Antropologia teologica. L’uomo dalla creazione alla redenzione: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo” (tpfs*)
di don Maurizio Gualandris

Mettiamo a disposizione on-line le lezioni tenute da d.Maurizio Gualandris il 20 marzo ed il 3 aprile 2006, all’interno del Corso di formazione dei catechisti della XXVII Prefettura, organizzato a nome dell’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma. La trascrizione conserva lo stile orale delle lezioni.

L’Areopago


Indice


1 - La creazione del mondo e dell’uomo (CCC 355-379)

1.1 - Il mondo viene dal caso, dall’evoluzione, esiste da sempre oppure lo ha creato Dio? Quale valore al testo della Genesi?

L’oggetto dell’antropologia teologica è lo studio dell’uomo nella sua relazione con Dio. I temi dell’antropologia comprendono, oltre allo studio dell’uomo, anche la riflessione sulla Creazione (non solo degli esseri umani, ma di tutto quello che esiste) e sulla Grazia, come l’uomo è salvato. In mezzo abbiamo tutti i grandi temi: la creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio, la libertà, la caduta, il peccato, il dubbio della fede.
Il testo che tutta la storia della fede ha usato per riflettere sull’antropologia è la Genesi, soprattutto i primi capitoli. Non è l’unico testo della Bibbia che parla di antropologia però è vero che la Bibbia, Gesù, i primi Padri, tutta la storia della teologia richiamano sempre la Genesi. C’è qualcosa a proposito dell’uomo anche nel Siracide, nei libri sapienziali, in San Paolo, però la Genesi è il testo principale da cui la storia della fede ha costruito i temi dell’antropologia teologica, quello che si può dire dell’uomo dal punto di vista di Dio.
Nel raccontare la creazione dell’uomo faremo tante volte riferimento alla Genesi, il testo fondamentale per dire qualcosa dell’uomo, ma leggerla non basta. E’ importante vedere come l’hanno letta i Padri, i teologi medievali, il Concilio Vaticano II, i teologi moderni. La fede si dà alla Parola di Dio nella sua integralità, cioè alla Rivelazione di Dio che noi conosciamo attraverso la Scrittura e la Tradizione (la lettura della Scrittura attraverso i secoli, la lettura non “secondo me”, ma “secondo noi”, dove il noi comprende anche lo Spirito Santo, cfr. DV 9).

La Genesi è il primo libro della Bibbia, ma non è il primo cronologicamente scritto, risale all’incirca al VI secolo a.C. (la sua datazione precisa è discussa). Il re Nabucodonosor occupa Gerusalemme ed il popolo è deportato a Babilonia (598-538). E’ un grande scandalo per la fede del popolo di Israele: “Come mai è successo questo? Noi siamo il popolo eletto eppure viviamo questo dramma della deportazione!” Sorgono così tante domande: Come mai esiste il male? Perché gli uomini peccano? Ma è colpa di Dio? Perché...?
Sono le domande che vengono anche a noi: ma perché lo tsunami, perché la morte, perché il dolore, perché la cattiveria, perché il piccolo Tommaso massacrato e sepolto in una buca poche ore dopo essere stato rapito, perché?
Quando il male ci colpisce ci chiediamo: come mai?
Gli autori del libro della Genesi cercano nel passato le ragioni di quello che sta succedendo e le raccontano con il linguaggio che è loro proprio. Non inventano nulla, ma sono dei veri autori. Questi uomini di Israele compongono questo testo ispirato, ma l’ispiratore di questo testo è lo Spirito Santo stesso, lo Spirito di Dio che accompagna tutta la storia della salvezza dalle origini fino a quando tornerà Cristo glorioso, risorto, sulle nubi e concluderà la storia. Fino a quel tempo lo Spirito Santo guiderà la storia, ma la sua opera è cominciata quando è comparso l’uomo sulla terra, anzi, prima ancora, fin dall’inizio della Creazione.

La Bibbia non è per noi come il Corano per l’Islam. Per i musulmani Maometto riferisce esattamente quello che Allah comunica, ma delle sue qualità personali e culturali non c’è nulla nel Libro sacro all’Islam. Gli autori dei Libri della Bibbia invece sono sì ispirati, ma sono veri autori, che raccontano a modo loro gli avvenimenti. Dio compie la sua Rivelazione attraverso la libertà dell’uomo. La Genesi racconta perciò con categorie del tempo in cui è stata scritta qualcosa che altrimenti non sarebbe narrabile. Il genere usato è quello dell’ “eziologia metastorica”. Si cerca cioè di spiegare le cause di quello che succede adesso, rifacendosi ad un linguaggio che non è storico-cronachistico. Non sono mai esistiti Adamo ed Eva esattamente come li descrive la Genesi, non c’è mai stato un serpente su un albero, né c’è mai stato l’albero del Bene e del Male. Non sono mai esistiti l’Eden e l’arca di Noè. E’ solo un modo di raccontare qualcosa che non si potrebbe spiegare altrimenti, perché fa parte del mistero dell’origine dell’uomo, della sua libertà, della storia, dell’universo. Eppure dietro queste immagini c’è una profonda verità, rivelataci da Dio stesso. E’ reale ciò che è accaduto e che viene descritto da immagini, da simboli. Questo è importante perché ogni volta che diremo “quando Dio crea l’uomo”, non stiamo riferendoci ad un momento storico preciso che possiamo indicare con una cronologia. Ma nella Bibbia si narra davvero la nostra origine. Le cose importanti spesso non si possono dire con parole definite. Quando uno vuole esprimere il suo amore per un’altra persona può dirle: “Sei per me come l’aurora...”. Ma non è vero! L’aurora è una cosa precisa, è il sole che sorge in un punto dell’orizzonte. E’ un linguaggio metaforico. La Genesi si esprime così, vera nel suo senso, ma non nei termini usati.

Cominciamo con una prima domanda: come conciliare il dato rivelato con la scienza? Quello che dice la scienza che valore ha rispetto a quello che noi crediamo? L’uomo viene dalla scimmia seguendo un percorso evolutivo? La Genesi dice che Dio ha creato l’uomo.
Potremmo interpretare questa creazione dell’uomo in maniera ingenua pensando: “Tac! L’ha creato”. Bellissimo! Ma sembra non conciliarsi con tutto il resto. Dobbiamo innanzitutto dire che la Genesi, la Bibbia (non solo la Genesi, ma anche molti libri sapienziali e profetici: Ger27,4 ss; Is22,11 ss; Sal138,13; Pro 8,22; Gb10,8), la Rivelazione intera, non hanno la pretesa di dire come siano nati il cosmo e l’uomo, dal momento che questo è compito della scienza; piuttosto intendono dire il perché, annunciarne il senso. Un fatto non è mai un fatto-tutto-in-sé, come vorrebbe la scienza oggi... Ogni fatto è l’oggetto più l’interpretazione soggettiva di esso. Facciamo un esempio. Al bambino che chiede a suo padre: “Ma com’è che tu mi hai messo al mondo?”, si può rispondere tecnicamente, raccontando di come si siano incontrati un ovulo ed uno spermatozoo, o dicendo: “Tua madre ed io ci volevamo tanto bene e da questo amore è fiorita una nuova vita”. Si può anche dare la spiegazione scientifica, ma sicuramente il bambino capisce di più l’altra. La Genesi ha un po’ la stessa funzione nei nostri confronti. Questo non vuol dire che non si debba tentare di conciliare i due dati. Non si può pensare che la scienza dica come avvengono le cose, la Scrittura perché e che questi due elementi restino completamente staccati l’uno dall’altro.
Ma cominciamo a prendere in esame alcune teorie sulla nascita del cosmo e dell’uomo. All’inizio è stata la filosofia a tentare di spiegare le nostre origini (Platone, Aristotele, Dualismo, Monismo...). Pensiamo alle teorie cosmologiche. C’era chi immaginava all’origine dell’universo due principi opposti: il bene ed il male, il caldo ed il freddo. C’era chi adottava la teoria monistica secondo la quale tutto l’universo fa parte di Dio, c’era invece chi aveva posto Dio da una parte e la materia dall’altra. Successivamente è stata la scienza a tentare di comprendere come può essere nato il cosmo. La teoria più famosa è quella di Lamaitre (1930): il Big-Bang. Secondo questa teoria, da un iniziale punto molto piccolo e denso di energia sarebbe nato l’intero universo, mediante un’esplosione avvenuta 15 miliardi di anni fa circa. Questa teoria è credibile: durante un esperimento sulle comunicazioni telefoniche si è scoperto un rumore fossile nell’universo, rilevabile da una radiazione residua di 2,7 °K (lunga 3,7 cm), che potrebbe essere ciò che è rimasto dei 1015 °K iniziali dell’esplosione di 15 miliardi di anni fa (avvenuta in un decimo di milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo: 10-34 secondi). Una sorta di eco dell’esplosione iniziale. Secondo questa teoria l’universo è in continua espansione, sta rallentando sempre di più ma continua ad espandersi. Secondo altre teorie il processo di espansione terminerà e l’universo si contrarrà nuovamente. Ci sono tante ipotesi, pensate agli studi di Stephen Hawking.
Pio XII in un’allocuzione all’accademia delle scienze nel 1951 spiegò che se la teoria del Big Bang si fosse dimostrata vera, questo non sarebbe stato in contrapposizione con la fede: gli scienziati avrebbero lo stesso potuto considerare Dio come Creatore che fa partire il Big-Bang.
La ragione, infatti, può conoscere che c’è un inizio nell’universo (sia esso il Big Bang o la scienza si spinga ancora più indietro nel tempo): ad ogni effetto corrisponde una causa. Non si può andare a ritroso in modo illimitato, ci si deve fermare ad un punto, ad un’origine non causata, una causa iniziale.
Ma questo non basta per noi cristiani, non è sufficiente credere che il mondo viene da qualcosa. La Rivelazione si assume l’onere di dare un volto a questo inizio. La Genesi non si limita a dire che c’è un inizio, ma dice che questo inizio è libero, è volontario. E’ una Persona che dà origine all’universo. Il Dio biblico non è un Semplice-inizio. Tutta la storia, Gesù compreso, dice quanto tutto ciò che esiste viene non dal nulla, non da una causa cieca, ma da un Creatore volente e libero. Israele conosce le cosmologie delle culture vicine, da cui la Genesi eredita l’idea di creazione (Westermann), però quella biblica fa coincidere creazione con amore misericordioso: lo stesso Creatore è anche il Misericordioso, c’è un progetto unico.
Abbiamo detto che l’universo viene da una causa iniziale che per la fede è Dio. Ma dopo la creazione Dio come governa il mondo? Dio non agisce come il giocatore di biliardo che dà un iniziale colpo di stecca lasciando poi che ogni pallina segua la propria traiettoria senza più alcun intervento. La teologia medioevale, rifacendosi alla filosofia greca (Aristotele), cerca di spiegare come questo avviene parlando di cause prime e cause seconde. Dio non solo “fa partire” il mondo ma anche lo sorregge, lo governa, lo trae istante per istante dal nulla, ma tutto questo non direttamente come causa prima, ma per mezzo delle cause seconde. Le cause prime sono quelle dirette, le cause seconde agiscono in modo indiretto.
Facciamo un esempio: chi dà la vita? Dio. Io sono nato da mia madre e mio padre. I miei genitori sono le cause seconde della causa prima che è Dio. Nella tradizione si è consolidato il termine “Provvidenza”. Per esempio, pensando ai Promessi Sposi, ricordiamo come Dio sia presente in tutto il libro senza mai comparire esplicitamente (la Provvidenza). Manzoni è bravissimo a raccontare come Dio attraverso i fatti normali, le cause seconde, agisce nella storia.
Dio quindi non è solo l’iniziale scoppio di energia che ha dato origine al mondo, ma lo trae dal nulla istante dopo istante. Diceva un prete anziano quando ero bambino: “Se Dio volesse potrebbe far scomparire tutto!”. Io mi spaventavo, ma è interessante, è vero. Dio è Dio, potrebbe farlo. Tutto quello che esiste è un miracolo; se noi potessimo avere sempre questo stupore saremmo più credenti, ma d’altra parte è buona cosa il non pensarci con ossessione, altrimenti avremmo sempre il cuore in gola. Siamo abituati al fatto che esiste qualcosa e non il nulla, ma ogni tanto ci farebbe bene pensarci.
Due osservazioni su quanto detto finora. Il mondo viene dal nulla. Dio non è la materia, è al di fuori. L’idea di creazione dal nulla non è sempre esplicita nella Bibbia, che usa il linguaggio delle culture vicine, anche se è già affermata in essa. La creazione dal nulla viene tematizzata più chiaramente con S.Agostino. Dire che Dio crea dal nulla significa attestare la sua assoluta libertà, indipendenza. Significa anche che non c’è alcun intermediario tra Dio e la materia. Perché la difficoltà era proprio nel conciliare Dio - che è tutto quello che non è materiale, non ha spazio, non ha forma - con quello che esiste in concreto nel mondo.
Quindi Dio crea dal nulla e tutto ciò che esiste non è sganciato dal Creatore, ma è perennemente legato a Lui. Lui è la causa prima e poi l’universo si sviluppa nelle cause seconde, studiabili, indagabili, misurabili. Uno non può disinteressarsi della scienza perché ritiene che la sua fede gli basti, altrimenti per coerenza dovrebbe rinunciare ad usare i cellulari, le automobili ecc. Sarebbe un atteggiamento fondamentalista e stupido. Sarebbe invece bellissimo se si riuscisse tramite studi accurati ad approfondire queste teorie sull’origine dell’universo. Ben vengano gli studi, tenendo però sempre presente che il mondo è legato ad un’origine creante che è Dio. Questo non per decretare l’inferiorità di ciò che esiste, quasi a dire che tutto il mondo del “materiale” fa schifo. Affermare che questo mondo senza Dio non vale niente non è un voler svalutare la materia, il corpo, l’uomo. Voler affermare che solo Dio vale e tutto il resto non conta nulla: questo è un’eresia. E’ proprio il contrario: dire che questo mondo non vale niente senza Dio è dire la relazione bellissima che c’è tra noi ed il Creatore. Dire che io adesso scomparirei se Dio non mi volesse non è affermare che io sono una schifezza, ma che è bellissimo che Dio mi tragga dal nulla istante per istante. Dire: “sono solo una creatura”, significa riconoscere che c’è un Creatore. Confessare l’essere “creatura” non svaluta la creatura stessa, ma dice quanto è grande il Creatore. Un bambino che dice: “Senza mio padre io non ci sarei” non vuol dire “quanto è cattivo mio padre che mi ha fatto creatura”, ma “quanto è buono mio padre senza il quale non esisterei”. Tutto quello che si vede non può essere che buono al suo fondo, perché viene da Dio, il quale non può che volere/fare il bene.

1.2 - Dio non ha né forma, né volto, né tempo, né spazio, ecc: come può l’uomo esserne immagine e somiglianza? È possibile a degli esseri limitati entrare in relazione con Dio, che è l’Assoluto? Non è un “illusione consolante”?

Abbiamo parlato più volte di evoluzione ed evoluzionismo, conoscete tutti Darwin. Le parole che finiscono in “-ismo” dicono qualcosa di esagerato. Voi avete seguito il corso di teologia fondamentale, non di teologia fondamentalista (che sarebbe un problema). L’evoluzionismo è la radicalizzazione sterile della teoria dell’evoluzione. Riconoscere che l’universo sia un continuum, che ci sia un’evoluzione, è buono, ma dire che tutto funziona così è un problema. Sapete che dalle tesi di Darwin sono derivati tanti problemi: se la Bibbia dice che l’uomo è stato creato da Dio, come si concilia questo dato con l’idea che l’uomo derivi dall’evoluzione di altri esseri viventi? Nella Genesi viene raccontata due volte, e da due mani diverse, la creazione dell’uomo. Se l’uomo discende dalla scimmia o da un altro animale, come può essere in relazione con Dio, ad immagine e somiglianza con Dio che è l’Assoluto? Per la fede io non sono una creatura allo stesso modo di un sasso o di una pianta, ovvero la mia particolarità sta nel poter entrare in relazione con Dio. Nella storia della filosofia ci sono stati pensatori che hanno messo in dubbio l’esistenza di Dio; hanno proposto l’idea di Dio, delle religioni, come una creazione del cuore umano, il quale non sa resistere alla sproporzione del suo essere creaturale. Feuerbach e Nietzsche ne sono un esempio: la religione è una malattia dell’uomo, perché rende servi della proiezione infantile del senso di fragilità, dipendenza, piccolezza. Si può anche credere in Dio se aiuta, ma si deve essere consapevoli che non è vero nulla. Capita anche a noi questo. In alcuni momenti ci viene da dubitare: e se fosse tutta un’invenzione? La Rivelazione annuncia che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma in che senso se Dio non ha forma? Noi siamo abituati ad ascoltare questa frase, ma cosa vuol dire? Dio ha gli occhi, le mani, pensa come me? Respira? Dio sente? Ecco, Dio sente! Sapete che oggi la frase risolutiva di ogni controversia è composta da tre parole: “Me lo sento”. Questo tronca ogni discussione. Allora Dio è come noi perché “sente” come noi? Dio non ha spazio, non ha tempo, non ha forma ed io sono creatura sua. Come accadeva per il discorso sul cosmo, anche per l’uomo dire CREATURA significa confessare il suo riferimento ad un CREATORE. Il fatto di essere qui e non essere nel nulla dipende dal fatto che Dio mi fa esistere qui. Un famoso teologo protestante, Barth, rilegge Gen 2,4b (testo più antico rispetto a Gen 1) in parallelo con gli schemi dell’alleanza. Nella Bibbia compaiono più volte delle alleanze tra Dio ed il popolo e questo testo ha una forma che è simile ad uno schema dell’alleanza. E già questo dovrebbe farci comprendere come ci sia una differenza sostanziale tra un sasso che viene direttamente dalla causa prima e segue la logica delle cause seconde, ed un uomo, che è libertà volente. E’ vero che io per certi versi ho la stessa consistenza del sasso, della pianta e dell’animale, ma c’è in me qualcosa di diverso, perché Dio non si allea con sassi, piante ed animali. Dio crea l’uomo ed entra subito in relazione con lui. Per una parte quindi appartengo al regno delle leggi causali, ma dall’altra le supero, perché sono intelligente, volente, libero. Sento, penso, ho la memoria e decido per me. Pascal diceva che l’uomo è l’unico animale cosciente del suo dover morire.
Alcuni atteggiamenti animalisti ed ecologisti sono una forzatura perché non si possono attribuire sentimenti umani a piante ed animali. La sofferenza dell’animale è radicalmente diversa da quella umana. L’uomo è diverso da tutto il resto del Creato. Il creato segue solo il decorso delle cause seconde. Il gatto ha fatto sempre e solo il gatto, non ha mai scritto una poesia o disegnato un quadro. Sembrano cose banali, ma è bene ribadirle. Questo non vuol dire che siccome l’uomo è il centro del cosmo allora può fare del cosmo ciò che vuole. Guai a chi pensa questo. L’uomo deve rispettare il cosmo, perché ne è il custode, ma dire che l’uomo è identico alle piante e agli animali è una sciocchezza clamorosa. Tra l’animale più evoluto e l’uomo c’è un salto grande come quello che occorrerebbe per andare da qui alla fine dell’universo, un salto qualitativo enorme.
Dio crea l’uomo e in questa creazione è già insito il concetto dell’alleanza. Nella Bibbia non appare mai un concetto di uomo come buono in sé a prescindere dalla relazione con Dio. Questo è importantissimo: quando nella fede crediamo alla decadenza dello stato umano non è per un pessimismo antropologico ma per confessare la necessità della bontà divina. La bontà dell’uomo è dovuta al fatto che è legato al suo Signore, che lo vuole buono. Dire che l’uomo è una creatura è sottolineare la bontà del Creatore. Il bambino che dice: “Io sono figlio del mio papà” non vuole dire che ciò è brutto e che lui è un poverino, ma quanto è bello che il padre lo abbia messo al mondo.

Rispetto a tutte le altre creature l’uomo è l’unico che Dio ha voluto per sé (GS 12; CCC 356); ovvero non è una cosa fra le cose, ma è capace di autocoscienza e decisione libera. È una persona, capace di relazione con le altre persone. In questo sta la immagine-somiglianza con Dio: non siamo una cosa inglobata nelle leggi del cosmo (pensate all’evoluzione che porta alla presenza dell’uomo: circa 3 miliardi di anni), ma abbiamo coscienza, libertà, possiamo interpretare questo nostro essere al mondo dandogli un senso.
Nel secondo racconto biblico della creazione (Gen2,4a-25) l’uomo (adam) è tratto dalla polvere (adamah), in cui Dio soffia il suo alito di vita (neshamah), che lo rende un essere vivente (nefesh). Ciò che fa la differenza tra noi e le altre creature è lo spirito, la capacità di essere liberi, di attribuire un significato al fatto che siamo qualcosa. Il cane, per quanto intelligente, non sa di essere quel che è.
Il massimo della gratuità di Dio si raggiunge quando crea un essere assolutamente libero: capace di riconoscerlo o misconoscerlo. Che Dio crei un sasso è bello, è un miracolo, ma che crei me, capace addirittura di rinnegarlo, è il massimo della gratuità. Per questo l’uomo è il vertice della creazione. All’origine del primo uomo – e di ogni uomo – c’è così un nuovo intervento di Dio, una nuova decisione libera ed originale di Dio.

I Padri della Chiesa hanno da subito affermato decisamente la destinazione relazionale dell’uomo: creato per entrare e vivere in comunione con Dio. L’uomo, anima e corpo, è orientato alla beatitudine eterna. Dire che l’uomo è ad immagine e somiglianza di Dio è riferito proprio a questi due elementi: l’uomo è capace di attribuire un senso a ciò che esiste, è una creatura libera, non inserita nella sequenza delle cause ed è destinato ad entrare in relazione con il suo Signore.
Solo partendo da questa premessa si può parlare dell’uomo come corpo, anima e spirito. L’essere dell’uomo come anima e la destinazione ad entrare in comunione con Dio sono due cose coincidenti. Per il fatto che Dio vuole entrare in comunione con noi ci crea in un determinato modo. E l’anima è appunto la capacità di entrare in dialogo con Dio. Lo Spirito poi è la realizzazione di questa potenzialità.

Questo ci fa pensare che l’uomo “semplicemente naturale” non è mai esistito, ma è solo una categoria necessaria per dire della gratuità della comunicazione dello Spirito.
Facciamo un esempio paradossale. Come tutti gli esempi calza solo parzialmente alla verità, tuttavia ci può aiutare. Immaginiamo un uomo con poteri speciali. Immaginiamo che desideri avere un figlio. I suoi poteri gli danno la possibilità di decidere come questo figlio debba essere, una volta nato. Se vuole fare una “creatura” che possa essergli amica, che possa vivere in comunione beata con lui, come la farà? Non sceglierà di creare una pietra o un albero, ma una creatura il più possibile simile a lui e che soprattutto abbia la capacità di riconoscerlo, di essere in relazione con lui. La Rivelazione dice che questa facoltà è l’anima, la capacità relazionale. Anche se questo bambino non conoscerà mai il padre, perché non può o non vuole, questo non toglie che sia a immagine e somiglianza sua. Quando poi si aprirà al dialogo con questo padre allora entrerà anche “in sintonia” con lui, facendo abitare in sé il pensiero, gli insegnamenti, la memoria, gli affetti propri del genitore. Questa terza componente, come le altre, viene dal padre, ma è un “di più” ancora più gratuito (come lo Spirito). Fino a che questo dialogo non si instaurerà il figlio sarà però potenzialmente capace di entrare in relazione con il padre.
Pensiamo alle ricadute di questo nel campo della bioetica. Erroneamente alcuni pensano che affermazioni come la dignità assoluta della vita umana, fin dal suo concepimento, potrebbero essere accettabile solo da chi crede. Eppure anche ai non credenti dovrebbe essere evidente che, manipolando un embrione od un feto umano, si manipola o si sopprime un essere in possesso di questa capacità relazionale.

Ireneo di Lione ricordava come lo spirito non è una componente umana, ma è donata da Dio, è quasi un “di più” rispetto alla natura umana; e l’anima è il nesso fra corpo e spirito.
J.Ratzinger, in Introduzione al cristianesimo, Brescia 1974 ha scritto, volendo spiegare con termini moderni il concetto di “anima”: “Possedere un anima spirituale vuol dire precisamente essere tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere un anima spirituale significa essere creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. [...] (Ciò) viene espresso mediante un linguaggio più spiccatamente storico ed attuale mediante la frase essere un interlocutore di Dio [...] L’immortalità dell’uomo si fonda sulla di lui dialogica polarizzazione su Dio, il cui amore è l’unica forza capace di accordare la vita eterna. [...] Non è possibile in definitiva fare una netta distinzione fra naturale e soprannaturale”.
Siamo immortali non perché abbiamo un potere speciale o perché siamo bravi, ma perché Dio ci conosce per sempre.
Torniamo all’esempio del padre. Se ha messo al mondo un figlio capace di conoscerlo, lui stesso è garante di questa conoscenza, quindi il papà lo conoscerà per sempre, lo avrà presente per sempre nella sua interezza.

La predestinazione dell’uomo è una sola (Sir17,1; Sap2,23; 1Cor11,7; 2Cor4,4; Ef3,1-7):
“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo,
per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo,
secondo il beneplacito della sua volontà.
E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue,
la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia”.

L’uomo così appare come il vertice della creazione, il punto in cui il creato diventa cosciente e capace di risposta libera a Dio, capace di relazione.
La relazione non è un appendice della natura umana, ma l’espressione più piena dell’essere persona. L’uomo è orientato ad una crescente relazionalità, all’uscire da se stesso per entrare in dialogo con il cosmo, con i suoi simili ed, ultimamente, con Dio.
La Scrittura racconta questo fatto nell’emblematico racconto della creazione della donna: tratta dall’uomo perché fosse un aiuto “a lui simile”.


2 - Il peccato: la tentazione e la caduta (CCC 385-390)

2.1 - Dio crea l’uomo come creatura libera, però dà dei divieti, dei comandamenti, delle leggi, una morale: non è una contraddizione?

Il senso del divieto ingiunto ai progenitori rappresenta la custodia della distanza che li separa da Dio. L’uomo coglie questa sua differenza radicale col creatore: si accorge che ha una libertà che è contingente, limitata. É libero, ma la sua libertà ha un margine. Quando l’uomo si accorge di questo limite dice: “Ho tutto fuorché la possibilità di far tutto”. Questo è un primo aspetto dell’albero: non mangerai dell’albero della conoscenza del bene e del male, non puoi sapere fino in fondo da te solo perché la tua libertà è limitata. L’uomo ha la libertà ma si accorge che essa non è illimitata, ha delle condizioni. Si rende conto di non poter oltrepassare certi limiti. E’ come se il bambino dell’esempio fatto precedentemente si chiedesse: “Io so che senza mio padre non esisterei e che la mia gioia dipende dal mio dialogo con te, però non posso capire cosa c’è nella tua testa, fino in fondo, qual è la tua intenzione, perché sono fatto così”. Questo è il significato dell’albero del bene e del male: è solo nel legame con Dio, con il Creatore, è solo nella fiducia data a Lui che è possibile comprendere il senso della vita, si può misurare il bene ed il male, si può vivere la creaturalità e la propria umanità in una vera libertà e pienezza. Infrangere il divieto di Dio significa rompere questo legame con il creatore e quindi morire. La Genesi ci dice che l’uomo non ha accettato di stare dentro i margini, non ha voluto fidarsi. Ha sentito questi margini come una catena al collo ed ha deciso di spezzare questa catena. Questo è il senso del peccato dell’Eden: non voler stare in questa situazione di dipendenza dal Creatore. Noi uomini abbiamo la coscienza di avere una libertà-chiusa-fra-limiti: una libertà-non-libertà. E chi ha fatto tutto questo è Dio. Da cui quell’interrogativo: Dio mi vuole libero o no?
Questa è la constatazione oggettiva, a cui fa seguito la questione successiva sul senso di questo: Che dire? Perché per me è così? Perché Dio ha fatto così? A questo Dio pone un limite: è così, e non puoi oltrepassare questo tuo ricever-ti (divieto dell’Eden).
La fiducia in Dio fa comprendere che questa dipendenza, questa creaturalità, questo legame, non è una maledizione, non è un cappio al collo, ma è, invece, la benedizione dell’essere figli, è la bellezza dell’essere voluti ed amati.

La figura del serpente evoca, invece, l’immagine dell’ombra che si crea in ogni relazione libera. Ma questo è niente meno che la prova dell’amore autentico di Dio, del fatto che siamo immagine e somiglianza sua: liberi di decidere di noi stessi.

Da questo dipende la nostra libertà ferita. Guardate che l’idea di una libertà assoluta non è così lontana da noi. Quante volte ci chiediamo perché non possiamo fare come vogliamo? E’ anche comprensibile a volte, ma il problema è costruire la propria vita su questa aspirazione. Una libertà ab-soluta è il mito diabolico, che viene da reminescenze infantili e psicologicamente pericolose. E’ indice di un disordine non solo morale, ma anche psicologico grave. Si finisce per inseguire una chimera. Ci si deve interrogare sul vero significato della parola “libertà” sulla quale si concentrano tutti i paradossi. Libertà è fedeltà a se stessi, è possibilità di decidere per il proprio bene, il proprio compimento, di decidere per la verità delle nostre relazioni con gli altri e con Dio.

La Genesi esprime tutto questo nel simbolo degli alberi – l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. L’uomo è creatura, cioè libertà limitata, libertà che si riceve ogni giorno da Dio. Il mio cuore batte, ma non ne sono padrone; le emozioni si scatenano dentro di me e non so da dove vengono; capisco tutto, ma non posso fare tutto; vorrei essere alto, moro, muscoloso e invece sono così... Ogni uomo intelligente si rende conto poi del problema fondamentale: “Ci sono, ma potrei benissimo non esserci!”
Questa è la domanda di fondo: mi accorgo che ci sono, ma la mia vita è su una lastra sottile, sotto la quale c’è la mia morte. E’ sano non pensarci quasi mai. Al contrario, non pensarci proprio mai o pensarci sempre non è sano.

2.2 - Come vivevano i Progenitori prima del peccato? Erano felici? Come è da intendere la relazione dell’uomo con Dio prima del peccato?

Ricordiamo quando già detto precedentemente: il pensiero storico-cronachistico necessita di un prima e di un dopo, ma non si può trasportare questa necessità sulla Genesi, perché sarebbe forzarne le intenzioni (che sono eziologiche-metastoriche). Genesi dice il senso, racconta qualcosa sulla storia, ma non è cronologia esatta e definita in tutti i particolari.
L’argomentazione medioevale ha preferito spiegare le cose secondo questo prima-dopo, secondo la sequenza del piano di Dio. Ciò ha la sua pertinenza, tuttavia ha il rischio di lasciar sembrare che tutto quello che c’è prima di Cristo possa sussistere senza di lui. Dire che gli uomini erano in armonia con Dio prima del peccato significherebbe, se non bene inteso, fare un’affermazione rischiosa, o per lo meno ambigua: per loro il Figlio di Dio poteva risultare accessorio! Molte delle affermazioni della nostra fede hanno valore più per il loro inverso che per il loro senso immediato. Dire che i progenitori prima del peccato stavano bene, erano in armonia tra loro e con il creato, solo apparentemente significherebbe dire che per loro Cristo non era necessario, che loro stavano bene senza di lui. Un’antropologia teologica che non preveda Cristo non sta in piedi. Il magistero numerose volte ribadisce lo stato di armonia precedente alla caduta dell’uomo, ma mai dice che l’uomo prima di tale caduta fosse immortale. La Genesi parla di paradeisos per dire un’armonia. Le formule della fede parlano di una giustizia originaria, padronanza delle facoltà spirituali, dell’anima sul corpo, dell’unione fra l’uomo e la donna, del rapporto con la creazione.
Quella era la realtà dell’uomo così come l’aveva pensata Dio. Ricordiamo l’origine del testo della Genesi: gli uomini si chiedono: “Da dove viene il male? L’ha fatto Dio? Come mai l’uomo compie il male?” Il racconto dell’Eden proclama la bontà originaria di tutto quanto esiste, in modo particolare dell’uomo. È immagine e somiglianza di Dio, ne porta l’impronta, la bontà. Quello era il progetto di Dio, l’intenzione originaria. Quella la realtà originaria. Qualcosa è sopraggiunto, qualcosa è avvenuto, per cui la realtà non è più ora, così come Dio l’aveva pensata e creata.
Collegandoci all’esempio di prima, è come se quel bambino, divenuto grande, vedendo il male, la propria sofferenza, la propria inclinazione alla cattiveria, si domandasse: “Ma mio padre mi ha fatto così perché non era capace di farmi meglio? Devo rassegnarmi a questa condizione? Da dove viene il male che mi capita e non ho voluto?”

Il male non viene da Dio, ma è il risvolto dell’azione libera dell’uomo, che contempla la possibilità di rivoltarsi contro la libertà stessa. Non c’è alcun determinismo, né un dualismo. Il male non è originario come il bene, non è coessenziale ad esso. Il bene è la vera ed unica destinazione dell’uomo, ma l’uomo ha deciso di voltare le spalle al bene, di rinunciare ad esso, di far esistere il male. L’uomo non è determinato a fare il bene. Se Dio ci avesse creati capaci di fare solo il bene questo sarebbe come un meccanismo senza alternative, ovvero non saremmo liberi.
Ma c’è una questione importantissima. Quella condizione originaria non è mai esistita nelle forme in cui spontaneamente ci verrebbe da pensarla. Quel “prima” è una necessità logica. Da sempre Dio crea l’uomo destinandolo alla comunione con sé, e tale relazione si realizza unicamente nella partecipazione alla vita del Figlio per mezzo dello Spirito da lui donato. Quindi non sono mai esistiti Adamo ed Eva belli e pacifici senza Gesù Cristo. Storicamente l’uomo è stato creato in relazione ad un Creatore, dipendente da lui, ma lo stesso uomo ha deciso, all’origine, di leggere questa dipendenza come una maledizione piuttosto che come un dono. Prima (= secondo il progetto di Dio) l’uomo si riceveva, stendeva la mano e mangiava. Dopo (= secondo quello che di fatto l’uomo da sempre ha deciso) ognuno si chiede perché ogni giorno debba stendere la mano per prendere i frutti, riconoscendosi una semplice creatura, non perfetta, non-Dio. Perché Dio non ci ha creato dei e siamo solo creature? E’ proprio su questo che fa leva il serpente: “Saresti come Dio!”. Cos’è il serpente? E’ immagine di quell’essere personale spirituale che insinua in noi il dubbio, che ha insinuato nel primo uomo il dubbio. Se io sono in relazione di dipendenza da Dio, ecco il dubbio che si è insinuato nell’uomo: questa dipendenza è per il bene o Dio mi vuole schiavo? Il serpente dice: “Non è vero che Dio è buono, altrimenti ti avrebbe fatto Dio. Questa tua dipendenza da Lui è in realtà una catena: una catena dorata, ma pur sempre una catena”. É quello che succede ogni volta che noi contrapponiamo la libertà nostra a quella di Dio, quando ci chiediamo: “Ma perché è successo questo, perché è morta proprio quella persona? Perché così? Perché mi è così oscuro il senso di ciò che accade?” Non dobbiamo pensare che esistano due principi: da una parte Dio e da una parte il Diavolo, potente quanto Dio ma con intenzioni opposte a lui. La Bibbia dice che il serpente era “la più astuta delle creature che Dio aveva creato”. E’ una creatura, non è Dio, non è alla pari del Creatore. E’ un modo per dire che nel momento in cui Dio crea l’uomo, legandolo a sé con il dipendere dal suo sussistere-in-Dio, non ha voluto costringerlo a riconoscere questa dipendenza, ma lo ha voluto libero. E, subito, il male ha approfittato di questa possibilità, invitando l’uomo a leggere questo legame non come un’alleanza ma come una schiavitù. Rifacendoci all’esempio che stiamo più volte ripetendo, è come se il figlio di quel padre ipotetico ad un certo punto sentisse come minaccioso il fatto che lui deve l’esistenza ad un altro, che lo precede, e del quale sente impenetrabili le intenzioni che l’hanno portato alla vita. Il figlio non può diventare padre di se stesso e questo rapporto di dipendenza necessaria può generare il dubbio sulla bontà di questo legame. L’uomo fa sua questa logica demoniaca, legge questo rapporto come una condanna e non come un dono. Ed il primo uomo ha fatto veramente questo, spezzando da parte sua quel legame, quella fiducia, alla quale era destinato e per la quale era stato creato.

Nell’idea di Dio la vita dei Progenitori era un disegno di armonia con il Creatore, e quindi con tutte le creature. L’uomo e la donna ricevevano la vita da Dio, e questo non era una minaccia, un qualcosa di oscuro. La libertà dell’uomo è creata da Dio per essere in armonia con lui. La destinazione ultima del nostro esistere non è la lotta, ma la comunione beata con Lui, con i fratelli, con il tutto, però senza mai by-passare Cristo e la Redenzione. Tale comunione è un “di più” che la natura non possiede, bensì è dono gratuito fattoci da Dio nella Pasqua.
Non si legge la Bibbia a compartimenti stagni! Il peccato non è tanto una disobbedienza alla legge ma il rifiuto all’amore filiale che Dio vuole donarci in Cristo. Nell’ordine della rivelazione, l’uomo ha conosciuto prima il peccato e poi Cristo Redentore, ma nel piano di Dio questi prima e dopo sono da intendere in modo diverso. Cristo esiste da prima che il cosmo e l’uomo vengono creati. Leggiamo alcuni brani biblici che ce lo ricordano e annunziano:

“A colui che ha il potere di confermarvi secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni...” (Rm16,25)

“Far risplendere agli occhi di tutti qual è l'adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell'universo” (Ef3,9)

“Il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi” (Col1,26).

In questi passi è evidente come Cristo era all’inizio dei tempi. Non c’è mai stato Dio Padre senza il Figlio, e noi dobbiamo leggere la Bibbia tenendo presente questo.

Un’altra questione che dobbiamo affrontare è quella del monogenismo o poligenismo. Se leggessimo la Genesi con un criterio storico-cronachistico, sembrerebbe che il genere umano discenda da un unico ceppo, che poi si sarebbe riprodotto per forza con incesti clamorosi. La scienza invece sembra attestare che siano esistiti tanti gruppi umani: come si concilia questo con la dottrina di un unico peccato originale? Se noi diciamo che l’uomo si è ribellato e ha peccato dobbiamo pensare che tutti gli uomini esistenti si siano messi d’accordo per peccare nello stesso istante?
Pio XII, nella Humani Generis diceva più o meno: “I cristiani non hanno la stessa libertà di pensare l’origine dell’uomo come semplice frutto dell’evoluzione, perché questo non si concilia con il dato rivelato. Non si può concludere con faciloneria che quanto dice la Bibbia è solo una metafora, un modo per dire, per cui quello che conta è solo ciò che dice la scienza”. Occorre tener conto del fatto che la scienza ci racconta il fatto, la Bibbia ci dice il senso del fatto. Quindi non si rifiuta il poligenismo, ma solo si è cauti nel poterlo relazionare con quanto detto per la creazione. Ora sembrano essere cadute le precauzioni che portarono Pio XII a rifiutare il poligenismo. Il peccato originale non è una semplice “macchia”, ma una sorta di inclinazione irreversibile, non scelta, che, a motivo del primo peccato del primo uomo, tutti gli uomini hanno ricevuto in tragica eredità spirituale. Questa è la caratteristica del peccato originale. Mentre gli altri peccati siamo noi a scegliere di commetterli, il peccato originale è trasmesso. Il Concilio di Trento dichiara anatema chi dice che il peccato originale non è trasmesso. Questa verità di fede vuol dire che ogni uomo con le sue sole forze non sa essere buono. Ricordiamo che spesso per capire i dogmi è utile rovesciarli, e vederne le conseguenze. Se io dico “Ma perché non posso essere buono da me?” vuol dire che potrei fare a meno di Gesù Cristo, che io potrei fare a meno della Pasqua, della misericordia che in lui Dio Padre mi ha donato. In linguaggio più semplice, sarebbe ammettere l’esistenza di una creatura beata e realizzata per il semplice fatto di essere creatura, un essere naturale. Un uomo che nasce buono da sé è un uomo che non ha bisogno di Cristo, e io non vorrei mai essere quell’uomo. Preferisco aver bisogno di Cristo, perché solo in lui mi è rivelato quanto la beatitudine della vita non è vivere-in-pace, ma essere-figli! Un sacco di persone attualmente, anche cristiani purtroppo, inseguono il mito di una vita in pace, senza tensioni, tutta chiusa in sé. Questa ricerca è destinata alla frustrazione, che a sua volta porta allo scoraggiamento, al sentirsi come imbrogliati dalla fede, dalla Chiesa e quindi da Dio stesso. L’orizzonte del credere non è lo “star bene”, il non essere più preoccupati di nulla, ma l’essere in comunione filiale con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Non è una differenza da poco! Il peccato originale è il rovescio della medaglia dell’annuncio che ogni uomo ha bisogno di Gesù che lo salva, gli vuole bene e gli svela la vocazione filiale. Nessun uomo può “scansare” questo amore di Dio. Anche se gli uomini nascono con il dubbio fondamentale verso Dio, il suo amore è debordante e li raggiunge comunque.
La teologia non entra così oggi nella discussione sul poligenismo o sul monogenismo, ma afferma che il primo uomo che è stato libero ha subito peccato, non ha voluto vivere la sua libertà come creatura, come figlio, e questo si è “trasmesso” a tutti gli uomini. La dottrina del peccato originale concentrata nella coppia dei progenitori è il negativo dell’espressione salvifica realizzata in Gesù Cristo. Figli di uno stesso Padre, di una sola volontà di comunione d’amore con lui, che si realizza nella persona del Figlio grazie allo Spirito.


3 - Dopo il peccato: il male, la sofferenza, la morte (CCC 396-412)

3.1 - Se tutto è stato creato per il bene, da dove viene il male? Perché Dio non impedisce che l’uomo faccia il male? Perché esiste la morte?

Abbiamo visto che Dio crea tutto per il bene. Ma allora, da dove viene il male? Perché Dio non impedisce che l’uomo faccia il male, perché esiste la morte? Diciamo subito che il male è il problema fondamentale dell’uomo. La morte possiamo anche viverla come una sorte, un destino che aspetta tutti, però il male no. Se un bambino muore di leucemia c’è dolore, non rabbia. Ma la morte del piccolo Tommaso provoca la rabbia, quello è un male voluto. Avrete visto gli striscioni allo stadio: “Bastardi era solo un bambino, non avrete mai pace”.
Dice il Concilio in GS 1: “In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società”.

Noi ci siamo ormai abituati a questo. Ce lo ricordiamo solo ogni tanto, quando ci confessiamo, e ci arrabbiamo un po’, ma è una cosa drammatica. Questo documento dice che i mali del mondo sono direttamente collegati al male che è nel cuore dell’uomo: l’uomo non sta bene dentro e di conseguenza il mondo, la società diventa non bella.
Il problema del male è legato direttamente all’aver rotto l’armonia originaria, quel grande progetto che Dio aveva sull’uomo. Tutto quello che esiste, sia il male voluto, che il male non voluto (per es. mi cade una tegola in testa), in qualche modo sono collegati all’azione dell’uomo, alla libertà dell’uomo che ha scelto di non accogliere questa dimensione di creaturalità buona, la buona-dipendenza da Dio. L’essere dipendente da Dio non lo leggo più con le categorie dell’alleanza, ma con le categorie della sfida, della lotta, della rivalità con Dio. In quest’ottica una tegola in testa diventa una maledizione. La “sproporzione” prima si chiamava creaturalità, alleanza, ora invece si chiama rivalità, paura, vergogna, minaccia­.

Il più antico genere letterario è quello delle fiabe. Nelle fiabe il bene e il male sono separati in modo netto: si sa chi sono i cattivi, si sa chi sono i buoni. É per questo che ai bambini piacciono tanto le fiabe, perché il bambino ha bisogno di chiarezza. Il bambino è quello che divide il mondo in due: ci sono i cattivi e ci sono i buoni, mettendo se stesso dalla parte dei buoni. Quando la mamma lo sgrida dicendogli “Sei stato cattivo”, è una tragedia, perché significa che il bambino si sente improvvisamente dall’altra parte, non più con i buoni: per questo decide di ascoltare la mamma. Per un bambino è normale ragionare in questi termini - il problema è se un adulto pensa che il mondo funzioni così, con i buoni da un lato, i cattivi dall’altro!
Ci sono state varie dottrine per risolvere il problema del male. Una è la dottrina dualista, che prevede l’esistenza di due principi equipotenti, il Bene ed il Male, che si scontrano e dal cui scontro ha origine la storia, con tutto quello che ha di bello e di non bello.
La prima elaborazione teorica che tenta di spiegare il problema del bene e del male sembra essere quella greca, che intuisce l’esistenza di un ordine nel mondo: c’è il kosmos, che è un’armonia tratta dal caos. Il caos è il disordine degli elementi. Ma c’è un ordine nel logos, nella ragione nel mondo, e questa ragione nel mondo viene identificata come ciò che limita lo spazio al male. L’ordine è la cosa buona, tutto ciò che è fuori, il disordine, è il male. Rompere questo ordine coincide quindi col fare il “male”: la polis greca è impostata, costruita, con questa logica dell’ordinare le categorie delle persone, le leggi. Il primo che ha un dubbio su questa logica della polis, dell’armonia universale è Socrate (raccontato da Platone), che era giusto, viveva secondo questo ordine di leggi, e che però viene condannato proprio avvalendosi di queste. Evidentemente qualcosa non funzionava. Non si può costruire un mondo imponendo l’ordine, imponendo il bene: Platone fa dire a Socrate nell’Apologia che in fondo il male esiste prima di tutto nel cuore dell’uomo, non sta fuori, è dipendente dalla libertà. Fino ad allora, si pensava che il male fosse una cosa esterna all’uomo, che in alcuni casi si può impossessare di lui. Ma non è così, il male è scelto e fatto dall’uomo. Chiaramente sto procedendo per sommi capi in questa storia della definizione di Bene e Male.
In epoca moderna sono state date altre spiegazioni del male. C’è la spiegazione psicologica, in base alla quale il male deriva dai conflitti interiori, inconsci, nell’uomo che lo spingono a fare ciò che non vorrebbe. Esiste anche una spiegazione marxista-materialista che vede in qualche modo il male come conseguenza di un disordine innanzitutto sociale, da equilibri sfasati tra forze sociali. Per la scienza, potremmo dire, il male consiste semplicemente in un errore.
Per la nostra fede, il male deriva dall’abuso della libertà umana, è un uso sbagliato della libertà umana. Il male non esiste in sé, nessun male esiste al di fuori di una libertà che lo compie. Il male è direttamente relazionato a questo. Il male (dolore, sofferenza, morte) deriva dall’abuso della libertà umana, creata e donata da Dio perché l’uomo ami: sé, gli altri, Dio (CCC 387).

La libertà umana era stata donata da Dio perché l’uomo amasse, amasse il mondo, amasse gli uomini, amasse Dio. L’allontanamento da questa condizione vuol dire “scansare” la grazia di Dio, vivere fuori dalla grazia di Dio. Se io scelgo di non stare in questa regola, in questo equilibrio, in questo stile, io vivo fuori della grazia, vivo da
“dis-graziato”, rompendo la comunione con Dio. Quindi il castigo che la Genesi racconta non è il castigo che il bambino può ricevere dalla mamma: “Io sono stato cattivo, quindi la mamma mi punisce”. No, il castigo di Dio è la ratifica della decisione dell’uomo. L’uomo dice: “Voglio stare all’ombra!” e Dio non viene ad illuminare l’ombra. Se tu vuoi stare all’ombra, che ombra sia! Questa è l’idea del castigo secondo la Bibbia: non è mai un Dio che si arrabbia e dice: “Mi sono veramente stancato: te l’ho detto una volta, due, tre, quattro. Adesso basta!!!” (con buona pace dei Testimoni di Geova...) Certo la Bibbia letta in modo naif da ampiamente adito ad interpretazioni di questo tipo, ma noi sappiamo che la Parola di Dio non è solo la parola così come è scritta sulla carta. Gli antropomorfismi di Dio (proiezioni di tratti umani su Dio) sono molto rischiosi. Il Dio-vendicativo che spesso ci immaginiamo è in realtà un reduplicato di noi stessi. Bisogna stare attenti a non trasportare i sentimenti umani su Dio. Dio è molto più fine, è un grande. Dio è Dio. Dio rispetta la libertà umana anche quando l’uomo, la creatura a lui più cara, sceglie di fare il male. Pensate che dramma per un Padre vedere il figlio che si fa male! Il peccato fondamentale è rompere un’armonia originaria, essere contro il desiderio fondamentale di Dio. La dottrina del peccato originale dice che il primo atto che fa l’uomo è di sfiducia verso Dio, di accusa a Dio. Il peccato è in fondo rifiutare di vivere la figliolanza. Perché il destino dell’uomo non è vivere in armonia con Dio - sarebbe poco, come dicevamo, e come dice anche S.Agostino. Dio promette all’uomo molto di più, attraverso Cristo: poter chiamare Dio “Padre”. Pensate alla differenza. Un conto è guardare il cielo e dire “Io ho un creatore, un principio originario del cosmo”; altro è poter dire: “Tu sei mio Padre”. Lo dico soltanto se sono figlio nel Figlio per il dono dello Spirito Santo; quindi la radice vera del peccato è voler essere e autodichiararsi figli-bastardi, non voler essere figli. Questo lo scopriamo solo alla luce di Gesù Cristo; per questo diciamo che la Genesi non va letta mai da sola. E Dio in Cristo ricuce questa alleanza originaria, quando nell’orto del Getsemani, dice: “Padre non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu” (= la volontà tua). Cristo vive l’abbandono alla volontà del Padre drammaticamente, come tenebra, perché è vicino ad ogni uomo, è incarnato nella storia di tutti gli uomini. Non lo vive più in modo armonioso come quando era presso il Padre. La volontà del Padre per il Figlio non è drammatica, ma per Gesù uomo sì, perché la vive come la viviamo noi, coi nostri “perché?!” e le nostre domande. Ma Gesù dice: “Non quello che io voglio, ma quello che vuoi tu”. Questo è il punto in cui viene risanata la disobbedienza di Adamo. Adamo dice: “Non quello che vuoi tu, ma quello che voglio io”. Il nuovo Adamo, Cristo, dice: “No, non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu”.
Allora, ci sono dei mali, delle cose dolorose, che sono causate dalla libertà dell’uomo. Se io adesso mi avvicino ad una persona e gli do un pugno, quello non subisce il male perché Adamo ha disobbedito, ma perché io l’ho colpito, è la libertà mia che causa direttamente il male.
Ci sono altri mali che discendono direttamente dalla libertà dell’uomo, anche se, però, ne abbiamo perso il nesso logico. Tante cose che succedono, tante malattie (come quelle psicologiche, quelle dovute allo stress, quelle dovute allo sfruttamento ambientale), sono frutto della libertà dell’uomo, di un modo di impostare la società che non rispetta più l’uomo. Il papa l’altro giorno sottolineava questo fatto: l’uomo non è al servizio della produzione, al servizio del lavoro, al servizio del produrre dei soldi. L’uomo innanzitutto è fine in se stesso. Tutto serve all’uomo e non viceversa. Quindi tanti mali che noi chiamiamo mali, non piovono su di noi come la tegola in testa, ma come una conseguenza indiretta di un’azione voluta dall’uomo. E pensate ai problemi legati all’inquinamento, allo sfruttamento, al non rispetto dell’equilibrio dell’ecosistema del mondo; pensate al continuare a produrre alimenti a costo sempre più basso, alle schifezze che stiamo mangiando e le malattie a questo connesse. Il problema è la libertà dell’uomo. Ci rivolgiamo a Dio come se fosse il primo responsabile di questi drammi, solo perché non sappiamo più ricondurli agli autori principali di essi, ovvero gli uomini. Pensate ai ritmi lavorativi che a volte ormai impediscono una vita normale, impediscono l’essere padre o madre. Per venire qui da voi ho preso la metropolitana e pensavo che le condizioni di alcuni mezzi di trasporto sono davvero inumane, al livello dei trasporti per la tratta degli schiavi.

Il problema però rimane per i mali inspiegabili, quelli non causati né direttamente né indirettamente dalla libertà dell’uomo: ci sono dei mali, ci sono delle disgrazie, delle cose piccole o grandi che non sono direttamente collegate a nessuna libertà, nessun agente diretto. Io cammino, inciampo in una radice, e batto la testa perché sono inciampato e non perché qualcuno l’ha voluto. Questo è un accidente, come una tegola che mi cade in testa perché si è rotta una trave del tetto. Queste sono le cose che ci scandalizzano: lo tsunami, i terremoti, queste cose che ci colpiscono e soprattutto la morte non causata da qualcuno. Questo è il grande interrogativo: perché esistono questi mali? Ora la Genesi annuncia una cosa: il mondo così come l’uomo lo sente, come l’uomo lo interpreta, non è voluto da Dio. Questo è il grande annuncio: per questo motivo la Genesi viene messa come libro primo della Bibbia, per dire che tutta la storia è buona in origine, perché fatta da Dio. La Genesi continuamente si ripete: “era cosa buona”, “era cosa buona”, “era cosa molto buona”. Non c’è niente che è brutto.
La Bibbia dice che anche la morte esiste ed è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Rm5,12; Concilio di Trento DH 1512: “anatema sit”). Persino la morte è causata dalla disobbedienza di Adamo e di Eva. Ma cosa significa questo? Più volte si dice nella Scrittura che l’uomo era all’inizio in armonia con Dio, che dalla disobbedienza deriva la morte, è entrata nel mondo la morte, ma non viene mai detto che l’uomo fosse immortale. Sembra contraddittorio: se la morte è entrata per questo motivo vuol dire che prima non c’era. Tuttavia questo non è detto. Cioè da più fonti si afferma che la morte è causata dal peccato, tuttavia non si dice che prima la morte non esisteva. Non esistono pronunciamenti categorici del Magistero in materia. Con prudenza possiamo ragionevolmente supporre che fosse previsto un qualche passaggio, una sorta di fine della vita terrena. Attenzione: la nostra vita non finisce con la morte, ma finisce in Dio. Riconoscere la nostra non-immortalità significa riconoscere che abbiamo un inizio, che non esistiamo da sempre. Esiste quindi un passaggio che separa questa vita terrena con l’altra modalità (chiamiamola così...) di esistere. La morte è tale passaggio, drastico certo, ma la mia vita va avanti. Il problema è come viene vissuto questo passaggio. Difficile è definire cosa sia la morte. Cosa vuol dire che una persona muore? Si dice che l’anima sopravvive alla morte e il corpo no. Il corpo cambia forma. Cioè diventa un insieme di atomi, sparsi per terra, in una cassa di zinco. I miei atomi diventano sparsi, ma io vivo sempre. L’immortalità vuol dire che io divento una specie di sostanza spirituale che vaga, che vola? No, l’immortalità ha la radice in Dio, che non smette mai di avermi presente. La mia persona, la mia storia, non finiranno mai, perché? Perché Dio mi pensa, perché io conto qualcosa agli occhi di Dio, e questa è l’immortalità. Altrimenti cosa faremmo in Paradiso: staremmo là con l’arpa tra le nuvole? Il Paradiso è proprio entrare in questa coscienza più piena, ma relazionale, vera con Dio. Non ha senso parlare di immortalità senza Dio. A chi interessa vivere eternamente per fare non si sa cosa? L’immortalità vuol dire: “Vivo per sempre perché Dio è eterno, perché il suo amore di Padre non mi mollerà mai”. Noi quando muore qualcuno piangiamo perché amare vuol dire: “Tu non morirai mai”. Dio non si limita ad affermare questo “Tu non morirai mai”, ma strappa tutti noi fuori del cimitero, per stare sempre con noi, perché gli siamo cari.

Però l’uomo che ha rotto l’armonia con Dio legge questo momento, questo passaggio come drammatico, perché è solo. Io leggo la mia creaturalità non come un essere dipendente da Dio, ma come una maledizione. Allora io devo affrontare questo passaggio sentendolo come uno scomparire, come un dover non esistere più. Vivo questo passaggio in modo drammatico, terribile, angosciante. Cristo stesso che è Figlio di Dio, che è Dio, vive questo passaggio drammaticamente perché è in comunione con ogni uomo. Per questo Gesù soffre, suda sangue, prega nel Getsemani buttandosi per terra, vive la passione in modo drammatico. La parte preponderante dei Vangeli è dedicata alla passione proprio per questo, dice la vicinanza estrema di Dio ad ogni uomo. É questo il problema: allora è assolutamente vero che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato, ma non è detto che l’uomo non sarebbe mai morto. Sì l’uomo sarebbe morto perché c’è un passaggio, un cambiamento di stato di vita, ma questo cambiamento di stato di vita per noi si chiama morte, ed è la cosa drammatica che ci sconvolge tanto. Ora pensiamo ad alcuni santi, a S. Francesco di Assisi che non era affatto il vagabondo naif rappresentato in molte spiritualizzazioni attuali. Lui termina la vita componendo una poesia-preghiera in cui chiama la morte “sorella”:

“Laudato sie mi Segnore,
per sora nostra morte corporale,
dalla quale null’omo vivente po’ scampare.
Guai a quilli ke morirà ne li peccati mortali!
Biati quilli ke trovarà ne li toi
Santissime volontade,
ke lla morte seconda no li farà male”.

Alcuni santi che hanno vissuto la fede in Cristo molto intensamente sono riusciti ad arrivare quasi a trasfigurare questo momento. Pensate a Giovanni Paolo II, agli ultimi giorni della sua vita. Si vedeva un uomo al quale non importava vivere di più. E si capiva che questa persona aveva un segreto. Non era uno stoico, uno che non sente più niente, come in alcune discipline orientali, nelle quali ci si deve concentrare e non pensare a nulla. Non era così Giovanni Paolo II, abbiamo visto che grinta, quando a Pasqua cercava di dare la benedizione e non aveva la voce, si vedeva tutta la sofferenza. Ma si capiva che quell’uomo aveva un segreto... Vivere in Cristo permette di trasfigurare questo momento drammatico. Ma accade solo in Cristo, non è questione di autoconvincimento, perché la morte rimane drammatica, e lo è ancora di più se si prescinde da Cristo. Nel Figlio, nella persona del Figlio, col dono dello Spirito Santo. Non si imita Gesù, Cristo non è da imitare come uno dei tanti santoni, saggi, guru della storia. Cristo va “inabitato”, bisogna abitare dentro la persona di Gesù, lasciare che il suo Spirito mi incarni, mi trasformi con la vita dei sacramenti, ecc. Io posso allora addirittura trasfigurare la morte. Se il male inspiegabile mi fa dire: ma perché succede questo? É perché nessun uomo e nessuna donna può guardare la propria storia se non con gli occhi di Adamo, e dunque resta quel dubbio. La vita è un dramma perché non è più vissuta nella comunione filiale, nella comunione che era nel progetto originario di Dio.

“Chi ha orecchi intenda quel che lo spirito dice alle chiese: colui che vincerà non sarà colpito dalla morte seconda” (Ap 2, 11).
“Felice e santo chi è messo a parte della prima risurrezione! Sopra questi la seconda morte non ha potere” (Ap 20, 6).

L’uomo come creatura scopre che c’è una differenza fra lui e tutte le cose che esistono. Ma scopre anche che c’è una differenza radicale tra lui e Dio. Mentre però la differenza fra lui e le cose è una differenza sullo stesso piano, la differenza fra lui stesso e Dio, e l’Assoluto, è qualcosa di angoscioso. Secondo alcuni filosofi sotto i miei piedi c’è il nulla. La nostra fede dice che non c’è il nulla, e se noi avvertiamo questa differenza radicale in modo angoscioso è perché abbiamo tagliato fuori Dio, e allora veramente stiamo camminando sul nulla. Io domani mattina potrei non svegliarmi. L’antico memento mori, “ricordati che devi morire”, era espressione di questo. La meditazione sulla morte è la meditazione sulla vita diceva Montaigne, perché è meditare sul senso di questa esistenza, di questa finitezza. Nella coscienza della finitezza umana, nell’accettazione della finitezza umana c’è l’apertura sull’infinità che è Dio.

3.2 - Se hanno peccato i Progenitori, perché ne paghiamo le conseguenze noi? Perché mai si devono battezzare i bambini, che nemmeno sanno cosa gli accade? Come mai il battesimo sembra non avere effetto, nel senso che facciamo comunque il male?

“Se ha sbagliato Adamo perché devo pagare io? Non mi quadrano i conti, non mi piace, che Dio punisca me per causa sua”: dobbiamo stare bene attenti a capire cos’è il peccato originale, altrimenti queste potrebbero essere le reazioni. Questa cosa del peccato originale va ricompresa bene, Tutti noi ci siamo arrabbiati da bambini, quando la mamma diceva a noi e i nostri fratelli: “In castigo tutti!”, “Ma, mamma, è stata lei!”, “Non mi interessa, in castigo tutti!”. La mamma faceva bene per far capire che ogni colpa ha un riflesso sociale. Se combini un guaio non è soltanto affar tuo, ma coinvolge anche gli altri. É tipico oggi della nostra cultura pensare che possiamo fare quello che vogliamo se non dà fastidio agli altri, tuttavia non è vero. Qualcosa di simile è accaduto anche per il peccato originale, tuttavia c’è di più.

Dicevamo che il peccato è entrato nel mondo per invidia del diavolo, e il peccato esiste per l’azione libera dell’uomo, non per volere di Dio. Però ogni peccato è ratificato dall’uomo. É sempre una libertà che decide i peccati. Ma diverso è per il peccato originale. Cos’è? La teologia classica lo definiva “una macchia”. L’idea della macchia è una metafora, un linguaggio simbolico. É appropriata per descrivere che l’uomo viene al mondo già “storto”, incapace del bene perfetto senza che lui lo abbia deciso. Il peccato originale si tramanda e non si impara. Il peccato originale che è tramandato, non l’ho deciso prima.
Togliere questa affermazione vuol dire che se una persona si impegna, se un bambino viene educato da subito, può diventare perfetto, essere felice facendo a meno di Cristo, ovvero felice senza essere figlio. É un problema, come può una persona poter fare a meno di Cristo. Io non vorrei essere quella persona, Dio me ne liberi! Meno male che c’è bisogno del Signore (“Felix culpa!” diceva S.Agostino e dice l’Exultet), perché un bambino, una persona, un uomo che prescinde da Cristo vuol dire che è solo una creatura, creatura intelligente sì, ma che non chiama Dio “Padre”, dal momento che questo è possibile solo in Cristo.
Se il peccato non esiste fuori di una libertà che lo sceglie, e il peccato originale è qualcosa che riceviamo senza averlo scelto, si deve concludere che è proprio la nostra libertà a venire al mondo malata, nel senso che ha scelto per il peccato senza aver avuto la possibilità di rifiutarlo. È solo nell’obbedienza a Cristo, alla grazia rivelata e donata nel Vangelo che è possibile riacquistare la misura piena della nostra libertà.

Se è vero che la mia libertà è imprescindibile perché un peccato esista, e che però questo peccato mi è tramandato, vuol dire che noi veniamo al mondo con una libertà che è malata. Questo è il problema: noi pensiamo che l’uomo abbia una libertà al 100%. Questa è semplicemente una bugia: l’uomo viene al mondo già con questa sfiducia originaria su di sé, sulla propria limitatezza, sul proprio destino, sul fatto che deve morire. Vive questa situazione con rabbia, con angoscia. Che uno creda in Dio o no, accettare quello che racconta la storia della nostra fede equivale ad ammettere che veniamo al mondo con una libertà in difetto. É vero che siamo liberi, ma la nostra libertà è incapace di vivere nella grazia di Dio. Ci sono delle cose che sono degli a priori, che non possiamo decidere, ci sono date. Un bambino apprende diverse cose, non nasce già con un bagaglio di nozioni acquisite. Quando comincia a vedere, ad imparare, questo processo è già viziato. Quando comincia ad essere maturo, a decidere liberamente, scopre che la sua libertà è sotto tono, già pone in sfiducia il suo essere uomo contingente, lo vive un po’ come una condanna. Quindi il peccato originale non è imparato, appreso, se si intende questo come un cosciente e libero accettare un qualcosa, un valore o un disvalore. Ma possiamo dire che il peccato originale ci viene trasmesso insieme a tutto quel bagaglio di entità di conoscenze, comportamenti, atteggiamenti, modi di rispondere ecc. che noi apprendiamo involontariamente mentre cresciamo. La dottrina sul peccato originale si può spiegare così, riletta con le moderne categorie anche psicologiche.
Noi pensiamo di essere padroni di tutto, del 100 % del nostro essere, mentre invece ci sono cose che non sono soggettive. Non posso decidere alcune cose, neanche quelle che sento; alcune cose non dipendono da me.

Il cardinale T.Spidlik dice che il peccato originale somiglia a quando vince la nazionale, e noi diciamo: “Abbiamo vinto!” Hanno giocato loro ma noi usiamo l’espressione “Abbiamo vinto”. Il peccato originale è un po’ così, come se dicessimo: “Abbiamo perso...”. C’è una sorta di unione nel genere umano, e non è vero che siamo staccati uno dall’altro. C’è qualcosa che ci accomuna, è qualcosa che tutti gli uomini si ritrovano addosso; non è solo un peccato morale, di mente, di affetto. Riguarda tutto l’uomo: corpo e anima. La morte è realmente connessa al peccato. Secondo Ireneo di Lione riconoscere che con il peccato è entrata nel mondo la morte anche fisica significa allontanarci dalla dottrina gnostica, che vede l’essenza dell’uomo solo nella mente, nel pensiero e quindi riduce il peccato a qualcosa di morale, gnoseologico. Per gli gnostici la fede è innanzitutto capire. Con la testa, io capisco i segreti della fede. Invece no, noi viviamo come un tutt’uno, quello che capisco lo sento, lo vivo, lo porto nel corpo.
S.Agostino differenzia i peccati personali da quello originale. Non ha inventato niente, ha citato solo i Padri che lo avevano preceduto, però dice che va fatta salva l’universalità del peccato per difendere l’universalità della redenzione in Cristo, che sulla croce salva tutti gli uomini, non solo quelli che l’hanno condannato.

Il Concilio di Trento nel canone terzo proclama l’assoluta necessità di Cristo per la salvezza, perché non possono le forze umane - quindi l’impegno, la volontà dell’uomo - sostituire l’azione di Cristo. Ma c’è un problema: il Concilio di Trento definisce Cristo come fondamentale, ma non dice il come. Ma come il peccato è presente in noi, come si radica in noi? In Rm5,12 troviamo: “A causa di un solo uomo, il primo Adamo, la morte è entrata nel mondo”. Abbiamo detto che la morte non è un evento con un’unica interpretazione possibile; in origine, infatti, poteva essere prevista come un passaggio. A causa del primo Adamo il significato (drammatico) che noi diamo a questo passaggio è entrato nel mondo. Questo passaggio è divenuto così per noi la morte, significato impoverito, vissuto da maledetto.

Molti chiarimenti sono venuti nella disputa sulla necessità di battezzare i bambini. Avvenne nella diatriba tra Pelagio ed Agostino. Pelagio affermava che se il peccato di Adamo danneggia coloro che non peccano personalmente, anche la grazia di Cristo favorisce coloro che non credono. Quindi i bambini dei genitori battezzati non avrebbero, così sosteneva, il peccato originale. Conclusione implicita di questo è l’estrinsecismo della salvezza di Cristo, che è ridotta a esempio morale.
Siccome si vedeva l’Incarnazione come un rimedio al peccato, si era sempre considerata la dottrina del peccato come anteriore a quella della salvezza: peccato e grazia erano teorizzati separatamente. Così facendo però Adamo risulta uno che non ha nulla a che vedere con Cristo. Questo era un errore grave. S.Agostino risponde a Pelagio dicendo che non battezzare uno significa escluderlo dall’intenzione misericordiosa di Cristo, mentre è proprio l’azione salvifica e precedente di Dio in Cristo ad essere fondamento della speranza infusa nei nostri cuori con il Battesimo (Rm5). Dietro questa risposta di Agostino c’è un aspetto importante da considerare: non si può teorizzare il peccato senza la Pasqua. Pelagio pretendeva parlare del peccato come se la Pasqua non esistesse. Ma questo è assurdo, non si può fare teologia tenendo separate queste due cose. Ma prescindere dalla Pasqua vuol dire prescindere da Cristo. Gesù quando moriva sulla croce pensava a tutti gli uomini, moriva in nome di tutti gli uomini e nessun può tirarsi fuori da questo. Noi a volte pensiamo: ma un bambino così bellino, ma cosa avrà fatto di male da doverlo battezzare? Ma cosa ha fatto un bambino di così male? Niente, neanche si rende conto di quello che succede! Ho sentito un vostro parroco, dire una frase bella a proposito del battesimo che semplifica tanti discorsi teologici: “Quando sei grande guardi le fotografie di quel giorno, e ti rendi conto che la Chiesa ti ha regalato il battesimo, come segno di qualcosa che Cristo ha regalato ad ogni uomo. Ti rendi conto che qualcuno ha pronunciato su di te le parole della certezza che ti rende ben voluto da Dio Padre, in Cristo per mezzo dello Spirito”. Battezzare un bambino significa dire che ciò che Cristo ha fatto quel giorno sulla croce, lo pronuncia anche su di te. Anche tu c’eri, anche tu sei dentro questa intenzione salvifica. E non battezzare uno significa dirgli che a lui forse Cristo non ha pensato.

Resta la questione della concupiscenza. Il battesimo toglie infatti il peccato originale, ovvero quella sfiducia originaria su Dio. Vuol dire che nella redenzione di Cristo io ho la certezza che posso chiamare Dio “Padre”. Il Cristo dice “Padre, sia fatta la tua volontà e non la mia” e questa non è una maledizione per Gesù ma è essere pienamente figlio. Il mondo, anche se io adesso lo vedo con questi occhi che me lo fanno vedere drammatico, è benedetto da Dio. Ora la concupiscenza è come un’eco di quella sfiducia originaria. L’affermazione del permanere della concupiscenza nell’uomo, anche se battezzato, prende sul serio il tempo, il non poter riavvolgere la storia. La temporalità è una cosa seria, e la libertà si dispiega sempre nella storia. La dottrina sulla concupiscenza prende sul serio il valore della libertà. Non si tratta infatti solo di qualcosa di mentale, o di sentimentale. Ogni nostra scelta è storica, e in quanto tale ha delle conseguenze, delle ripercussioni nel tempo. Il battesimo, ovvero la Pasqua di Cristo, mi dà la certezza della bontà imprescindibile dell’esistenza, tuttavia rimane la fatica del far proprio questo annuncio di salvezza. Resta la fatica di accettare la morte, di accettare il dolore, di accettare il cammino di ascesi per essere più buono, per imparare ad avere pazienza, ecc. Il cammino della Chiesa è in questo senso. Sempre il card. Spidlik dice: “La Chiesa non è un ospedale dove all’accettazione si fanno entrare le persone sane”. Piuttosto la Chiesa è il posto dove stanno le persone malate, è l’istituzione nata per perdonare i peccati, per pronunciare ogni volta sulle persone che vengono la parola di misericordia. Rimane la fatica, con la concupiscenza che ci spinge a peccare. E dire “Chiesa” significa dire storia della salvezza, ovvero il bisogno della Bibbia, bisogno dell’eucaristia, bisogno della vita di comunità, dei sacramenti, di confessarmi, di pregare con gli altri, di parlare col parroco, di arrabbiarmi col parroco, di litigare con gli altri e poi chiedere scusa, far arrabbiare il parroco e chiedere scusa anche al parroco ecc.


4 - La grazia della giustificazione (CCC 1987-2011)

4.1 - Se l’uomo è incapace di salvarsi, e quindi solo Dio può renderlo “giusto”, a cosa serve pregare, essere generosi, volersi bene, celebrare i Sacramenti, andare a Catechismo, ecc? A cosa servono le nostre “opere” se è solo la “grazia” che ci salva?

Abbiamo solo accennato prima: l’essere salvati non vuol dire ricevere un bel salvagente per stare a galla nel mondo, ma vivere nella grazia che dà lo Spirito Santo, ovvero l’essere immersi nella Pasqua di Gesù Cristo il nuovo Adamo.

L’essere salvi vuol dire essere giustificati, fatti giusti tramite l’opera di Dio. É Dio soltanto che ci fa giusti, che ci salva. La giustificazione è l’opera mediante la quale Dio separa l’uomo dal peccato (CCC 1990), e questo accade solo nella Pasqua di Cristo. Dalla giustificazione l’uomo è reso giusto come all’origine, e anzi ancora di più: ora è amato come figlio nel Figlio. Il primo Adamo era una creatura giusta, il nuovo Adamo, ed in lui tutti i giustificati, sono chiamati e sono realmente figli. La prima opera della grazia è quindi la conversione, ovvero la disposizione dell’uomo ad accogliere l’Evangelo di Cristo.
Nella Pasqua Dio separa il peccato dal peccatore. L’uomo guarda il mondo, guarda la sua storia, guarda se stesso con un occhio da peccatore. É tutt’uno con il suo peccato. Adamo, dopo il peccato guarda Dio con sfiducia, guarda la sua nudità con vergogna. La sua esistenza è un dramma. Si sente fragile, di fronte a Dio e di fronte agli altri. Nella Pasqua Cristo invece permette di guardare Dio con occhio rinnovato.

E questa è la grazia del battesimo. Questa è un’affermazione teologica. Dentro però c’è qualche problema: se Dio fa tutto, a cosa serve allora pregare, essere generosi, volere bene, andare a catechismo, celebrare i sacramenti, ecc.? Insomma a cosa servono le opere, quello che facciamo? Cosa posso fare io, se fa tutto Dio? Dio ha fatto tutto in Cristo, quindi io adesso aspetto che torni, tanto ha fatto tutto lui... Questo è un altro punto centrale.

Se abbiamo detto che prima di tutto la salvezza, la giustificazione, viene dall’opera di Cristo realizzata nella Pasqua, la conversione è la prima opera della grazia: convertirsi vuol dire credere a questa cosa che ha fatto Gesù. Il Vangelo di Gesù è questo qui: “Convertitevi e credete al Vangelo”. Non significa: “Diventate più bravi” - questo lo pensano i bambini. Convertirsi vuol dire credere all’evangelo che annuncia Gesù. É poter chiamare Dio “Padre”, è vivere da figli. Il problema non è: “Non sono stato bravo”, ma “Non sono stato figlio, ho disobbedito al Padre, ho avuto sfiducia nel Padre, gli ho messo il muso per un pezzo e non me ne fregava niente dei miei fratelli, ecc.”.

Ma se tutto questo è vero a cosa servono allora le nostre opere? Lutero dice che soltanto la fede basta, non serve altro. Se credi a questo sei salvo, fa tutto Dio e tu non devi fare niente. L’unica opera è credere: credere che Dio ti salva. Lutero cita a testimonianza una collezione lunghissima di versetti di S. Paolo nei quali si ribadisce con forza questo. Dobbiamo però considerare che S.Paolo aveva a che fare con la fede ebraica, il fariseismo che riponeva molta confidenza nella legge, nelle opere: devi fare tot passi il sabato, devi lavarti le mani così, devi fare queste cose. S.Paolo non scrive in astratto, e spesso scrive avendo presente loro. Soprattutto S.Paolo proveniva dalla fede giudaica, di stampo un po’ legalistico, e la scoperta della gratuità assoluta proveniente dalla fede in Cristo aveva fatto irruzione nella sua vita in modo indelebile, lasciandone traccia in tutti i suoi scritti.

S.Agostino, che viene un po’ prima di Lutero e del quale Lutero subisce l’influenza in qualche modo, per confutare la dottrina di Pelagio dimostra come nessuno può dirsi non bisognoso della grazia battesimale legata alla Pasqua di Cristo. Pelagio non diceva delle sciocchezze, tentava di riscattare la bontà originaria e la potenza della libertà umana. Cercava di dimostrare l’efficacia della libertà che l’uomo possiede. Agostino nega le tesi di Pelagio e dice che non ci si può salvare da soli, senza Cristo. Ma la sua insistenza su questo punto ha fatto sì che chi ha letto i testi di Agostino in modo troppo ristretto è finito nell’eccesso opposto. Secondo queste tesi esasperate l’uomo non può fare niente, fa tutto Dio. Ma la ricezione di Agostino non è stata così univoca: in altri scritti infatti egli sottolinea quanto la libertà umana non è annullata dalla grazia, anzi è vero l’opposto, l’obbiettivo della grazia è liberare la libertà, e la libertà più piena è quella di non peccare. L’attrazione operata dalla grazia rende possibile, crea lo spazio per l’azione della libertà umana, perché la grazia richiede la risposta umana. Bisogna quindi tenere conto del contesto nel quale Agostino scrive. É chiaro che quando si rivolge a Pelagio insiste su questo punto, svalutando apparentemente l’azione umana, ma in altri testi e in altre situazioni non è così e si afferma l’importanza della libertà umana.

Vedete sotto questo dibattito - “fa l’uomo o fa Dio” - c’è un’idea di fondo sbagliata. Noi mettiamo quello che fa Dio e quello che fa l’uomo sui due piatti della bilancia. Se metto su un piatto della bilancia quello che fa Dio, l’altro si alza e viceversa. Azione dell’uomo e azione di Dio sono così in contrasto, e l’una diminuisce o esclude l’altra. Usando questo modello, se diciamo che fa tutto Dio ne consegue che l’uomo non fa niente. Pelagio dice che fa l’uomo e finisce per rendere accessorio Dio. In tutto il dibattito che ancora va avanti rimane sempre nell’anticamera della coscienza dell’uomo questo modello che è un po’ frutto di quella concupiscenza di cui si diceva: è vedere Dio come antagonista. Se penso troppo agli affari miei, Dio si arrabbia, come se gli avessi rubato qualcosa. Questa è un’idea strana, ma che noi abbiamo spesso. Quando ad esempio andiamo a Messa ci sentiamo di fare un piacere a Dio. Sento che sono buono perché ho rinunciato a qualcosa di mio per darlo a Dio, come se a Lui mancasse qualcosa. Quando faccio qualcosa di malvagio, sono troppo goloso, lussurioso, ecc sento che faccio piacere a me, ma, non so bene come, percepisco che sto rubando qualcosa a Dio, anche qui come se a Lui mancasse qualcosa. Se io faccio, Dio ne viene sminuito; se fa Dio, ne vengo sminuito io. È un preconcetto dal quale non se ne esce mai, se non eliminando il preconcetto stesso.

Quindi l’obiettivo di Dio non è schiacciare l’uomo, ma è proprio liberare l’uomo. S.Agostino in sostanza sta dicendo, (ma l’hanno detto anche tanti altri), che questo modello è sbagliato: non è vero che uomo e Dio sono in antagonismo, è proprio il modello di fondo da mettere in discussione. Il modello vero non è “o Dio o uomo” ma “più Dio più uomo” e “più uomo più Dio”. Se sei veramente credente diventi più uomo e se sei veramente uomo scopri chi è Dio, scopri che hai bisogno di essere credente.
Usiamo una frase che potrebbe essere uno slogan, ma è molto bella: l’azione della grazia non sostituisce la libertà dell’uomo ma crea lo spazio perché la libertà dell’uomo possa pronunciarsi, possa nascere.
Ma cos’è la Grazia ? A volte noi immaginiamo la Grazia di Dio come una potente calamita che attira con un flusso invisibile. Allora, per esempio, se c’è un problema grave con mio figlio, qualcosa che non so come risolvere, prego Dio perché me lo risolva. E magari mi rifiuto di parlare con mio figlio, e aspetto solo che il Signore sistemi le cose. È un azzardo! E soprattutto sto pensando al modo della bilancia: io non devo fare niente, perché fa tutto Dio. Questa è la lettura di Lutero. In realtà non fa tutto Dio, bensì fa le cose insieme all’uomo. Se tu preghi Dio che ti metta a posto la famiglia, fai bene a pregare, assolutamente sì, ma in questa preghiera devi portare anche tutte le doti perché tu possa intervenire nella tua famiglia, e qualcosa potrai fare. Certo non potrai fare tutto tu, sennò ragioni come un pelagiano.

La Grazia di Dio quindi non è una calamita, ma è l’amore di Dio che è donato con lo Spirito Santo da Cristo nella Pasqua e la Pentecoste. Ma non c’è Cristo senza la Chiesa, e non esiste la Chiesa senza i sacramenti, senza la vita concreta della Chiesa. La grazia di Dio non è un flusso invisibile, ma è l’amore di Dio che mi è dato attraverso tutta la vita della Chiesa. Non c’è bisogno di pratiche strane, di un “sentire” travolgente, che quasi ci trascina nel turbine della “passione spirituale”. Spesso dietro queste forme di spiritualità di “spirituale” c’è proprio poco, e c’è molto di emotivo. Serve sì l’affetto nella preghiera, a patto però che sia radicato nei segni oggettivi che il Signore ci ha lasciato come luogo per farsi incontrare (sacramenti, Parola, gerarchia, vita di comunità). Alcune persone dicono: “Io non prego, ma penso a Dio”. Anche Aristotele pensava a Dio, eppure non conosceva Gesù e non era cristiano... con tutto rispetto per Aristotele.

San Tommaso che vive nel 1300, grande teologo sistematico, introduce l’idea di grazia creata per dire che l’uomo è chiamato ad un fine che eccede le capacità dell’uomo. La grazia, che è l’amore di Dio, raggiunge l’uomo come un di più, e che cambia sostanzialmente l’uomo, lo trasforma in qualcosa che non riuscirebbe ad essere se ne fosse mancante: gli spalanca un fine al di là delle sue possibilità.
C’è la grazia increata che è il Figlio di Dio, che vive col Padre ed è increato, ovvero vive da sempre nella Trinità. La grazia creata invece è quella che raggiunge l’uomo, è quella che chiediamo noi quando preghiamo. Ci dice dell’essere destinati: c’è una cosa nuova, una condizione nuova. Dire che Gesù è morto per te sulla croce non è la stessa cosa che non dirlo. C’è qualcosa di più sei chiamato ad un livello che è un po’ diverso dal semplice nascere, vivere e poi spegnersi. Se ti annunciano il vangelo e ti dicono che Gesù è morto per te, questo spalanca dinanzi a te un fine sostanzialmente diverso: non sei una creatura legata ad un Creatore, ma sei figlio di un Padre misericordioso. Si spalanca un fine, un orizzonte che l’uomo “semplicemente creato” non sa. Uno da sé non potrebbe immaginarsi di morire per amore di un’altra persona, sull’esempio di Cristo, perdonare un peccatore. Pensiamo a d.Andrea Santoro, alla sua ultima lettera pubblicata sui giornali. Morire come Giovanni Paolo II vuol dire avere un orizzonte più ampio. Questo è la grazia creata. Dio è morto per te e quindi c’è un orizzonte più grande per te, la tua vita non è così semplicemente come appare, non finisce in una morte che appare come un nulla: c’è infatti qualcosa di più grande, la vita eterna. La vita eterna non è vivere per sempre in Paradiso con l’arpa, sulla nuvola, al fresco, ma è vivere la comunione filiale con Dio.

Questo discorso introduce la questione del naturale e del soprannaturale.
Generalmente quando si dice “naturale” ci si riferisce all’uomo senza la Grazia della Pasqua; quando si dice “soprannaturale” ci si riferisce all’uomo raggiunto dalla grazia pasquale.
Se restiamo nella logica della bilancia abbiamo anche su questo tema due opposti: per l’uomo conterebbe solo il soprannaturale. Siccome l’uomo senza questo fine al di là delle possibilità umane non è pienamente uomo, allora la natura, il vivere normalmente da uomini, sarebbe in un certo senso vivere da mezzi uomini, ovvero un non-vivere. Quello che conterebbe veramente, sarebbe allora unicamente vivere nella grazia battesimale. É utile notare però che in un certo periodo c’è stata una corrente di pensiero che sottolineava troppo il soprannaturale a scapito del naturale. Così facendo perdeva di senso tutto il complesso della opere umane, della speranza umana, dei desideri, degli sforzi ecc. L’ipotesi alternativa era quella di sostenere che la natura umana è buona di per sé, vedendo il soprannaturale come una sorta di accessorio. Il modello della bilancia a due piatti metteva le due istanze in contrapposizione.

Il nostro tempo si avvicina di più alla seconda prospettiva. Ci sentiamo dire che si può “essere delle brave persone anche senza andare in chiesa”. Ed è vero, è verissimo. Ammettere questa contrapposizione è però frutto di un assunto non corretto: la pretesa che un uomo “naturale” esista. La pretesa logica alla base di questo atteggiamento è ammettere che esista un uomo escluso dall’evento della morte di Gesù sulla croce, come se Cristo mentre moriva non stesse pensando anche a quest’uomo. Ma abbiamo già visto che non è possibile.

Distinguere naturale e soprannaturale non vuol dire ammettere che esista una possibilità di vivere in modo naturale, ma è confessare quanto la Pasqua di Cristo sia un evento assolutamente gratuito, non connesso all’evoluzione della storia e del mondo. È una decisione libera di Dio quella di volerci chiamare figli, e non era in nessun modo obbligato a farlo.
Torniamo di nuovo all’esempio del bambino e di suo padre. Il padre può limitarsi a mettere al mondo il figlio e poi dirgli: vivi tranquillo, ti preparo una carriera, ti preparo un conto in banca, fai come vuoi. Oppure può dire: voglio che tu viva con me, che mi conosca, che impari le mie cose, che tu ascolti la parola della mia bocca, che io ti possa abbracciare. É un qualcosa di più. Di solito il comportamento dei padri è il secondo che vi ho descritto. Ma non è detto che debba andare così. Certo non esiste (di solito...) un padre che non ami suo figlio, che non abbia voglia di abbracciarlo. E così è il nostro Padre: non esiste Dio Padre che non voglia bene in Cristo a un suo figlio, a una sua creatura. Quindi che esista la possibilità logica di pensare un uomo “naturale”, va bene, ma solo come sottolineatura della gratuità in più che ci viene data in Cristo. È solo una possibilità logica.

Se è vero che ogni uomo è raggiunto dalla grazia di Dio, ogni uomo, anche un ateo convinto non ne è allora totalmente escluso? Esisteranno delle prove o è solo un’idea? Diciamo che non è solo un’affermazione astratta della fede, ma una cosa credibile. Non possiamo dimostrarlo, però ci sono segni di credibilità; non sono delle prove schiaccianti, tuttavia, come avete imparato nel corso di teologia fondamentale, la fede è fatta da segni e non da prove matematiche.

San Tommaso e i teologi medievali dicevano che c’è nell’uomo un desiderio naturale di vedere Dio, ogni uomo aspira sempre a qualcosa di più grande. In fondo, al di là di tutti gli orizzonti, ogni persona aspira a vedere Dio, conoscere Dio, stare con lui. Cosa voleva dire San Tommaso? Rahner, famoso teologo tedesco, che ha studiato San Tommaso, ha trovato un modo per formulare più o meno la stessa cosa. Dice: ogni uomo è raggiunto da un “esistenziale soprannaturale”. Un uomo porta in sé una sorta di un dono. Quando l’uomo viene creato, quando nasce, porta in sé questo dinamismo potente che lo spinge ad andare sempre al di là, verso un qualcosa che non si sa bene cosa sia. Pensate a quanto è impossibile per noi di stare in casa dicendo: “Ho messo a posto tutto, è un periodo tranquillo della mia vita. Bene, sono proprio in pace”. Non riusciamo ad autoconvincerci di questo, perché immediatamente viene in mente un’altra cosa e poi un’altra ancora, ecc. Potrebbe essere quello che in psichiatria si chiama disturbo ossessivo compulsivo o, ancor più grave, un disturbo maniacale! Ma potrebbe trattarsi di altro, ben più sano. Rahner dice che l’uomo che non si accontenta mai, ha dentro di sé un’energia, una propulsione quasi, un desiderio, un esistenziale che punta al soprannaturale e non si accontenta di vivere così. L’uomo nasce e ha già dentro di sé questo desiderio, che poi lo riconosca o non lo riconosca, che sappia dargli un nome, un volto, questo si vedrà. Quando uno viene battezzato, crescendo va al catechismo e gli spiegano che è figlio di Dio Creatore che lo ha salvato in Gesù Cristo. Già allora si comincia a dare volto a questo esistenziale, questa molla che si porta dentro. Questo desiderio di Dio, che è nell’uomo, non matura da solo verso il Cristo, ma ha bisogno di incontrarlo esplicitamente. Questo avviene nei segni che Cristo stesso ha posto a favore dell’uomo, nel segno che è la persona stessa di Cristo ed attraverso l’incontro con la storia della salvezza, con la Chiesa, con i suoi Sacramenti, ecc. ecc.
Oggi è diffusa la convinzione che l’uomo possa fare tutto da sé, possa fare senza Dio. Io penso, che questo atteggiamento nasca paradossalmente dalla sfiducia nelle opere che può fare l’uomo. Noi non crediamo che pregando noi entriamo in contatto con Dio. A volte mi dicono: “Ma il Signore è grande, ma non devo andare mica a confessarmi perché Dio mi perdoni”. Certo che no. Cosa vuoi che importi a Dio di quello che fai tu? Dio è Dio. É chiaro che Dio non ha bisogno che ti inginocchi, che dica l’atto di dolore, ecc. Ma sei tu ad averne bisogno. Dio dice: “Bene io posso fare quello che voglio, ma tu come uomo, nelle possibilità che hai, cosa vuoi fare?” Sempre per rimanere nell’esempio fatto, il papà avrà proprio bisogno del lavoretto che il bambino porta a casa da scuola alla festa del papà? É chiaro che no. Però sarebbe un mostro se dicesse: “Ah, sì, carino”, e poi lo buttasse via. Invece dirà: “Che bello, ma come hai fatto, sei un artista!” É chiaro che Dio non ha bisogno delle nostre opere, dei sacramenti. Però i sacramenti sono le sette porte per incontrare Dio e senza di quelli uno rimane un credente astratto. Per il terrore di questa concretizzazione siamo finiti a dire che contano solo le cose astratte. É la sfiducia che le nostre opere possano veramente mediare la grazia di Dio. Invece Dio è talmente grande che si fida anche delle piccole cose che facciamo noi, perché ci vuole bene. Perché siamo uomini e non è una maledizione essere uomini, essere limitati, dover fare il segno di croce quando preghiamo, dover leggere la sua Parola, ecc. Pensa Dio quanto è grande! É essere un po’ gnostici, è il delirio dell’intelligenza, pensare che stia tutto nella testa. Invece no, è storia. L’amore di una mamma per il figlio non consiste nel mettere la mano sul cuore e pensare: “Ti amo”. No, la mamma lava i piatti, pulisce le cose, va a lavorare nervosa alla mattina, torna a casa e magari non ha il sorriso facile verso la sua creatura. Tuttavia questo è amore, storia, gesti concreti, e il bambino quando sarà grande si ricorderà dell’amore della mamma non perché la mamma “sentiva” tale amore. Si ricorderà piuttosto della pazienza che ha avuto sua madre, di quanto ha fatto per lui, della dedizione.

* * *

Concludiamo con un emblematico passo della Gaudium et Spes, di una bellezza e sintesi ineguagliabile in riferimento ai vari temi trattati in questa ultima parte, in cui abbiamo riconosciuto Cristo come l’origine e l’orizzonte del nostro essere uomini:

“In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è « l'immagine dell'invisibile Iddio » (Col1,15) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22).


5 - Bibliografia

Soprattutto:

L. F. Ladaria, Introduzione alla antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 2000.

L. F. Ladaria, Antropologia Cristiana, in R. Latourelle – R. Fisichella Edd., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 43-56.

Facoltativi:

L. F. Ladaria, Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato 1998.

R. Latourelle, Morte, in R. Latourelle – R. Fisichella Edd., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 816-819.


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