Mettiamo a disposizione on-line la trascrizione della meditazione che d.Angelo De Donatis, parroco della parrocchia di S.Marco Evangelista in Roma, ha tenuto presso la nostra parrocchia di S.Melania, il 26 gennaio 2006. Il testo non è stato rivisto dall’autore
L’Areopago
Affrontiamo oggi il tema della vita spirituale, attraverso
l’analisi di una malattia della vita spirituale. Ci domandiamo come affrontarla,
anche se poi rispunta sempre. E’ una dimensione negativa che troviamo, ma che va
affrontata. La tradizione della Chiesa la chiama l’ “accidia”.
Seguiremo le indicazioni di Evagrio Pontico, un maestro del IV secolo – ed,
insieme, del Bunge, un autore moderno che ha affrontato lo stesso tema, studiando Evagrio.
Evagrio chiama l’accidia il “demone del mezzogiorno”, perché
è la tentazione che assale il monaco a metà della giornata, quando
l’entusiasmo viene meno, quando l’ardore si è spento.
Questo “mezzogiorno” che è anche il mezzogiorno della vita, quando ad un
certo punto, l’entusiasmo viene meno, quando non c’è più la gioia
profonda di fare una cosa, la gioia di vivere. Ecco perché Evagrio Pontico dice che
questo è un demone pericolosissimo.
Noi tante volte traduciamo “accidia” con “pigrizia”. Ma non è
la pigrizia, è proprio un disgusto, quando non ti va di fare più niente,
quando sei svogliato perché ti è passata proprio la voglia di impegnarti,
di andare a fondo alle cose.
Evagrio enumera delle manifestazioni di questo atteggiamento spirituale che adesso per
intenderci chiamiamo pigrizia, ma che è molto più profondo della pigrizia.
Evagrio dice: “A volte si ha una paura esagerata degli ostacoli che si possono
incontrare”. C’è quasi una paralisi: mi spavento, ho paura di questi
ostacoli e mi paralizzo.
Oppure c’è un’avversione a tutto ciò che costa fatica. Sento proprio
una repulsione; non mi va perché so che una cosa mi impegna nella fatica e quindi la
rifiuto.
Andando avanti, Evagrio dice ancora che c’è una negligenza nell’osservare
l’ordine, le regole, mi ribello a questo.
Oppure un’instabilità nel bene. Magari ho scelto di fare delle cose buone
però non sono costante, non sono fedele a questo. C’è
un’instabilità continua.
Andando avanti, Evagrio parla dell’incapacità di resistere alle tentazioni.
L’avversione verso quelle persone che sono veramente zelanti e che diventano odiose
proprio perché fanno sempre le cose per bene, sanno osservare le regole.
Un altro sintomo di questa malattia è la perdita di tempo prezioso oppure la
libertà che viene concessa ai sensi, alla curiosità, al piacere di divertirsi, di
usare di tutto.
L’ultima cosa: la negligenza nei principali doveri del proprio stato. La dimenticanza di
vivere quella che è la missione specifica del mio stato, che io sia sposato o sacerdote
ecc. e la dimenticanza del fine ultimo della vita. Sono sintomi che riguardano questo tipo di
situazione che non è senz’altro bella. La descrizione è quindi negativa e a
tutti noi verrà voglia di dire a noi stessi in quali di questi sintomi ci
riconosciamo.
S.Bernardo definiva questa accidia, che lui chiamava tiepidezza, l’ombra della morte.
Il tiepido assomiglia ad una vigna non coltivata, una vigna che è stata abbandonata.
Il tiepido è così: è una casa senza porta, senza chiusura. Qualcun
altro ha detto: “E’ un verme che nella radice divora dal di dentro”. Divora
soprattutto le virtù principali anche se esternamente la vita continua apparentemente
come prima.
Un’altra immagine del pigro a livello accidioso, è quella di colui che nasconde
i talenti sotto terra, o la persona non troppo buona né troppo cattiva alla quale si
applicano le parole tremende dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere, non sei
né freddo né caldo, magari tu fossi freddo o caldo, ma poiché sei tiepido,
non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia
bocca”.
Questi sono i sintomi generali secondo Evagrio Pontico. Se ne vogliamo esaminare qualcuno in
maniera specifica, possiamo vedere che uno dei primi sintomi di cui ci accorgiamo quando
siamo attaccati da questa tentazione è che c’è una certa irrequietezza
interiore. Abbiamo bisogno di cambiare, non ci accontentiamo di rimanere stabili, in una
scelta, in una situazione. Ci viene voglia di cambiare casa, lavoro, amicizie, compagnie.
Questo è tipico di questa situazione. Non portiamo avanti un lavoro che abbiamo
iniziato, ne iniziamo tanti ma non li concludiamo, lo facciamo anche con i libri. Li iniziamo e
li lasciamo lì. Il più delle volte non ci rendiamo conto di quello che ci sta
accadendo e ci inventiamo tanti motivi per dire che è bene cambiare. Siamo abili in
questo, facciamo un sottile ragionamento per trovare tutti quegli aspetti che ci portano a dire
che è una cosa giusta non rimanere in questa decisione, che dobbiamo cambiare.
Evagrio menziona più volte questa tentazione del cambiamento perché, ritornando
nell’ambiente monastico, era tipica dell’anacoreta, perché l’eremita
è esposto all’irrequietezza. Ricordo che due anni fa sono andato a trovare un
eremita vicino a Cascia e lui stesso raccontava questo tipo di tentazione. Perché per
noi le giornate sono cortissime, ma per uno che vive in un eremo deve essere difficilissimo se
non si ha un grande equilibrio, un’impostazione armonica della giornata. Ti viene voglia
di scappare, di cambiare, quando sei nella solitudine. Ecco perché un aspetto tipico
del monaco è proprio la stabilità, perché essere stabili in un posto
significa che c’è anche una stabilità interiore, che non mi lascio
prendere dall’irrequietezza continua. Il desiderio di vagabondare fisico è la
manifestazione di un disagio che vivo dentro, di un vagabondare dei pensieri, un essere
instabili nelle scelte che abbiamo fatto. Ecco perché l’anacoreta fissa il suo
corpo nella sua cella e soprattutto i suoi pensieri nel ricordo di Dio. Questa è la vera
stabilità, quella che S.Benedetto richiede ai suoi monaci.
I pretesti per un trasloco sono diversi da persona a persona. Ognuno di noi è fatto in
modo diverso ed ognuno di noi si inventa delle cose particolari quando è preso
dall’accidia per poter giustificare il cambiamento che desidera realizzare. Questa
irrequietezza può vestirsi di argomenti sottili. Viene descritto per esempio per il
monaco questo aspetto dell’umidità della cella. Siccome questa cella è
umida o esposta poco al sole, devo cambiare. Oppure c’è un’altra dimensione.
A volte l’accidia si manifesta con una preoccupazione eccessiva per la salute
fisica. Diventa quasi un’ossessione. Queste sono spesso manifestazioni
dell’accidia, questo timore della malattia. Anche se ripensando sempre all’ambiente
monastico dove è stata approfondita questa malattia, non è una cosa strana. Il
monaco nel deserto non aveva tutti gli aiuti che noi abbiamo oggi, mancava spesso
l’essenziale. E poi soprattutto ammalarsi significa una sfida. Imparare a ringraziare per
l’aiuto che riceviamo, per le persone che ci aiutano. Bisogna essere pazienti con i
fratelli che si prendono cura di noi e non sempre è facile. I demoni cercano di impedire
questo tramite le paure: ci presentano il tempo della vecchiaia, tutte le malattie possibili e
immaginabili e quindi l’anima cade in una certa desolazione, si scoraggia facilmente.
La tentazione di considerare il lavoro improvvisamente come la causa del proprio
malessere. Questo può capitare a volte. La professione svolta con tanta
serenità fino al giorno prima diventa un peso opprimente. Non lo sopporto più, mi
costa tantissimo andare la mattina a lavorare.
A volte sento che colpevoli della mia infelicità possono essere considerati i
superiori o i colleghi che diventano odiosi; non li sopporto più. L’accidioso
si ricorda improvvisamente - questo aspetto è tremendo - con dolorosa precisione, di
tutte le ingiustizie che ha subito da parte degli altri, o che pensa di aver subito,
perché non sempre sono oggettive. Però l’accidioso le richiama tutte
perché lui crede di aver subito questi torti o magari oggettivamente li ha anche subiti,
però è puntiglioso nel ricordarli tutti, con grande precisione.
Evagrio dice che l’accidioso è addolorato dal pensiero che l’amore sia
sparito fra i fratelli e che non ci sia nessuno per consolarlo. E’ tipico questo,
quando uno vive questo stato d’animo. Tutto crolla, nessuno riesce a manifestare un
amore. A volte anche nelle comunità parrocchiali diciamo: “Mi ero avvicinato
pensando di trovare chissà quale ambiente, ma qui non c’è nulla”.
E’ comprensibile che in particolar modo chi vive il celibato possa pensare che la
fonte della propria infelicità sia proprio il celibato, la mancanza di affetti veri,
la convinzione di non avere nessuno che si prenda cura con amore di noi. Io però direi
che questa è l’esperienza di tutti, non solo dei celibi, ma anche delle persone
sposate.
Ma il vero motivo della depressione non sta nell’altro: non è l’altro che me
la causa, non è perché l’altro non si prende cura di me o non mi ama. Non
è questo. Non si capisce che si è invischiati in una stranissima lotta con se
stessi. L’avversario non è l’altro, l’avversario sono io. E’
con me stesso che me la prendo: non è l’istituzione, non è il celibato
o il coniuge o i compagni, ma solo il mio Io ferito da quell’amor proprio, da quello che
i Padri chiamavano, con una parola interessante, la philautìa, la tenerezza per noi
stessi. Quando ci trattiamo con troppa tenerezza poniamo il terreno sul quale fiorisce
l’accidia.
C’è un metodo collaudato per sfuggire a questo tormento, almeno in apparenza, che
è il divertimento e la distrazione. Non penso, così scappo da questa
situazione e la copro. Ma non si risolve così, lo sappiamo.
Siccome il vizio non è bello generalmente, per essere accettato deve coprirsi con
qualche maschera più accettabile, perché è talmente brutto che deve
camuffarsi. Qui avviene una cosa interessante: noi non staremmo mai in compagnia di un
accidioso e così il vizio si nasconde sotto qualche velo di virtù.
Evagrio dice che l’accidioso adduce come pretesto visite ad ammalati. Di fatto soddisfa
solo la sua intenzione. Il monaco accidioso è pronto a servire, a donarsi, a fare
qualcosa per l’altro e considera la propria soddisfazione come un dovere. Cosa avviene
quindi? Siccome sono in questa situazione difficile di vuoto, di pesantezza, questa
irrequietezza deve trovare uno sbocco e quindi mi butto nell’attivismo. Devo trovare
un canale e allora mi illudo che questa sia la virtù cristiana dell’amore, ma non
ha niente a che fare con l’amore. Sono io che ho bisogno di quell’attivismo per
riempire il mio vuoto, ma questo non è la carità, l’agape di cui ci parla
il papa nell’enciclica appena uscita. Questo è un errore pericolosissimo,
l’illusione dell’agenda piena. Siccome sono impegnato non ci penso più alle
cose profonde, alle cose che mi prendono e che dovrebbero essere considerate in altro modo.
Questo attivismo mi impedisce di vedere il mio vuoto interiore. Questa tendenza è
pericolosa perché a volte si copre di scopi elevati. Per questo Evagrio dice che il
monaco, pur di non stare nella sua cella, pensa: “Vado a trovare il fratello che è
malato”. Apparentemente è una cosa santissima, ma la motivazione non è
altrettanto santa. Non parte da un’autentica carità.
Qualcuno potrebbe pensare che sono finezze a livello spirituale però, se ci pensiamo
bene, sono cose importanti da vedere con calma e serenità. Questo non è un
discorso per demoralizzare, ma per far crescere. Questa è la prospettiva: intervenire
dove qualcosa non si è incanalata per il verso giusto. Perché quando
c’è esagerazione nella vita, quando siamo esagerati, ricordiamoci che lì
c’è sempre in azione il nemico. Le forme di esagerazione nascondono sempre
qualcuno che ci porta fuori strada. Il demonio è amico di ogni forma di
esagerazione.
E c’è anche un criterio sicuro per distinguere il vero amore del prossimo che,
per Evagrio, si manifesta sempre come mitezza. L’amore vero è sempre mite e
allora per Evagrio il vero amore si riconosce dai frutti. L’amore quando è vero
rende la persona amabile, serena, amorevole. L’attivismo che nasce dall’accidia
rende invece amari e impazienti. Una persona si può fare in quattro, ma alla fine della
giornata non è contenta, mentre l’amore vero, anche se sei stanchissimo la sera,
ti lascia una grande pace. L’amarezza che sentiamo alla fine delle nostre giornate, a
volte per aver fatto tanto, nasce quindi da questo tipo di tentazione, non dal lavoro fatto.
Perché il lavoro fatto serenamente lascia una grande pace, mentre l’amarezza nasce
quando ho fatto tutto quello che dovevo fare ma non con le motivazioni giuste, quelle
dell’agape, dell’amore. E’ una bellissima distinzione quella che Evagrio
offre per capire da dove nasce il servizio, la dedizione agli altri.
L’accidia diffonde anche l’indolenza che si manifesta in trascuratezza e pigrizia
dei propri doveri. Da qui il minimalismo che è la tentazione tipica dell’accidia.
Possono capitare momenti della nostra vita in cui ci troviamo in un umore particolarmente nero:
tutto ci pesa, ci sembra eccessivo. Ci sono incombenze che magari in altri momenti della nostra
vita abbiamo svolto con facilità che in quel momento in cui l’accidia ha preso il
sopravvento ci sembrano macigni. Ma si può oscillare da questo minimalismo al
massimalismo distruttivo (agenda piena). E’ un pendolo che va da una parte
all’altra.
Evagrio pone un criterio di discernimento che è l’intenzione. Su questo
tutti dovremmo lavorare di più, tutti! Vedere quale intenzione c’è alla
base di ciò che facciamo o tralasciamo. Si tratta di vedere se facciamo il bene per se
stesso oppure se lo strumentalizziamo in vista di scopi egoistici. Questa è una verifica
che ciascuno può portare avanti.
L’egoismo in tutte le sue forme altro non è che l’innamoramento di noi
stessi che sta alla radice di ogni male. Ecco perché citavo quella parola che
usavano i Padri, la philautìa, l’essere troppo innamorati di se stessi. Quale
frutto viene quando si va avanti su questa strada? Lo scoraggiamento, che è una cosa
tremenda. E’ perdere la speranza.
Nascono i dubbi. A volte, anche sulla vocazione che si vive, uno si chiede:
“Forse non era la mia strada, ho sbagliato tutto”.
Sono dubbi che si insinuano lentamente e, se non vengono bloccati, cercano di corrodere la
nostra fiducia come una goccia che scava una roccia. E’ facile per il nostro nemico
convincere la persona accidiosa che ha sbagliato tutto per quanto riguarda la sua vocazione,
perché le motivazioni che lo hanno spinto a scegliere quella strada sono tutte di ordine
naturale, non soprannaturale. E’ lui che si è industriato, ma non era cosa che
veniva da Dio.
Romano Guardini descrive bene la situazione di scoraggiamento provocata dall’accidia:
“La persona fatta così non si riconosce nessuna qualità o capacità,
è persuasa di essere da meno degli altri, di non essere nulla, di non sapere nulla, non
già perché sia dotata insufficientemente e neppure abbia subito degli insuccessi.
E’ piuttosto una convinzione a priori che non si riesce mai a togliere di mezzo
definitivamente, neppure con la buona riuscita e il successo. In ogni sconfitta si legge poi
confermata la disistima di sé al di là della portata reale della sconfitta
stessa”. E’ un andare sempre in discesa, questa dimensione di scoraggiamento e
disistima di se stessi.
Enzo Bianchi dice che è una specie di asfissia, un soffocamento dell’anima che
condanna l’uomo all’infelicità, portandolo a disdegnare ciò che ha,
la situazione che vive, il proprio lavoro, la propria professione, la situazione affettiva.
Sogna un’altra cosa, irraggiungibile, che non esiste. Questo causa fuga dalla
realtà, illusione, deliri.
Ma qual è la causa? Perché si arriva a questa situazione? Come mai la persona
può arrivare a questo tipo di depressione, di tristezza? Le cause sono tante - non
è neanche il mio campo - potrebbero essere molte. Dal punto di vista spirituale vorrei,
però, che fosse chiara solo una cosa. Il terreno fertile per questa situazione è
questo amore smodato per noi stessi, la troppa tenerezza per noi stessi. Non dimentichiamocene
perché quando siamo troppo amici di noi stessi questo può tradursi addirittura in
qualcosa di non buono.
Perché l’Io ad un certo punto prende il posto di Dio. Questo amore di
sé è il vero idolo che minaccia la nostra vita, è l’idolo più
seducente, il più sottile. Perché va avanti il nostro progetto, il nostro
cammino. Tutto diventa intaccato dall’idolatria. Se Dio non è più il
Signore della nostra vita, l’Io diventa il nostro Signore. E i frutti sono questi.
E’ l’idolatria più tremenda perché il centro assoluto del mondo
diventiamo noi, non Dio e si comincia a valutare ogni cosa in funzione dei propri bisogni,
della propria idea, dei propri desideri, dei propri giudizi. In questo modo si sviluppa una
brama di potere che vizia alla base ogni relazione con gli altri. Perché si vive nel
regime della preda, del possesso, e non del dono di sé.
Credo che alla luce di questo sia veramente bello meditare in questi giorni
sull’enciclica che ci è stata donata dal nostro Vescovo, il
Papa. E tutto questo non si esprime necessariamente nel bisogno effettivo di comandare o
dominare sugli altri. Questo ripiegamento su di sé può trasformarsi benissimo in
una smodata preoccupazione di sé, in indifferenza, disprezzo, mancanza di interesse.
Tutte porte aperte per l’accidia. Questo è il terreno su cui fiorisce questa
malattia. Ecco perché forse in passato i formatori avevano una buona vigilanza su
questo aspetto, poi ci siamo lasciati prendere troppo dalla preoccupazione per lo “stare
bene” della persona, per il non avere disagi. Questo ci ha portato a questi
risultati.
Questo terreno che è la philautìa, l’amore per se stesso passa per i due
poli che abbiamo visto, o l’attivismo, il massimalismo, o il minimalismo. O l’ozio
o il sovraffaticamento. Coprendo questo sovraffaticamento con la copertura della carità,
con la scusa che è bene per gli altri, mentre sentiamo che l’amarezza
sopravanza.
Domanda del pubblico:
Quali i rimedi?
D.Angelo:
Intanto esaminare l’intenzione, secondo le indicazioni di Evagrio. Perché
sto facendo questo gesto? Perché il fatto di aiutare l’altro può anche
nascere da un’intenzione positiva, cioè io ho veramente il desiderio di essere
gratuito, ma lungo il percorso quell’intenzione pura può diventare impura. Evagrio
dice di non scoraggiarsi, ma di ritornare a riprendere l’intenzione dalla quale sono
partito, che era buona, e recuperarla.
Domanda del pubblico:
E’ più un amore per se stessi e disistima?
D.Angelo:
Per poter voler bene noi dobbiamo essere entusiasti della nostra persona. Se non siamo
contenti di noi stessi, il bene vero non arriva all’altro. Perché io non
amerò con la parte migliore di me.
E’ interessante qui giocare con le parole, perché entusiasmo significa
“essere in Dio” dal greco “en theos”.
Se una persona cresce armonicamente, pur conoscendo i propri limiti, conosce l’opera che
Dio ha fatto, conosce la bellezza dell’artista e ne è contento. Io credo che nelle
nostre relazioni, quando ci doniamo agli altri, amiamo con una parte bella di noi. Quando
invece ho una disistima, quando non mi apprezzo, quando non sono contento, intanto faccio un
torto a Dio perché non lo riconosco come artista della mia vita, ma poi tutto questo si
traduce in qualcosa di non buono nella mia vita.
Domanda del pubblico:
L’accidia è un vizio o è depressione?
D.Angelo:
Sicuramente il confine non è chiaro, le cose si intrecciano. A volte ci sono delle
situazioni in cui è difficile distinguere. A volte anche nella direzione spirituale
cerco di chiedere aiuto a persone competenti. Io mi fermo sempre al cammino spirituale.
Però il legame c’è: la persona non è divisa, è un
tutt’uno. Ci possono essere situazioni psicologiche che hanno un grosso influsso sulla
vita spirituale. E anche una vita spirituale non vissuta bene, trascurata, può portare a
conseguenze sul piano psicologico. L’intreccio c’è: ci vorrebbe, per
rispondere a questa domanda, qualcuno più competente in questo campo.
L’accidia nella sua massima espressione porta al suicidio. Così si conclude questo
percorso se non si interviene.
Nella parrocchia di S.Marco della quale sono parroco, stiamo approfondendo il tema delle vie di
guarigione da questa malattia. Sono cose che la Chiesa da sempre ci offre, i rimedi non sono
strani, e c’è un interesse enorme per questo argomento.
Domanda del pubblico:
C’è una depressione causata dall’andare in pensione!
D.Angelo:
Uno dei rimedi proposti è l’apertura del cuore al padre spirituale.
C’è una figura chiave nel cammino di guarigione che è la guida spirituale.
Un cammino spirituale che ha bisogno di una guida e che è diverso dall’analisi.
Noi stiamo trattando un itinerario spirituale nel quale serve un padre spirituale.
Avere l’apertura del cuore totale verso una persona è già di aiuto. Direi
che risolvere tanti problemi dipende anche dalla capacità di non avere pieghe, di non
nascondermi. Perché l’apertura ad un padre spirituale richiede trasparenza e
il fatto di aprirmi, di avere questa trasparenza, impedisce al nemico di lavorare dentro di me,
perché non trova dove nascondersi.
E’ apertura alla luce, allo Spirito Santo. Tanto è vero che i Padri del deserto
chiedevano ai propri figli spirituali alla fine di ogni giornata di passare da loro e di
manifestare tutti i pensieri cattivi o strani che avevano avuto durante la giornata.
Perché solo così si spezzano, si frantumano, e non si crea quel lavorio interiore
che l’accidioso porta avanti costruendo dal niente un castello costruito sulla sabbia,
che non esiste. Un lavoro interessante per i Padri spirituali!
Domanda del pubblico:
Tu dici che una preoccupazione di oggi è che le persone stiano bene. Che cosa vuol
dire?
D.Angelo:
Non abituare le persone a gestire i disagi è un problema. Anche nella preghiera.
Quante volte uno va in crisi perché non sente niente nella preghiera. Ma non è
detto che si debba sentire qualcosa. E’ un lavoro, una fatica, un disagio, ma non posso
dire che quella preghiera è meno vero di quando avverto consolazione. Mi diceva un amico
che aveva tanta attesa nei confronti di un periodo di esercizi spirituali, lo desiderava da
tempo, poi è riuscito e si è trovato in una condizione di aridità
spaventosa. Una settimana tremenda. Ha offerto al Signore questo.
Così il disagio nel rapporto con un’altra persona. Non è detto che si debba
subito, a tutti i costi appianare. A volte occorre vivere un disagio anche in una relazione,
occorre portarlo avanti. Questo desiderio di stare bene è deleterio perché
porta a preoccuparsi troppo di sé e non a uscire fuori di sé e quindi a donarmi
veramente. Si passa la vita a cercare di star bene e quando i capelli si sono imbiancati e
gli anni sono passati, non è bello dover fare i conti con una vita spesa nella ricerca
dello stare bene.
Qui occorrerebbe riscoprire un principio spirituale: il mio esistere c’è per
annunciare l’amore di Dio, io ci sono per testimoniare l’amore di Dio. Questo
è il fine della nostra vita. Quando si assume la propria vita in questa dimensione
di missione, non si vive per delle funzioni. Noi non viviamo per fare delle cose. Anche se poi
le dobbiamo fare, ma l’unico “per” che non è funzione, è per
testimoniare l’amore di Dio. Non per stare bene. Uno non si sposa, diventa prete o
suora per stare bene. Uno sceglie una vocazione e la vive per testimoniare l’amore di
Dio.
Accenno ora ai rimedi dell’accidia: niente di eccezionale ma quello
che la Chiesa da sempre ha proposto. Prima di tutto la pazienza. Intesa come capacità
di resistenza. Siccome l’irrequietezza porta a cambiare luogo, situazione, io devo
mettere qualcosa che va contro quello stato d’animo che si crea. E’ importante che
ci sia questa virtù della pietra, il rimanere. Io lo racchiudo in una parola che
nella Bibbia è fondamentale: l’ “eccomi”. “Eccomi”
significa ci sono: io non scappo, non desidero una situazione diversa da quella che sto
vivendo. Non posso dire: “Se avessi un’altra famiglia, un’altra parrocchia,
altri amici, altre relazioni, chissà cosa potrei fare”. Questo è un
inganno, un’illusione. La cosa principale è quindi rimanere in quella situazione.
Dire “eccomi” vuol dire dunque che io non sto fuggendo nei miei deliri, nella mia
illusione. Credo che sia molto importante questa dimensione della pazienza. Perché
sintetizza la condizione del cristiano nella storia. Deve essere accolta come via normale di
maturazione, in attesa dell’incontro con il veniente, con colui che ci darà la
pienezza. La pazienza è la fermezza che fa restare quello che si è, qualsiasi
cosa succeda, la pazienza del contadino. La pazienza di attendere, non importa se a lungo.
La seconda via di guarigione è la stabilità. Intesa come diceva
S.Benedetto, questo rimanere stabili dentro soprattutto. Anche se poi richiede una
stabilità nel tempo e traduce in fondo la pazienza. Rimanere stabile è già
una risposta.
C’è poi una stabilità nello spazio naturalmente, per non fuggire lo
spazio che ci circonda. Perché anche questa sarebbe, secondo i Padri del deserto, una
fuga da se stessi. Dice un detto dei Padri del deserto: “Va’, rimani nella tua
cella e la tua cella ti insegnerà ogni cosa”. Questo si traduce in una
stabilità del cuore perché si crea comunione con gli altri. Una cosa è
fuggire quando c’è difficoltà di relazione, altro è affrontarla ed
approfondire quella relazione. Si diventa più maturi e la relazione stessa diventa
più bella quando ha superato una certa fatica, una certa difficoltà. Anche la
stabilità nello spazio è importante.
La quarta dimensione è la preghiera, vissuta soprattutto come preghiera semplice:
la preghiera fatta nell’attesa deve essere semplice, a volte fatta con le lacrime.
Evagrio dice: “Invoca il Signore nella notte con lacrime e nessuno si accorga che stai
pregando, e troverai grazia”. Qui il richiamo alle lacrime è fondamentale
perché le lacrime sono l’espressione di un passaggio da una tristezza negativa
ad una tristezza secondo Dio. Ci sono due tipi di tristezza. Uno può essere
veramente scoraggiato, senza speranza, nella depressione più nera, oppure triste
perché consapevole dei propri limiti ma fiducioso al massimo della misericordia e
dell’amore di Dio. Le lacrime segnano questo passaggio da una tristezza senza Dio a una
tristezza secondo Dio. E’ la famosa contrizione del cuore, che è
un’esperienza spirituale fortissima, perché le lacrime ci fanno prendere coscienza
delle nostre ferite più intime, ma quelle ferite non sono causa per rimanere ripiegato
su me stesso, incartato, ma il luogo della mia povertà per cui mi apro di più a
Dio proprio in quella situazione.
Mi ricordo P. Tomáš Špidlík, che è venuto anche qui per un
incontro con voi. Avete conosciuto questo patriarca stupendo. Lui mi raccontò una volta
per farmi capire cos’è la contrizione del cuore, la tristezza secondo Dio,
l’episodio di un signore che era andato via di casa. Un signore che si ubriacava,
maltrattava la moglie e che ad un certo punto se ne era andato con un’altra donna. Dopo
anni la moglie ritrova il marito per strada che era diventato un barbone. Lo prende, lo porta a
casa, lo ripulisce, gli dà da mangiare, lo cura come se niente fosse. E lui, diceva
padre P. Špidlík, passa i suoi giorni guardando sua moglie e piangendo. Questa
è la tristezza secondo Dio, il dolore di sentire che è una situazione di limite,
di peccato, ma di sentirsi amato. Il frutto delle lacrime nasce proprio dall’esperienza
della misericordia che faccio su di me. Ma è importante che ci sia una preghiera
semplice. La preghiera del cuore qui può andare bene. Conoscete i “Racconti del
pellegrino russo”? La preghiera potrebbe essere allora: “Gesù abbi
pietà di me che sono un peccatore”. Perché siccome l’accidia porta a
sviluppare un pensiero complicato e a ricamarci sopra, non devo fare preghiere troppo
impegnative, ma una preghiera semplice, affettiva, che mi aiuti ad andare avanti.
C’è poi il tema della vigilanza, molto importante nel vangelo. E’ una
parola che torna tantissime volte. Ci facevo caso: nel vangelo non si usa mai la parola
virtù, non c’è la parola difetto, non c’è esame di coscienza,
ma più volte troviamo “siate vigilanti”. Questa è la condizione di
fondo della vita cristiana, perché occorre avere questo atteggiamento che previene le
situazioni. Essere attenti, essere svegli, non addormentarsi nella vita perché il sonno,
lo sappiamo, è simbolo del peccato, dell’addormentarsi, del non accogliere il
Signore. Custodire il cuore: che ci sia un portinaio davanti al cuore per non far entrare certi
pensieri.
Il sesto rimedio è la memoria mortis, avere la coscienza della morte, la
consapevolezza che la vita è qualcosa che va vissuta come pellegrino. Devo avere
questa coscienza della mia fragilità e della mia mortalità. Questa è
un’arma contro la tiepidezza. Se non sbaglio è Mozart che dice: “Non
c’è stato giorno della mia vita che io non abbia pensato alla morte”, come
chiave di interpretazione della vita. Questo è molto bello, non ha niente a che fare con
pensieri tristi e brutti, ma è per vivere con pienezza l’oggi, perché la
luce per l’oggi la devo attingere dall’eternità, dalla vita eterna.
L’altro rimedio è stato già citato, è l’apertura del
cuore al padre spirituale. Che ci sia questa trasparenza, questo non avere pieghe dove
nascondersi e dove nascondere gli altri, ma avere questa limpidezza e questa fiducia
perché da solo non posso discernere tutti i pensieri che mi vengono e in che direzione
stanno andando.
L’ultimo rimedio è il lavoro. Il lavoro è fondamentale. Sono andato
a trovare un eremita due anni fa e lui mi ha fatto vedere che sta ricostruendo il suo eremo
vicino Cascia. Sta facendo un lavoro con la pietra di bellezza straordinaria. E’ stato
bello vedere la passione con la quale faceva questo lavoro, l’amore, l’entusiasmo.
Il lavoro ha una grande funzione di guarigione, naturalmente se commisurato alle proprie forze.
Anche qui non ci deve essere esagerazione. Evagrio dice: “Fissati una misura in ogni
lavoro e non abbandonarlo prima di averlo portato a termine”. Ma con una misura,
perché se si esagera si finisce di nuovo fuori pista. Il lavoro vissuto con
serenità è un mezzo per vincere l’accidia.
Si racconta di S.Antonio Abate: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel
deserto, fu preso da sconforto, da accidia e da fitta tenebra di pensieri e diceva a Dio: O
Signore, io voglio salvarmi, ma i miei pensieri me lo impediscono, che posso fare nella mia
afflizione? Ora, sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui che sta seduto e lavora,
poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega. Poi di nuovo si mette seduto ad intrecciare
le corde e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio
e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: Fai così e sarai salvo. E
all’udire queste parole fu preso da grande gioia e coraggio. Così fece e si
salvò”. Quindi l’armonia tra il lavoro e la preghiera. La misura giusta nel
lavorare e nel pregare.
Come vedete non c’è niente di straordinario nei rimedi proposti, sono mezzi che
già conosciamo e che vanno vissuti con molta costanza e fedeltà. Perché
come ogni cura funzionano se c’è la fedeltà.
Domanda del pubblico?
Che valore hanno in questo la vita nella Chiesa ed i sacramenti? Chi è che opera la
guarigione?
D.Angelo:
Cristo. Noi abbiamo fatto la parte più esterna, ma la guarigione è operata dalla
relazione viva con il Signore. Qui la fede ha una grande valenza perché si tratta di
portare avanti un’amicizia reale con il Signore che viene vissuta in questi momenti
sacramentali molto importanti.
Il discorso che abbiamo fatto noi questa sera porta poi a questa dimensione risolutiva: chi mi
guarisce è Lui, il medico è Cristo. E’ importante che ci sia questa
speranza forte da vivere nell’incontro, da persona a persona.
Ma qui è già avvenuto un superamento della philautìa, dell’eccessivo
innamoramento per noi stessi, c’è già un uscire fuori. Qui l’incontro
con Gesù Cristo diventa veramente un incontro di salvezza. E’ importante: sempre
d’accordo con il padre spirituale, perché non diventi una formalità! A me
aiuta molto dire sempre: “Cerca di desiderare l’incontro, quando celebri un
sacramento”. Se vai a celebrare l’eucarestia, già prima di entrare in
chiesa di’ espressamente al Signore che lo vuoi incontrare. Sembra una cosa piccola
ma cambia quella celebrazione. Così anche nella confessione: non perché la devo
fare, ma perché veramente voglio incontrare il Signore, la sua misericordia, il suo
perdono.
Pensiamo un attimo a tutti quei segni bellissimi nel battesimo, di vittoria sulla morte che
andrebbero ripresi in questi momenti per recuperare la speranza, la gioia. Ci sono tanti
momenti del rito del battesimo nei quali si vede chiaramente che c’è una vittoria
da sviluppare, nel quotidiano della vita che vince la morte.
A me ha aiutato molto il desiderare l’incontro con il Signore.
E’ molto bella quell’espressione “Io sono la vita” detta da Cristo.
Anche lì non ci consegna una dottrina, un sistema religioso.