“Io ho sperimentato il senso della dottrina sociale della Chiesa
quando ero operaio (durante l’occupazione nazista) e... adesso che sono pastore e vescovo
di una Chiesa che vive in condizioni particolari (N.d.R. cioè sotto un regime
comunista). Esprimo la convinzione che la Chiesa non può non possedere una propria
peculiare dottrina sociale. Questa è la conseguenza della missione stessa della Chiesa,
rientra nel contenuto sostanziale e nei compiti del Vangelo che deve essere predicato e
realizzato continuamente (e in un certo senso sempre di nuovo) nelle ridotte dimensioni della
vita sociale, al centro stesso dei problemi che ne scaturiscono”. Così Karol
Wojtyla in un’intervista rilasciata un mese prima di diventare Papa e recentemente
pubblicata in Karol Wojtyla, La dottrina sociale della Chiesa, Lateran University Press, Roma,
2003, pag. 18. Il principio di sussidiarietà è uno degli elementi caratterizzanti
la visione della Chiesa sulla società ed è stato proprio il Papa Giovanni Paolo
II a farvi spesso riferimento e ad esplicitarlo nel suo significato e nella sua importanza.
Come risulterà evidente dall’articolo che vi presentiamo, la stessa Unione Europea
ha ritenuto importante farvi riferimento.
Per permettere una prima conoscenza di questo elemento della dottrina sociale cristiana
mettiamo a disposizione on-line la voce Sussidiarietà, scritta da Giorgio Feliciani per
il volume: Università cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche per lo studio
della dottrina sociale della Chiesa, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze
sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano, 2004, pp. 87-93.
L’articolo è una delle 10 voci fondamentali che vengono premesse alle molte
voci che seguono all’interno dell’opera.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul
nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L’Areopago
Nel magistero della Chiesa il principio di sussidiarietà viene per la
prima volta proposto dall’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno del 15 maggio 1931
con una formulazione ancor oggi considerata classica, e che, quindi, nonostante il lungo tempo
trascorso, merita ancora particolare attenzione.
Il Pontefice constata, innanzitutto, come, a causa dei mutamenti intervenuti nella
società moderna, molte iniziative possono ormai essere realizzate solo ad opera di
quelle che definisce come “grandi associazioni”, vale a dire, in pratica, dallo
Stato e dagli enti pubblici. Afferma, poi, con forza che, anche in questa nuova
situazione, deve comunque «restare saldo il principio importantissimo nella
filosofia sociale» secondo il quale «siccome è illecito togliere agli
individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per
affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e
più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si
può fare». Ne deriverebbe, infatti, «un grave danno e uno sconvolgimento del
retto ordine della società» poiché «oggetto naturale di
qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera
suppletiva [in latino subsidium: da qui deriva il termine
“sussidiarietà”] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed
assorbirle». Di conseguenza, e sempre a giudizio del Pontefice, «è
necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori
e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento» per poter eseguire
con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola
spettano [...] di direzione, cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a
seconda dei casi e delle necessità». Gli uomini di governo sono, quindi, esortati
a persuadersi che quanto più perfettamente sarà rispettata questa esigenza
«tanto più forte riuscirà l’autorità e la potenza
sociale, e perciò anche più felice e più prospera la condizione dello
Stato stesso» (QA, 80-81).
L’esplicita enunciazione del principio e la sua specifica formulazione possono
senz’altro considerarsi, rispetto al precedente Magistero, come una autentica
novità, dovuta in larga misura all’influsso esercitato dalle dottrine
elaborate da alcuni studiosi tedeschi, e in particolare dal Gundlach, di cui espressamente si
dichiara tributario lo stesso Nell-Breuning, ritenuto l’estensore materiale
dell’enciclica.
Peraltro, quanto ai suoi contenuti e alle esigenze che intende salvaguardare, la dottrina
così formulata viene considerata come già implicita nell’insegnamento
tradizionale della Chiesa in materia sociale, in quanto, a giudizio di attenti studiosi,
si limita a riproporre un principio di antichissima sapienza umana, fondato nello stesso
diritto divino naturale. Si ricorda, a tale proposito, come già Tommaso d’Aquino
(1225-1274) considerasse l’imposizione di una eccessiva uniformità come una
minaccia per la repubblica composta da diverse parti. E, analogamente, Dante ritenesse che
l’imperatore non dovesse interessarsi direttamente delle questioni riguardanti le singole
città, essendo queste dotate di caratteristiche proprie e differenziate.
Alla luce di queste considerazioni si può concludere che il principio di
sussidiarietà costituisce una novità solo per la sua esplicita formulazione, resa
necessaria dagli sviluppi della società moderna, che comportano sia una intensificazione
delle relazioni tra i diversi livelli e ambiti della vita sociale, sia una dilatazione di
competenze e pretese da parte del potere centrale.
Gli immediati successori di Pio XI ribadiscono l’importanza del principio, ma senza
significativi apporti alla sua formulazione teorica. Pio XII, nell’allocuzione ai
cardinali del 20 febbraio 1946, ne riconosce «la validità per la vita sociale in
tutti i suoi gradi». E, da parte sua, Giovanni XXIII nella enciclica Mater et
magistra del 15 maggio 1961, si rifà direttamente agli insegnamenti della
Quadragesimo anno, ma non manca di proporre nuove e ampie indicazioni circa le concrete
applicazioni della sussidiarietà, soprattutto nel campo dell’economia. E
successivamente, nella enciclica Pacem in terris, dell’11 aprile 1963, ne
evidenzia le conseguenze relativamente ai «rapporti fra i poteri pubblici delle
singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale»
(PT, 74).
Lo stesso Vaticano Il non dedica ampia attenzione al principio di sussidiarietà,
menzionandolo espressamente solo tre volte e sempre in riferimento a questioni di indubbia
rilevanza, ma di carattere specifico, quali l’educazione familiare e scolastica
(cfr. GE) e la comunità internazionale (cfr. GS). Peraltro nel vasto e articolato
corpus dei documenti conciliari non mancano insegnamenti che ad esso chiaramente si
ispirano. Basti al riguardo ricordare come la costituzione Gaudium et spes esorti i
governanti a guardarsi «dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o
culturali, i corpi o istituti intermedi», privandoli «delle loro legittime ed
efficaci attività, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire»
(GS, 75).
Ancora più rari i riferimenti al principio di sussidiarietà nel magistero di
Paolo VI che, pur non menzionandolo, se ne occupa in due passi della enciclica
Populorum progressio del 26 marzo 1967, e della lettera apostolica Octogesima
adveniens del 14 maggio 1971, in cui sottolinea la necessità e l’importanza
dell’azione degli individui e dei corpi intermedi per il bene comune, citando tra le
fonti gli insegnamenti sia dei suoi predecessori sia del Concilio. Durante il suo
pontificato il principio è però espressamente richiamato in diversi documenti
della Santa Sede emanati, rispettivamente, dalla Commissione per le comunicazioni sociali
(Communio et progressio, 23 maggio 1971), dalla Congregazione per
l’educazione cattolica (La scuola cattolica, 19 marzo 1977), dal Consiglio Cor
unurn (Servizi sanitari per un’azione sanitaria primaria, 6 novembre 1977) e dalla
Commissione Iustitia et Pax (Self-reliance: contare sulle proprie forze, 15 maggio
1978). Quest’ultima ne tratta con una certa ampiezza, sottolineando come il principio
implichi «che si resista alla tendenza spontanea a tutto centralizzare e tutto
programmare autoritariamente dall’alto» in quanto «le comunità
intermedie hanno, a titoli diversi, responsabilità proprie che non vanno considerate
come una “concessione” del potere politico» (Self-reliance: contare sulle
proprie forze, 3).
Con Giovanni Paolo II il principio di sussidiarietà diventa, per così dire, un
motivo ricorrente sia nel suo personale magistero sia nei documenti della Santa Sede, con
enunciazioni che, pur mantenendosi nel solco delle precedenti pronunce, non sono prive di una
certa novità di accenti. Già nel messaggio indirizzato il 22 agosto 1980 al
presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il Pontefice avverte che
«applicando la nozione di sussidiarietà [...] molti gruppi e popoli possono
risolvere meglio i loro problemi ad un livello locale o intermedio» con un’azione
che dà loro «un senso diretto di partecipazione ai loro stessi destini»
(Al presidente dell‘Assemblea generale delle Nazioni Unite, 8). E il 22 novembre
dell’anno successivo, nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, il
Pontefice ricorda che «la società, e più specificamente lo Stato, [...]
nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di
sussidiarietà» (FC, 45).
L’importanza del principio è successivamente posta in piena luce dalla istruzione
della Congregazione per la dottrina della fede Libertatis conscientia del 22 marzo 1986,
dove esso viene definito, insieme al principio di solidarietà, come
“intimamente legato” alla stessa «dignità dell’uomo»
e «fondamento ai criteri per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi
sociali» (LC, 74). Ne segue che «né lo Stato, né alcuna
società devono mai sostituirsi all’iniziativa ed alla responsabilità delle
persone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire,
né distruggere lo spazio necessario alla loro libertà» (ibid.,
73). Nello stesso senso si pronuncia il documento della Congregazione per
l’educazione cattolica La dottrina sociale della Chiesa nella formazione
sacerdotale del 30 dicembre 1988 dove la sussidiarietà — che
«protegge la persona umana, le comunità locali e i “corpi intermedi”
dal pericolo di perdere la loro legittima autonomia» — è considerata quale
necessario complemento della solidarietà e importante principio regolatore della vita
sociale. La Chiesa è quindi particolarmente attenta alla sua applicazione «a
motivo della dignità stessa della persona, del rispetto di ciò che vi è di
più umano nell’organizzazione della vita sociale e della salvaguardia dei diritti
dei popoli nelle relazioni tra società particolari e società universale»
(La dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, 38).
Giovanni Paolo II interviene poi personalmente, il 10 maggio 1991, con
l’enciclica Centesimus annus ricordando innanzitutto, a proposito di
«una visione giusta della società», come «secondo la Rerum
novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non
si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla
famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa
natura umana, hanno — sempre dentro il bene comune — la
loro propria autonomia» (CA, 13). Di conseguenza in tutti gli ambiti si impone il
rispetto del «principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore
non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola
delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a
coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene
comune» (ibid., 48). Il principio di sussidiarietà viene anche recepito in
uno strumento di singolare rilevanza per l’educazione del popolo di Dio, il Catechismo
della Chiesa Cattolica, definito da Giovanni Paolo II come «testo di riferimento
sicuro e autentico per l’insegnamento della dottrina cattolica» (Fidei
depositum, IV). Il documento ne tratta nel capitolo dedicato alla comunità
umana, dove, dopo aver avvertito che «un intervento troppo spinto dello Stato può
minacciare la libertà e l’iniziativa personali», si enuncia il
principio di sussidiarietà nella stessa formulazione adottata dalla Centesimus
annus, sottolineando che esso, opponendosi «a tutte le forme di
collettivismo», «precisa i limiti dell’intervento dello Stato. Mira ad
armonizzare i rapporti tra gli individui e le società. Tende ad instaurare un autentico
ordine internazionale» (CCC, 1885). Vi si afferma, in sintesi, che, secondo tale
principio, «né lo Stato né alcuna società più grande devono
sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità delle persone e dei corpi
intermedi» (ibid., 1894; per quanto specificamente riguarda la famiglia, cfr.
ibid., 2209).
Questa rinnovata e decisa insistenza della Santa Sede sull’importanza del principio di
sussidiarietà nella vita sociale non poteva restare senza eco negli insegnamenti
della CEI che, di fatto, se ne è ampiamente occupata in vari documenti con numerosi e
specifici riferimenti alla situazione del Paese. Si vedano in particolare gli orientamenti e
direttive pastorali Evangelizzare il sociale del 22 novembre 1992, il documento della
Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro Democrazia economica,
sviluppo e bene comune del 13 giugno 1994, e le ampie considerazioni contenute nella
nota pastorale della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” Stato sociale ed
educazione alla socialità dell’11 maggio 1995.
Da questo rapido excursus risulta evidente che il Magistero, mentre considera il
principio di sussidiarietà «centrale nell’atteggiamento sociale della
Chiesa» (Riforme e rinnovamento sociale, alimenti della solidarietà,
4) e, conseguentemente, lo afferma espressamente e continuamente, non si è
preoccupato di svilupparlo in una dimensione dottrinale di carattere completo ed organico, che
tenga anche adeguatamente conto dei profondi mutamenti in corso nel mondo e della crisi
degli assetti tradizionali delle società e delle istituzioni. Non sorprende,
quindi, che «tra i commentatori e gli studiosi» vi sia «una grande
diversità di opinioni» al punto che «qualche autore ha trovato più di
venti differenti interpretazioni al principio» (cfr. Castillo Lara, 1995, p. 455). Un
inconveniente in larga misura dovuto anche al fatto che — come lamentava
già il Nell-Breuning — lo stesso principio è «stato
molto spesso frainteso, anzi stravolto, non solo fuori della Chiesa, ma anche da autori
cattolici» (Citterio, 1999, p. 241).
In questa sede è sufficiente rilevare la profonda divergenza esistente tra quanti
concepiscono la società come integrata da singole membra ad essa ordinate
(principio di totalità) e quanti, invece, ritengono che le formazioni sociali non
abbiano altro scopo che la promozione e il perfezionamento della persona umana (concezione
solidaristica). Per i primi l’uomo, in quanto essere limitato, prende parte alla vita
dell’intera società solo gradualmente e progressivamente, dando vita a
svariate forme di associazione. Per i secondi le attività delle formazioni sociali
e, rispettivamente, delle formazioni sociali più ampie, sono per loro natura
sussidiarie nei confronti delle persone singole e delle formazioni sociali minori e
subordinate. Solo quest’ultima concezione — oggi decisamente predominante —
è conforme al magistero pontificio e al suo costante riferimento alla dignità
della persona umana, e, al contempo, consente una piena valorizzazione del principio di
sussidiarietà, inquadrandolo in un adeguato contesto dottrinale.
A tale proposito va pure osservato come sia decisamente da rifiutare una interpretazione
riduttiva del principio, quasi che esso comporti, per chi esercita a qualunque livello il
potere, solo il divieto di impedire o ostacolare la libera iniziativa delle singole persone e
delle formazioni sociali, e non anche, invece, quello di incoraggiarla, favorirla e
valorizzarla. Basti al riguardo ricordare come lo stesso termine di sussidiarietà
derivi dalla parola latina “subsidium” che significa, appunto, aiuto.
Da più parti si è cercato di mettere precisamente a fuoco i contenuti essenziali
del principio di sussidiarietà, che vengono per lo più così identificati.
Il primato della persona umana unitamente alla natura sociale della stessa esigono che le
comunità abbiano come unico scopo il dare aiuto (subsidium) ai singoli individui
nell’assunzione di personali responsabilità per la propria autorealizzazione,
assicurandone le condizioni necessarie. Anche le società cosiddette
“maggiori” o “superiori” esistono per assolvere analoghi ruoli
sussidiari nei confronti delle comunità cosiddette “minori o
inferiori”. Il principio si basa sulla metafisica della persona ed è quindi valido
per qualunque società, ma avendo carattere formale, richiede di essere più
precisamente determinato e specificato in funzione della natura di ogni comunità e delle
circostanze storiche in cui essa si trova a vivere. E a quest’ultimo proposito
c’è anche da chiedersi se ormai non sia auspicabile una revisione della stessa
formulazione “classica” del principio stesso che si riferisce a un ordine sociale
strutturato secondo un unico ordine gerarchico, mentre attualmente i centri di potere sono
diversi e differenziati (si pensi ad esempio ai partiti politici, alla finanza, alle
multinazionali, agli stessi mass media). Si aggiunga che non manca chi ritiene lo stesso
termine di “sussidiarietà” decisamente infelice in quanto, prestandosi
a malintesi, può ingannare. Infatti da un lato, come rileva il cardinal Castillo Lara
(1995, p. 461) può dare «l’idea di surrogato in caso di urgenza o
bisogno, quando invece si tratta di un vero dovere della società di prestare ai suoi
membri un vero e abbondante aiuto». E, dall’altro, come avverte il già
ricordato documento della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace”, può
accadere che venga invocato per avallare «un concetto così evanescente dello Stato
e dell’intervento pubblico tale da cancellare i compiti propri della
comunità» (Stato sociale ed educazione alla socialità, 42).
È peraltro evidente che questi equivoci possono derivare solo dall’intento di
separare e al limite contrapporre sussidiarietà e solidarietà. Invece i due
principi si implicano reciprocamente al punto che nel Magistero la sussidiarietà
è qualificata come «complemento della solidarietà» (La dottrina
sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale, 38) e, al contempo,
quest’ultima è considerata anche come un aspetto della sussidiarietà
nel senso che «non è possibile aspettarsi un comportamento di solidarietà
pienamente sviluppato verso lo Stato e la società internazionale se non è stata
nutrita e praticata anche a livello dei gruppi e istituzioni intermedi» (Riforme e
rinnovamento sociale, alimenti della solidarietà, 4). La concezione cattolica della
società è dunque inconciliabile sia con lo statalismo sia con il liberismo.
Ritiene, infatti, che la «convivenza tra gli uomini» non sia
«finalizzata né al mercato né allo Stato», ma possegga «in
sé stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire» (CA,
49).
Per quanto specificamente concerne l’attuazione del principio di sussidiarietà in
Italia è stato rilevato che negli ultimi decenni «Stato apparato, enti locali
territoriali, partiti e sindacati [...] non hanno certamente impegnato le loro forze per
garantire la vita e lo sviluppo delle formazioni sociali non politicamente organizzate e
non volte alla tutela degli interessi dei lavoratori» (Roversi Monaco, 1997, p. 65). E,
da parte sua, «la cultura giuridica italiana è purtroppo rimasta in gran parte
ferma su una concezione che tende ad appiattire sul singolo e a considerare il riferimento alle
formazioni sociali» dell’art. 2 della Costituzione, «come una mera garanzia
supplementare, come qualcosa di aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei diritti inviolabili
dell’individuo in quanto tale» (Violini, pp. 9-12). Tutto questo ha fatto sì
che per lunghi anni nel nostro Paese la sussidiarietà è stata dimenticata al
punto da non essere nemmeno menzionata non solo nei dizionari della lingua italiana, come
è stato argutamente osservato, ma persino in accreditate enciclopedie giuridiche.
La questione è diventata di attualità solo molto recentemente quando la
sussidiarietà è stata espressamente sancita dal Trattato di Maastricht del 7
febbraio 1992 come principio cardine che delimita i poteri di intervento della Unione Europea
rispetto alle competenze proprie degli Stati che ne fanno parte. Una affermazione indubbiamente
parziale, ma non priva di importanza. Da un lato l’ampio e articolato dibattito che
ha suscitato tra gli studiosi ha talvolta consentito di far emergere in tutta la sua estensione
il significato del principio così invocato. Dall’altro ha aperto la via alla
possibilità che il principio di sussidiarietà sia recepito nella Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il problema si è poi imposto all’attenzione dell’opinione pubblica in
occasione dei lavori, poi falliti, della commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
A tale riguardo ci si limita a ricordare che nel corso della discussione è emersa una
interessante distinzione tra sussidiarietà orizzontale – riguardante i rapporti
tra lo Stato e gli enti locali da una parte e società civile e singoli cittadini
dall’altra – e sussidiarietà verticale, relativa alla distribuzione delle
competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Una distinzione legittima ma che non
può essere esasperata fino a introdurre una netta separazione tra queste due valenze del
principio. Infatti se l’attuazione della sussidiarietà non giunge fino a tutelare
e a valorizzare le libere iniziative dei cittadini, singoli o associati, viene praticamente
negato il suo stesso fondamento che consiste nella dignità della persona umana. Tutto si
riduce a una ripartizione di poteri pubblici che, da sola, non solo non comporta una maggior
garanzia per i diritti dei cittadini, ma può persino peggiorarne la condizione. Come ha
osservato il segretario generale della CEI mons. Antonelli, “senza un adeguato
riconoscimento dei soggetti sociali lo stesso decentramento di molte competenze agli enti
territoriali potrebbe tradursi in una maggiore invadenza della pubblica amministrazione e in
una ulteriore burocratizzazione dei servizi” (Alla Compagnia delle Opere in occasione
della sua assemblea nazionale).