioni, come opera dello Spirito di Cristo, ma non le religioni in quanto tali. Ciò è del resto confermato dalla stessa dottrina del Vaticano II a proposito dei semi di verità e di bontà presenti nelle altre religioni e culture, esposta nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: "La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini"(NA, 2). Tutto ciò che di vero e buono esiste nelle religioni non deve andare perduto, anzi va riconosciuto e valorizzato. Il bene e il vero, dovunque si trovi, proviene dal Padre ed è opera dello Spirito; i semi del Logos sono sparsi ovunque. Ma non si possono chiudere gli occhi sugli errori e inganni che sono pure presenti nelle religioni. La stessa Costituzione Dogmatica del Vaticano II Lumen Gentium afferma: "Molto spesso gli uomini, ingannati dal Maligno, vaneggiano nei loro pensamenti, e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore" (LG, 16).
E' comprensibile che in un mondo che cresce sempre più assieme, anche le religioni e le culture si incontrino. Ciò non conduce soltanto ad un avvicinamento esteriore di uomini di religioni diverse, bensì anche ad una crescita di interesse verso mondi religiosi sconosciuti. In questo senso, in ordine cioè alla conoscenza reciproca, è legittimo parlare di arricchimento vicendevole. Ciò però non ha nulla a che vedere con l'abbandono della pretesa da parte della fede cristiana di aver ricevuto in dono da Dio in Cristo la rivelazione definitiva e completa del mistero della salvezza, e anzi si deve escludere quella mentalità indifferentista improntata ad un relativismo religioso che porta a ritenere che "una religione vale l'altra" (Lett. Enc. Redemptoris missio, 36).
La stima e il rispetto verso le religioni del mondo, così come per le culture che hanno portato un obiettivo arricchimento alla promozione della dignità dell'uomo e allo sviluppo della civiltà, non diminuisce l'originalità e l'unicità della rivelazione di Gesù Cristo e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa: "la Chiesa annuncia ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è la via, la verità e la vita (Gv 14,16) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose" (Nostra Aetate, 2). Nello stesso tempo queste semplici parole indicano il motivo della convinzione che ritiene che la pienezza, universalità e compimento della rivelazione di Dio sono presenti soltanto nella fede cristiana. Tale motivo non risiede in una presunta preferenza accordata ai membri della Chiesa, né tanto meno nei risultati storici raggiunti dalla Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno, ma nel mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nella Chiesa. La pretesa di unicità e universalità salvifica del Cristianesimo proviene essenzialmente dal mistero di Gesù Cristo che continua la sua presenza nella Chiesa, suo Corpo e sua Sposa. Perciò la Chiesa si sente impegnata, costitutivamente, nella evangelizzazione dei popoli. Anche nel contesto attuale, segnato dalla pluralità delle religioni e dall'esigenza di libertà di decisione e di pensiero, la Chiesa è consapevole di essere chiamata "a salvare e rinnovare ogni creatura, perché tutte le cose siano ricapitolate in Cristo e gli uomini costituiscano in lui una sola famiglia e un solo popolo" (Decr. Ad Gentes 1).
Riaffermando le verità che la fede della Chiesa ha sempre creduto e tenuto riguardo questi argomenti, e salvaguardando i fedeli da errori o da interpretazioni ambigue attualmente diffusi, la Dichiarazione "Dominus Iesus" della Congregazione per la Dottrina della Fede, approvata e confermata certa scientia e apostolica sua auctoritate dal Santo Padre stesso, svolge un duplice compito: da un lato si presenta come un'ulteriore e rinnovata testimonianza autorevole per mostrare al mondo "lo splendore del glorioso vangelo di Cristo" (2 Cor 4,4); dall'altro indica come vincolante per tutti i fedeli la base dottrinale irrinunciabile che deve guidare, ispirare e orientare sia la riflessione teologica sia l'azione pastorale e missionaria di tutte le comunità cattoliche sparse nel mondo.
(dall’Intervento in occasione della presentazione della dichiarazione "Dominus Iesus" alla Sala stampa della Santa Sede)

E’ necessario analizzare bene le diverse forme religiose, nelle loro diversità

La vicenda storica si potrebbe presentare schematicamente come segue:

In questo schema di massima si dovrebbe afferrare l’esito a cui può condurre una “critica della ragione storica” in materia di religione... Tra l’idea di una pluralità sconfinata e quella di una altrettanto sconfinata in-distinzione siamo rimandati invece a un numero limitato di strutture, che sono preordinate a un determinato sviluppo spirituale. Inoltre è risultato che l’instaurarsi di un’assolutezza non è, come abitualmente si ritiene, una peculiarità della sola “via monoteistica”, ma è proprio di tutt’e tre le vie sulle quali l’uomo ha abbandonato il mito. Come il “monoteismo” afferma l’assolutezza della chiamata divina da esso udita, così la mistica parte dall’assolutezza della spiritual experience come l’unica cosa davvero reale in tutte le religioni, mentre fa passare tutto quel che è dicibile e formulabile per forme simboliche secondarie e fungibili. Risiede qui il vero e proprio nocciolo del malinteso tra l’uomo di oggi, affascinato dalla teologia dell’in-distinzione della mistica spiritualistica, e il cristianesimo. L’uomo di oggi (manteniamo per ragioni di semplicità questo termine collettivo) è urtato dall’affermazione di assolutezza del cristianesimo, che gli sembra poco credibile di fronte a così tante relatività storiche a lui ben note, si sente molto più compreso e attirato dal simbolismo e dallo spiritualismo di un Radhakrishnan (N.d.C. Presidente della Repubblica Indiana), che insegna la relatività di tutti i messaggi religiosi articolabili e la validità della sola e unica esperienza spirituale mai adeguatamente dicibile, la quale (sebbene si presenti di grado diverso) è, a suo parere, una e la medesima. Per quanto significativa, questa opzione poggia tuttavia su un cortocircuito. Infatti, solo in apparenza Radhakrishnan oppone al punto di vista “partigiano” di chi è cristiano una apertura super partes verso tutto ciò che è religioso; in verità, come chi è cristiano, egli parte da una dottrina dell’assolutezza che corrisponde alla sua struttura religiosa; e per il cristianesimo (in genere per ogni tipo di vero e proprio “monoteismo”) la pretesa della sua via non rappresenta una pretesa minore di quella che l’assolutezza cristiana rappresenta per la propria. Infatti, se egli insegna l’assolutezza dell’ineffabile esperienza spirituale e la relatività di tutto il resto, chi è cristiano nega la validità unica ed esclusiva dell’esperienza mistica e insegna l’assolutezza della chiamata divina che s’è fatta udibile in Cristo. In ultima analisi, inculcare per forza a chi è cristiano l’assolutezza della mistica quale sola realtà vincolante costituisce una pretesa non inferiore al sostenere di fronte a chi non è cristiano l’assolutezza di Cristo. Infine, bisognerebbe aggiungere che anche la terza delle vie da noi evidenziate, che abbiamo chiamato “illuminismo”, con cui si potrebbe designare l’emergere di una impostazione basata su una concezione della realtà rigorosamente razionale, ha una sua propria assolutezza: l’assolutezza della conoscenza razionale (“scientifica”). Dove la scienza diviene “visione del mondo” (ed è esattamente questo che dev’essere designato col termine “illuminismo), quest’assolutezza diventa esclusiva, diviene la tesi dell’esclusiva validità del conoscere scientifico e di conseguenza diventa contestazione dell’assolutezza religiosa, che di per sé si colloca su tutt’altro piano.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.28-30)

Una grande e rilevante differenza fra le religioni della “mistica dell’in-distinzione” e religioni della “comprensione di Dio come persona” (in un contributo giovanile teologico le aveva chiamate religioni “mistiche” e “monoteistiche”)

L’intento di questo libro... si limita a discutere l’alternativa più fondamentale – a mio parere – tra mistica dell’in-distinzione e mistica dell’amore personale.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.88)

il panorama della storia delle religioni ci pone di fronte soprattutto a una scelta di fonda tra due vie che io allora – abbastanza inadeguatamente – avevo designato coi termini “mistica” e “monoteismo”. Oggi invece parlerei piuttosto di “mistica dell’in-distinzione” e di “comprensione di Dio come persona”. In ultima analisi si tratta di vedere se il divino sia “Dio”, qualcuno che ci sta di fronte – così che il termine ultimo della religione, della natura umana, sia relazione, amore, che diventa unità (“Dio tutto in tutti”, 1Cor 15,28) ma che non elimina lo stare di fronte dell’ “io” e del “tu” – o se il divino stia al di là della persona e il fine dell’uomo sia l’unirsi a e il dissolversi nell’Uno-tutto... Vorrei indicare già qui le fondamentali conclusione sul tema che recentemente ha tirato J.Sudbrack nel suo libro sullo Pseudo-Dionigi Areopagita e sulla storia del suo influsso. Nel misterioso scrittore del VI secolo che si è celato sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita, Sudbrack scorge il più importante costruttore di ponti tra l’Occidente e l’Oriente, tra il personalismo cristiano e la mistica asiatica. Egli formula l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo in questo modo: “Si tratta del dissolversi nell’Uni-totalità o della fiducia originaria in un “tu” infinito, in Dio o qualunque altro sia il nome che si possa dare a quest’entità”. Egli analizza questo problema, secondo la via tracciata da Martin Buber. Il grande pensatore ebreo, nel 1909, nella sua opera Confessioni estatiche, aveva favorito una specie di mistica dell’unità. Dopo la sua conversione “la rifiutò così radicalmente da proibire la ristampa del libro”. Nella sua nuova visione, “non la fusione per giungere all’unità, ma l’incontro è l’elemento fondamentale dell’umana esperienza dell’Essere”. Egli era giunto a capire che quando si parla di mistica spesso vengono scambiati due tipi di accadimento: “Il primo è l’unificarsi dell’anima, che rende l’uomo idoneo all’opera dello Spirito. L’altro accadimento è quella imprecisabile modalità dello stesso atto del relazionarsi, in cui si immagina che due diventino uno”. Sundbrack richiama poi l’attenzione sul modo in cui Lévinas nella sua filosofia dell’ “altro” ha approfondito queste vedute di Buber. Lévinas considera il risolversi della molteplicità in una unità che tutto assorbe come uno smarrimento del pensiero e come una forma di esperienza spirituale che non va fino in fondo. Per lui l’ “infinità” di Hegel rappresenta l’esempio atto a dissuadere da una tale visione dell’unità. Bisogna opporsi al fatto che nella filosofia e nella mistica dell’in-distinzione il “volto dell’altro”, la cui libertà non può mai divenire un possesso, si dissolva in una “totalità” senza nome. In realtà, secondo lui, soltanto se si punta con fiducia sul libero “rimanere altro” dell’altro, si sperimenta la vera infinità. All’unità fusionale, con la sua tendenza al dissolvimento, dev’essere contrapposta l’esperienza personale: l’unità dell’amore è superiore all’ineffabile in-distinzione.
Horst Bürkle ha mostrato che non si può rinunciare al concetto di persona, decisivo a livello della pratica della vita sociale. “Lo sviluppo dell’induismo dell’età moderna mostra che, anche per l’odierna immagine indiana dell’uomo, questo modo di intendere la persona è irrinunciabile [...]. Nelle Upanishad, l’esperienza dell’in-distinzione, del tat tvam asi [“questo tu sei”] non è in grado di fondare il valore e la dignità permanenti d’ogni singolo uomo. Valore e dignità che non si possono conciliare con l’idea che la vita terrena sia solo una fase transeunte nel ritmo dei successivi gradi di rinascita. Il valore proprio della persona e la sua dignità non si possono mantenere saldi in quanto stadio transitorio e sotto la condizione della loro variabilità [...]. Le riforme dell’induismo nell’epoca moderna, pertanto, prendono le mosse anche, coerentemente, dal problema della dignità umana. La maniera cristiana d’intendere la persona viene assunta nel contesto complessivo dell’induismo senza essere però fondata nel modo d’intendere Dio”. Non sarebbe difficile mostrare che la concezione del singolo come persona e la tutela del valore e della dignità d’ogni persona non si possono sostenere senza che siano fondati nell’idea di Dio.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.45-47)

Nell’ultimo stadio di tale esperienza, il “mistico” (N.d.C. nel senso critico precedentemente esposto) non dirà più al suo Dio: “io sono tuo”, ma la sua formula sarà: “io sono Te”. La distinzione è relegata nella sfera del provvisorio, lo stadio definitivo è la fusione, l’unità. “Il monismo assoluto è il compimento del dualismo, con il quale inizia la coscienza devota”, dice Radhakrishnan. Quest’esperienza interiore di in-distinzione, in cui ogni separazione affonda e diventa velo irreale che cela l’unità col fondamento di tutte le cose, è poi il motivo della conseguente teologia dell’in-distinzione... nella quale tutte le diverse religioni, appunto perché sono diverse, vengono assegnate al mondo del provvisorio, in cui la parvenza della separazione copre ancora il mistero dell’in-distinzione. L’equiparazione di tutte le religioni, che riscuote tanta simpatia presso l’uomo occidentale contemporaneo, svela qui il suo presupposto dogmatico consistente nell’asserita identità di Dio e del mondo, del fondo dell’anima e della divinità. Al tempo stesso risulta chiaro perché, per la religiosità asiatica, la persona non sia un che di ultimo e perciò Dio stesso non sia concepito come persona: la persona, l’ “io” e il “tu” contrapposti, appartiene al mondo della separazione; anche il confine che distingue l’ “io e il “tu” sprofonda, si rivela provvisorio nell’esperienza che fa il mistico dell’Uno-tutto.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pag.32)

L’esperienza vissuta, da cui nella mistica (N.d.C. sempre nel senso precedentemente esposto di religione dell’in-distinzione) tutto dipende, si esprime solo in simboli, il suo nucleo è identico in tutti i tempi. Non è il momento cronologico dell’esperienza vissuta ad essere importante, ma unicamente il suo contenuto, che equivale a un travalicamento e a una relativizzazione di ogni realtà temporale. Al contrario, la chiamata divina, da cui il profeta sa d’essere raggiunto, è databile; ha un “qui” ed “ora”, con essa ha inizio una storia, stabilita una relazione, e le relazioni tra persone hanno carattere storico, esse sono quello che noi chiamiamo storia. Jean Daniélou, in particolare, ha messo in forte risalto questo fatto, sottolineando a più riprese che il cristianesimo è “essenzialmente fede in un evento”, mentre le grandi religioni non cristiane affermano l’esistenza d’un mondo eterno “che si oppone al mondo nel tempo. Esse ignorano il fatto dell’irruzione dell’eterno nel tempo, che viene a dargli consistenza e a trasformarlo in storia”. La mistica, del resto, condivide questo carattere dell’astoricità con il mito e con le religioni primitive, nelle quali, secondo Mircea Eliade, è tipica “la ribellione contro il tempo concreto, la loro nostalgia d’un periodico ritorno al mitico tempo originario”. D’altronde, qui sarebbe il caso di mettere in rilievo quanto ha di particolare il cristianesimo nell’ambito della via monoteistica, poiché si potrebbe mostrare che solo nel cristianesimo l’impostazione storica è stata seguita in modo del tutto rigoroso, e che quindi solo nel cristianesimo la via monoteistica ha esplicato i suoi effetti in modo davvero autentico.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.38-39)

E’ ancora Jean Daniélou che l’ha riconosciuto con perspicacia. Le sue affermazioni al riguardo meritano di essere abbondantemente citate: “Per il sincretismo [così egli dice. E noi potremmo dire: “per le diverse vie religiose al di fuori della rivoluzione inaugurata dai profeti”], le anime salve sono quelle capaci di interiorità, a qualsiasi religione appartengano. Per il cristianesimo, salve sono quelle che credono, qualunque sia il loro grado di interiorità. Un piccolo fanciullo, un operaio oppresso dal lavoro, se credono, sono superiori ai più grandi asceti. “Noi non siamo grandi personalità religiose, ha meravigliosamente detto Guardiani, “noi siamo i servitori della Parola”. Cristo aveva già detto che san Giovanni Battista poteva essere “il più grande tra i figli degli uomini ma che il più piccolo dei figli del Regno è più grande di lui” (cfr. Lc 7,28). E’ possibile che nel mondo vi siano grandi personalità religiose al di fuori del cristianesimo, è anche possibile persino che le più grandi personalità religiose si trovino al di fuori del cristianesimo: ciò non ha alcuna importanza. Quel che importa è obbedire alla parola di Cristo”...

Mentre nelle religioni mistiche il mistico è “di prima mano” e il credente “di seconda mano”, in assoluto “di prima mano” qui è solo Dio stesso. Gli uomini sono, tutti e ognuno, “di seconda mano”: al servizio della chiamata divina.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.41-42)

Questa situazione può essere colta con particolare evidenza nelle affermazioni di uno dei fondatori ed esponenti principali di tale teologia, il presbiteriano americano J.Hick, che prende le mosse filosoficamente dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno: non siamo in grado di raggiungere la realtà ultima in se stessa, ma sempre solo di vederla nel suo apparire attraverso varie “lenti” nel nostro modo di percepire. Tutto quello che percepiamo non è la realtà vera e proprio, come è in se stessa, ma solo il riflesso nel nostro sistema di misura. Questo approccio, che Hick in un primo tempo aveva tentato di formulare ancora in un contesto cristocentrico, dopo un soggiorno in India, durato un anno, con una rivoluzione copernicana del suo pensiero (come egli stesso afferma) è stato da lui trasformato in una nuova forma di teocentrismo. L’identificazione di una singola figura storica, Gesù di Nazaret con il reale stesso, ossia con il Dio vivente, viene respinta ora come una ricaduta nel mito; Gesù viene di proposito relativizzato come uno dei tanti geni religiosi. Ciò che è assoluto, oppure Colui che è l’assoluto, non può darsi nella storia, dove si hanno solo modelli, figure ideali che ci rinviano al totalmente Altro, il quale non si può appunto afferrare come tale nella storia. E’ chiaro che con questa tesi anche la Chiesa, il dogma, i sacramenti non possono più avere il valore di necessità assoluta. Attribuire a questi mezzi finiti un carattere assoluto, considerarli anzi come incontri reali con la verità, valida per tutti, del Dio che si rivela, significherebbe assolutizzare ciò che è proprio, particolare e travisare perciò l’infinità del Dio totalmente altro.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

Come mai la fede ha ancora una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell'uomo. L'uomo infatti possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito. Kant stesso con i suoi postulati lo ha dovuto ammettere in qualche modo. Nell'uomo vi è un inestinguibile desiderio di infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per infrangere la nostra finitezza e condurla nella dimensione della sua infinità, è in grado di venire incontro alle esigenze del nostro essere.

In ambito politico-sociale non si può pertanto negare al relativismo una qualche legittimità. Ma il problema deriva dal fatto che esso non si pone dei limiti. Infatti viene adottato espressamente anche sul piano della religione e dell'etica.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

Nel pensiero di J.Hick, che qui consideriamo in particolare come l’esponente di maggior spicco del relativismo religioso, la filosofia postmetafisica dell’Europa si collega singolarmente alla teologia negativa dell’Asia, per la quale il divino, in se stesso e svelatamente, non può mai entrare nel mondo dell’apparenza, nel quale viviamo: si mostra solo in riflessi relativi e resta, al di là di tutte le parole e al di là di ogni pensiero, nella sua trascendenza assoluta. Queste due filosofie, in sé, sono radicalmente diverse nei loro presupposti fondamentali e per la direzione che propongono all’esistenza umana. Ma nel loro relativismo metafisico e religioso esse sembrano confermarsi a vicenda. Il relativismo areligioso e pragmatico dell’Europa e dell’America può mutuare dall’India una specie di consacrazione religiosa, che sembra conferire alla sua rinunzia al dogma la dignità di un timore reverenziale più nobile di fronte al mistero di Dio e dell’uomo. Viceversa l’appellarsi del pensiero europeo ed americano alla visione filosofica e teologica dell’India si ripercuote rafforzando la relativizzazione di tutte le figure religiose, caratteristica per la cultura indiana. Sembra perciò ora imperativo anche per la teologia cristiana in India privare la figura di Cristo, considerata occidentale, del suo carattere di unicità e collocarla quindi sullo steso piano dei miti indiani di salvezza: il Gesù storico (così si pensa ora) non è il Logos in assoluto, come non lo è qualsiasi altra figura di salvatore o redentore che appartenga alla storia.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.123-125)

In base a questa concezione, che ha assunto oggi una posizione rilevante, anche al di là delle tesi di Hick, il ritenere che vi sia realmente una verità, una verità vincolante e valida nella storia stessa, nella figura di Gesù Cristo e della fede della Chiesa, viene ritenuto un fondamentalismo che si presenta come un autentico attentato contro lo spirito moderno e come una minaccia multiforme contro il suo bene principale, la tolleranza e la libertà. Anche il concetto di dialogo, che nella tradizione platonica e cristiana aveva acquisito una funzione significativa, assume ora un senso diverso. Diventa addirittura l'essenza del Credo relativista e l'opposto della «conversione» e della missione: in una concezione relativista dialogo significa porre su uno stesso piano la propria posizione o la propria fede e le convinzioni degli altri, e in linea di principio non ritenerla più vera della posizione dell'altro. Solo se suppongo veramente che l'altro abbia tanto ragione quanto me, o anche di più, sono realmente all'altezza del dialogo. Il dialogo dovrebbe essere uno scambio tra posizioni fondamentalmente paritetiche e perciò tra loro relative, con lo scopo di raggiungere il massimo di cooperazione o d'integrazione tra le varie concezioni religiose (2). Il dissolvimento relativista della cristologia e quindi anche dell'ecclesiologia diventa perciò un precetto fondamentale della religione. Per tornare a Hick: la fede nella divinità di uno solo, così egli dice, condurrebbe al fanatismo e al particolarismo, alla dissociazione tra fede e amore; ma questo è appunto ciò che si deve evitare.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-tredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo. Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto. La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: «il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia». Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: E’ vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente (N.d.C. da questo tipo di visioni religiose) e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico in quanto resta fondato su di un’unica premessa: “il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia”.

Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i “fedeli” dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma all’adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l’ortoprassi significa, ciò che è dunque un “retto agire”, viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti. Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l’elemento – dossia si riferisce a dóxa, che non veniva certo inteso nel senso di “opinione” (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Dóxa era inteso invece nel senso di “gloria”, “glorificazione”. Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l’Oriente e l’Occidente.

Ma torniamo all’adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui nessuno ha più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto dunque un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell’India. Resta però una cosa: se l’esigenza di un’ortoprassi deve avere un suo significato e non deve servire solo a mascherare l’assenza di un vincolo, vi deve essere allora anche un’ortoprassi comune, riconoscibile da tutti, che vada al di là del discorso generico circa l’incentrarsi sull’Io e il mettersi in relazione con un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine “prassi” può essere adottato in senso etico o politico. L’ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un’etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull’etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sé e ciò che è male in sé. Se si intende ortoprassi in senso politico-sociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.128-129)

In una teologia rigorosamente apofatica non si avanza nessuna pretesa di conoscenza riguardo al divino; la religione non è più definita sul piano positivo e contenutistico e, dunque, neppure su quello istituzionale e sacrale. Essa è integralmente ricompresa nell'esperienza mistica e così resta a priori escluso il conflitto con la ragione scientifica. La New Age è per così dire la proclamazione dell'età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza più alcuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all'uomo la rottura dei limiti dell' essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza.

Se questa è la via giusta, io dovrei dare all'ecumenismo la forma di una comprensione universale, riducendo gli assiomi positivi, quelli cioè che esigono delle verità contenutistiche, e riducendo nello stesso tempo le strutture sacrali a strutture di carattere funzionale. Con ciò non si pretende affatto la totale rinuncia alle forme teistiche fin qui esistite. Sembra piuttosto che si vada sempre più sviluppando un orientamento a considerare ambedue le maniere di vedere il divino compatibili e in fondo equivalenti. Il problema, in sostanza, non è se il divino debba essere concepito in modo personale o impersonale. Il Dio che parla e la silenziosa profondità dell'essere sarebbero alla fin fine solo due modi differenti di pensare l'ineffabile al di là di tutte le categorie concettuali. L'imperativo centrale di Israele: «Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente», che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni. In definitiva sarebbe irrilevante il fatto che uno si sottometta al Dio che parla o si abbandoni alla silenziosa profondità dell'essere. L'adorazione che il Dio di Israele pretende e lo svuotamento della coscienza, che dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell'infinito, potrebbero essere considerati come varianti di un unico e medesimo atteggiamento di fronte all'infinito.

Così tutto sembra risolto nel modo migliore possibile: le forme sviluppate possono sopravvivere, ma riconoscono la relatività di tutte le strutture esteriori e sono unite nella ricerca della profondità dell'essere, in un'interiorizzazione che lascia dietro di sé anche il proprio io e dona il consolante contatto con l'ineffabile, rafforzati dal quale usciamo poi incontro alla realtà e al mondo di ogni giorno.
Senza dubbio quanto detto può contribuire a un approfondimento delle religioni teistiche, sul cui percorso la corrente mistica e anche la teologia apofatica non sono mai mancate del tutto. Infatti si è sempre insegnato che tutto ciò che si dice e si può dire in definitiva rispecchia solo lontanamente l'ineffabile e che la dissomiglianza con ciò che noi possiamo immaginare e pensare resta sempre più grande di ogni somiglianza. Per questo l'adorazione ha sempre a che fare con l'interiorizzazione e l'interiorizzazione con il superamento di sé.

Così il IV concilio Lateranense ne1 1215: «quia inter creatorem et creaturam non potest similitudo notari, quin inter eos maior sit dissimilitudo notanda» (DS 806).

Tuttavia l'identificazione delle due vie e la loro riduzione ultima alla via mistica non sono accettabili, dal momento che, in tal caso, il mondo sensibile finirebbe per uscire del tutto dalla relazione con il divino. Il concetto di creazione non sarebbe allora più utilizzabile. Il cosmo, che non è più creazione, non ha più nulla a che fare con Dio.

La stessa cosa vale necessariamente per la storia. Dio non entra più nel mondo; quest'ultimo diventa, in senso proprio, a-teo, privo di Dio. La religione non può più produrre alcuna comunione di pensiero e di volontà; diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all'interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi.
I tentativi contemporanei di ricomprensione dell'etica prendono facilmente le mosse da questa concezione e la stessa teologia morale ha cominciato a confrontarsi con questo punto di partenza. In tal modo, però, l'etica resta alla fin fine una nostra costruzione, l'ethos perde il suo carattere vincolante e obbedisce, in maniera più o meno esitante, ai nostri interessi.

Infatti la fede nell'unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l'adorazione di Dio non è semplicemente un'immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l'impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà. La fede in Dio non può rinunciare alla verità, a una verità definibile nei suoi contenuti, malgrado tutta l'importanza dell'elemento apofatico.

Basta poco per vedere che questo è un corto circuito. Ovviamente l'impegno per la pace, la giustizia e il rispetto del creato è della massima importanza, e la religione dovrebbe senza dubbio fornire uno stimolo fondamentale in tale direzione. Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione, custodendola responsabilmente secondo l'intenzione del creatore. Tutto ciò deve essere elaborato razionalmente di volta in volta.
Inoltre occorre tener conto del libero confronto tra opinioni differenti e del rispetto di percorsi diversi. Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiose e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge. La religione non può essere subordinata a una finalità pratico-politica, che poi diventa il suo idolo. L'uomo asserve Dio ai propri fini e in tal modo degrada Dio e se stesso.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.62-66)

A questo proposito andrebbe ricordata la disputa tra Gregorio di Nissa ed Eunomio: Eunomio sosteneva la piena comprensibilità di Dio data con l'atto della rivelazione, mentre Gregorio interpretava la teologia trinitaria e la cristologia come teologia mistica, che invita a un cammino incessante verso Dio, che è sempre infinitamente più grande.

In effetti la teologia trinitaria è apofatica in quanto cancella il concetto elementare di persona, derivante dall' esperienza umana, mentre afferma il Dio che parla, il Dio-Logos, ma che, nel contempo, mantiene il silenzio più grande, da cui viene il Logos e a cui egli ci rinvia.
Qualcosa di simile si può osservare per l'incarnazione. Sì, Dio si fa del tutto concreto, tangibile nella storia. Si avvicina corporalmente all'uomo. Ma proprio questo Dio divenuto tangibile è del tutto misterioso. Il suo abbassarsi, liberamente scelto, la sua chenosi, è, per così dire, in un modo nuovo la nube del mistero, in cui egli si nasconde e allo stesso tempo si mostra. Infatti, quale paradosso potrebbe essere maggiore di questo, di un Dio che è vulnerabile e può essere ucciso? Il concetto di Verbo incarnato e crocefisso supera incommensurabilmente tutte le parole umane; proprio per questo la chenosi di Dio è il luogo in cui possono incontrarsi le religioni, senza pretese di dominio.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.70)

Vi è però anche una reazione espressamente antirazionalista all'esperienza che «tutto è relativo», e che si riassume nell'etichetta polivalente del New Age (11). Qui la via di uscita dal dilemma della relatività non viene individuata in un nuovo incontro di un Io con un Tu o con il Noi, ma nel superamento del soggetto, nel ritorno estatico nel processo cosmico. Come già la gnosi antica, questa via ritiene di essere in sintonia con tutto ciò che la scienza insegna e pretende inoltre di valorizzare le conoscenze scientifiche di ogni genere (biologia, psicologia, sociologia, fisica). Nello stesso tempo però, partendo da queste premesse, intende offrire un modello del tutto antirazionalista di religione, una moderna «mistica»: l'assoluto non lo si può credere, ma sperimentare. Dio non è una persona che sta di fronte al mondo, ma l'energia spirituale che pervade il Tutto. Religione significa l'inserimento del mio Io nella totalità cosmica, il superamento di ogni divisione. K. H. Menke descrive molto bene la svolta spirituale che ne deriva, quando afferma: «Il soggetto, che pretendeva sottomettere a sé ogni cosa, si trasfonde ora nel "Tutto"» (12). La ragione oggettivante-così ci avverte il New Age- ci sbarra la via che conduce al mistero della realtà; l'essere Io ci esclude dalla pienezza della realtà cosmica, sconvolge l'armonia del Tutto ed è la causa autentica del nostro irredentismo. La redenzione consiste nello svincolamento dell'Io, nell'immergersi nella pienezza della vita, nel ritorno nel Tutto. Si ricerca l'estasi, l'ebbrezza dell'infinito, che si può sperimentare nel suono della musica, nel ritmo, nell'eccitazione della luce e del buio, nella massa umana. Così facendo, non solo si capovolge la strada dell'epoca moderna al dominio assoluto del soggetto; al contrario l'uomo stesso, per essere liberato, deve sciogliersi nel «Tutto». Ritornano gli dei. Essi appaiono più credibili di Dio. Bisogna rinnovare i riti primordiali, con i quali l'Io viene iniziato ai misteri del Tutto e viene liberato da se stesso.

Il concetto di New Age, o era dell’Acquario, è stato coniato verso la metà del nostro secolo (1900, n.d.t.) da Raul Le Cour (1937) e Alice Bailey (la quale affermò di aver ricevuto nel 1945 dei messaggi relativi ad un nuovo ordine universale e una nuova religione universale). Tra il 1960 e il 1970 è anche sorto in California l’istituto Esalen. Oggi l’esponente più famosa del New Age è Marilyn Ferguson.

Bisogna rilevare che si vanno configurando sempre più chiaramente due diverse correnti del New Age: una gnostico-religiosa, che ricerca l'essere trascendente e transpersonale e in esso l'Io autentico, e una ecologico-monista, che si rivolge alla materia e alla Madre Terra.
(da La fede e la teologia ai giorni nostri in L'Osservatore Romano, 1 novembre 1996)

Se non vi è una verità comune che abbia valore proprio perché è vera, il cristianesimo diventa solo un prodotto importato dall’esterno, un imperialismo spirituale, che bisogna scuotersi di dosso al pari di quello politico. Se non si realizza un incontro con l’unico Dio vivente di tutti gli uomini nei sacramenti, essi diventano dei riti privi di contenuto, che non ci dicono e non ci danno nulla, o tutt’al più ci fanno percepire il numinoso che domina in tutte le religioni. E’ più sensato allora cercare ciò che ci appartiene originariamente, piuttosto che lasciarci imporre quanto è estraneo e antiquato. Ma soprattutto, se la “sobria ebbrezza” del mistero cristiano non ci può rendere ebbri di Dio, bisogna allora evocare l’ebbrezza reale delle estasi efficaci, la cui passione ci eccita e ci rende dèi almeno per un attimo, ci fa sentire per un momento il gusto dell’infinito e ci fa dimenticare la miseria del finito. Quanto più si rende manifesta l’inutilità degli assolutismi politici, tanto più potente diventa l’attrattiva dell’irrazionalità, la rinuncia alla realtà del quotidiano.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.131-133)

Con la distinzione mosaica intendo l’introduzione della distinzione tra vero e falso nell’ambito delle religioni. Fino ad allora la religione era basata sulla distinzione tra puro ed impuro, o tra sacro e profano e non c’era assolutamente posto per l’idea di falsi dèi [...] che non si possono adorare...” (J.Assmann). Gli dèi delle religioni politeiste sarebbero stati in un rapporto di equivalenza funzionale tra loro e sarebbero dunque stati interscambiabili gli uni con gli altri. Le religioni avrebbero avuto la funzione di strumento di traducibilità interculturale. “Le divinità erano internazionali, perché erano cosmiche [...] nessuno metteva in discussione la realtà degli dèi stranieri e la legittimità di forme di venerazione straniere. Il concetto di una “religione non vera” era totalmente estraneo ai politeismi antichi”. Con l’introduzione della fede-in-un-Dio-unico accade dunque qualcosa di nuovo, di sconvolgente: questo nuovo tipo di religione sarebbe per sua natura un’ “antireligione”, che emargina tutto quello che la precede come “paganesimo”, e non il mezzo di una traducibilità interculturale, bensì di uno straniamento interculturale. Solo a questo punto si sarebbe costituito il concetto di “idolatria” come il supremo dei peccati: “Nell’immagine del vitello d’oro, del “peccato originale” dell’iconoclastia monoteistica [...] è espresso il potenziale di odio e di violenza, che si è sempre tradotto in atto nella storia delle religioni monoteistiche”. Il racconto dell’Esodo, con questo suo potenziale di violenza, appare come il mito di fondazione della religione monoteistica e al contempo come il ritratto permanente dei suoi effetti.

La conseguenza è chiara: l’Esodo deve essere annullato; dobbiamo fare ritorno in “Egitto” – vale a dire: la distinzione tra vero e non-vero nell’ambito delle religioni dev’essere abolita, dobbiamo tornare nel mondo degli dèi, i quali esprimono il cosmo in tutta la sua ricchezza e molteplicità, e di conseguenza non conoscono un’esclusione reciproca, anzi, al contrario, rendono possibile una reciproca comprensione. Il desiderio di annullare l’Esodo, d’altra parte, attraversa tutto l’Antico Testamento. Esso affiora continuamente durante la storia delle peregrinazioni nel deserto e si rende drammaticamente presente, ancora una volta, alla fine dell’Antico Testamento, nel primo Libro dei Maccabei, dove si riferisce di “traditori della legge” che propongono un’alleanza “con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali”. Essi decidono di non vivere più secondo la legge di Mosè, ma “secondo le usanze dei pagani” (1Mac 1,11-15). Dal canto suo, Assmann descrive minuziosamente la nostalgia dell’Egitto, del ritorno a prima della distinzione mosaica, a partire dal Rinascimento, con la sua venerazione del corpus Hermeticum come di una teologia originaria, fino ai sogni egizi dell’Illuminismo, con il Flauto Magico di Mozart quale grandiosa realizzazione artistica di questa nostalgia.

Se capisco bene, per lui la formula di Spinoza Deus sive natura è al contempo la formula che sintetizza ciò che intende con questo ritorno, con il suo “Egitto”: la distinzione tra vero e falso può essere espunta dalla religione se cade la distinzione tra Dio e cosmo, se il divino ed il “mondo” vengono di nuovo visti indistintamente come un’unica realtà. La distinzione tra vero e falso è indissolubilmente connessa alla distinzione tra Dio e il mondo. Il ritorno all’Egitto è un ritorno agli dèi, in quanto respinge un Dio che sta di fronte al mondo, e considera gli dèi unicamente come forme di espressione simbolica della natura divina.

Con la distinzione mosaica - così ci insegna Assmann – appare anche, inevitabilmente “la consapevolezza del peccato ed il desiderio di redenzione”; e aggiunge: “Peccato e redenzione non sono temi egizi”. Caratteristico per l’Egitto sarebbe piuttosto l’ “ottimismo morale che “mangia con gioia il suo pane” consapevole del fatto che “Dio ha già gradito le sue opere” – uno dei versetti egiziani della Bibbia (Qo 9,7-10). “Parrebbe – scrive Assmann – che con la distinzione mosaica il peccato sia entrato nel mondo. Forse sta proprio qui la ragione più importante per mettere in discussione la distinzione mosaica”. Con questo, un dato è stato visto in modo certamente esatto: la questione del vero e la questione del bene non possono essere separate. Se non si può più riconoscere il vero, né lo si può più distinguere dal non-vero, anche il bene diventa irriconoscibile; la distinzione tra bene e male perde il suo fondamento.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.224-227)

G.Elisabeth M.Anscombe ha riassunto la concezione del suo maestro (Wittgenstein) al riguardo in due tesi: “1. Non esiste nulla del genere dell’essere-vero di una religione. Si allude a questo quando si dice: “Questo enunciato religioso non assomiglia a un enunciato della scienza”. 2. La fede religiosa può essere paragonata all’innamoramento di un essere umano, piuttosto che alla sua convinzione che qualcosa sia vero oppure falso”. Coerente con questa logica, Wittgenstein ha annotato in uno dei suoi numerosi taccuini che per la religione cristiana non avrebbe alcuna importanza se Cristo abbia effettivamente compiuto in un certo modo una delle opere a lui attribuite o addirittura se egli sia semplicemente esistito. A ciò corrisponde la tesi di Bultmann: credere in un Dio, creatore del cielo e della terra, non significa credere che Dio abbia realmente creato cielo e terra, ma unicamente considerare se stessi come creature e, grazie a ciò, vivere una vita più sensata.

Nelle sue comunicazioni Seifert osserva al riguardo: “Per Wittgenstein l’uomo religioso e quello non religioso vivono, per così dire, in due mondi in cui giocare, e si muovono su piani diversi senza contraddirsi reciprocamente...”. In enunciazioni religiose, secondo Wittgenstein in fondo non si darebbe nulla... “proprio così come in un gioco di scacchi o di dama non si afferma nulla sulle dame o regine all’infuori di questi giochi. La religione perciò dovrebbe essere interpretata non nella modalità di proposizione dotate di senso con pretese di verità, ma in dimensione puramente antropologica e del tutto soggettiva, come un gioco preferito in senso meramente personale”.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.228-229)

Innanzi tutto, già le religioni politeiste sono molto diverse fra di loro. Non poche intuiscono in qualche modo sullo sfondo l’unico Dio, che è realmente Dio. Nel buddhismo ed in alcune correnti dell’induismo, come anche in forme tarde del platonismo, gli dèi appaiono come potenze di un mondo che nella sua totalità non è che apparenza, o che, in ogni caso, non è la realtà ultima, e che dev’essere superato se si vuole accedere alla salvezza piena. La tesi secondo cui gli dèi politeisti sono tra loro perfettamente interscambiabili, e quindi sono mezzi di comprensione interculturale, può appoggiarsi sulla politica religiosa dell’Impero Romano, ma non corrisponde affatto alla storia del politeismo in generale. Basta leggere Omero per ricordarsi delle guerre tra gli dèi e del fatto che le guerre tra gli uomini sono considerate come il riflesso e la conseguenza delle guerre tra gli dèi.

La questione della verità non è stata inventata da “Mosè”. Essa insorge immancabilmente quando la coscienza raggiunge una certa maturazione.

Nel suo importante libro Chrêsis, Christian Gnilka ha descritto in maniera approfondita l’irrompere della questione della verità nel mondo degli antichi dèi, e l’incontro del cristianesimo con questa situazione. Emblematica di questo procedimento è la figura, descritta da Cicerone, del pontefice massimo romano C.Aurelio Cotta, che, nella sua funzione di augure e capo del Collegium Pontificum, rappresentava la religione pagana di allora. Conformemente alla sua funzione, Cotta era garante dell’osservanza scrupolosa dei riti del culto pubblico e dichiarava che avrebbe difeso le “concezioni” (opiniones) sugli dèi ereditate dagli antenati e che non se ne sarebbe lasciato distinguere. Ma, lo stesso Cotta, a casa tra gli amici, si rivela uno scettico accademico che pone l’interrogativo sulla verità. Egli vorrebbe essere convinto, non sulla base di una semplice supposizione, ma secondo la verità e giunge alla conclusione che c’è da temere che gli dèi non esistano affatto. “Il criterio della verità, introdotto nel mondo antico degli dèi, agisce come una carica esplosiva”, constata Gnilka. Assmann stesso ha mostrato come questa schizofrenia abbia condotto ad una finzione difesa dallo Stato: per i non-iniziati gli dèi continuano a esistere come necessità di Stato, mentre gli iniziati riescono a scorgere la loro inconsistenza.

Ora risulta inevitabile che la dialettica del progresso, messa in pratica, esiga le sue vittime: affinché i progressi addotti dalla Rivoluzione Francese potessero essere realizzati, era necessario mettere in conto le sue vittime – così ci si dice. Ed affinché il marxismo potesse produrre la società riconciliata erano per l’appunto necessarie le ecatombi di vittime umane, non c’era altro modo: qui la dialettica mitologica è stata tradotta in fatti. L’uomo diventa materiale per il gioco del progresso; come singolo egli non conta nulla; poiché è solo materiale per il crudele Dio Deus sive natura. La teoria dell’evoluzione ci insegna la stessa cosa: che i progressi, appunto, hanno un determinato costo. E gli esperimenti odierni sull’uomo, che viene trasformato in una “banca di organi”, ci mostrano l’applicazione del tutto pratica di queste idee – in cui l’uomo stesso prende in mano l’ulteriore evoluzione.

La questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La “distinzione mosaica” è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e l’Ellade. Ciò che le unisce è appunto l’interrogativo sulla verità e sul bene in quanto tale che pongono alle religioni, ossia, come noi ora potremmo chiamarla, la distinzione mosaico-socratica. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco della quale si preoccuparono i Padri della Chiesa.

C.Gnilka, op.cit., pp. 9-55. Ancora una volta, un ulteriore passo dell’incontro fra cristianesimo e platonismo si produsse quando il cosiddetto Pseudo-Dionigi al declino del V secolo o all’inizio del VI trasformò in senso cristiano l’interpretazione di Proclo, mutò il suo politeismo nella dottrina dei cori degli angeli e con la sua teologia negativa divenne uno dei padri della mistica cristiana.

Ma l’Asia non ci indica forse la via d’uscita? Una religione che si regge senza dover elevare una rivendicazione di verità? Tale questione diventerà senza dubbio uno dei temi principali nei dialoghi futuri. Qui solo un accenno. Anche il buddhismo ha il suo modo specifico di porsi la questione della verità. Esso chiede la liberazione dal dolore, il quale è provocato dalla sete di vita. Dov’è il luogo della salvezza? Il buddhismo giunge al risultato che esso non si trova nel mondo, nella totalità dell’essere che appare. Nella sua totalità l’essere è dolore, è un ciclo di reincarnazioni e di sempre nuovi intrecci di legami. La via dell’illuminazione è la via che porta dalla sete dell’essere a ciò che a noi appare come un non-essere, il Nirvana. Vale a dire: nel mondo stesso non c’è la verità. La verità “accade” nell’uscita da esso. In questo senso la questione della verità si risolve nella questione della liberazione o redenzione, o anche: si toglie e si sublima in essa. Ci sono gli dèi, ma essi fanno parte del mondo della provvisorietà, non della salvezza definitiva. Solo nell’Hinayana questa visione viene rigorosamente mantenuta. Il Mahayana conosce in modo molto più marcato la dimensione sociale, l’aiuto per la liberazione dell’altro e colui che aiuta. Ma l’attesa fondamentale dell’estinguersi dell’esistenza e della persona del singolo, è mantenuta, sebbene essa sia rinviata molto lontano. Qui non si può parlare di Deus sive natura. Il mondo come tale è dolore – e quindi anche assenza di verità – e infine solo il distacco dal mondo può essere la salvezza. Qui si tratta di atteggiamenti esistenziali che racchiudono in sé un’immagine del mondo lontanissima dalle visioni occidentali ed anche da quelle “egizie”, politeiste, e che si pone come alternativa alla comprensione cristiana del mondo con la sua accettazione del mondo in linea di principio in quanto creazione. Anche questa via non ci dispensa però dalla questione della verità.

Ora, è esatto che il Dio unico è un “Dio geloso”, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dèi perché nella sua luce si vede che gli “dèi” non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso, soprattutto però non è falso, che nel ricordo di Israele l’Egitto appaia come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità – come accade nel caso della doppia verità, di cui abbiamo parlato in precedenza - l’uomo diventa schiavo dell’utilità e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. In questo senso è indispensabile anzitutto la “demitizzazione” che spogli gli dèi del loro falso splendore e quindi del loro falso potere, per poi mettere in luce la loro “verità”, ossia per spiegare quali siano i veri poteri e le vere realtà che stanno dietro di loro. Detto altrimenti: una volta avvenuta questa “demitizzazione”, questo smascheramento, anche la loro verità relativa può e deve venire alla luce. Conformemente a questo, vi sono all’interno dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle religioni “pagane” due fasi, che tuttavia devono necessariamente concatenarsi l’una con l’altra e non possono essere nettamente distinte in una successione temporale. La prima fase è l’alleanza del cristianesimo con la ragione, alleanza che predomina negli scritti dei Padri, da Giustino ad Agostino ed oltre: coloro che annunciano il cristianesimo si pongono dalla parte dei filosofi, della ragione, contro le religioni, contro la doppia verità di un C.Aurelio Cotta. Essi vedono i semi del Logos, della ragione divina, non nelle religioni, ma nel movimento della ragione che ha dissolto queste religioni. Ma sempre più chiaramente appare anche un secondo punto di vista, con il quale vengono alla luce anche il legame con le religioni ed i limiti della ragione.

“Non appena sarete arrivati – con la grazia di Dio – presso il nostro reverendissimo fratello, il vescovo Agostino, ditegli che tra me e me ho riflettuto a lungo su una questione degli Inglesi. Non si dovrebbero cioè distruggere i templi degli idoli di quel popolo, ma unicamente annientare i simulacri degli dèi che vi si trovano [...]. Vedendo che non si distruggono i suoi templi, non solo abbandonerà l’errore, ma si recherà con gioia ancora più grande a riconoscere e ad adorare il vero Dio nei luoghi abituali”. Inoltre Gregorio in questa circostanza propone che le cerimonie ed i sacrifici animali vengano trasformati in feste per onorare i santi ed i martiri, nel corso delle quali venga mangiato l’animale macellato per il sacrificio. Qui appare dunque quella che noi chiamiamo la continuità del culto. Il luogo sacro rimane sacro e la precedente intenzione di onorare il divino viene ripresa e trasformata, acquistando un nuovo significato. A Roma lo si può constatare ovunque. Un nome come Santa Maria sopra Minerva lascia riconoscere allo stesso modo trasformazione e continuità. Gli dèi non sono più dèi. Come tali sono caduti: la questione stessa sulla verità ha tolto loro la divinità e provocato la loro caduta. Ma al contempo è venuta alla luce la loro verità: essi erano il riverbero del divino, presentimenti di figure, in cui il loro senso nascosto, purificato, trovava compimento. In questo modo esiste ora anche una “traducibilità” degli dèi, che in quanto presentimenti, in quanto gradini della ricerca del vero Dio e del suo rispecchiarsi nella creazione, possono diventare ambasciatori dell’unico Dio.

Una cosa tuttavia mi sembra importante ai fini del nostro discorso: i temi del vero e del bene effettivamente non sono separabili. Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del Bene. Inversamente: se non possiamo conoscere la verità riguardo a Dio, allora anche la verità riguardo a quel che è bene e a ciò che è male resta inaccessibile.

Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (cfr. Mc 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Verità e amore sono identici. Questa affermazione – se ne si coglie tutto quanto esso rivendica – è la più alta garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.230-240)

Lo Spirito Santo non porta mai oltre Gesù Cristo (2Gv 9)

12. C'è anche chi prospetta l'ipotesi di una economia dello Spirito Santo con un carattere più universale di quella del Verbo incarnato, crocifisso e risorto. Anche questa affermazione è contraria alla fede cattolica, che, invece, considera l'incarnazione salvifica del Verbo come evento trinitario. Nel Nuovo Testamento il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all'umanità non solo nei tempi messianici (cf. At 2,32-36; Gv 7,39; 20,22; 1 Cor 15,45), ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia (cf. 1 Cor 10,4; 1 Pt 1,10-12).
Il Concilio Vaticano II ha richiamato alla coscienza di fede della Chiesa questa verità fondamentale. Nell'esporre il piano salvifico del Padre riguardo a tutta l'umanità, il Concilio connette strettamente sin dagli inizi il mistero di Cristo con quello dello Spirito. Tutta l'opera di edificazione della Chiesa, da parte di Gesù Cristo Capo, nel corso dei secoli, è vista come una realizzazione che egli fa in comunione col suo Spirito.
Inoltre, l'azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende, oltre i confini visibili della Chiesa, a tutta l'umanità. Parlando del mistero pasquale, nel quale Cristo già ora associa a sé vitalmente nello Spirito il credente e gli dona la speranza della risurrezione, il Concilio afferma: «E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale».
È chiaro, quindi, il legame tra il mistero salvifico del Verbo incarnato e quello dello Spirito, che non fa che attuare l'influsso salvifico del Figlio fatto uomo nella vita di tutti gli uomini, chiamati da Dio ad un'unica mèta, sia che abbiano preceduto storicamente il Verbo fatto uomo, sia che vivano dopo la sua venuta nella storia: di tutti loro è animatore lo Spirito del Padre, che il Figlio dell'uomo dona liberalmente (cf. Gv 3,34).
Per questo il recente Magistero della Chiesa ha richiamato con fermezza e chiarezza la verità di un'unica economia divina: «La presenza e l'attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma anche la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni [...]. Il Cristo risorto opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito [...]. È ancora lo Spirito che sparge i “semi del Verbo”, presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo». Pur riconoscendo la funzione storico-salvifica dello Spirito in tutto l'universo e nell'intera storia dell'umanità, esso, tuttavia, ribadisce: «Questo Spirito è lo stesso che ha operato nell'incarnazione, nella vita, morte e risurrezione di Gesù e opera nella Chiesa. Non è, dunque, alternativo a Cristo, né riempie una specie di vuoto, come talvolta si ipotizza esserci tra Cristo e il Logos. Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l'azione dello Spirito, “per operare lui, l'Uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale”».
In conclusione, l'azione dello Spirito non si pone al di fuori o accanto a quella di Cristo. Si tratta di una sola economia salvifica di Dio Uno e Trino, realizzata nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio, attuata con la cooperazione dello Spirito Santo ed estesa nella sua portata salvifica all'intera umanità e all'universo: «Gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito».
(Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa)

L'offerta di queste religioni orientali si muove su diversi livelli. C'è uno yoga ridotto ad una specie di ginnastica: si offre qualche elemento che può dare un aiuto per il rilassamento del corpo. Bene, se lo yoga è ridotto realmente ad una ginnastica si può anche accettare, nel caso di movimenti che hanno un senso esclusivamente fisico. Ma deve essere realmente ridotto, ripeto, a un puro esercizio di rilassamento fisico, liberato da ogni elemento ideologico. Su questo punto si deve essere molto attenti per non introdurre in una preparazione fisica una determinata visione dell'uomo, del mondo, della relazione tra uomo e Dio. Questa purificazione di un metodo in sé logico di idee incompatibili con la vita cristiana, potrebbe essere paragonata per esempio con la "demitizzazione" delle tradizioni pagane sulla creazione del mondo, realizzata nel primo capitolo della Genesi, dove il sole e la luna, le grandi divinità del mito sono ridotte a "lampade" create da Dio, lampade che riflettono la luce di Dio, e ci fanno immaginare la vera Luce, che è il Creatore della luce. E cosi, anche nel caso dello yoga e delle altre tecniche orientali, sarebbe necessaria una trasformazione e uno spostamento radicale che realmente tolgano di mezzo ogni pretesa ideologica. Nel momento in cui compaiono elementi che pretendono di guidare ad una "mistica", diventano già strumenti che conducono in una direzione sbagliata.
Questa trasformazione, o chiarimento, c'è stato?
Generalmente no. Può darsi comunque che alcune persone abbiano cercato di escludere gli elementi religiosi e ideologici, mantenendo queste pratiche su un piano di puro esercizio fisico. Questo non si può escludere.
Può esistere uno "yoga cristiano"?
Nel momento in cui lo si chiama "yoga cristiano" è già ideologizzato e appare come una religione, e questo non mi piace tanto. Mentre sul piano puramente fisico, ripeto, alcuni elementi potrebbero anche sussistere. Occorre stare molto attenti riguardo al contesto ideologico, che lo rende parte di un potere quasi mistico. Il rischio è che lo yoga diventi un metodo autonomo di "redenzione", priva di un vero incontro tra Dio e la persona umana. E in quel caso, siamo già nel trascendente. E' vero che anche nella preghiera e nella meditazione cristiana la posizione del corpo ha la sua importanza, e sta a significare un atteggiamento interiore. che si esprime anche nella liturgia. Ma nello yoga i movimenti del corpo hanno una diversa implicazione di rapporto con Dio, che non è quella della liturgia cristiana. Occorre la massima prudenza perché dietro questi elementi corporali si nasconde una concezione dell'essere come tale, della relazione tra corpo e anima, tra uomo, mondo e Dio.
Ritiene legittimo l'insegnamento della meditazione trascendentale e dello yoga nelle Chiese Cattoliche e nelle comunità religiose da parte di sacerdoti?
Mi sembra molto pericoloso perché in questo contesto queste pratiche sono già offerte come un qualcosa, appunto, di religioso.
E' possibile coniugare il mantra con la preghiera cristiana?
Il mantra è una preghiera rivolta non a Dio, ma ad altre divinità che sono idoli.
(da 30 domande al Cardinale J. Ratzinger, Intervista a cura di Ignazio Artizzu tratta dalla rivista "Una voce grida..." n°9, marzo 1999)

Il problema della preghiera con persone di diversa religione

Nell’epoca del dialogo e dell’incontro delle religioni è sorto inevitabilmente il problema se si possa pregare insieme gli uni con gli altri. A questo proposito oggi si distingue preghiera multireligiosa e interreligiosa. Il modello per la preghiera multireligiosa è offerto dalle due giornate mondiali di preghiera per la pace, nel 1986 e nel 2002, ad Assisi. Appartenenti a diverse religioni si radunano. Comune è la sofferenza per le angosce e le miserie del mondo e per la sua mancanza di pace, comune è l’anelito all’aiuto dall’alto contro le forze del male, affinché possano entrare nel mondo pace e giustizia. Da qui la volontà di porre un segno pubblico di questo anelito, che dovrebbe scuotere tutti gli uomini e rafforzare la buona volontà di porre un segno pubblico di questo anelito, che dovrebbe scuotere tutti gli uomini e rafforzare la buona volontà, che è condizione della pace. Tuttavia le persone radunate sanno pure che il loro modo di intendere il “divino” e quindi la loro maniera di rivolgersi a esso sono così diversi che una preghiera comune sarebbe una finzione, non sarebbe nella verità. Esse si raccolgono per dare un segno del comune anelito, ma pregano – anche se in contemporanea – in sedi separate, ciascuno a modo proprio. Naturalmente “pregare”, nel caso di un modo impersonale di intendere Dio (legato spesso al politeismo), è qualcosa di completamente diverso dal pregare nella fede nel Dio unico e personale. La differenza si manifesta visibilmente, ma in modo tale che quel pregare possa essere anche un grido che implora il risanamento delle nostre divisioni.

In riferimento ad Assisi – tanto nel 1986 quanto nel 2002 – ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono fra le “religioni”? Non si indebolisce così la serietà della fede, non si allontana ulteriormente Dio da noi, non si consolida la nostra condizione di abbandono? Non si possono accantonare con leggerezza tali interrogativi. I pericoli sono innegabili, e non si può negare che Assisi, particolarmente nel 1986, da molti sia stato interpretato in modo errato. Sarebbe però altrettanto sbagliato rifiutare in blocco e incondizionatamente la preghiera multireligiosa così come l’abbiamo descritta.
(da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.110-111)

La ricerca teologica sul significato delle altre religioni nel piano salvifico di Dio

14. Deve essere, quindi, fermamente creduto come verità di fede cattolica che la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio.
Tenendo conto di questo dato di fede, la teologia oggi, meditando sulla presenza di altre esperienze religiose e sul loro significato nel piano salvifico di Dio, è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. In questo impegno di riflessione la ricerca teologica ha un vasto campo di lavoro sotto la guida del Magistero della Chiesa. Il Concilio Vaticano II, infatti, ha affermato che «l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione, che è partecipazione dell'unica fonte». È da approfondire il contenuto di questa mediazione partecipata, che deve restare pur sempre normata dal principio dell'unica mediazione di Cristo: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari». Risulterebbero, tuttavia, contrarie alla fede cristiana e cattolica quelle proposte di soluzione, che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell'unica mediazione di Cristo.

Innanzitutto, deve essere fermamente creduto che la «Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è il mediatore e la via della salvezza; ed egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa. Ora Cristo, sottolineando a parole esplicite la necessità della fede e del battesimo (cf. Mc 16,16; Gv 3,5), ha insieme confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta». Questa dottrina non va contrapposta alla volontà salvifica universale di Dio (cf. 1 Tm 2,4); perciò «è necessario tener congiunte queste due verità, cioè la reale possibilità della salvezza in Cristo per tutti gli uomini e la necessità della Chiesa in ordine a tale salvezza».
La Chiesa è «sacramento universale di salvezza» perché, sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un'imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo. Per coloro i quali non sono formalmente e visibilmente membri della Chiesa, «la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo». Essa ha un rapporto con la Chiesa, la quale «trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre».

21. Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio, che è sempre donata per mezzo di Cristo nello Spirito ed ha un misterioso rapporto con la Chiesa, arriva ai singoli non cristiani, il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona «attraverso vie a lui note». La teologia sta cercando di approfondire questo argomento. Tale lavoro teologico va incoraggiato, perché è senza dubbio utile alla crescita della comprensione dei disegni salvifici di Dio e delle vie della loro realizzazione. Tuttavia, da quanto fin qui è stato ricordato sulla mediazione di Gesù Cristo e sulla «relazione singolare e unica» che la Chiesa ha con il Regno di Dio tra gli uomini, che in sostanza è il Regno di Cristo salvatore universale, è chiaro che sarebbe contrario alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite dalle altre religioni, le quali sarebbero complementari alla Chiesa, anzi sostanzialmente equivalenti ad essa, pur se convergenti con questa verso il Regno di Dio escatologico.
Certamente, le varie tradizioni religiose contengono e offrono elementi di religiosità, che procedono da Dio, e che fanno parte di «quanto opera lo Spirito nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e nelle religioni». Di fatto alcune preghiere e alcuni riti delle altre religioni possono assumere un ruolo di preparazione evangelica, in quanto sono occasioni o pedagogie in cui i cuori degli uomini sono stimolati ad aprirsi all'azione di Dio. Ad essi tuttavia non può essere attribuita l'origine divina e l'efficacia salvifica ex opere operato, che è propria dei sacramenti cristiani. D'altronde non si può ignorare che altri riti, in quanto dipendenti da superstizioni o da altri errori (cf. 1 Cor 10,20-21), costituiscono piuttosto un ostacolo per la salvezza.

22. Con la venuta di Gesù Cristo salvatore, Dio ha voluto che la Chiesa da Lui fondata fosse lo strumento per la salvezza di tutta l'umanità (cf. At 17,30-31). Questa verità di fede niente toglie al fatto che la Chiesa consideri le religioni del mondo con sincero rispetto, ma nel contempo esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l'altra”». Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici. Tuttavia occorre ricordare «a tutti i figli della Chiesa che la loro particolare condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati». Si comprende quindi che, seguendo il mandato del Signore (cf. Mt 28,19-20) e come esigenza dell'amore a tutti gli uomini, la Chiesa «annuncia, ed è tenuta ad annunciare, incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e nel quale Dio ha riconciliato a sé tutte le cose».
La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso «conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità». In effetti, «Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4): vuole la salvezza di tutti attraverso la conoscenza della verità. La salvezza si trova nella verità. Coloro che obbediscono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino della salvezza; ma la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata, deve andare incontro al loro desiderio offrendola loro. Proprio perché crede al disegno universale di salvezza, la Chiesa deve essere missionaria». Il dialogo perciò, pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes.

L’ebraismo

L’altro grande tema (N.d.C. oltre al dialogo tra le religioni del mondo) che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945 è senza dubbio una delle ragioni primarie dell’urgenza con cui tale questione è oggi sentita, ma certamente non è la sua unica causa e il suo unico criterio. Il metodo storico-critico fa apparire ampiamente discutibile l’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento; d’altra parte l’esegesi del Nuovo Testamento ha notevolmente relativizzato la cristologia. Ambedue queste circostanze sembrano a prima vista favorire il dialogo ebraico-cristiano: diventa ora possibile, apparentemente, considerare l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento come l’unica storicamente fondata. facendo passare in secondo piano la cristologia, si può rimuovere il vero ostacolo che divide giudaismo e cristianesimo.
Ma queste promesse sono ingannevoli. Infatti, se l’Antico Testamento non parla di Cristo, per i cristiani non è affatto Bibbia. Harnack ne aveva già tratto la conclusione che era finalmente giunto il momento di portare a termine il passo di Marcione, separando il cristianesimo dall’Antico Testamento. Ma ciò porterebbe appunto alla liquidazione dell’identità cristiana, che si fonda appunto sull’unità dei due Testamenti. E porterebbe al tempo stesso alla dissoluzione della parentela spirituale che ci lega a Israele e, quindi, alle conseguenze estreme già delineate da Marcione: il Dio di Israele apparirebbe come un Dio estraneo, che non è certo il Dio dei cristiani.
La stessa cosa vale per la svalutazione della cristologia: se Cristo fu solo un rabbino ebreo incompreso o un ribelle messo a morte dai romani per motivi politici, che cosa avrebbe ancora da dire il suo messaggio? Mediante lui, il Gesù Cristo creduto dalla Chiesa figlio di Dio, il Dio di Israele è divenuto il Dio delle genti, si è compiuta la promessa secondo cui il servo di Dio porterà la luce di questo Dio a tutti i popoli. Se si spegne la luce di Cristo, si spegne anche la luce di Dio che noi abbiamo riconosciuto nel suo sguardo, dell’unico Dio in cui noi crediamo con “Abramo e la sua discendenza”, alla quale, noi, come cristiani, siamo convinti di poter appartenere proprio grazie a questa fede. Le false semplificazioni danneggiano il dialogo con le religioni e danneggiano il dialogo con l’ebraismo.
(dalla Premessa del 1997 a La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.5-6)

Per Natale ci scambiamo dei doni, per dare gioia gli uni agli altri e partecipare così alla gioia che il coro degli angeli annunziò ai pastori, richiamando alla memoria il regalo per eccellenza che Dio fece all'umanità donandoci suo Figlio Gesù Cristo. 
Ma questo è stato preparato da Dio in una lunga storia, nella quale — come dice sant'Ireneo — Dio si abitua a stare con l'uomo e l'uomo si abitua alla comunione con Dio. Questa storia comincia con la fede di Abramo, Padre dei credenti, Padre anche della fede dei cristiani e per la fede nostro Padre. Questa storia continua nelle benedizioni per i patriarchi, nella rivelazione a Mosè e nell'esodo di Israele verso la terra promessa. 
Una nuova tappa si apre con la promessa a Davide ed alla sua stirpe di un regno senza fine. I profeti a loro volta interpretano la storia, chiamano a penitenza e conversione e preparano così il cuore degli uomini a ricevere il dono supremo. Abramo, Padre del popolo di Israele, Padre della fede, è così la radice della benedizione, in lui "si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen 12, 3). 
Compito del popolo eletto è quindi donare il loro Dio, il Dio unico e vero, a tutti gli altri popoli, e in realtà noi cristiani siamo eredi della loro fede nell'unico Dio. La nostra riconoscenza va dunque ai nostri fratelli ebrei che, nonostante le difficoltà della loro storia, hanno conservato, fino ad oggi, la fede in questo Dio e lo testimoniano davanti agli altri popoli che, privi della conoscenza dell'unico Dio, "stavano nelle tenebre e nell'ombra della morte" (Lc 1, 79).
Il Dio della Bibbia degli ebrei, che è Bibbia — insieme al Nuovo Testamento — anche dei cristiani, a volte di una tenerezza infinita, a volte di una severità che incute timore, è anche il Dio di Gesù Cristo e degli apostoli. 
La Chiesa del secondo secolo dovette resistere al rifiuto di questo Dio da parte degli gnostici e soprattutto di Marcione, che opponevano il Dio del Nuovo Testamento al Dio demiurgo creatore, da cui proveniva l'Antico Testamento, mentre la Chiesa ha sempre mantenuto la fede in un Dio solo, creatore del mondo e autore di ambedue i testamenti. 
La coscienza neotestamentaria di Dio che culmina nella definizione giovannea "Dio è amore" (1 Giov 4, 16) non contraddice il passato, ma compendia piuttosto l'intera storia della salvezza, che aveva come protagonista iniziale Israele. Perciò nella liturgia della Chiesa dagli inizi e fino ad oggi risuonano le voci di Mosè e dei profeti; il salterio di Israele è anche il grande libro di preghiera della Chiesa. Di conseguenza la Chiesa primitiva non si è contrapposta a Israele, ma credeva con tutta semplicità di esserne la continuazione legittima. 
La splendida immagine di Apocalisse 12, una donna vestita di sole coronata di dodici stelle, incinta e sofferente per i dolori del parto, è Israele che dà la nascita a colui "che doveva governare tutte le nazioni con scettro di ferro" (Sal 2, 9); e tuttavia questa donna si trasforma nel nuovo Israele, madre di nuovi popoli, ed è personificata in Maria, la Madre di Gesù. Questa unificazione di tre significati — Israele, Maria, Chiesa — mostra come, per la fede dei cristiani, erano e sono inscindibili Israele e la Chiesa.
Si sa che ogni parto è difficile. Certamente fin dall'inizio la relazione fra la Chiesa nascente ed Israele fu spesso di carattere conflittuale. La Chiesa fu considerata da sua madre figlia degenere, mentre i cristiani considerarono la madre cieca ed ostinata. Nella storia della cristianità le relazioni già difficili degenerarono ulteriormente, dando origine in molti casi addirittura ad atteggiamenti di antigiudaismo, che ha prodotto nella storia deplorevoli atti di violenza. 
Anche se l'ultima esecrabile esperienza della shoah fu perpetrata in nome di un'ideologia anticristiana, che voleva colpire la fede cristiana nella sua radice abramitica, nel popolo di Israele, non si può negare che una certa insufficiente resistenza da parte di cristiani a queste atrocità si spiega con l'eredità antigiudaica presente nell'anima di non pochi cristiani. 
Forse proprio a causa della drammaticità di quest'ultima tragedia, è nata una nuova visione della relazione fra Chiesa ed Israele, una sincera volontà di superare ogni tipo di antigiudaismo e di iniziare un dialogo costruttivo di conoscenza reciproca e di riconciliazione. Un tale dialogo, per essere fruttuoso, deve cominciare con una preghiera al nostro Dio perché doni prima di tutto a noi cristiani una maggiore stima ed amore verso questo popolo, gli israeliti, che "possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen." (Rom 9, 4-5), e ciò non solo nel passato, ma anche presentemente "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rom 11, 29). Pregheremo egualmente perché doni anche ai figli d'Israele una maggiore conoscenza di Gesù di Nazareth, loro figlio e dono che essi hanno fatto a noi. Poiché siamo ambedue in attesa della redenzione finale, preghiamo che il nostro cammino avvenga su linee convergenti.
È evidente che il dialogo di noi cristiani con gli ebrei si colloca su un piano diverso rispetto a quello con le altre religioni. La fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei, l'Antico Testamento dei cristiani, per noi non è un'altra religione, ma il fondamento della nostra fede. Perciò i cristiani — ed oggi sempre più in collaborazione con i loro fratelli ebrei — leggono e studiano con tanta attenzione, come parte del loro stesso patrimonio, questi libri della Sacra Scrittura. 
È vero che anche l'Islam si considera figlio di Abramo e ha ereditato da Israele e dai Cristiani il medesimo Dio, ma esso percorre una strada diversa, che ha bisogno di altri parametri di dialogo.
(da L'eredità di Abramo, dono di Natale, articolo apparso il 29 Dicembre 2000 su l’Osservatore Romano)

Al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, l'«Antico Testamento», accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia.
Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l'unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l'intera portata dell'affermazione teologica. Infatti mediante l'incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l'unico Dio, secondo cui il «monte del Signore» sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti.

Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel «tempo dei pagani». I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo.

Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.57-74)

Indubbiamente dobbiamo vivere e pensare in modo completamente nuovo il nostro rapporto con l’ebraismo, ed è quanto già si sta facendo. La dif­ferenza non è stata eliminata e, anzi, in un certo modo la sentiremo forse perfino più forte. Ma de­ve essere vissuta sulla base del rispetto vicende­vole e della interiore affinità. In questa direzione siamo in cammino. Attraverso l’Antico Testamen­to, come parte della Bibbia cristiana, c’è sempre stato un profondo legame interiore tra cristiane­simo ed ebraismo. Ma proprio questo patrimonio comune ha sempre rappresentato un fattore di di­visione, perché gli ebrei avevano la sensazione che noi avessimo rubato loro la Bibbia, ma non la vi­vessimo, che solo loro ne fossero i legittimi pro­prietari. Al contrario, nella cristianità c’era, da una parte, la sensazione che gli ebrei leggessero l’An­tico Testamento in modo sbagliato, che esso ve­nisse letto correttamente solo se apertamente proiettato sulla figura di Cristo. Essi lo hanno rin­chiuso in se stesso, privandolo del suo vero orien­tamento. E così è avvenuto che i cristiani si rivol­gessero agli ebrei, dicendo: voi avete sì la Bibbia, ma non la usate nel modo giusto, dovete fare un passo avanti, il passo decisivo. L’altro aspetto era che a partire dal II secolo ci sono sempre stati nel cristianesimo dei movimenti che volevano liberarsi dell’Antico Testamento o co­munque ne sminuivano l’importanza. Anche se questa posizione non è mai stata accettata dal ma­gistero della Chiesa, nella cristianità si è comun­que fatta strada una certa svalutazione dell’Anti­co Testamento. Se naturalmente si prendono alla lettera, superficialmente, le singole prescrizioni della legge o certe storie crudeli, ci si potrebbe chiedere perché quella dovrebbe essere la nostra Bibbia. In questo modo si è sviluppato un antise­mitismo cristiano. Quando in epoca moderna i cri­stiani si sono allontanati dall’interpretazione al­legorica, con cui i Padri avevano «cristianizzato» l’Antico Testamento, si è cominciato a sperimen­tare un nuovo senso di estraneità verso questo li­bro; dobbiamo nuovamente imparare a leggerlo in modo corretto. Dobbiamo vivere ancora l’appartenenza recipro­ca attraverso la comune storia di Abramo, che è allo stesso tempo ciò che ci separa e ciò che ci uni­sce, rispettando il fatto che gli ebrei non leggono l’Antico Testamento a partire da Cristo, ma a par­tire da Colui che deve ancora venire e non è anco­ra conosciuto; e il fatto che essi, però, proprio in questo modo, si collocano nello stesso orientamen­to di fede. Per parte nostra, noi speriamo che gli ebrei possano a loro volta capire che noi, pur ve­dendo l’Antico Testamento sotto un’altra luce, cer­chiamo tuttavia di credere insieme con loro la fe­de di Abramo e possiamo così vivere in un comu­ne orientamento interiore rivolti gli uni verso gli altri.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

La storia dei rapporti tra Israele e la cristianità è intrisa di lacrime e sangue, è una storia di diffidenza e di ostilità, ma anche - grazie a Dio - una storia sempre attraversata da tentativi di perdono, di comprensione, di accoglienza reciproca.

Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell'accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità. Pur sapendo che Auschwitz è la terrificante espressione di un'ideologia che non si limitava a volere la distruzione dell'ebraismo, ma che odiava l'eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla, dinanzi a eventi di questo genere resta la domanda sulle ragioni della presenza nella storia di tanta ostilità tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell'unico Dio e della professione della sua volontà.
Questa ostilità proviene forse proprio dalla fede dei cristiani, dall'«essenza del cristianesimo», così che per giungere a una vera riconciliazione bisognerebbe di necessità astrarre da questo nucleo e negare il contenuto centrale del cristianesimo?
Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all'intolleranza, anzi all'ostilità nei confronti degli ebrei e che, al contrario, l'auto-considerazione degli ebrei, la difesa della loro dignità storica e delle loro convinzioni più profonde esiga da parte dei cristiani la rinuncia al centro stesso della propria fede, e dunque una rinuncia alla tolleranza? Il conflitto è insito nella natura più intima della religione e può essere superato solo con il suo abbandono?

Si cerca spesso di sdrammatizzare il problema presentando Gesù come un maestro ebreo che, nella sostanza, non si è di molto scostato da quel che era concepibile nella tradizione giudaica. La sua uccisione dovrebbe allora essere intesa nel quadro delle tensioni tra giudei e romani: in effetti, la sua condanna a morte fu eseguita secondo modalità che l' autorità romana riservava alla punizione dei ribelli politici. La sua esaltazione come figlio di Dio sarebbe quindi avvenuta in seguito, nel quadro del contesto culturale ellenistico, e la responsabilità della sua morte in croce sarebbe stata trasferita dai romani ai giudei proprio in considerazione della situazione politica dell'epoca.

Tuttavia letture di questo genere non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente; relegano nell'ambito mitico la fede storica della Chiesa in Cristo. Egli appare così come un prodotto della religiosità greca e di particolari interessi politici nell'impero romano. In tal modo, però, non si rende ragione della serietà della questione, semplicemente ci si ritrae da essa.

In proposito il Catechismo scrive: «La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei giudei (M t 2,2) mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell' Antico Testamento. L'Epifania manifesta che "la grande massa delle genti" entra "nella famiglia dei patriarchi" e ottiene la dignitas israelitica - la dignità israelitica» (528).

Potremmo dire: la missione di Gesù è dunque la riunione di giudei e pagani in un unico popolo di Dio, in cui si compiono le promesse universalistiche della Scrittura, che a più riprese affermano che tutti i popoli adoreranno il Dio di Israele, al punto che nel Terzo Isaia non si legge più solamente del pellegrinaggio dei popoli verso Sion, ma viene annunciato l'invio di messaggeri ai popoli “che non hanno udito la mia fama e non hanno visto la mia gloria [...]. Anche da essi mi prenderò dei sacerdoti e dei leviti, dice il Signore” (Is 66,19.21).
Per spiegare la riunione di Israele e delle nazioni, il breve testo del Catechismo - sempre interpretando Mt 2 - ci presenta un insegnamento sul rapporto tra le religioni del mondo, la fede di Israele e la missione di Gesù: le religioni del mondo possono diventare la stella che guida gli uomini sulla via e li conduce alla ricerca del regno di Dio. La stella delle religioni indica Gerusalemme, si spegne e torna a splendere nella parola di Dio, nella Sacra Scrittura di Israele. La parola di Dio che vi è custodita si dimostra la vera stella, senza la quale e a prescindere dalla quale non è possibile giungere alla meta.

Che significa tutto ciò? La missione di Gesù consiste dunque nel riunire tutti i popoli nella comunione della storia di Abramo, della storia di Israele. La sua missione è unione, riconciliazione, come si legge anche nella lettera agli Efesini (2,18-22). La storia di Israele deve diventare la storia di tutti, la figliolanza di Abramo deve dilatarsi fino a comprendere i «molti».

Un'altra osservazione può qui essere utile. Se la storia dei magi, nell'interpretazione del Catechismo, presenta la risposta dei libri sacri di Israele come indicazione decisiva e irrinunciabile per tutti i popoli della terra, per ciò stesso essa non è altro che una variazione dello stesso tema che si incontra nella formula giovannea «La salvezza viene dai giudei» (Gv 4,22). Questa origine mantiene vivo il suo valore nel presente, nel senso che non vi può essere nessun accesso a Gesù e, dunque, nessun ingresso dei popoli nel popolo di Dio senza l'accettazione credente della rivelazione di Dio, che parla nelle sacre Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento.

A dare di farisei, sacerdoti e giudei un'immagine generalmente negativa non sono state solo le prime interpretazioni della storia di Gesù. Proprio la letteratura liberale e moderna ha riportato in auge il cliché delle contrapposizioni: farisei e sacerdoti vi compaiono come sostenitori di un rigido legalismo, come rappresentanti della legge eterna del potere costituito, delle autorità religiose e politiche, che impediscono la libertà e vivono dell'oppressione altrui. In linea con queste interpretazioni ci si pone a fianco di Gesù e si ritiene di continuare la sua battaglia, impegnandosi contro il potere clericale nella Chiesa e contro l'ordine stabilito nello Stato. Le immagini del nemico di certe battaglie moderne per la libertà si confondono con le immagini della storia di Gesù e tutta la sua storia è in fondo interpretata, in tale prospettiva, come una battaglia contro il dominio dell'uomo sull'uomo mascherato dalla religione, come l'avvio di quella rivoluzione in cui egli ha sì dovuto soccombere, ma che proprio con la sua sconfitta ha trovato un inizio che ora deve portare alla vittoria definitiva. Se Gesù dev'essere visto così, se la sua morte va intesa in un contesto del genere, il suo messaggio non può essere la riconciliazione.

La visione del Catechismo, tratta principalmente da Matteo ma in definitiva determinata dall'insieme della tradizione evangelica, porta logicamente a una prospettiva del tutto diversa, che desidero qui esporre in modo esauriente: «La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge [ = della Torah]. Il Discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la verità divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arriva a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità[...]. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pienezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste[...]» (1968).

Questa visione di una profonda unità tra l'annuncio di Gesù e l'annuncio del Sinai viene ancora una volta sintetizzata con riferimento a un'affermazione neotestamentaria, che non è solo comune alla tradizione sinottica, ma ha un carattere centrale anche negli scritti giovannei e paolini: dall'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo dipendono tutta la Legge e i Profeti (1970; Mt 7,12; 22,34-40; Mc 12,29-31; Lc 10,25-28; Gv 13,34; Rm 13,8-10). Per i popoli l'inclusione nella discendenza di Abramo si compie concretamente aderendo alla volontà di Dio, in cui precetto morale e confessione dell'unicità di Dio sono inseparabili, come risulta particolarmente chiaro nella versione marciana di questa tradizione, in cui il duplice comandamento è espressamente legato allo Shema' Isra'el, al sì all'unico Dio. All'uomo viene comandato di assumere come criterio la misura di Dio e la sua perfezione. Qui, al di là di tutte le discussioni storiche e strettamente teologiche, veniamo a trovarci proprio al cuore della responsabilità presente di ebrei e cristiani dinanzi al mondo contemporaneo. Questa responsabilità consiste precisamente nel sostenere la verità dell'unica volontà di Dio davanti al mondo e di porre così l'uomo davanti alla sua verità interiore, che è al tempo stesso la sua via.

Con la presentazione appena esposta dell'intima continuità e coerenza tra Legge e vangelo, il Catechismo resta rigorosamente all'interno della tradizione cattolica, così come è stata formulata soprattutto da Agostino e Tommaso. In essa il rapporto fra Torah e annuncio di Gesù non è mai stato visto in chiave dialettica, per cui Dio apparirebbe nella Legge sub contrario, e dunque come avversario di se stesso. In essa non vigeva la dialettica, bensì l'analogia, lo sviluppo nell'intima corrispondenza, in conformità con la bella affermazione di sant'Agostino: nell' Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo è manifesto l' Antico. Per illustrare la profonda connessione tra i due Testamenti che ne deriva, il Catechismo cita un testo molto bello di san Tommaso: «Ci furono [...], nel regime dell' Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattutto il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova legge. Al contrario, anche nel Nuovo Testamento ci sono uomini carnali [...]» (1964; Summa theologiae, I-II, 107, 1, ad 2).

Questa frase è stata intesa dai miei uditori come un riferimento all'insegnamento di Lutero sui due Testamenti. In effetti avevo presenti alcuni aspetti del pensiero di Lutero, ma ovviamente ero anche consapevole che un'opera tanto complessa e variegata come quella del riformatore tedesco non poteva essere riassunta adeguatamente in una sola frase. Qui non si può e non si deve affrontare né, tanto meno, giudicare o addirittura condannare la teologia luterana dei due Testamenti. Si vuole semplicemente accennare a diversi modelli di trattazione del problema, per meglio evidenziare la linea agostiniano-tomistica scelta dal Catechismo.

A questo punto si pone però una nuova domanda: come è potuto accadere? Come si concilia tutto ciò con il compimento della Legge fino all'ultimo iota? Poiché, in effetti, non si possono separare i principi morali generalmente validi e le disposizioni rituali e giuridiche transitorie senza distruggere la stessa Torah, la quale è di per sé una creazione unitaria, che come tale si sa debitrice della parola che Dio ha rivolto a Israele. L'idea secondo cui vi sarebbe da una parte la pura morale, che è razionale e universale, e dall'altra dei riti, che sono condizionati dalle circostanze storiche e a cui, in definitiva, si può rinunciare, misconosce del tutto la struttura interna dei cinque libri di Mosè. Il decalogo come nucleo del Pentateuco mostra in maniera sufficientemente chiara che in esso adorazione di Dio e morale, culto ed ethos sono del tutto inseparabili.

Ci troviamo così davanti a un paradosso: la fede di Israele era indirizzata all'universalità; poiché si rivolgeva all'unico Dio di tutti gli uomini, portava in sé la promessa di divenire la fede di tutti i popoli. Ma la Legge in cui trovava espressione era particolare, riferita in maniera molto concreta a Israele e alla sua storia; in questa forma essa non poteva essere universalizzata. Nel punto nodale di tale paradosso si trova Gesù di Nazareth che, come ebreo, viveva lui stesso fino in fondo nella Legge d'Israele, ma che, al contempo, si sapeva mediatore dell'universalità di Dio.

Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un'interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia chiusa e irrigidita nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica, tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele.
La sua apertura della Legge Gesù l'ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio.
Solo Dio, infatti, poteva interpretare in modo tanto radicalmente nuovo la Legge e proclamare questa trasformazione e conservazione come il significato da lui realmente inteso. L'interpretazione della Legge data da Gesù ha senso solo se è un'interpretazione derivante da un mandato di Dio, se è Dio stesso a spiegare se stesso.
Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. «lo e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

In questo contesto è importante un passo del Catechismo che interpreta la speranza cristiana come prosecuzione della speranza di Abramo, ricollegandola al sacrificio di Isacco: la speranza cristiana ha cioè «la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo». Il testo prosegue ricordando che Abramo fu «colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio» (1819). Grazie alla sua disponibilità al sacrificio del figlio Abramo diventa in modo definitivo il padre delle moltitudini, benedizione per tutti i popoli della terra (cfr. Gn 22).
Il Nuovo Testamento vede la morte di Cristo in questa prospettiva, come compimento di tale evento. Ciò significa inoltre che tutte le prescrizioni cultuali dell' Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondo. Tutti i sacrifici sono infatti azioni vicarie, che in questo grande atto di rappresentazione reale da simboli diventano realtà, così che i simboli possono venir meno senza che per ciò si sia rinunciato neppure a uno iota. L'universalizzazione della Torah da parte di Gesù, come la intende il Nuovo Testamento, non consiste nell'estrarre alcune prescrizioni morali universali dalla totalità viva della rivelazione di Dio. Essa mantiene l'unità di culto ed ethos. L'ethos resta fondato e ancorato nel culto, nell'adorazione di Dio, per il fatto che nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale. Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo.
Il Catechismo ricorda in proposito che, secondo la testimonianza degli evangelisti, alcune personalità giudaiche molto stimate erano seguaci di Gesù, anzi, che, secondo Giovanni, poco prima della morte di Gesù «molti dei capi credettero in lui» ( Gv 12,42). Il Catechismo ricorda anche che all'indomani della Pentecoste, stando agli Atti degli Apostoli, «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7). Viene inoltre citata l'affermazione di Giacomo secondo cui «parecchie migliaia di Giudei sono venuti alla fede,e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20 ). È così messo in chiaro che il racconto del processo di Gesù non può in alcun modo fondare la tesi di una colpa collettiva degli ebrei; il Vaticano II viene espressamente citato: «Quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo [...]. Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura» (597; Nostra Aetate 4).

Coerentemente, l'analisi delle responsabilità viene conclusa con una sezione dal titolo «Tutti i peccatori furono gli autori della Passione di Cristo». In questo il Catechismo poteva appoggiarsi al Catechismo Romano del 1566. Vi si legge infatti: «Se alcuno cerchi quale sia stata la causa per cui il Figlio di Dio ha subito la dolorosissima passione, troverà che (oltre la macchia ereditaria dei progenitori) furono specialmente i vizi e i peccati commessi dagli uomini dall'origine del mondo sino ad oggi e quelli che si commetteranno in seguito sino alla consumazione dei secoli. [...] E questa colpa è da imputarsi a tutti quelli che troppo spesso cadono nel peccato. Infatti, avendo i nostri peccati determinato N.S. Gesù Cristo a subire il supplizio della croce, certamente quelli che si avvoltolano nei delitti e nelle scellerataggini, per quanto sta in loro, "un'altra volta crocifiggono in se stessi il Figlio di Dio e l'espongono all'ignominia" (Ebr. 6,6)».
Il Catechismo Romano del 1566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo, «se l'avessero saputo, non avrebbero mai crocifisso il Re della gloria» (1Cor 2,8). Prosegue quindi: «noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo la mani violente contro di lui» (Catech. R. 1,5,11).
Per chi come cristiano credente vede nella croce non un semplice e casuale fatto storico, ma un vero evento teologico, queste non sono affatto superficiali esortazioni edificanti, di fronte alle quali si deve richiamare il reale svolgimento dei fatti storici; al contrario, solo queste affermazioni si spingono fino al vero nucleo di quell'evento. Tale nucleo consiste nel dramma del peccato umano e dell'amore divino; il peccato umano fa sì che l'amore di Dio per l'uomo prenda la forma della croce. Per questo da una parte il peccato è responsabile della croce, ma dall'altra la croce è la vittoria sul peccato da parte dell'amore, più forte, di Dio.
Per questo, al di là di tutte le questioni di responsabilità, ciò che in definitiva e più propriamente conta a tale proposito è quanto espresso nella lettera agli Ebrei (12,24), secondo cui il sangue di Gesù ha una voce diversa - più eloquente - da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione.
Fin da bambino - benché naturalmente non sapessi nulla di tutte le nuove conoscenze che sono state riassunte nel Catechismo - mi risultava incomprensibile che alcuni volessero trarre dalla morte di Cristo una condanna dei giudei, perché questo concetto mi era già entrato nell'anima come qualcosa capace di donarmi una profonda consolazione: il sangue di Gesù non pretende alcuna vendetta, ma chiama tutti alla riconciliazione; come spiega la lettera agli Ebrei, è esso stesso divenuto il giorno permanente della riconciliazione di Dio.
(da Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, pagg.9-26)

Intanto anche nella Chiesa è diventata patrimonio comune l’affermazione che Gesù era ebreo. Ma non si dovrebbe dire “Dio è diventato ebreo” invece di “Dio è diventato uomo”? La fede cristiana non deve dunque accettare l’ebraismo anche nella sua vocazione storica?
Anzitutto è importante essere chiaramente consapevoli che Gesù è stato ebreo. Al riguardo vorrei riferire quanto segue. Sono andato a scuola durante il periodo nazista e ho conosciuto direttamente la tendenza dei “deutsche Christen” [i cristiani filonazisti] a fare di Cristo un “ariano”: in quanto originario della Galilea non sarebbe stato affatto ebreo. Nel nostro corso di religione, come anche nelle prediche, veniva invece detto con energia: questa è una falsificazione; Cristo era figlio di Abramo, figlio di Davide, è stato un ebreo, ciò fa parte delle promesse, è parte della nostra fede. Si tratta indubbiamente di un punto importante, al quale noi, come cristiani ed ebrei, siamo davvero reciprocamente legati. Ma rimane significativa e vera anche l’altra affermazione: Dio è diventato uomo. E’ interessante il fatto che nel Nuovo Testamento siano presenti due genealogie di Gesù: quella di Matteo risale ad Abramo e indica Gesù come figlio di Abramo, come figlio di Davide e quindi come realizzazione della promessa di Israele. Quella di Luca risale ad Adamo e indica Gesù soprattutto come l’Uomo. E’ decisamente un elemento importante che Gesù sia un uomo e che la sua vita e la sua morte siano state per tutti gli uomini. Proprio l’eredità di Abramo nella fede fa sì che l’eredità promessa si estenda a tutta l’umanità. Perciò la semplice asserzione originaria “egli è diventato un uomo” è sempre importante. Infine, in terzo luogo, si deve aggiungere che Gesù, come ebreo personalmente ossequiente alle leggi, ha anche superato l’ebraismo e ha voluto interpretare ex novo tutta l’eredità ebraica in una fedeltà più grande e nuova. Questo è proprio il punto di conflittualità. A riguardo esistono anche buoni spunti di dialogo. Penso soprattutto a un bel libro del rabbino americano Jacob Neusner, che è intervenuto con serietà e correttezza nel dibattito sul discorso della montagna. Qui egli evidenzia con grande franchezza i punti di contrasto, ma li assume con amore e mette infine in rilievo il sì comune al Dio vivente. Non dobbiamo dunque nascondere i contrasti. Sarebbe una via sbagliata, perché una via che lascia da parte la verità non è mai una vera via verso la pace. I contrasti esistono. Dobbiamo imparare a trovare amore e pace proprio nei contrasti.
L’Olocausto avvenne non nell’epoca della Chiesa, bensì in un momento in cui la Chiesa aveva definitivamente perso la sua autorità sui cuori degli uomini. Oggi come ieri, però, ci si deve chiedere con onestà come sia stata possibile una simile tragedia in un contesto di tradizione cristiana. Ora, non sembra più tanto lontana l’ora in cui in Europa i cattolici saranno meno numerosi di quanto fossero prima della guerra gli ebrei, il cui genocidio essi non hanno saputo impedire.
Come Lei ha giustamente osservato, si tratta di un grande e oscuro capitolo della storia. L’Olocausto non è stato commesso dai cristiani e non è stato commesso in nome di Cristo, ma di esso si sono resi responsabili forze ostili al cristianesimo ed è stato concepito come primo passo della distruzione del cristianesimo. Da bambino, io stesso ho vissuto personalmente quei tempi. Allora si parlava spessissimo del cristianesimo giudaizzato e della giudaizzazione dei germani attraverso il cristianesimo, specialmente in relazione alla Chiesa cattolica. A Monaco, il giorno dopo la notte dei cristalli si arrivò ad assalire il vescovado. Il motto era: “dopo gli ebrei, l’amico degli ebrei”. Nelle fonti, soprattutto nello “Stürmer”, si può leggere che il cristianesimo, soprattutto nella sua forma cattolica, veniva considerato come un tentativo dell’Ebraismo di impadronirsi del potere – l’ebraizzazione della razza germanica, come si diceva – e che, per superare l’Ebraismo, ci si sarebbe dovuti, un giorno, liberare definitivamente anche dell’attuale cristianesimo, per arrivare al cosiddetto cristianesimo positivo di Hitler. E’ importante e non si deve tacere, quindi, la circostanza che l’annientamento degli ebrei da parte di Hitler aveva un significato intenzionalmente anticristiano. Ma ciò non toglie che ne furono responsabili uomini battezzati. Anche se le SS furono un’organizzazione criminale di atei e anche se tra di loro non c’era quasi nessun cristiano credente, essi erano comunque battezzati. L’antisemitismo cristiano aveva in un certo senso preparato il terreno a tutto questo, non lo si può negare. C’era un antisemitismo cristiano in Francia, in Austria, in Prussia, in tutti i paesi, e da questa base si è potuto sviluppare il resto. E questo fatto deve essere occasione di un continuo esame di coscienza.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pagg.281-284)

La parola “Testamento” non è stata imposta dall’esterno alle Scritture, ma è stata tratta da esse: il titolo che i cristiani danno ai due libri non si propone solo di descrivere a posteriori il senso essenziale del libro, ma di mettere in evidenza il filo interiore della stessa Scrittura e di nominare esplicitamente il termine fondamentale che costituisce la chiave per il tutto. Abbiamo dunque in questa parola un certo tentativo di esprimere in maniera sintetica l’ “essenza del cristianesimo” con un termine derivato da una delle sue fonti fondamentali.

Ma la scelta della parola latina Testamentum è stata davvero corretta? Questa traduzione rende in maniera appropriata i vocaboli usati nei testi ebraico e greco o porta in una direzione sbagliata? La problematica della traduzione emerga chiaramente dal contrasto tra la più antica versione latina e quella di san Girolamo. Mentre la prima usa il termine Testamentum, Girolamo ha optato per i termini foedus o pactum. Come titolo del libro si è imposto “Testamento”, ma, quando parliamo di ciò che si intende sul piano del contenuto, seguiamo Girolamo e parliamo di antica e nuova alleanza, tanto nella teologia quanto nella liturgia. Ma che cosa è giusto? Sull’etimologia della parola ebraica berit non vi è unanimità tra gli esperti; il significato inteso dagli autori biblici può essere compreso solo dal contesto contenutistico dei testi. Un’importante indicazione per la comprensione della parola sta nel fatto che i traduttori greci della Bibbia ebraica, in 267 passi sui 287 in cui compare, hanno reso la parola berit con διαθήκη, dunque non con la parola σπονδή o συνθήκη, che in greco sarebbe l’equivalente di “patto” o “alleanza”. Partendo dalla loro visione teologica del testo, essi giunsero chiaramente alla conclusione che nella fattispecie non trattava di una syn-theke – un accordo reciproco – ma di una dia-theke, una disposizione, in cui non sono due volontà a mettersi d’accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento.

Per quanto mi è dato a vedere, oggi la ricerca esegetica è concorde nella convinzione che in tal modo gli autori della Septuaginta hanno correttamente inteso il testo biblico. Ciò che noi chiamiamo “alleanza”, nella Bibbia non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono fra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche: questa idea di relazione i cui partner si pongono sullo stesso piano è incompatibile con l’immagine biblica di Dio. Le Scritture presuppongono piuttosto che l’uomo non sia di per sé in grado di stabilire un rapporto con Dio, né tanto meno di dargli qualcosa e, in cambio, di ricevere da lui o, addirittura, di imporgli degli obblighi in relazione alle azioni dall’uomo stesso compiute. Se si giunge a un rapporto tra Dio e l’uomo, ciò può avvenire solo grazie a una libera scelta di Dio, la cui sovranità resta per questo intatta. Si tratta dunque di una relazione del tutto asimmetrica, dato che nel rapporto con la creatura Egli è e resta il totalmente altro: l’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio. Certamente, con quest’ultima affermazione andiamo già oltre la pura questione filologica. Benché la struttura dell’alleanza abbia come modello i patti statuali ittiti e assiri, in cui il sovrano concedeva dei diritti al vassallo, l’alleanza di Dio con Israele è più di un contratto vassallatico: il re-Dio non riceve nulla dall’uomo, ma gli dà la via della vita nel dono della sua Legge.

Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma?
Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra però realizzare un’inattesa reciprocità.

Muovendo da un punto di partenza del tutto differente e di segno quasi opposto, il pensiero antico era consapevole che la relatio tra Dio e l’uomo poteva essere solamente asimmetrica. Dalla logica del pensiero metafisico nella filosofia greca si deduceva che il Dio immutabile non poteva stabilire delle relazioni mutevoli, che la relazione era caratteristica dell’uomo in quanto essere mutevole. Nel rapporto tra Dio e l’uomo si poteva quindi parlare solo di una relatio non mutua, di un volgersi dell’uno all’altro senza reciprocità: l’uomo si relaziona a Dio, ma non Dio all’uomo. La logica pare inoppugnabile. L’eternità esige l’immutabilità, l’immutabilità esclude relazioni che si collocano nel tempo e si riferiscono.

La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3,4-18 e in Gal 4,21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20) con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”.

La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato. Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale. E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre alleanze. L’Antico Testamento conosce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele, quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide. Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, dev’essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’alleanza con Abramo e quella con Mosè. L’alleanza con Abramo la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio.

D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza.

Un dato incontestato è che i quattro racconti dell’istituzione dell’eucaristia (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26) possono essere suddivisi in due gruppi, in base alla redazione del testo e alla teologia che vi esprime: la tradizione marciano-matteana e quella che troviamo in Paolo e Luca. La differenza principale tra di esse si trova nelle parole sul calice. In Matteo e Marco, a proposito del contenuto del calice, si dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”; Matteo aggiunge inoltre: “in remissione dei peccati”. In Luca e Paolo, invece, il contenuto del calice è così indicato: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”; Luca aggiunge: “che è versato per voi”. “Alleanza” e “sangue” sono grammaticalmente correlati in forma antitetica. In Matteo e Marco il dono del calice è “il sangue”,subito descritto come “sangue dell’alleanza”. In Paolo e Luca il calice è “la nuova alleanza”, di cui si dice che è fondata “nel mio sangue”. Una seconda differenza che possiamo registrare è che solo Luca e Paolo parlano di nuova alleanza. Una terza importante differenza va ricordata: solo Matteo e Marco contengono l’espressione “per molti”. Ambedue le linee si basano su tradizioni dell’Antico Testamento relative all’alleanza, ma scelgono ciascuna un differente approccio. In tal modo nell’insieme dei racconti dell’istituzione dell’eucaristia confluiscono tutte le idee fondamentali sull’alleanza, fondendosi in una nuova unità.

Di quali tradizioni si tratta? Le parole sul calice di Matteo e Marco sono tratte direttamente dal racconto della stipulazione dell’alleanza sul Sinai. Con il sangue del sacrificio Mosè asperge anzitutto l’altare, che rappresenta il Dio nascosto, poi il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8). Antichissimi modi di pensare vengono qui accolti ed elevati a un piano superiore.
G. Quell ha così definito l’idea arcaica dell’alleanza, come appare nelle storie dei patriarchi: “[...] stipulare un’alleanza significa tanto entrare a far parte di un clan estraneo, quanto introdurre il partner nel proprio, stabilendo così una relazione giuridica con lui”. La fittizia parentela di sangue così realizzata “fa di coloro che vi partecipano dei fratelli carnali”. “L’alleanza produce una totalità che è pace” – Shalom. Il rito di sangue del Sinai significa che Dio compie con questi uomini, durante il cammino nel deserto, la stessa cosa che fino a quel momento hanno fatto tra loro solo dei gruppi tribali diversi: entra con gli uomini in una misteriosa parentela di sangue, così che ora egli appartiene a loro ed essi a lui. Indubbiamente la parentela qui stabilita, che nasce paradossalmente tra Dio e l’uomo, è caratterizzata, dal punto di vista del contenuto, dalla parola letta, dal libro dell’alleanza. Mediante l’appropriazione di questa parola, la vita da lui e con lui, nasce la parentela rappresentata cultualmente nel rituale del sangue. Quando Gesù, porgendo il calice, dice ai discepoli: “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, le parole del Sinai sono portate a un realismo estremo e, al contempo, ne viene dischiusa una profondità che prima non poteva essere colta. Quel che accade qui è insieme spiritualizzazione e supremo realismo. Infatti la comunione di sangue sacramentale, che ora diviene possibile, lega coloro che la ricevono a quest’uomo Gesù, fatto di carne, e insieme al suo mistero divino, in una comunione concretissima, che arriva fino alla corporeità.

Paolo ha descritto questa nuova “parentela di sangue” con Dio, che sorge mediante la comunione con Cristo, per mezzo di un ardito e crudo paragone: “O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? Infatti è detto: i due saranno una sola carne [Gn 2,24]. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito [pneuma]” (1Cor 6,17). In queste parole si chiarisce certamente anche la natura del tutto differente della parentela: la comunione sacramentale con Cristo e quindi con Dio estrae l’uomo dal mondo materiale e transitorio a lui proprio e lo innalza fin dentro l’essere stesso di Dio, che l’apostolo descrive con il termine “pneuma”. Il Dio che è disceso trae l’uomo in alto, in ciò che gli è proprio e che è nuovo. La parentela con Dio significa per l’uomo un nuovo e profondamente diverso livello esistenziale.

Per la nostra ricerca dell’essenza dell’alleanza è importante questo: la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata. Il rinnovamento dell’alleanza, che pure fin dalle origini è stato un elemento essenziale nella liturgia di Israele, raggiunge qui la sua forma più alta possibile.

Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere, ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. Conseguentemente essa ha sottolineato con forza che non si tratta di “alleanza”, ma di “testamento”, di una pura disposizione di Dio. Le espressioni riferite all’esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenenti l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendere in questo contesto. Che cosa dobbiamo dire in proposito, alla luce di quanto osservato finora? Due dati mi sembrano ormai chiari, che compensano l’unilateralità di queste antitesi e rendono evidente l’unità intrinseca della storia di Dio con gli uomini, così come è rappresentata in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento.

Anzitutto va ricordato che l’alleanza fondamentalmente nuova, quella con Abramo, mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. Paolo ha quindi colto nel segno osservando che l’alleanza con Abramo unisce in sé ambedue gli elementi dell’universalità intenzionale e del libero dono. In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani. Per quanto riguarda l’alleanza sinaitica, bisogna operare ulteriori distinzioni. Essa è strettamente legata al popolo di Israele; dà a questo popolo un ordinamento giuridico e cultuale (i due aspetti sono inseparabili), che come tale non può essere semplicemente esteso a ogni popolo. Dal momento che per Israele questo ordinamento giuridico è costitutivo, il “se” della Legge da rispettare è parte integrante della sua essenza e, di conseguenza, è condizionato, cioè legato al tempo, uno stadio delle disposizioni di Dio che ha una sua durata. Paolo ha messo chiaramente in luce tutto ciò e nessun cristiano può prescindere da tale fatto; la storia stessa conferma questa visione. Ma con ciò non si è detto tutto sull’alleanza mosaica né sull’ “Israele secondo la carne”. Infatti la Legge non è solo un peso che viene imposto, come noi pensiamo dando un’unilaterale accentuazione alle antitesi paoline. Nella prospettiva dei credenti dell’Antico Testamento la Legge stessa è la forma concreta della grazia. Infatti la grazia è conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di Dio significa conoscere se stessi, significa comprendere il mondo, significa sapere dove si va. Significa anche che veniamo liberati dall’oscurità delle nostre domande senza fine, che è giunta la luce, senza la quale non possiamo vedere e procedere. “A nessun altro popolo hai manifestato la tua volontà”: per Israele, almeno nei suoi migliori rappresentanti, la Legge è il manifestarsi della verità, il manifestarsi del volto di Dio e, quindi, la possibilità di vivere rettamente.

E’ a partire di qui che dobbiamo comprendere ciò che Paolo intende quando in Gal 6,2 – seguendo la speranza messianica giudaica – parla della Torah del Messia, della Torah di Cristo: anche secondo Paolo il Messia, Cristo, non lascia l’uomo senza legge, senza diritto. Caratteristico del Messia, come nuovo e più grande Mosè, è piuttosto il fatto che egli porta l’interpretazione definitiva della Torah, in cui la stessa Torah viene rinnovata, perché la sua vera essenza ora si svela completamente e il suo carattere di grazia appare indubitabilmente come realtà. Afferma in proposito H.Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: “La Torà del Messia Gesù è in effetti una “interpretazione” della legge mosaica [...] una “interpretazione” mediante la croce del Messia Gesù”. La sua autorità “svela la legge nella sua parola essenziale, come appello originario, suscitatore di vita, di colui che l’ha adempiuta”.

La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. A lui si riferisce dunque l’invito: “lui dovete ascoltare”. Così la “Legge” diventa universale, così essa è grazia, così fonda un popolo, che diventa popolo proprio mediante l’ascolto e la conversione. In questa Torah, che è Gesù stesso, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). Imitarlo, seguirlo, è dunque osservare la Torah, che proprio in lui ha trovato la sua pienezza definitiva.

Questa idea dell’unilateralità del testamento corrisponde senza dubbio al concetto della grandezza e della sovranità di Dio; essa è certamente condizionata anche da una struttura sociale. I monarchi dell’antico Oriente agivano solo unilateralmente, da sovrani; nessuno poteva porsi al loro stesso livello. Ma è proprio questo sfondo sociologico dello schema asimmetrico a venire lacerato e rifiutato nella Bibbia; così anche l’immagine di Dio viene delineata in modo nuovo. Dio dispone, ma c’è comunque – praticamente fin dall’inizio – un impegno che Dio stesso si prende, grazie al quale si sviluppa qualcosa di simile a una relazione tra partner. Agostino ha messo molto bene in evidenza questo aspetto, affermando: “[...] è fedele Dio, il quale si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi. Gli parve poco la promessa, ed allora volle obbligarsi anche per iscritto e ci rilasciò, per così dire, il documento autografo di queste sue promesse”.

Prima di tutti questi testi sta la misteriosissima storia della conclusione dell’alleanza con Abramo, in cui il patriarca, secondo il costume orientale, divide a metà gli animali sacrificali. I partner dell’alleanza usano passare in mezzo agli animali divisi, rito che ha valore di giuramento imprecatorio: se rompo l’alleanza, accada a me come a questi animali. In una visione Abramo vede come un forno fumante e una fiaccola ardente – ambedue immagini della teofania – passare tra le carni degli animali divisi. Dio suggella l’alleanza garantendo lui stesso la fedeltà ad essa con un inequivocabile simbolo di morte. Ma Dio può morire? Può punire se stesso? L’esegesi cristiana dovette vedere in questo testo un misterioso e prima di allora indecifrabile segno della croce, in cui Dio, con la morte di suo figlio, si fa garante della indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21). Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce. Proprio dal carattere incondizionato dell’agire di Dio sorge così, nella prospettiva della Bibbia, una vera bilateralità; il testamento diventa alleanza. I padri della Chiesa hanno espresso questa nuova bilateralità, che scaturisce dalla fede in Cristo come Colui che adempie le promesse, con i due concetti di incarnazione di Dio e divinizzazione dell’uomo. Il legame che Dio si autoimpone passa quindi attraverso il dono della Scrittura come parola vincolante della promessa e arriva al punto che Dio si lega, nella sua stessa esistenza, alla creatura umana assumendo la natura di uomo. Ciò significa, viceversa, che il sogno originale dell’uomo si realizza e l’uomo diventa “come Dio”: in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva.

Abbiamo osservato che nella concezione antica l’uomo poteva entrare in rapporto con Dio riconoscendolo e amandolo, ma che, per contro, una relazione del Dio eterno con l’uomo temporale era considerata contraddittoria e, dunque, impossibile. Il monoteismo filosofico del mondo antico aveva aperto la porta alla fede biblica in Dio e al suo monoteismo religioso, che pareva rendere nuovamente possibile l’accordo smarrito tra ragione e religione. I padri, che partivano da questa corrispondenza tra filosofia e rivelazione biblica, dovettero però constatare che dell’identità dell’unico Dio della Bibbia si poteva parlare essenzialmente per mezzo di due predicati: creazione e rivelazione, creazione e redenzione. Ambedue, però, sono concetti relazionali. Il Dio biblico è dunque un Dio-in-relazione e, quindi, nell’essenza della sua identità, si contrappone al Dio chiuso in sé della filosofia.

Una categoria preesistente, quella di relazione, mutò radicalmente il suo significato. Nella tavola aristotelica delle categorie la relazione si colloca nel gruppo degli accidenti, che rinviano alla sostanza e da essa dipendono; in Dio non vi sono dunque accidenti. Attraverso la riflessione cristiana sulla Trinità, la relatio esce dallo schema sostanza-accidente. Dio stesso viene ora descritto come trinitaria realtà relazionale, come relatio subsistens. Se dell’uomo si dice che è immagine di Dio, ciò significa che egli è l’essere costruito come relazione; che egli, attraverso e dentro tutte le sue relazioni, cerca la relazione che è il fondamento del suo esistere. Allora l’alleanza è la risposta all’uomo come immagine e somiglianza di Dio; in essa si chiarisce chi e che cosa noi siamo e chi è Dio: per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”.

Anche se tutta la portata di questo processo non è ancora chiara, tuttavia la fusione delle categorie tradizionali è del tutto evidente in Agostino, De Trin., V,V,6 (PL 42,914): “Quamobrem nihil in eo [=in Deo] per accidens dicitur, quia nihil ei accidit; nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur [...] hoc non secundum substantiam dicuntut, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile”.
(La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo testamento
da J.Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.27-48)

Lo studio della Bibbia è come l’anima della teologia; lo dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 24), rifacendosi a una espressione del Papa Leone XIII. Tale studio non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri. Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.
Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo.

La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive.
(dalla Prefazione al Documento della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993)

Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell'unità interiore dell'unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell'itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant'Agostino d'Ippona

Per il giovane africano, che come fanciullo aveva ricevuto il sale, che lo rendeva catecumeno, era chiaro che la svolta verso Dio doveva essere una svolta verso Cristo, che senza Cristo egli non poteva trovare veramente Dio. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell'Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Nella sua ricerca si imbatté così in persone, che annunciavano un nuovo cristianesimo spirituale — un cristianesimo, nel quale si disprezzava l'Antico Testamento come non spirituale e ripugnante; un cristianesimo, il cui Cristo non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici. Queste persone promettevano un cristianesimo della semplice e pura ragione, un cristianesimo nel quale Cristo era il grande illuminato, che conduceva gli uomini ad una vera autoconoscenza. Erano i manichei.
La grande promessa dei manichei si dimostrò ingannevole, ma il problema non era per questo risolto. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant'Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un'interpretazione dell'Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Così fu superato non solo lo scandalo esteriore della forma letteraria insoddisfacente della Bibbia «vetus latina», ma soprattutto lo scandalo interiore di un libro, che si manifestava ora più che come documento della storia della fede di un determinato popolo, con tutti i suoi disordini ed errori, come voce di una sapienza proveniente da Dio e che concerneva tutti. Una tale lettura della Bibbia di Israele, che riconosceva nelle sue vie storiche la trasparenza di Cristo e così la trasparenza del Logos, dell'eterna sapienza stessa, non fu fondamentale solo per la decisione di fede di Agostino: essa fu e rimane il fondamento della decisione di fede nella Chiesa nel suo insieme. 
Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Dal punto di vista della esegesi storico-critica — almeno a prima vista — tutto sembra argomentare contro. Così si è espresso nel 1920 l'eminente teologo liberale Adolf von Harnack: «Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo (allude a Marcione) fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16° secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale».
Ha ragione Harnack? A prima vista molti elementi sembrano dargli ragione. Se l'esegesi di Ambrogio aprì la via verso la Chiesa per Agostino e divenne nel suo orientamento di fondo — anche se nei particolari naturalmente del tutto variabile — il fondamento della fede nella Parola di Dio della Bibbia bipartita ma pur sempre unitaria, si può subito così controbattere: Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l'ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell'antichità — soprattutto Omero, quindi non solo avrebbe realizzato un'ellenizzazione profondamente estranea alla parola biblica, ma si sarebbe servito di un metodo, che in se stesso era privo di credibilità, poiché mirante in definitiva a conservare come sacrale ciò che in realtà rappresentava la testimonianza di una cultura non più attualizzabile. Ma le cose non sono così semplici. Origene ancor più che sull'esegesi di Omero da parte dei greci poteva fondarsi sull'esegesi dell'Antico Testamento, che era nata in ambito giudaico, sopratutto in Alessandria e con Filone come capofila, e che in un modo del tutto proprio cercava di dischiudere la Bibbia di Israele ai greci, i quali ben al di là degli dei cercavano l'unico Dio, che potevano trovare nella Bibbia. Egli inoltre ha imparato dai rabbini. Infine egli ha elaborato principi cristiani del tutto specifici: l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento.
Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell'esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l'allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della «Scrittura» — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: «Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi» (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: «E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di fondare questa pretesa nei particolari, sopratutto Matteo, ma non meno Paolo, il quale utilizzò in proposito i metodi di interpretazione rabbinici e cercò di mostrare che proprio questa forma di interpretazione sviluppata dagli scribi conduce a Cristo come chiave delle «Scritture». Per gli autori ed i fondatori del Nuovo Testamento l'Antico Testamento è anzi molto semplicemente la «Scrittura»; solo la Chiesa nascente poteva lentamente formare un canone neotestamentario, che ora allo stesso modo costituiva Sacra Scrittura, ma pur sempre in quanto presuppone come tale la Bibbia di Israele, la Bibbia degli Apostoli e dei loro discepoli, che soltanto ora riceve il nome di Antico Testamento, e le fornisce la chiave di interpretazione. 
In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione, a partire dai quali l'esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. Lutero, nel contesto dell'umanesimo e della sua nuova coscienza storica, soprattutto però nel contesto della sua dottrina della giustificazione, ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto fra le due parti della Bibbia cristiana, che non si fonda più sull'armonia interiore di Antico e Nuovo Testamento, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e vangelo. Bultmann ha espresso in modo moderno questo approccio di fondo con la formula, secondo cui l'Antico Testamento si sarebbe adempiuto in Cristo nel suo fallimento. Più radicale è la proposta sopra menzionata di Harnack, che — per quanto io possa vedere — praticamente non è stata ripresa da nessuno, ma era perfettamente logica a partire da un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita. Ciò, come abbiamo visto, non è una questione storica particolare, ma i fondamenti stessi del Cristianesimo sono qui in discussione. Così diviene anche chiaro perché nessuno ha voluto seguire la proposta di Harnack, di realizzare finalmente quel congedo dall'Antico Testamento intrapreso solo troppo presto da Marcione. Ciò che a quel punto resterebbe, il nostro Nuovo Testamento, non avrebbe senso in se stesso. Il documento della Pontificia Commissione Biblica che qui presentiamo dice in proposito: «Senza l'Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi» (n. 84). 
A questo punto diventa visibile la complessità del compito, davanti al quale si trovò la Pontificia Commissione Biblica, quando si decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se esiste una via di uscita dal vicolo cieco descritto da Harnack, deve essere ampliato ed approfondito, rispetto alla visione degli studiosi liberali, il concetto di un'interpretazione oggi sostenibile dei testi storici, soprattutto però del testo della Bibbia considerato come Parola di Dio. In questa direzione negli ultimi decenni è accaduto qualcosa di importante. La Pontificia Commissione Biblica ha presentato il contributo essenziale di questi studi nel suo Documento pubblicato nel 1993 «L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa». L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, era un ausilio per comprendere meglio come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità dell'insieme. La Commissione Biblica riprendendo questo suo precedente documento e fondandosi su accurate riflessioni metodologiche ha approfondito i singoli grandi complessi tematici di entrambi i Testamenti nella loro relazione ed ha potuto in conclusione dire che l'ermeneutica cristiana dell'Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, «corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi» (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza per la continuazione del dialogo, ma sopratutto anche per i fondamenti della fede cristiana. 
La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un'altra luce. Due problemi principali si ponevano: possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente ed umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l'ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? La Commissione ha affrontato entrambe le questioni. È chiaro che un congedo dei cristiani dall'Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune. Ciò che però deve conseguire dagli eventi accaduti è un rinnovato rispetto per l'interpretazione giudaica dell'Antico Testamento. Al riguardo il documento dice due cose. Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia « è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell'epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa » (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall'esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell'esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana. 
Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l'ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi «antigiudaici». Qui vorrei solo sottolineare un'intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all'interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell'Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza. 
(dalla Prefazione al documento della Pontificia Commissione Biblica Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, del 2001)

L’Islam

Quante pagine di storia registrano le battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio, quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario potesse essere cosa a Lui gradita. Il ricordo di questi tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà.
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI a Colonia, durante la Giornata Mondiale della gioventù ad alcuni rappresentanti delle comunità musulmane il 20 agosto 2005)

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione (dinanzi alla sfida del terrorismo)? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.
Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.
Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’“occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.
E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.
Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.
E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.
Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.

Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo.
Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.

Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo.
Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti?
E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale.
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.
Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male.
E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo.

Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza.
Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.
(dal Discorso tenuto in Normandia il 4 giugno 2004 in occasione del 60° anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia; la traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 , settembre-ottobre 2004)

Anzitutto, si deve ricordare che l’Islam non è una grandezza unitaria, non ha nemmeno un’istanza unitaria, perciò il dialogo con l’Islam è sempre un dialogo con determinati gruppi. Nessuno può parlare a nome di tutto l’Islam, che non ha un magistero dottrinale comune. Indipendentemente dalle divisioni tra Sunniti e Sciiti, esso si presenta anche in diverse varianti. C’è un Islam “nobile”, rappresentato ad esempio dal re del Marocco, e c’è quello estremista e terrorista, che però non deve neppure essere identificato con l’Islam in generale, poiché gli si farebbe comunque torto.
Come ricordava anche Lei, è importante chiarire che l’Islam pensa e organizza in maniera completamente diversa i rapporti tra società, politica e religione. Se oggi si discute in Occidente della possibilità di facoltà teologiche islamiche o del concetto di Islam come ente di diritto pubblico, si presuppone allora che tutte le religioni siano ovunque strutturate in modo uguale; che esse si adattino tutte a un sistema democratico, con i suoi ordinamenti e i suoi spazi di libertà, garantiti proprio da questi stessi ordinamenti. Tutto questo, però, appare in contraddizione con l’essenza stessa dell’Islam, che non conosce affatto la separazione tra la sfera politica e quella religiosa, che il Cristianesimo portava in sé fin dall’inizio. Il Corano è una legge religiosa che abbraccia tutto, che regola la totalità della vita politica e sociale e suppone che tutto l’ordinamento della vita sia quello dell’Islam. La Šarī’a plasma una società da cima a fondo. Di conseguenza l’Islam può sfruttare tali libertà, concesse dalle nostre costituzioni, ma non può porre tra le sue finalità quella di dire: sì, ora siamo anche noi ente di diritto pubblico, ora siamo presenti come i cattolici e i protestanti. A questo punto esso non ha ancora raggiunto pienamente il suo vero scopo, si trova ancora in una fase di alienazione. Diversamente dai nostri modelli, l’Islam pensa la realtà della vita e della società in maniera assolutamente totalizzante, esso abbraccia tutto e il suo ordinamento della vita è diverso dal nostro. Esiste un chiaro assoggettamento della donna all’uomo, come anche un ordinamento del diritto penale e delle relazioni sociali molto rigido e opposto ai nostri moderni concetti di società. Deve esserci chiaro che non si tratta di una confessione come tante altre, e non si inserisce nello spazio di libertà della società pluralistica. Se si presenta così, come oggi talvolta capita, l’Islam è declinato secondo un modello cristiano e non è visto nella sua vera essenza. Perciò il problema del dialogo con l’Islam è naturalmente molto più complicato di quanto avvenga nel dialogo tra cristiani...

Cosa può significare per il cristianesimo il rafforzamento mondiale dell’Islam?
Questo rafforzamento è un fenomeno che presenta vari aspetti. Da una parte vi concorrono degli aspetti finanziari. Il potere finanziario raggiunto dai paesi arabi permette loro di costruire dappertutto grandi moschee e di assicurare una presenza di istituzioni culturali musulmane. Questo però è sicuramente solo un fattore.
L’altro è una identità rafforzata ed una nuova autocoscienza.
Nella situazione culturale del secolo XIX e del­l’inizio del secolo XX, dunque fino agli anni Ses­santa, la superiorità dei paesi cristiani era mili­tarmente, politicamente, industrialmente e culturalmente così significativa, che l’Islam era confi­nato in secondo piano e le civiltà di tradizione cri­stiana si potevano configurare come la potenza vit­toriosa della storia mondiale. Poi è sopravvenuta la grande crisi morale del mondo occidentale, che è poi il mondo cristiano. Di fronte alle profonde contraddizioni dell’Occidente e alla sua confusione interiore — di fronte alla quale contemporanea­mente si sviluppava una nuova potenza economi­ca dei paesi arabi — si è risvegliata l’anima isla­mica: siamo noi che abbiamo una identità miglio­re, la nostra religione resiste, voi non ne avete più nessuna.
Oggi sono proprio questi i sentimenti del mon­do musulmano: i paesi occidentali non sono più in grado di portare nessun messaggio di caratte­re morale, hanno da offrire al mondo solo know-­how; la religione cristiana ha abdicato, non esiste più come religione; i cristiani non hanno più mo­rale né fede, ci sono solo i resti di qualche moder­na idea illuministica; noi abbiamo la religione che resiste.
Così i musulmani hanno ora la consapevolezza che l’Islam, alla fine, è davvero rimasto sulla sce­na come la religione più vitale, che essi hanno da dire al mondo qualcosa e che sono dunque la ve­ra forza religiosa del futuro. Prima la Sari’a e tutto il resto erano usciti di scena, ora c’è il nuovo or­goglio. Così si è risvegliato un nuovo entusiasmo,
una nuova intensità nel voler vivere l’Islam. Que­sta è la sua grande forza: abbiamo un messag­gio morale, che è ininterrotto dall’epoca dei pro­feti, e diremo al mondo come si può vivere, i cri­stiani non lo possono più fare. Con questa forza interiore dell’Islam, che sta affascinando anche gli ambienti accademici, dobbiamo sicuramente con­frontarci.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano; essa non poteva svilupparsi in nessun altro ambito se non in esso. Bisogna anzi aggiungere: essa non è affatto impiantabile in qualsiasi altro sistema, come si può oggi constatare con chiara evidenza nella rinascita dell’islam. Il tentativo di innestare i cosiddetti criteri occidentali, staccati dal loro fondamento cristiano, nelle società islamiche, misconosce la logica interna dell’islam come la logica storica cui appartengono i criteri occidentali.
Un tale tentativo era perciò destinato al fallimento in questa forma. La costruzione sociale dell’islam è teocratica, quindi monistica, non dualistica. Il dualismo che è la condizione previa della libertà presuppone a sua volta la logica cristiana. Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare: solo lì dove è preservato il dualismo di Chiesa e Stato, di istanza sacrale e politica, vi è la condizione fondamentale per la libertà. Dove la Chiesa diviene essa stessa Stato, la libertà va perduta. Ma anche lì dove la Chiesa viene soppressa come istanza pubblica e pubblicamente rilevante, viene a cadere la libertà, perché lì lo Stato reclama di nuovo per sé la fondazione dell’etica. Nel mondo profano, post-cristiano lo Stato avanza questa istanza non nella forma di autorità sacrale, ma come autorità ideologica, cioé lo stato si fa partito e dato che non gli si può contrapporre nessuna altra istanza con un suo proprio ruolo, esso stesso diventa nuovamente totalitario. Lo stato ideologico è totalitario; esso deve diventare ideologico quando non si dà nei suoi confronti una autorità libera e pubblicamente riconosciuta.
(da Teologia e politica della Chiesa in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag.156)

Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
(dal sito www.chiesa.espressonline.it, Fede, verità, tolleranza. Un´intervista di Ratzinger sul suo ultimo libro a cura di Antonio Socci. Parti di questa intervista sono state trasmesse in "Excalibur" del 20 novembre 2003 e pubblicate in "Il Giornale" del 26 novembre 2003)

L'islam non esiste come un blocco. Non c'è un magistero dell'islam, né delle costituzioni centralizzate dell'islam. Il Corano fornisce certo un riferimento comune al mondo islamico. Ma da luogo a interpretazioni differenti, e l'islam si incarna in contesti culturali diversi, dall'Indonesia all'India, dal Medio-Oriente all'Africa. Quindi il mondo islamico non è un blocco e non cancella i caratteri nazionali: ci sono dei paesi a maggioranza islamica che sono molto tolleranti e altri che escludono più o meno il cristianesimo.
Oggi, l'islam è molto presente in Europa. E sembra che si manifesti un certo disprezzo presso coloro che sostengono che l'Occidente ha perso la sua coscienza morale. Per esempio, se il matrimonio e l'omosessualità sono considerati come equivalenti, se l'ateismo si trasforma in diritto alla bestemmia, notoriamente nell'arte, questi fatti sono orribili per i musulmani. Perciò, c'è l'impressione diffusa nel mondo islamico, che il cristianesimo è morente, che l'Occidente è decadente. E il sentimento che solo l'islam porta la luce della fede e della moralità. Una parte dei musulmani vede in questo caso una opposizione fondamentale tra il mondo occidentale, e il suo relativismo morale e religioso, e il mondo islamico.
Parlare di un confronto di culture, è in certi casi vero: nel disprezzo verso l'Occidente troviamo le conseguenze del passato durante il quale l'islam ha subito il dominio dei paesi europei. Ci si può allora imbattere in un fanatismo terribile. È una delle facce dell'islam, non è tutto l'islam. Esistono anche dei musulmani che desiderano un dialogo pacifico con i cristiani. Di conseguenza, è importante giudicare i differenti aspetti di una situazione che è preoccupante per tutte le parti in questione.
(intervista rilasciata a Jean Sévilla per LE FIGARO del 17.11.2001)

Come una sintesi: il cristianesimo oggi

Si è detto che il 1989 non portò nuove risposte, bensì si limitò ad acuire le perplessità e ad alimentare lo scetticismo nei confronti dei grandi ideali. Qualcosa accadde, tuttavia. La religione tornò a essere un fenomeno moderno. Non solo si cessò di auspicarne la scomparsa, ma si assistette addirittura a una sua proliferazione in forme diverse. Nell’opprimente solitudine di un mondo rimasto privo di Dio, nella sua monotonia, la ricerca della mistica, di una relazione con il divino, tornò a sbocciare. Dovunque si parli di visioni e messaggi dal mondo ultraterreno e dovunque si senta pronunciare la parola ‘apparizione’, si dirigono migliaia di persone, forse nella speranza di scoprire nel mondo uno spiraglio attraverso cui guardare al cielo e trovare conforto. Si lamenta il fatto che questo nuovo bisogno di religiosità ignori le chiese cristiane tradizionali. L’istituzione fa problema, il dogma fa problema. Si cerca l’esperienza vissuta, l’esperienza del totalmente altro. Personalmente non vorrei aderire senza riserve a questa lamentela. Nelle grandi giornate mondiali della gioventù, come l’ultima a Parigi, la fede diventa esperienza e regala la gioia di sentirsi comunità. Qualcosa di estatico, nel senso buono del termine, viene condiviso. All’estasi tetra e distruttiva della droga, dei ritmi martellanti della musica moderna, del frastuono e dell’ebbrezza si oppone l’estasi splendente della luce, del gioioso incontro nel sole di Dio. Non si direbbe un fenomeno passeggero, sebbene i fenomeni passeggeri siano senza dubbio abbastanza frequenti. Oppure potrebbe trattarsi di un momento destinato a farsi cammino, a indicare un percorso. Lo stesso accade per i movimenti che sono emersi numerosi negli ultimi decenni: anche in questi casi la fede si sperimenta come forma di vita, gioia di mettersi in cammino e di partecipare del mistero del lievito che tutto penetra e rinnova dall’interno. Alla fine anche i luoghi delle apparizioni potrebbero, purché intrinsecamente sani, diventare occasioni per iniziare una ricerca nuova e sobria di Dio. Chi si aspettava che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato: non sono i movimenti di massa a racchiudere in sé promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all’esistenza. E il futuro cresce positivo se queste convinzioni scaturiscono dalla verità e alla verità conducono.
La riscoperta della religione, tuttavia, mostra un’altra faccia della medaglia. Si è detto che questa riscoperta tende alla religione come esperienza di vita, che un aspetto considerato importante è il lato ‘mistico’ della religione, la religione intesa come incontro tangibile con il totalmente Altro. Nel contesto storico in cui viviamo ciò significa che le religioni mistiche dell’Asia (parte dell’induismo e del buddismo) sembrano più adatte, per il loro rifiuto del dogmatismo e la loro struttura limitatamente istituzionalizzata, ad un’umanità illuminata rispetto al cristianesimo, organizzato com’è in forme istituzionali e ben definito da contenuti dogmatici. È anche vero che un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto. E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. Che sia impossibile per l’uomo conoscere Dio e che tutto quanto è detto e rappresentato non possa essere che un simbolo è una delle certezze di fondo dell’uomo moderno, da lui in qualche modo intesa anche come atteggiamento di umiltà di fronte all’infinito. A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte. In questo processo di relativizzazione sono decisamente sottoposti a una modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire:

1. La figura del Cristo viene spiegata in termini completamente diversi non solo rispetto al dogma, ma rispetto agli stessi vangeli. A essere accantonata, cioè, è la fede che Cristo sia il figlio unico di Dio, che in lui Dio si sia realmente fatto uomo tra gli uomini e che l’uomo Gesù sia eternamente in Dio, sia Dio stesso, quindi non una forma di manifestazione di Dio, bensì il Dio unico e insostituibile. Cristo, cioè, da uomo che è Dio diventa uomo che ha sperimentato Dio in modo speciale. Egli è un illuminato e, in quanto tale, non più sostanzialmente diverso rispetto ad altri illuminati, come il Buddha. Con questa interpretazione, però, la figura di Gesù viene a perdere la sua logica intrinseca. Strappata alle sue radici storiche, essa viene compressa in uno schema che le è estraneo. Il Buddha, in ciò paragonabile tra l’altro a Socrate, allontana da sé le attenzioni: non è la sua persona a essere importante, ma solo ed esclusivamente la via da lui mostrata. Chi trova la via può dimenticare il Buddha. Al contrario, nel caso di Gesù è la sua persona a essere importante. Nel suo «Io sono» riecheggia l’«Io sono» pronunciato da Dio sul monte Oreb. La via consiste proprio nel seguire Gesù, poiché: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Egli stesso è la via; non esiste alcuna via indipendentemente da lui; non esiste un cammino lungo il quale egli non conti più nulla. Se il messaggio lasciato da Gesù non è una dottrina, bensì la sua stessa persona, non si può non riconoscere in questo Io di Gesù un rimando al Tu del Padre; quindi un Io importante in quanto realmente ‘via’, non in quanto Io in sé. «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30). L’Io è importante perché coinvolge l’uomo nella dinamica della missione, perché porta l’uomo a superare se stesso e a unirsi con colui per il quale è stato creato. Se la figura di Gesù viene sottratta a questo ordine di grandezza, che certamente provoca sempre scandalo, se viene separata dall’essere Dio, essa diventa allora contraddittoria: rimarrebbero solo dei frammenti che ci lascerebbero perplessi o si tradurrebbero in pretesti per indulgere nell’autoaffermazione.

2. Il concetto di Dio cambia in maniera sostanziale. Il problema se Dio debba essere concepito come persona o in modo apersonale passa in secondo piano. Viene a cadere anche l’ultima fondamentale differenza tra le religioni teisti che e non teistiche. E questa prospettiva si sta diffondendo con una rapidità sorprendente. Anche i cattolici credenti e formati nella tradizione teologica, che desiderano condividere la vita della chiesa, chiedono con molta spontaneità: È davvero così importante pensare Dio come persona o pensarlo in modo impersonale? L’idea di fondo è che l’uomo dovrebbe essere il più possibile di larghe vedute, poiché il mistero di Dio sfugge comunque a tutti i concetti e a tutte le rappresentazioni. In questo modo, tuttavia, si colpisce il cuore stesso della fede biblica. Lo ‘Shema’, ossia l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (Dt 6,4-9), è e rimane l’autentico fulcro dell’identità religiosa non soltanto di Israele, ma dell’intera cristianità. Con questa parola muore l’ebreo credente, i martiri ebrei hanno esalato l’ultimo respiro con essa e per essa: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Che poi questo Dio ci mostri in Gesù Cristo il suo volto (Gv 14,9), che Mosè non poteva vedere (Es 33,20), nulla cambia di questa professione di fede, nulla cambia della sostanza di tale identità. Nella Bibbia ovviamente non vi è un riferimento esplicito a Dio come persona nella forma del concetto, ma nella forma che Dio ha un nome. L’esistenza di un nome presuppone la possibilità di chiamare qualcuno, la possibilità di parlare, di ascoltare, di rispondere. Per l’immagine biblica di Dio questo aspetto è essenziale; eliminarlo equivarrebbe ad allontanarsi dalla fede della Bibbia. È indubbio che sono esistiti ed esistono tutt’oggi modi sbagliati e superficiali di concepire Dio come persona. Ogniqualvolta associamo a Dio l’idea di persona, la differenza tra la nostra idea di persona e la realtà di Dio è sempre infinitamente più grande di quanto esse hanno in comune, come ebbe modo di spiegare il IV concilio Lateranense a proposito del parlare di Dio. Gli abusi del concetto di persona si verificano sempre e immancabilmente quando Dio viene sfruttato per il proprio tornaconto e così il suo nome viene profanato: il secondo comandamento, che vieta di pronunciare invano il nome di Dio, non è la conseguenza diretta del primo, che ci insegna ad adorare Dio. A tale riguardo c’è sempre e continuamente da imparare dal discorso di Dio proprio delle religioni ‘mistiche’, con la loro teologia puramente negativa; per questo, inoltre, esistono cammini diversi per raggiungere Dio. Ma, quando scompare ciò che si intende con ‘nome di Dio’, ossia quando Dio è privato del suo essere persona, il suo nome viene pronunciato invano e cessa di essere onorato: esso, in sostanza, viene abbandonato.
Che cosa si intende con le espressioni ‘nome di Dio’ e ‘essere persona’? Questo, per l’appunto: non solo che è possibile fare esperienza di Dio al di là di ogni altra esperienza, ma che Dio stesso può manifestarsi, può comunicarsi. Nelle religioni, come il buddismo, dove Dio è concepito in maniera del tutto impersonale, ossia come nulla assoluto rispetto a quel tutto che l’uomo è in grado di cogliere come reale, non può esservi una relazione positiva ‘di Dio’ con il mondo. E il mondo diventa una valle di lacrime non più a cui dar forma, bensì da superare. In questi casi, anziché fornire dei criteri per poter vivere nel mondo, dei modelli di responsabilità sociale a cui ispirarsi, la religione suggerisce la via per travalicare il mondo terreno, la via della liberazione dal fardello delle apparenze. Nell’induismo il discorso è diverso. L’essenziale è l’esperienza dell’identità: nel mio intimo io sono tutt’uno con il fondamento nascosto della realtà stessa, il celebre tat tvam asi delle Upanishad. La redenzione consiste nella liberazione dall’individuazione, dall’essere persona, nel superamento della distinzione, fondata sull’essere- persona, rispetto a tutto ciò che esiste: è necessario, cioè, eliminare l’illusione del Sé oltre se stesso. Il problema di questa prospettiva dell’essere è percepito molto acutamente nel neoinduismo. Se viene a mancare il concetto di unicità delle persone, non è più possibile fondare e difendere l’inviolabilità della dignità di ogni singola persona. Alla luce del cammino di riforma intrapreso in India (soppressione della legge sulle caste, abolizione del sacrificio della vedova, ecc.) era necessario prendere le distanze da questo punto di vista e riportare nella compagine del pensiero indiano il concetto di persona, così come esso si è sviluppato nella dottrina cristiana a partire dall’incontro con il Dio personale. In questo caso la ricerca della ‘prassi’ corretta, del retto agire, ha dato le mosse a una correzione della ‘teoria’: non è difficile, allora, guardare un po’ oltre e capire quanto sia ‘pratica’ la fede cristiana e quanto sia sbagliato liquidare come irrilevanti i grossi interrogativi sulle differenze.
Queste riflessioni portano fino al punto in cui viene oggi a inserirsi questa Introduzione al cristianesimo. Prima di tentare di sviluppare ulteriormente la prospettiva indicata, è forse necessario fare riferimento ancora alla situazione attuale della fede in Dio e in Cristo. Oggi si teme un ‘imperialismo’ cristiano e si professa una nostalgia per la splendida molteplicità delle religioni, per la serenità e la libertà che queste presumibilmente manifestavano all’origine. Il colonialismo sarebbe strettamente legato all’essenza del cristianesimo storico, che si dice non disposto ad accettare l’altro nella sua alterità e propenso a prendere tutto sotto la propria custodia. Le religioni e le culture dell’America Latina, quindi, sarebbero state calpestate e schiacciate, e sarebbe stata fatta violenza all’anima dei popoli che non si ritrovavano nel nuovo e a cui era stato estorto il vecchio. La gamma di possibili interpretazioni oscilla dalle più clementi alle più severe. Secondo il giudizio più moderato, bisognerebbe accordare alle culture sommerse il diritto ad avere una loro patria nella fede cristiana e lasciare che si sviluppi una forma di cristianesimo autoctono. Secondo l’interpretazione più radicale, al contrario, il cristianesimo sarebbe per i popoli indigeni una forma di alienazione, da cui scaturirebbe un bisogno di affrancamento. Per quanto riguarda la promozione di un cristianesimo autoctono, questa deve essere intrapresa, beninteso, come un compito di vitale importanza. Tutte le grandi culture sono aperte l’una all’altra. Tutte hanno un contributo da dare al vestito di «gemme e tessuto d’oro» della figlia del re a cui accenna il Salmo 44, in cui i Padri riconoscono la chiesa. Senz’altro qualcosa è andato perduto e deve essere ricostruito. Non va dimenticato, tuttavia, che quei popoli hanno già trovato nella devozione popolare una propria espressione di fede cristiana. Il fatto che immagini chiave della fede, capaci di aprire le porte al Dio della Bibbia, siano diventate per loro il Dio sofferente e la Madre benevola deve suggerire qualcosa anche a noi e anche ai nostri giorni. Ovviamente, molto rimane ancora da fare.

Torniamo alla questione di Dio e di Cristo come fulcro di un’introduzione alla fede cristiana. Una cosa, ormai, è chiara: la dimensione mistica del concetto di Dio, che dalle religioni dell’Asia perviene a noi come appello, deve contraddistinguere nettamente anche il nostro pensiero e la nostra fede. Dio si è fatto concreto in Cristo e in questo modo anche il suo mistero è diventato più profondo. Dio è sempre infinitamente più grande di qualsiasi nostra definizione e di qualsiasi nostro tentativo di dargli un’immagine o un nome. Il fatto di riconoscere Dio come trino non significa sapere tutto di lui, al contrario: questa è la dimostrazione di quanto sia limitata la nostra conoscenza e di quanto sia povera la nostra capacità di comprendere o abbracciare la natura divina. Se oggi, dopo gli orrori dei regimi totalitari (penso al monumento commemorativo di Auschwitz), su noi tutti grava la cocente questione della teodicea, ancora una volta è evidente quanto sia modesta la nostra capacità di definire Dio, se non addirittura di scrutarlo. La risposta di Dio a Giobbe non serve a spiegare, bensì soltanto a correggere la nostra illusione di poter giudicare tutto e di poter sentenziare su tutto, e a ricordarci i nostri limiti. Essa esorta i fedeli a credere al mistero divino nella sua incomprensibilità.
A questo punto è bene anche mettere in evidenza, attraverso le tenebre, la luminosità di Dio. Il prologo di Giovanni presenta l’idea del Lógos come centrale alla fede cristiana in Dio. Il termine lógos significa ragione, senso, ma anche parola; quindi, un senso che è parola, che è relazione, che è creativo. Dio, che è Lógos, assicura all’uomo la sensatezza del mondo, la sensatezza dell’esistere, la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura. Il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messaggio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, deve anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l’idea della creazione. Il mondo non è soltanto maya, apparenza, che l’uomo deve, da ultimo, lasciarsi alle spalle. Il mondo non si riduce all’infinita ruota delle sofferenze, a cui l’uomo deve cercare di sottrarsi. Il mondo è positivo. Nonostante tutto il male in esso contenuto e nonostante tutte le pene sofferte, il mondo è buono ed è cosa buona viverci. Dio, che è creatore e che si esprime attraverso la sua creazione, dà un orientamento e una misura anche all’operare umano. Oggi l’umanità vive la crisi dell’etica, che da tempo ha smesso di essere mera questione accademica per diventare una questione del tutto pratica. Che l’etica sia, in fin dei conti, ingiustificabile è un concetto che si sta diffondendo e che inizia ad avere un certo impatto. Sul tema dell’etica si sprecano fiumi di inchiostro, un fenomeno che, da un lato, testimonia dell’attualità del problema e, dall’altro, dimostra la confusione imperante attorno a noi in questo momento. Nel suo percorso filosofico Kolakowski ha richiamato molto energicamente l’attenzione sul fatto che la cancellazione della fede in Dio, gira e rigira, finisce per togliere fondamento all’etica. Se il mondo e l’essere umano non derivano da una ragione creatrice che in sé ne racchiude la misura e che la iscrive nell’esistenza umana, non rimangono che le regole del comportamento umano, che vengono ideate e giustificate in base alla loro utilità. Non rimane che il calcolo degli effetti, ciò che viene denominato proporzionalismo o etica teleologica. Ma chi può veramente giudicare gli effetti del momento? Non c’è il rischio che una nuova classe dominante si appropri della chiave dell’esistenza, della gestione dell’essere umano? Se tutto si riduce al calcolo degli effetti, la dignità umana non ha più senso di esistere, perché niente è più in se stesso buono o cattivo. Il problema dell’etica è all’ordine del giorno e deve essere affrontato con la massima urgenza. La fede nel Lógos, nella parola originaria, concepisce l’etica come re-sponsabilità, come capacità di rispondere alla parola, e conferisce alla parola la sua razionalità come suo orientamento fondamentale. In questo modo essa si impegna anche a ricercare una comune comprensione della responsabilità con una ragione investigativa e con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Non esiste soltanto la vicinanza interiore delle tre grandi fedi monoteistiche; esistono anche le significative convergenze con un’altra matassa della religiosità asiatica, che porta al confucianesimo e al taoismo.
Se per l’immagine cristiana di Dio il termine lógos – inteso come parola originaria, ragione creatrice e amore – è determinante e se il concetto di lógos costituisce al tempo stesso il fulcro della cristologia, della fede in Cristo, ancora una volta non resta che confermare l’inscindibilità tra fede in Dio e fede nel suo figlio Gesù Cristo fattosi uomo. Racchiudere tra parentesi la fede nella divinità di Gesù non serve a capire meglio Gesù e ad avvicinarsi di più a lui. Al giorno d’oggi è alquanto diffuso il timore che la fede nella sua divinità ce lo renda estraneo. E, tuttavia, non è soltanto per far piacere alle altre religioni che si vorrebbe scrivere questa convinzione a caratteri minuscoli. Tali timori sono, innanzitutto, tipici della nostra società occidentale. È come se tutto ciò non si addicesse alla moderna visione del mondo. Potrebbe trattarsi soltanto di mitizzazioni, trasformate in metafisica dallo spirito greco. Ma, se separiamo Cristo da Dio, diventa lecito dubitare che Dio possa esserci così vicino, che possa chinarsi tanto verso di noi. Sembra un atto di umiltà il fatto di non volere questo. Tuttavia, a buon diritto Romano Guardini ha richiamato l’attenzione sul fatto che, invece, la forma più alta di umiltà consiste nel lasciare a Dio la libertà di fare anche ciò che all’uomo appare inopportuno e nell’inchinarsi dinanzi a ciò che Dio compie e non a ciò che l’uomo si immagina oltre lui e al suo posto. Dall’idea della lontananza di Dio dal mondo, sottesa a questo nostro realismo apparentemente umile, scaturisce una perdita della presenza di Dio. Se Dio non è in Cristo, egli ritorna a dimorare in una lontananza incommensurabile; e se Dio cessa di essere un Dio in mezzo agli uomini, egli diventa un Dio assente e, per conseguenza, un non-Dio: giacché un Dio privato della capacità di agire non è Dio. Per quanto concerne il timore che Gesù, a causa della fede nella sua figliolanza divina, si allontani da noi uomini, in realtà è vero il contrario: e, cioè, se Gesù è stato un semplice uomo, egli appartiene irrevocabilmente al passato e può essere percepito, con maggiore o minore chiarezza, solo attraverso un lontano ricordo. Se, al contrario, Dio si è realmente fatto uomo e, quindi, in Gesù Cristo è al tempo stesso vero uomo e vero Dio, Gesù partecipa come uomo del presente di Dio, che abbraccia tutti i tempi. Allora e soltanto allora Dio non è mero passato, ma è presente tra gli uomini, nostro contemporaneo nel nostro oggi. Perciò, e di questo sono assolutamente convinto, un rinnovamento della cristologia deve avere il coraggio di concepire il Cristo in tutta la sua grandezza, così come ce lo mostrano i quattro vangeli presi assieme, nella loro unità carica di tensione.
(da Introduzione al cristianesimo. Ieri, oggi, domani, nuova prefazione dell’aprile 2000 al volume Introduzione al cristianesimo)

Desidero fare tre osservazioni.

La prima: l'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé.
La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo, ma lo consegna al calcolo dell'utile, privandolo della sua grandezza.
Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse.

Seconda osservazione: se le cose stanno così, se bisogna cioè cercare sempre il positivo anche nell'altro e se, quindi, anche l' altro deve diventare per me un aiuto sulla strada verso la verità, non può e non deve mancare però l'elemento critico. La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l'uomo da essa. La critica della religione presente nell' Antico Testamento oggi non ha affatto perso la sua fondatezza. Può risultare relativamente facile porsi in un atteggiamento critico nei confronti di un'altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche rivolte a noi stessi, alla nostra stessa religione.

Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.

Terza osservazione: significa questo che la missione deve venir meno ed essere sostituita dal dialogo, in cui ciò che conta non è la verità ma l'aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddhisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui - con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio - non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.
Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall' altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.

Per questo l'annuncio deve necessariamente diventare un processo dialogico. All'altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.71-73)

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