Mario Luzi scrisse nel 1994 un testo sul ruolo della letteratura nella formazione personale del prete nel suo specifico ministero di omileta. Il testo, che era inedito, è stato pubblicato, da Avvenire di venerdì 27 maggio 2005, nelle pagine di Agorà. Mettiamo a disposizione (secondo il progetto “Portaparola”) il testo on-line, con l’introduzione che lo ha accompagnato sul quotidiano cattolico e che racconta come nacque il breve scritto di Luzi.
L’Areopago
Ci teneva, Mario Luzi, alle omelie: da poeta e da credente. Una volta
– per esempio – scrisse positivamente meravigliato di un giovane prete che, invece
di comporre un suo commento teologico intorno al brano in cui Abramo accetta di sacrificare a
Dio il figlio Isacco, dal pulpito aveva posto domande semplici e radicali ai fedeli: «E
noi, saremmo capaci di offrire come lui le nostre cose più care?». Luzi sembrava
acconsentire a quello stile di predicazione, nello stesso tempo profondo ma alla portata di
tutti. E sul tema delle prediche ritorna in questo arduo ma interessante scritto, che è
un inedito vergato 10 anni or sono per il «Dizionario di omiletica» curato da
Manlio Sodi e Achille M. Triacca per Elledici-Velar nel 1998. Lo stesso don Sodi lo pubblica
ora nell’ultimo numero di «Rivista Liturgica» (Edizioni Messaggero Padova) e
ne narra la genesi; tutto nacque a Pienza, dove il poeta «si rifugiava ogni estate presso
il vecchio seminario, ospite del letterato don Francesco Flori» e dove lo stesso Sodi
stava lavorando appunto al Dizionario: «Il 22 agosto 1994 ebbi modo di incontrare Luzi,
di ascoltarlo a lungo all’ombra dei lecci del seminario, e di domandargli un contributo
per la futura opera circa il ruolo della letteratura nella formazione e nella cultura
dell’omileta. Il 15 giugno dell’anno successivo mi inviò un testo, che a
motivo del suo stile non poté apparire nell’opera». Eccolo
integralmente.
La mia nota prescinde dalla dottrina specifica che è abbondante anche in questa materia
(della predicazione, ndr). Fortemente instaurata è in ogni caso la tradizione culminata
in alcuni famosissimi classici dell'eloquenza o della sapienza teologica tra i quali sia lecito
ricordare il Segneri e Bossuet, illustri, è vero, soprattutto per le prediche. A ogni
buon conto la dottrina e la tradizione non sono tutto: la sostanza viva e cosciente
dell'omelia, che è il commento evangelico come ponte che collega la Parola (già
eucaristica) alla eucaristia sacrificale, viva, in atto, sollecita le qualità più
intrinseche e personali dell'officiante: queste risposte singolari della vocazione possono
essere discordanti e antitetiche riguardo al modo anche se ancorate alla lettera e alla
certezza della interpretazione del Vangelo. La varietà dell'ingegno e dell'indole
permane anche nella comunanza del fine, della fonte e dell'ispirazione. Per alcuni la risposta
è seguire la traccia rassicurante dei predecessori convalidati; per altri un
aggiornamento didascalico del messaggio alla situazione morale presente. Altri ancora - e sono
i più convincenti - del tutto investiti dalla forza attuale della parola comunicano
questa attualità, partecipano questo accadere della rivelazione. Non sembra in questo
ultimo caso che l'emozione del Vangelo annunciato sia mai divenuta sedimento o storia, ma sia
in atto mediante la figura e la parola del celebrante: una immedesimazione totale, di natura
mistica, di valore propriamente simbolico cioè unificante, solleva allora il sacerdote
all'invenzione più che alla semplice spiegazione o dimostrazione del testo. È una
rara, forse eccezionale, occorrenza: a mio giudizio la più efficace elargizione di
ricchezza spirituale e la più irrefutabile chiamata all'unità dell'assemblea: il
rito diviene vero evento e come tale opera nell'anima dei fedeli. Ciascuno di questi modi si
avvantaggia, è evidente, da una cultura più estesa possibile, così che la
parola del commento non sembri e magari non sia veramente separata da quella dell'uomo situato
nel secolo e nei suoi problemi; insomma non si evolva su se medesima come una lingua a parte. A
questo fine la lettura e lo studio di opere letterarie sono, certo, fondamentali, a qualunque
titolo siano fatte: di predilezione spontanea o di programmata preparazione. Nella letteratura,
specialmente nelle sue opere capitali, convergono tutti i grandi problemi suscitati nella mente
umana dalla condizione mortale; e tutte le inquietudini dell'animo e le aspirazioni relative e
supreme. Una cultura letteraria non posticcia, ma accurata e meditata, pone al centro
dell'esperienza umana e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di
tutti gli aspetti, dalla virtù all'abiezione, della persona dell'uomo. Dentro il grande
dominio della letteratura i monumenti supremi esprimono universalmente il mondo nelle sue
pulsioni contrastanti e ristabiliscono per questo l'armonia complessiva; ma altre, pure grandi,
leggono parzialmente la vita, obbediscono di necessità a un pre-giudizio. L'alternarsi e
il fronteggiarsi di queste differenti espressioni tuttavia compongono un cosmo entro il quale
sono possibili tutte le verifiche dell'esperienza quotidiana diretta; dal quale attingere tutte
le possibili ispirazioni per osservare e leggere meglio i casi della giornata. È
importante conoscere le opere di poesia animate da spirito cristiano, cristico, profetico -
è superfluo dirlo. Ma è altrettanto importante convincersi che a una certa
altezza o profondità di veduta e di invenzione la letteratura è un contributo
costante alla conoscenza del mondo interiore, avendo oggi dimesso e lasciato ad altre
discipline la descrizione di quello esteriore. San Francesco, Dante, san Giovanni della Croce,
Pascal prima, è comprensibile, di Dostoevskij, di Kafka nell'ordine delle
priorità spirituali; ma l'universo umano è molteplice e il divino parla talora
dai contrari apparenti, non esclude niente, si esprime anche per paradossi. La poesia visita
tutti questi luoghi e raramente ne è corrotta e viziata: i casi dell'Aretino o del
Firenzuola non sono frequenti; certe demonizzazioni sono sospette di ipocrisia, vedi quella del
Machiavelli che nascondeva spesso le turpitudini del peggior malgoverno. L'ardire e la
spregiudicatezza nell'affrontare il lato miserabile, perfido, del mondo non coinvolgono
l'intenzione ma impegnano drammaticamente la coscienza dello scrittore. Non bisogna rimuoverlo,
è immaturo rifiutarne la conoscenza. La commedia umana del Boccaccio è derisoria
e ridanciana solo verso la falsa pietà e devozione ma illustra tanti istintivi e
profondi moti della natura dell'uomo, moltiplica la cognizione del mondo, induce a meraviglia
per la grandezza e la varietà del creato; la commedia umana di Balzac continua, in una
società mutata e secondo una estetica non troppo dissimile, quell'arioso lavoro di
esplorazione delle miserie e delle grandezze dell'uomo con una non dissimile attitudine di
meraviglia per il prodigio della vita. In questi casi si tocca con mano la sostanza nutritiva
della letteratura e si può anche indurre direttamente il suo valore formativo visto che
non ci disloca in un mondo parallelo ma si trattiene nel nostro ordinario incrementando la
nostra lucidità e la nostra comprensione. Leopardi non è un credente come lo
furono Manzoni o Tolstoj, ma nessuno potrebbe meglio di quanto fa la sua poesia riassumere il
difettivo della condizione umana e dolersene portandone la sofferenza al cospetto di tutti gli
uomini ma specialmente di chi custodisce la parola e il messaggio. Egli non prospetta nessuna
speranza di salute, argomenta disperatamente la sua metafisica, ma la vibrazione d'amore e di
pietà che rende inimitabile il suo canto vale ad animare ogni discorso salvifico.
Così potranno sostanziarlo altri autori globali come Goethe, soprattutto dalle pagine
del Faust, e Shakespeare; ma anche scrittori di «affondo» più monografico:
Flaubert, per esempio, e la sua Emma Bovary, o Puskin e il suo Eugenio Onegin. Insomma tutta la
vasta e multiforme rappresentazione che la letteratura dà del travaglio e della
gratificazione dell'umano senza indugiare con autocompiacimento su se stessa, sulle sue
bellurie e bravure, è un patrimonio da non poter trascurare.