Mettiamo a disposizione on-line, sul nostro sito, secondo il progetto Portaparola, un intervento del filosofo francese Paul Ricoeur, morto il 20 maggio 2005, all’età di 92 anni. Il testo è la trascrizione di un’intervista al filosofo francese registrata nella Settimana Santa dell’anno 2000, durante uno dei suoi numerosi soggiorni nella comunità monastica di Taizé. È stato pubblicato da Avvenire il 21 giugno 2005, proprio per onorare la sua memoria.
L’Areopago
Cosa vengo a cercare a Taizé? Direi una sorta di prova di quello in
cui credo in modo più profondo, ovvero che ciò che comunemente chiamiamo
"religione" ha a che fare con la bontà. Questo è un po’ dimenticato, in
particolare in molte tradizioni del cristianesimo, dove c’è una specie di
restrizione, di chiusura sulla colpevolezza e sul male. Non che io sottovaluti questo problema,
del quale mi sono molto occupato per molti decenni. Ma quello che ho bisogno di verificare
è che per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo come la
bontà. E se la religione, o le religioni, hanno un senso è quello di liberare il
fondo della bontà degli uomini, di andare a cercarlo là dove esso è
completamente nascosto. Ora, qui a Taizé vedo l’irruzione della bontà nella
fraternità tra i fratelli, nella loro ospitalità tranquilla e discreta, nella
preghiera, dove vedo migliaia di giovani che non hanno l’articolazione concettuale del
bene e del male, di Dio, della grazia o di Gesù Cristo, ma che hanno un movimento
fondamentale verso la bontà.
Il linguaggio della liturgia
Siamo oppressi dai discorsi, dalle polemiche, dall’assalto del virtuale che crea una
zona opaca. E sorge questa certezza profonda che è necessario liberare: la bontà
è più profonda del male più profondo. Non bisogna solo sentirla, questa
certezza, ma anche darle un linguaggio, e il linguaggio che le viene donato qui a Taizé
non è quello della filosofia né della teologia, ma quello della liturgia. E per
me la liturgia non è semplicemente un’azione, ma è un pensiero.
C’è una teologia nascosta e discreta nella liturgia, che si riassume in questa
idea: «la legge della preghiera è la legge della fede».
Dalla protesta all’attestazione
La domanda sul peccato è stata rimpiazzata dal centro delle discussioni attuali da
un’altra domanda, in un certo senso forse più grave, che è la questione del
senso e del non senso, dell’assurdo. (…) Noi apparteniamo alla civilizzazione che
effettivamente ha ucciso Dio, ovvero che ha fatto prevalere l’assurdo e il non senso sul
senso. Questo però provoca una profonda protesta; e utilizzo questa parola - "protesta"
- molto vicina ad un’altra, "attestazione", perché l’attestazione procede
dalla protesta che il niente, l’assurdo, la morte non sono l’ultima parola. Questa
considerazione riprende la mia domanda sulla bontà perché la bontà non
è solo la risposta al male, ma è anche la risposta al non senso. In "protesta"
sono comprese le parole teste e testimone; si "pro-testa", prima di poter "at-testare". A
Taizé si fa il cammino dalla protesta all’attestazione, e questo cammino passa
attraverso quello che ho appena detto: la legge della preghiera, la legge della fede. Infatti
la protesta è ancora nel campo del negativo: si dice no al no. E invece bisognare dire
sì al sì. C’è dunque un movimento pendolare dalla protesta
all’attestazione. E credo che questo avvenga con la preghiera. Sono stato molto toccato
questa mattina dai canti e dalle preghiere nella forma vocativa: «O Cristo…».
Qui non siamo nel campo del descrittivo né in quello prescrittivo, ma in quello
esortativo e nell’acclamazione! E penso che acclamare la bontà sia l’inno
fondamentale.
«Chi ci insegnerà la felicità?»
Io amo molto la parola felicità. Tempo fa ho pensato che era troppo facile o troppo
difficile parlare della felicità. Ma poi ho superato questo pudore. O piuttosto
l’ho approfondito, questo pudore, di fronte alla parola felicità. La considero in
tutta la varietà dei suoi significati, compreso quello delle Beatitudini. La formula
della felicità è questa: «Beati coloro che …». Saluto la
felicità giustamente come una "ri-conoscenza", nei tre sensi del termine: la riconosco
come mia, la approvo negli altri e sono grato per ciò che ne ho conosciuto in queste
piccole felicità, tra le quali ci sono quelle della memoria, che mi guariscono dalle
grandi infelicità dell’oblio. In questo caso procedo al contempo come filosofo,
nutrito dei Greci, e come lettore della Bibbia e del Vangelo, dove possiamo seguire il percorso
della parola felicità, ma in due registri. Questo perché il meglio della
filosofia greca rappresenta una riflessione sulla felicità, cioè la parola greca
eudemonia (si parla dell’eudemonismo filosofico in Platone e Aristotele). Ma io mi
ritrovo molto d’accordo con la Bibbia: penso all’inizio del salmo 4: «Chi ci
farà vedere il bene?». È un domanda un po’ retorica, ma che ha la sua
risposta nelle Beatitudini. Esse sono l’orizzonte della felicità di una vita sotto
il segno delle benevolenza, perché la felicità non è semplicemente
ciò che non ho e che io spero di avere, ma anche ciò che ho gustato.
Tre immagini di felicità
Ho riflettuto di recente sulle immagini di felicità nella mia vita. A proposito della
creazione, di fronte a un bel paesaggio, la felicità è l’ammirazione. Nei
confronti degli altri, nella riconoscenza verso di loro, sul modello nuziale del Cantico dei
Cantici, la felicità è il giubilo. E - terza figura - rivolta verso il futuro, la
felicità è l’aspettativa: io mi aspetto ancora qualcosa dalla vita. Spero
di avere il coraggio davanti al dolore che non conosco, ma mi attendo ancora felicità.
Uso la parola "aspettativa"; potrei usarne un’altra che mi viene dalla Prima lettera di
Paolo ai Corinzi, nel capitolo precedente al famoso capitolo 13 sulla carità che
«comprende tutto, scusa tutto», etc. Il capitolo precedente inizia così:
«Aspirate ai carismi più grandi». «Aspirate, aspirate». La
felicità dell’aspettativa completa la felicità del giubilo e
dell’ammirazione.
Un servizio gioioso
Quello che anzitutto mi colpisce qui, in tutti i piccoli servizi quotidiani della liturgia,
negli incontri di tutti i tipi, nei pasti e nelle conversazioni, è l’assenza
completa di relazioni di dominio. Ho qualche volta l’impressione che, in questa sorte di
accuratezza paziente e silenziosa di tutti gli atti dei membri della comunità, ognuno
obbedisce senza che nessuno comandi. Da questo risulta un’impressione di servizio
gioioso, potrei dire di obbedienza amante, sì, di un’obbedienza che ama, che
è dunque tutto il contrario della sottomissione e del vagabondare. Questa strada,
generalmente stretta, tra quello che ho appena chiamato sottomissione e vagabondare qui
è largamente indicata dalla vita comunitaria. È di questo che noi, i partecipanti
- non quelli che assistono, ma che partecipano, come io credo di essere stato e di essere qui -
beneficiamo. Godiamo di questa obbedienza amante che abbiamo proprio verso l’esempio che
ci è dato. La comunità non impone una sorta di modello intimidatorio, ma, direi,
una specie di esortazione amichevole. Mi piace questa parola, "esortazione", poiché non
siamo nell’ordine del comando e ancora meno dell’obbligo, ma neppure siamo
nell’ordine della diffidenza e dell’esitazione, che oggi è l’andamento
della vita nelle professioni, nella vita urbana, nel lavoro e nel divertimento. Questa
tranquillità condivisa rappresenta per me la felicità della vita presso la
comunità di Taizé.
(traduzione di Lorenzo Fazzini)