N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi
L’Europa. Che cos’è davvero l’Europa? Questa
domanda è stata riproposta dal cardinale Józef Glemp in uno dei circoli
linguistici del Sinodo Episcopale sull’Europa. Dove comincia, dove finisce
l’Europa? Perché ad esempio la Siberia non appartiene all’Europa, sebbene
sia abitata anche da europei, la cui modalità di pensare e di vivere è inoltre
del tutto europea? E dove si perdono i confini dell’Europa nel sud della comunità
di popoli della Russia? Dove corre il suo confine nell’Atlantico? Quali isole sono Europa
e quali invece non lo sono, e perché non lo sono? In questi incontro divenne
perfettamente chiaro che Europa solo in maniera del tutto secondaria è un concetto
geografico: l’Europa non è un continente definibile in termini soltanto
geografici, ma è invece un concetto culturale e storico.
Questo risulta in modo assai evidente se tentiamo di risalire alle origini dell’Europa.
Chi parla dell’origine dell’Europa rinvia tradizionalmente a Erodoto (ca. 484-425
a.C.), il quale certamente è il primo a designare l’Europa come concetto
geografico e la definisce così: “I persiani considerano come cosa di loro
proprietà l’Asia e i popoli barbari che vi abitano, mentre ritengono che
l’Europa e il mondo greco siano un paese a parte”. I confini dell’Europa non
vengono indicati, ma è chiaro che terre che sono il nucleo dell’Europa odierna
giacevano completamente al di fuori del campo visivo dell’antico storico. Di fatto, con
la formazione degli stati ellenistici e dell’Impero Romano si era costituito un
“continente” che divenne la base della successiva Europa, ma che esibiva
tutt’altri confini: erano le terre affacciate al Mediterraneo, le quali, in
virtù dei loro legami culturali, dei traffici e dei commerci, del comune sistema
politico, formavano le une insieme alle altre un vero e proprio continente. Solo
l’avanzata trionfale dell’islam nel VII e all’inizio dell’VIII secolo
ha tracciato un confine attraverso il Mediterraneo, lo ha per così dire
tagliato a metà, cosicché tutto ciò che fino ad allora era stato un
continente si suddivideva adesso in tre continenti: Asia, Africa, Europa. In Oriente la
trasformazione del mondo antico si compì più lentamente che in Occidente:
l’Impero Romano, con Costantinopoli come punto centrale, resistette laggiù –
anche se sempre più spinto ai margini – fino al XV secolo. Mentre la parte
meridionale del Mediterraneo, attorno all’anno 700, è completamente caduta fuori
di quello che era stato per secoli un continente culturale, si verifica nel medesimo tempo una
progressiva estensione verso il nord. Il limes, che era un confine continentale,
scompare e si apre verso un nuovo spazio storico, che ora abbraccia la Gallia, la Germania, la
Britannia come terre-nucleo, e si protende in maniera crescente verso la Scandinavia. In questo
processo di spostamento dei confini la continuità ideale con il precedente continente
mediterraneo, diversamente situato, venne garantita dalla costruzione di una teologia della
storia: in conformità con il libro di Daniele, si considerava l’Impero Romano
rinnovato e trasformato dalla fede cristiana come l’ultimo regno della storia del mondo e
perciò la compagine emergente di popoli e di stati si definiva come il permanente
Sacrum Imperium Romanum.
Questo processo di una nuova identificazione storica e culturale è stato compiuto in
maniera del tutto consapevole sotto il regno di Carlo Magno, e qui riemerge anche
l’antico nome di Europa in un significato mutato: il nome venne impiegato addirittura
come definizione del regno di Carlo Magno ed esprimeva la coscienza della continuità e
insieme della novità con cui la nuova compagine di stati si presentava come forza carica
di futuro. Carica di futuro proprio perché si concepiva in continuità con la
storia del mondo fino ad allora ancorata in ciò che permane sempre.
Nella coscienza di sé che andava così formandosi è espressa la
consapevolezza tanto della definitività quanto di una missione. E’ vero che il
concetto di Europa è pressoché di nuovo scomparso dopo la fine del regno
carolingio e si è conservato solamente nel linguaggio dei dotti; entra nel linguaggio
popolare solo all’inizio dell’epoca moderna – certo in relazione al pericolo
dei turchi, come modalità di autoidentificazione - per imporsi in generale nel XVIII
secolo. Al di là della storia del nome, il costituirsi del regno dei franchi come Impero
Romano, mai del tutto tramontato e ora rifondato, è di fatto il passo decisivo verso
l’Europa quale oggi la intendiamo. Peraltro non possiamo dimenticare che c’è
anche un secondo ceppo dell’Europa, un’Europa non occidentale: a Bisanzio,
l’Impero Romano aveva resistito alle tempeste delle migrazioni e dell’invasione
islamica. Bisanzio si considerava la vera Roma; qui l’Impero non era mai tramontato e
continuava ad avanzare una rivendicazione nei confronti dell’altra metà, quella
occidentale, dell’Impero. Anche l’Impero Romano d’Oriente si è esteso
verso il nord, fin dentro il mondo slavo, e si è creato un proprio mondo, greco-romano,
che si differenzia dall’Europa latina dell’Occidente introducendo varianti nella
liturgia e nella costituzione ecclesiastica, adoperando una diversa scrittura e rinunciando al
latino come lingua comune. Ma ci sono anche sufficienti elementi unificanti, che possono
fare dei due mondi un unico comune continente: in primo luogo l’eredità della
Bibbia e della Chiesa antica, la quale in entrambi i mondi rinvia oltre se stessa verso
un’origine che ora giace al di fuori dell’Europa, e cioè in
Palestina; inoltre l’idea di Impero e dell’essenza della Chiesa e quindi
anche del diritto e degli strumenti giuridici; infine, io menzionerei anche il
monachesimo, che nei grandi sommovimenti della storia è rimasto
l’insostituibile portatore non solo della continuità culturale, bensì
soprattutto dei fondamentali valori religiosi e morali, degli orientamenti ultimi
dell’uomo e, in quanto forza prepolitica e sovrapolitica, divenne portatore delle sempre
necessarie rinascite. Tra le due Europe, accanto alla comune eredità ecclesiale,
permane tuttavia una profonda differenza, alla cui importanza ha accennato specialmente
Endre von Ivanka: a Bisanzio, Impero e Chiesa appaiono quasi identificati l’uno con
l’altro; l’imperatore è capo anche della Chiesa. Egli si considera
rappresentante di Cristo e, sulla scia di Melchisedek, che era al tempo stesso re e sacerdote
(Gen 14,18), porta dal VI secolo il titolo ufficiale di “re e sacerdote”. Dal
momento in cui con Costantino l’imperatore lasciò Roma, nell’antica capitale
dell’Impero poté svilupparsi la posizione autonoma del vescovo di Roma come
successore di Pietro e pastore supremo della Chiesa; qui, già dall’inizio
dell’era costantiniana, viene affermandosi una dualità di potestà:
imperatore e papa hanno potestà separate, nessuno dispone di una potestà
totale. Il papa Gelasio I (492-496) ha espresso la sua visione dell’Occidente nella
famosa lettera all’imperatore bizantino Anastasio I e, ancora più chiaramente, nel
suo quarto trattato, dove a proposito del modello bizantino di Melchisedek dichiara che
l’unità delle potestà sta esclusivamente in Cristo: “Questi
infatti, a causa della debolezza umana (superbia!), ha separato per i tempi successivi i due
ministeri, affinché nessuno si insuperbisca” (c.11). Per le cose della vita
eterna, gli imperatori cristiani hanno bisogno dei sacerdoti (pontifices), e questi a
loro volta si attengono, per il corso temporale delle cose, alle disposizioni imperiali. I
sacerdoti devono seguire nelle cose mondane le leggi dell’imperatore insediato per
decreto divino, mentre questi deve sottomettersi nelle cose divine al sacerdote. Con ciò
è introdotta una separazione e distinzione delle potestà, la quale divenne di
massima importanza per il successivo sviluppo dell’Europa ponendo le basi dei caratteri
distintivi dell’Occidente. Poiché da ambo le parti, accanto a tali delimitazioni,
rimase sempre vivo l’impulso alla totalità, la brama di imporre all’altro il
proprio potere, il principio di separazione è divenuto anche sorgente di infinite
sofferenze. Come debba essere vissuto correttamente, e concretizzato politicamente e
religiosamente, rimane un problema fondamentale anche per l’Europa di oggi e di
domani.
(da Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004)
Ma la divisione storica delle Chiese è una ferita sempre aperta. Confessando, nella
basilica di San Pietro di Roma, il 17 marzo 1926, il Credo cattolico, Ivanov aveva coscienza,
come scrisse a Charles du Bos, di “sentirmi per la prima volta ortodosso nella pienezza
dell’accezione di questa parola, in pieno possesso del tesoro sacro, che era mio dal
battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un sentimento di malessere,
divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo
tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un
tisico, che con un solo polmone” (V.Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930,
dans V.Ivanov et M.Gerschenson, Correspondance d’un coin à l’autre,
Lausanne, Ed. L’âge d’homme, 1979, p. 90). È la stessa cosa che dicevo
anch’io a Parigi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche, il 31
maggio 1980, ricordando la mia visita fraterna al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli:
“Non si può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un
solo polmone; bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello
occidentale” (Vjaceslav Ivanov poeta, filosofo e filologo russo).
(dall’Allocutio Lutetiae Parisiorum ad Christianos fratres a Sede Apostolica seiunctos
habita, 31 maggio 1980: AAS 72 [1980] 704 di Giovanni Paolo
II)
Nel 1453 Costantinopoli venne conquistata dai turchi. Otto Hiltbrunner commenta l’evento
in maniera laconica: “Gli ultimi... dotti emigrarono... verso l’Italia e trasmisero
agli umanisti del Rinascimento la conoscenza dei testi originali greci; ma l’Oriente
sprofondò nell’assenza di cultura”. Questa affermazione è forse un
po’ eccessiva, poiché anche il regno della dinastia degli Osmanli aveva la sua
cultura; ma è vero che la cultura greco-cristiana, europea, di Bisanzio ebbe
fine. Così una delle due ali dell’Europa rischiò di scomparire, ma
l’eredità bizantina non era morta: Mosca si dichiara come la terza Roma,
fonda un proprio patriarcato sul principio di una seconda translatio imperii e si
presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium, come una distinta forma di
Europa, che tuttavia rimase legata all’Occidente e si orientò sempre più
verso di esso, fino a che Pietro il Grande tentò di farla diventare un paese
occidentale.
Contemporaneamente anche in Occidente si producono due eventi di notevole significato
storico. Il primo è che gran parte del mondo germanico si distacca da Roma; sorge
una nuova, “illuminata” forma di cristianesimo, cosicché l’
“Occidente” è attraversato da una linea di separazione, la quale segna
chiaramente anche un limes culturale, un confine tra due diverse modalità di pensare e
di rapportarsi. Ma anche all’interno del mondo protestante c’è una frattura,
in primo luogo tra luterani e riformati, ai quali si associano metodisti e presbiteriani,
mentre la Chiesa anglicana tenta di formare una via di mezzo tra cattolici ed evangelici; a
ciò si aggiunge poi anche la differenza tra cristianesimo sotto la forma di una Chiesa
di Stato, che diventa contrassegno dell’Europa, e chiese libere, che, come vedremo,
trovano il loro spazio in Nordamerica. Il secondo evento, che contraddistingue la nuova Europa
rispetto all’Europa latina, è la scoperta dell’America.
All’allargamento verso est dell’Europa, in virtù della progressiva
estensione della Russia verso l’Asia, corrisponde la radicale espansione
dell’Europa fuori dai suoi confini geografici, verso il mondo che sta al di là
dell’oceano e che riceve il nome di America; la suddivisione dell’Europa in una
metà latino-cattolica e una metà germanico-protestante si ripercuote su questa
parte del mondo occupata dall’Europa. L’America si configura da principio
come un’Europa allargata, una colonia, ma poi, sulla scia del sommovimento
dell’Europa ad opera della Rivoluzione francese, si dota del carattere di
soggetto: dal XIX secolo in poi, sebbene intimamente forgiata dalla sua nascita europea,
l’America si pone di fronte all’Europa come un soggetto indipendente.
Consideriamo ora la terza svolta, quella operata dalla Rivoluzione Francese. E’
vero che il Sacrum Imperium nel tardo Medioevo era già in declino e si era indebolito
anche come valida e indiscussa interpretazione della storia, ma soltanto adesso questa
cornice spirituale va in frantumi anche formalmente, una cornice spirituale senza cui
l’Europa non avrebbe potuto formarsi. E’ un processo di portata considerevole,
sia dal punto di vista politico, sia da quello ideale. Dal punto di vista ideale significa che
la fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene rigettata: la storia
non si misura più in base a un’idea di Dio ad essa precedente e che le dà
forma; lo Stato viene oramai inteso in termini puramente secolari, fondato sulla
razionalità e sul volere dei cittadini. Per la prima volta in assoluto nella storia
sorge lo Stato secolare, che abbandona e mette da parte la garanzia e la legittimazione
divina dall’elemento politico, considerandole come una visione mitologica del mondo, e
dichiara Dio come questione privata, che non fa parte della vita pubblica e della formazione
democratica della volontà pubblica. La vita pubblica viene ora vista solamente come il
terreno della ragione, per la quale Dio non appare chiaramente conoscibile: religione e fede in
Dio appartengono all’ambito del sentimento, non a quello della ragione. Dio e la sua
volontà cessano di essere rilevanti nella vita pubblica. In questa maniera sorge, con la
fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, un nuovo scisma, la cui gravità
noi percepiamo ora sempre più nettamente. Questo scisma non ha un nome in lingua
tedesca, poiché in Germania è avvenuto lentamente. Nelle lingue latine invece si
definisce come divisione tra cristiani e laici.
La dissoluzione dell’antica idea di impero si realizza nella formazione degli
Stati-nazione, definiti in virtù di ambiti linguistici distinti, che risultano i veri e
unici portatori della storia, detentori di un potere senza precedenti.
Infine dobbiamo qui considerare un ulteriore processo con cui la storia degli ultimi
secoli trapassa in un mondo nuovo. La vecchia Europa premoderna, nelle sue due metà,
aveva conosciuto essenzialmente solo un dirimpettaio, con il quale doveva confrontarsi per la
vita e per la morte, ossia il mondo islamico; il passo successivo aveva portato
l’allargamento verso l’America e in parti dell’Asia prive di grandi soggetti
culturali. Ora invece si avanza verso i due continenti sinora toccati solo marginalmente,
l’Africa e l’Asia, che pure si era tentato di trasformare in succursali
dell’Europa, in colonie. La colonizzazione è in parte riuscita, in quanto adesso
anche Asia e Africa inseguono l’ideale del mondo forgiato dalla tecnica e del benessere,
e anche là le antiche tradizioni religiose entrano in crisi e strati di pensiero
secolare dominano sempre più la vita pubblica.
L’ottimismo riguardo alla cultura europea, che Arnold Toynbee poteva esprimere
all’inizio degli anni Sessanta, appare oggi stranamente inadeguato: “Di ventotto
culture che noi abbiamo identificato ... diciotto sono morte e nove delle dieci rimaste –
cioè tutte tranne la nostra – si presentano già colpite a morte”.
Chi ripeterebbe oggi ancora le stesse parole? E, soprattutto, qual è la nostra
cultura, che cosa ne è rimasto?
Io vedo qui una sincronia paradossale: con la vittoria del mondo tecnico-secolare posteuropeo,
con l’universalizzazione del suo modello di vita e della sua maniera di pensare, si
diffonde, specialmente nei paesi strettamente non europei dell’Asia e dell’Africa,
l’impressione che il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua
fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi
già uscito di scena; che sia giunta l’ora dei sistemi di valori di altri mondi,
dell’America precolombiana, dell’islam, della mistica asiatica.
L’Europa, proprio nell’ora del suo massimo successo, sembra svuotata
dall’interno, come paralizzata da una crisi circolatoria, una crisi che mette a
rischio la sua vita affidandola a trapianti che ne cancellano l’identità. Al
cedimento delle forze spirituali portanti si aggiunge un crescente declino etnico.
C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro,
vengono visti come una minaccia per il presente. Ci portano via qualcosa della nostra vita,
così si pensa. Non vengono sentiti come una speranza, bensì come una
limitazione. Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava
ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli che
dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia vitale.
Ci eravamo fermati alla Rivoluzione Francese e al XIX secolo. Da allora si sono sviluppati
due nuovi modelli europei. Nelle nazioni latine ha prevalso il modello laico. Lo
Stato è nettamente distinto dagli organismi religiosi, che attengono all’ambito
privato. Lo Stato rifiuta un fondamento religioso e si dichiara bastato sulla ragione e sulle
sue intuizioni.
Nel mondo germanico, ha prevalso il modello di Chiesa e Stato del protestantesimo liberale.
Una religione cristiana illuminata, essenzialmente concepita come morale – anche con
forme di culto sostenute dallo Stato -, garantisce un consenso morale e un fondamento religioso
ampio, al quale le singole religioni non di Stato devono adeguarsi. Questo modello in Gran
Bretagna, negli stati scandinavi e in un primo tempo anche nella Germania dominata dai
prussiani ha garantito per lungo tempo una coesione statuale e sociale.
Tra i due modelli si colloca il modello degli Stati Uniti d’America, che da una
parte – sulla base delle chiese libere – adotta un rigido dogma di separazione,
dall’altra parte, al di là delle singole confessioni, è attraversato da un
consenso di fondo cristiano-protestante non definito in termini confessionali, bensì
legato a una particolare coscienza della missione religiosa nei confronti del resto del
mondo.
Per complicare ulteriormente il quadro si deve ammettere che oggi la Chiesa cattolica
rappresenta la più grande comunità religiosa negli Stati Uniti, che
però i cattolici americani riguardo al rapporto tra Chiesa e politica hanno recepito le
tradizioni delle chiese libere, nel senso che una Chiesa distinta dallo Stato garantisce meglio
le fondamenta morali del tutto, cosicché la promozione dell’ideale democratico
appare come un dovere morale profondamente conforme alla fede.
Ai due modelli di cui parlavo... se ne è aggiunto nel XIX secolo un terzo, ossia il
socialismo, che si biforcò presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella
democratica. Il socialismo democratico è riuscito a inserirsi all’interno dei
due modelli esistenti come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali
radicali, le ha arricchite e corrette. Esso riuscì anche ad andare al di là delle
confessioni: in Inghilterra era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro
né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella
Germania guglielmina il nucleo cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo
democratico che alle forze conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il
socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso ha
considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale. Il modello
totalitario, invece, era legato a una filosofia della storia rigidamente materialistica e
ateistica: la storia è deterministicamente intesa come un processo di progresso che
passa attraverso la fase religiosa e quella liberale per giungere alla società assoluta
e definitiva, in cui la religione come relitto del passato viene superata e il funzionamento
delle condizioni materiali può garantire la felicità di tutti.
L’apparente scientificità nasconde un dogmatismo intollerante: lo spirito
è prodotto della materia: la morale è prodotto delle circostanze e deve venire
definita e praticata a seconda degli scopi della società; tutto ciò che serve a
favorire l’avvento dello stato finale felice è morale. Qui il sovvertimento dei
valori che avevano costruito l’Europa è completo. Di più, qui si apre
una frattura con tutta la tradizione morale dell’umanità: non ci sono più
valori indipendenti dagli scopi del progresso; all’occorrenza tutto diventa lecito e
persino necessario, tutto diventa morale nel senso nuovo del termine. Anche l’uomo
può diventare uno strumento; non conta il singolo, conta solo il futuro che diventa la
terribile divinità che delibera sopra tutti e sopra tutto.
I sistemi comunisti sono naufragati per il loro fallace dogmatismo economico. Ma si
trascura troppo volentieri la parte avuta dal disprezzo dei diritti umani, dalla subordinazione
della morale alle esigenze del sistema e alle promesse di futuro. La più grande
catastrofe che hanno incontrato non è di natura economica; essa consiste
nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza morale. Il problema
essenziale della nostra ora per l’Europa e per il mondo è che, se da un lato si
riconosce la fallacia dell’economia comunista, tanto che gli ex comunisti sono diventati
senza esitazione liberali in economia, dall’altro la questione morale e religiosa, di cui
propriamente si trattava, viene quasi completamente rimossa. Così il nodo irrisolto dl
marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle originarie certezze
dell’uomo su Dio, su se stessi e sull’universo.
(da Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004).
Le basi dell’Europa; quell’Europa che un tempo, possiamo dire,
è stata il Continente cristiano, ma che è stata anche il punto di partenza di
quella nuova razionalità scientifica che ci ha regalato grandi possibilità e
altrettante grandi minacce. Il cristianesimo non è certo partito dall’Europa, e
dunque non può essere neanche classificato come una religione europea, la religione
dell’ambito culturale europeo. Ma proprio in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale
e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo speciale
all’Europa. D’altra parte è anche vero che quest’Europa, sin dai tempi
del rinascimento, e in forma compiuta dai tempi dell’illuminismo, ha sviluppato proprio
quella razionalità scientifica che non solo nell’epoca delle scoperte portò
all’unità geografica del mondo, all’incontro dei continenti e delle culture,
ma che adesso, molto più profondamente, grazie alla cultura tecnica resa possibile dalla
scienza, impronta di sé veramente tutto il mondo, anzi, in un certo senso lo
uniforma. E sulla scia di questa forma di razionalità, l’Europa ha
sviluppato una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità,
esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che la Sua esistenza
venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte
soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica. Questa
razionalità puramente funzionale, per così dire, ha comportato uno sconvolgimento
della coscienza morale altrettanto nuovo per le culture finora esistite, poiché sostiene
che razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti.
Siccome la morale appartiene ad una sfera del tutto diversa, essa, come categoria a sé,
sparisce e deve essere rintracciata in altro modo, in quanto bisogna ammettere che comunque la
morale, in qualche modo, ci vuole. In un mondo basato sul calcolo, è il calcolo delle
conseguenze che determina cosa bisogna considerare morale oppure no. E così la categoria
di bene, come era stata evidenziata chiaramente da Kant, sparisce. Niente in sé
è bene o male, tutto dipende dalle conseguenze che un’azione lascia prevedere.
Se il cristianesimo, da una parte, ha trovato la sua forma più efficace in Europa,
bisogna d’altra parte anche dire che in Europa si è sviluppata una cultura che
costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma
delle tradizioni religiose e morali dell’umanità. Da qui si capisce che
l’Europa sta sperimentando una vera e propria “prova di trazione”; da qui si
capisce anche la radicalità delle tensioni alle quali il nostro Continente deve far
fronte. Ma qui emerge anche e soprattutto la responsabilità che noi europei dobbiamo
assumerci in questo momento storico: nel dibattito intorno alla definizione
dell’Europa, intorno alla sua nuova forma politica, non si gioca una qualche nostalgica
battaglia di “retroguardia” della storia, ma piuttosto una grande
responsabilità per l’umanità di oggi.
Diamo uno sguardo accurato a questa contrapposizione tra le due culture che hanno
contrassegnato l’Europa. Nel dibattito sul preambolo della Costituzione europea,
tale contrapposizione si è evidenziata in due punti controversi: la questione del
riferimento a Dio nella Costituzione e quella della menzione delle radici cristiane
dell’Europa. Visto che nell’articolo 52 della Costituzione sono garantiti i
diritti istituzionali delle Chiese, possiamo stare tranquilli, si dice. Ma ciò significa
che esse, nella vita dell’Europa, trovano posto nell’ambito del compromesso
politico, mentre, nell’ambito delle basi dell’Europa, l’impronta del loro
contenuto non trova alcuno spazio. Le ragioni che si danno nel dibattito pubblico per questo
netto “no” sono superficiali, ed è evidente che più che indicare la
vera motivazione, la coprono. L’affermazione che la menzione delle radici cristiane
dell’Europa ferisce i sentimenti dei molti non-cristiani che ci sono in Europa, è
poco convincente, visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può
seriamente negare. Naturalmente questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente,
dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di orientamento
morale, e cioè un fattore d’identità di questa formazione che è
l’Europa. Chi verrebbe offeso? L’identità di chi viene minacciata? I
musulmani, che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono
minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura secolarizzata che
nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non vengono offesi dal riferimento
alle radici cristiane dell’Europa, in quanto queste radici risalgono fino al monte Sinai:
portano l’impronta della voce che si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei
grandi orientamenti fondamentali che il decalogo ha donato all’umanità. Lo
stesso vale per il riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli
appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità
umana assolutamente senza Dio.
Le motivazioni per questo duplice”no” sono più profonde di quel che lasciano
pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura
illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe
essere costitutiva per l’identità europea. Accanto ad essa possono dunque
coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e
nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordino ad essa.
Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà;
essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto.
E’ evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt’altro che
definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e
non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la concezione mal definita o non
definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente
comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che
sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non
riuscivamo neanche ad immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce ad un
dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà.
Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò
antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può avere in esse alcun
posto.
Ma soprattutto bisogna dire che questa filosofia illuminista e la sua rispettiva cultura sono
incomplete. Essa taglia coscientemente le proprie radici storiche privandosi delle forze
sorgive dalle quali essa stessa è scaturita, quella memoria fondamentale
dell’umanità, per così dire, senza la quale la ragione perde
l’orientamento. Infatti adesso vale il principio che la capacità
dell’uomo sia la misura del suo agire. Ciò che si sa fare, si può anche
fare. Un saper fare separato dal poter fare non esiste più, perché sarebbe contro
la libertà, che è il valore supremo in assoluto. Ma l’uomo sa fare
tanto, e sa fare sempre di più; e se questo saper fare non trova la sua misura in una
norma morale, diventa, come possiamo già vedere, potere di distruzione. L’uomo sa
clonare uomini, e perciò lo fa. L’uomo sa usare uomini come
“magazzino” di organi per altri uomini, e perciò lo fa; lo fa perché
sembrerebbe essere questa una esigenza della sua libertà. L’uomo sa costruire
bombe atomiche, e perciò le fa, essendo, in linea di principio, anche disposto ad
usarle. Anche il terrorismo, alla fine, si basa su questa modalità di
“auto-autorizzazione” dell’uomo, e non sugli insegnamenti del Corano. Il
radicale distacco della filosofia illuminista dalle sue radici diventa, in ultima analisi, un
fare a meno dell’uomo. L’uomo, in fondo, non ha alcuna libertà, ci dicono
i portavoce delle scienze naturali, in totale contraddizione col punto di partenza di tutta la
questione. Egli non deve credere di essere qualcos’altro rispetto a tutti gli altri
esseri viventi, e perciò dovrebbe anche essere trattato come loro, ci dicono persino
i portavoce più avanzati di una filosofia nettamente separata dalle radici della memoria
storica dell’umanità.
Affermando questo non si nega tutto ciò che questa filosofia dice di positivo e
importante, ma si afferma piuttosto il suo bisogno di compiutezza, la sua profonda
incompiutezza. E così ci troviamo di nuovo a parlare dei due punti controversi del
preambolo della Costituzione europea. L’accantonamento delle radici cristiane non si
rivela espressione di una superiore tolleranza che rispetta tutte le culture allo sesso modo,
non volendo privilegiarne alcuna, bensì come l’assolutizzazione di un pensare e
di un vivere che si contrappongono radicalmente, fra l’altro, alle altre culture storiche
dell’umanità. La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non
è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione
dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose
dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per
lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che,
alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre - ma sarà per lo scontro
tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche. Così,
anche il rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una tolleranza che vuole
proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma
piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla
vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue
culture del passato. Il relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo,
diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della
ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio
dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente
relativizzato. In realtà ciò significa che abbiamo bisogno di radici per
sopravvivere e che non dobbiamo perdere Dio di vista, se vogliamo che la dignità umana
non sparisca.
Questo è un semplice rifiuto dell’illuminismo e della modernità?
Assolutamente no. Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione
del Logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in
primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la
strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso
l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei
perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha
negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento
statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli
uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone
in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la
stessa dignità. In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana
ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana.
Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione
di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità – anche
della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era
stata troppo addomesticata. E’ stato ed è merito dell’illuminismo aver
riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria
voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha
nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo,
cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il
grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti.
Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del Logos. Essa
è fede nel Creator Spiritus, nello Spirito creatore, dal
quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in
quanto il problema è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia
dunque altro che un “sottoprodotto”, magari pure dannoso, del suo sviluppo, o se il
mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede
cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente
filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere
considerata oggi da tanti la sola “razionale” moderna. Ma una ragione scaturita
dall’irrazionale e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce
una soluzione ai nostri problemi. Soltanto la ragione creatrice, e che nel Dio crocifisso si
è manifestata come amore, può veramente mostrarci la via.
Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le
norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non
daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle
confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i
valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro
un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle
varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e,
più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò
possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte
resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così.
Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce
a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e
indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci
fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti;
è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così
nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e
un criterio di cui hanno urgentemente bisogno
(da L’Europa di Benedetto di Joseph Ratzinger, LEV-Cantagalli, Roma-Siena,
2005).
Potrà risultare opportuno ascoltare una storiella ebraica, riportataci da Martin Buber,
nella quale il dilemma dell’esistenza umana affiora in tutta la sua evidenza. “Un
esploratore, uomo assai erudito che aveva sentito parlare dell’uomo di Berditchev,
andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento
di far ancora una volta scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la
verità della sua fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e
indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò
alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e
sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. Il dotto
esploratore chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia,
tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire. Il rabbino
Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti
parole: “Figlio mio, i grandi della Thora con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato
inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono
stati in grado di porgerti Dio e il suo Regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma
pensaci, figlio mio, perché forse è vero”.
L’esploratore fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel
tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva
spezzato ogni sua velleità di opposizione”.
(da Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia,
1979)
Vorrei indicare gli elementi morali fondanti che non dovrebbero a mio avviso
mancare.
Un primo elemento è l’ “incondizionatezza” con cui la
dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono
qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal
legislatore, né conferiti ai cittadini, “ma piuttosto esistono per diritto
proprio, sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati
come valori di ordine superiore” (G.Hirsch, Ein Bekenntnis zu den Grundewerten, in
“Frankfurter Allgemeine Zeitung” 12 ottobre 2000).
Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni
decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Dio può stabilire
valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono intangibili. Che ci siano
valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra
libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del
Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all’uomo.
Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della dignità umana e
dei diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione politica; sono ancora troppo recenti
gli orrori del nazismo e della sua teoria razzista. Ma nell’ambito concreto del
cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce molto reali per questi valori: sia che
noi pensiamo alla donazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di
ricerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto l’ambito
della manipolazione genetica — la lenta consunzione della dignità umana
che qui ci minaccia non può venir misconosciuta da nessuno. A ciò si
aggiungono in maniera crescente i traffici di persone umane, le nuove forme di
schiavitù, i traffici di organi umani a scopo di trapianti. Sempre vengono
addotte finalità buone, per giustificare quello che non è
giustificabile.
Un secondo punto in cui appare l’identità europea è il
matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale della
relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della
comunità statale, è stato modellato a partire dalla fede biblica. Esso
ha dato all’Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto
particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di
fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venire conquistata, con
molte fatiche e sofferenze. L’Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula
fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata. Tutti
sappiamo quanto il matrimonio e la famiglia siano minacciati – da una parte mediante lo
svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme sempre più facili di
divorzio, dall’altra attraverso un nuovo comportamento che si va diffondendo sempre di
più, la convivenza di uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso
contrasto con tutto ciò vi è la richiesta di comunione di vita di omosessuali,
che ora paradossalmente richiedono una forma giuridica, la quale più o meno deve venir
equiparata al matrimonio. Con questa tendenza si esce fuori dal complesso della storia morale
dell’umanità, che nonostante ogni diversità di forme giuridiche del
matrimonio sapeva tuttavia sempre che detto matrimonio, secondo la sua essenza, è la
particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e così alla famiglia.
Il mio ultimo punto è la questione religiosa. Non vorrei entrare qui nelle
complesse discussioni degli ultimi anni, ma mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per
tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è
sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa
che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a credere in
Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una società va perduto qualcosa di
essenziale. Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi disonora la fede
di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Viene multato anche chiunque offende
il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e
di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione
appare come il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere
la tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione trova
però il suo limite in questo, che essa non può distruggere l’onore e la
dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o di distruggere i
diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si
può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se
stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e
distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è
grande e puro.
L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione
di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene
continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e
rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la
multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è
sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro,
ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi.
(da Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani di Joseph Ratzinger, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2004)
L’opera di unificazione europea era determinata
essenzialmente da due motivazioni. Di fronte ai nazionalismi che dividevano e di fronte
alle ideologie egemoniche, che avevano radicalizzato la contrapposizione nella seconda guerra
mondiale, la comune eredità culturale, morale e religiosa dell’Europa doveva
plasmare la coscienza delle sue nazioni e dischiudere come identità comune di tutti i
suoi popoli la via della pace, una via comune verso il futuro. Si cercava una
identità europea, che non doveva dissolvere o negare le identità nazionali, ma
unirle ad un livello di unità più alto in una unica comunità di popoli. La
storia comune doveva essere valorizzata come forza creatrice di pace. Non vi è alcun
dubbio che presso i padri fondatori dell’unificazione europea l’eredità
cristiana era considerata come il nucleo di questa identità storica, naturalmente non
nelle forme confessionali; ciò che è comune a tutti i cristiani sembrava comunque
riconoscibile al di là dei confini confessionali come forza unificante dell’agire
nel mondo. Non sembrava neppure incompatibile con i grandi ideali morali
dell’illuminismo, che avevano per così dire messo in risalto la dimensione
razionale della realtà cristiana e al di là di tutte le contrapposizioni storiche
sembrava senz’altro compatibile con gli ideali fondamentali della storia cristiana
dell’Europa. Nei singoli particolari questa intuizione generale non è mai
stata ben chiarita del tutto con evidenza; in questo senso sono rimasti qui dei problemi, che
esigono di essere approfonditi. Nel momento degli inizi tuttavia la convinzione della
compatibilità fra le grandi componenti dell’eredità europea era più
forte dei problemi, che esistevano al riguardo.
A questa dimensione storica e morale, che stava all’inizio dell’unificazione
europea, si univa però anche una seconda motivazione. Il dominio europeo sul
mondo, che si era espresso soprattutto nel sistema coloniale e nelle conseguenti connessioni
economiche e politiche, con la conclusione della seconda guerra mondiale era finito per sempre.
In questo senso l’Europa come insieme aveva perduto la guerra. Gli Stati Uniti
d’America campeggiavano ora sulla scena della storia mondiale come potenza dominatrice,
ma anche il Giappone sconfitto divenne una potenza economica di alto livello, e finalmente
l’Unione Sovietica rappresentava con i suoi stati satelliti un impero, sul quale
soprattutto gli stati del terzo mondo cercavano di appoggiarsi in contrapposizione
all’America ed all’Europa occidentale. In questa nuova situazione i singoli
stati europei non potevano più presentarsi come interlocutori di pari livello.
L’unificazione dei loro interessi in una struttura europea comune era necessaria, se
l’Europa voleva continuare ad avere un peso nella politica mondiale. Gli interessi
nazionali dovevano unirsi insieme in un comune interesse europeo. Accanto alla ricerca di
un’identità comune derivante dalla storia e creatrice di pace, si poneva
l’autoaffermazione di interessi comuni, vi era quindi la volontà di divenire una
potenza economica, ciò che rappresenta il presupposto della potenza politica. Nel corso
dello sviluppo degli ultimi cinquant’anni questo secondo aspetto
dell’unificazione europea è divenuto sempre più dominante, anzi, quasi
esclusivamente determinante. La moneta comune europea è l’espressione
più chiara di questo orientamento dell’opera di unificazione europea:
l’Europa si presenta come un’unità economica e monetaria, che come tale
partecipa alla formazione della storia e reclama un suo proprio spazio.
Karl Marx ha proposto la tesi secondo cui le religioni e le filosofie sarebbero solo
sovrastrutture ideologiche di rapporti economici. Ciò non corrisponde totalmente alla
verità, si dovrebbe piuttosto parlare di un’influenza reciproca: atteggiamenti
spirituali determinano comportamenti economici, situazioni economiche influenzano poi a loro
volta retroattivamente modi di vedere religiosi e morali. Nell’edificazione della potenza
economica Europa – dopo gli inizi di orientamento più etico e religioso –
era determinante in modo sempre più esclusivo l’interesse economico.
Le grandi conferenze internazionali come quelle del Cairo e di Pechino sono espressione
di una tale ricerca di criteri comuni dell’agire, sono qualcosa di più che una
manifestazione di problemi. Le si potrebbe definire come una sorta di concili della cultura
mondiale, nel corso delle quali dovrebbero venire formulate certezze comuni ed essere elevate a
norme per l’esistenza dell’umanità. La politica della negazione o della
concessione di aiuti economici è una forma di imposizione di tali norme, al riguardo
delle quali ci si preoccupa soprattutto del controllo della crescita della popolazione mondiale
e dell’obbligatorietà universale dei mezzi previsti per questo scopo. Le
antiche norme etiche della relazione fra i sessi, come vigevano in Africa nella forma delle
tradizioni tribali, nelle grandi culture asiatiche come derivate dalle regole dell’ordine
cosmico e nelle religioni monoteistiche a partire dal criterio dei dieci comandamenti, vengono
dissolte attraverso un sistema di norme, che da una parte si fonda sulla piena libertà
sessuale, dall’altra però ha come contenuto fondamentale il numerus clausus
della popolazione mondiale e i mezzi tecnici predisposti allo scopo. Una tendenza analoga
si riscontra nelle grandi conferenze sul clima. In entrambi i casi l’elemento che spinge
a ricercare norme è il timore di fronte al carattere limitato delle riserve
dell’universo. In entrambi i casi si tratta da una parte di difendere la
libertà del rapporto umano con la realtà, ma dall’altra di arginare le
conseguenze di una libertà illimitata. Il terzo tipo di grandi conferenze
internazionali, l’incontro delle potenze economiche dominanti per la regolazione
dell’economia divenuta globale è diventato il campo di battaglia ideologico
dell’era postcomunista. Mentre da una parte tecnica ed economia sono intese come
veicolo della libertà radicale degli uomini, la loro onnipresenza con le norme ad essa
inerenti viene ora avvertita come dittatura globale e combattuta con una furia anarchica, nella
quale la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della
libertà umana.
Nell’illuminismo la concezione biblica di Dio era stata mutata in una duplice direzione
sotto l’influsso della ragione autonoma: il Dio creatore e sostentatore, che
continuamente sostiene e guida il mondo, era divenuto colui che semplicemente aveva dato inizio
all’universo. Il concetto di rivelazione era stato abbandonato. La formula di Spinosa
Deus sive natura potrebbe essere considerata per molti aspetti come caratteristica della
visione dell’illuminismo. Ciò significa nondimeno pur sempre che si credeva ad una
specie di natura divinamente plasmata ed alla capacità dell’uomo di comprendere
questa natura ed anche di valutarla come istanza razionale. Il marxismo aveva invece
introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto
dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve
solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà. Questa visione
– unita alla filosofia della storia di Hegel, al dogma liberale del progresso ed alla sua
interpretazione socio-economica – condusse all’attesa della società senza
classi, che doveva apparire nel progresso storico come prodotto finale della lotta delle classi
e così divenne l’idea morale normativa ultimamente unica: è buono
ciò che serve all’avvento di questa condizione di felicità; è
cattivo ciò che vi si oppone. Oggi ci troviamo in un secondo illuminismo, che non solo
ha lasciato dietro di sé il Deus sive natura, ma ha anche smascherato come
irrazionale l’ideologia marxista della speranza ed al suo posto ha postulato una meta
razionale del futuro, che porta il titolo di nuovo ordine mondiale ed ora deve divenire a sua
volta la norma etica essenziale. Resta in comune con il marxismo l’idea
evoluzionistica di un mondo nato da un caso irrazionale e dalle sue regole interne, che
pertanto – diversamente da quanto prevedeva l’antica idea di natura – non
può contenere in sé nessuna indicazione etica. Il tentativo di far derivare dalle
regole del gioco dell’evoluzione anche regole del gioco per l’esistenza umana,
quindi una specie di nuova etica, è in verità assai diffuso, ma poco convincente.
Crescono le voci di filosofi come Singer, Rorty, Sloterdijk, che ci dicono che l’uomo
avrebbe ora il diritto e il dovere di costruire un mondo nuovo su base razionale. Il nuovo
ordine mondiale, della cui necessità non si potrebbe dubitare, dovrebbe essere un ordine
mondiale della razionalità. Fin qui tutti sono d’accordo. Ma cosa è
razionale? Il criterio di razionalità viene assunto esclusivamente dalle esperienze
della produzione tecnica su basi scientifiche. La razionalità è nella
direzione della funzionalità, dell’efficacia, dell’accrescimento della
qualità della vita. Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diviene
sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno divenendo drammatici.
Con molta maggiore disinvoltura avanza frattanto la manipolazione dell’uomo su se stesso.
Le visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve
più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come
prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere
all’uomo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione. La sofferenza deve
scomparire, la vita essere solo piacevole. Tali visioni radicali sono ancora isolate, per lo
più in molte maniere attenuate, ma il principio di comportamento, secondo cui è
lecito all’uomo fare tutto ciò che è in grado di fare, si afferma sempre
più. La possibilità come tale diviene un criterio per sé sufficiente.
In un mondo pensato in modo evoluzionistico è anche di per sé evidente,
che non possono esistere valori assoluti, ciò che è sempre cattivo e ciò
che è sempre buono, ma la ponderazione dei beni rappresenta l’unica via per il
discernimento di norme morali. Ciò però significa che scopi più elevati,
presunti risultati ad esempio per la guarigioni di malattie, giustificano anche lo sfruttamento
dell’uomo, se solo il bene sperato appare abbastanza grande.
Ma così nascono nuove oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del
destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che
amministrano i mezzi. Non restare indietro nella ricerca diviene un obbligo cui non ci si
può sottrarre, che decide esso stesso la sua direzione. Quale consiglio si può
dare all’Europa ed al mondo in questa situazione? Come specificamente europea in questa
situazione appare oggi proprio la separazione da ogni tradizione etica e il puntare solo sulla
razionalità tecnica e le sue possibilità. Ma un ordine mondiale con questi
fondamenti non diverrà in realtà un’utopia dell’orrore? Non ha forse
bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo proprio di elementi correttivi a partire
dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità?
L’intangibilità della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro
fondamentale degli ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato. Solo se l’uomo si
riconosce come scopo finale e solo se l’uomo è sacro ed intangibile per
l’uomo, possiamo avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace.
Non esiste nessuna ponderazione di beni, che giustifichi di trattare l’uomo come
materiale di esperimento per fini più alti. Solo se noi vediamo qui un assoluto, che si
colloca al di sopra di tutte le ponderazioni di beni, noi agiamo in modo veramente etico e non
per mezzo di calcoli.
Anche l’essere umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano.
Vorrei aggiungere che a questo deve essere unito anche il rispetto per l’origine
dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere umano non può
divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo essere generato. E
perciò la protezione della particolare dignità della comunione fra uomo e donna,
sulla quale si fonda il futuro dell’umanità, deve essere annoverata fra le
costanti etiche di ogni società umana. Ma tutto questo è possibile solo se
acquisiamo anche un senso nuovo per la dignità della sofferenza. Imparare a vivere
significa anche imparare a soffrire. Perciò è richiesto anche rispetto per il
sacro. La fede nel Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità
dell’uomo. Non può essere imposta a nessuno, ma poiché è un grande
bene per la comunità, può avanzare la pretesa del rispetto da parte dei non
credenti.
Il legame con le due grandi fonti del sapere – la natura e la storia – è
necessario. Ambedue gli ambiti non parlano semplicemente di per sé, ma da entrambi
può derivare un’indicazione di cammino. Lo sfruttamento della natura,che si
ribella ad un utilizzo indiscriminato, ha messo in movimento nuove riflessioni circa le
indicazione di cammino, che derivano dalla natura stessa. Dominio sulla natura nel senso del
racconto biblico della creazione non significa utilizzazione violenta della natura, ma la
comprensione delle sue possibilità interiori ed esige così quella forma accurata
di utilizzazione, nella quale l’uomo si mette al servizio della natura e la natura a
servizio dell’uomo. L’origine stessa dell’uomo è un processo insieme
naturale ed umano: nella relazione fra un uomo e una donna l’elemento naturale e quello
spirituale si uniscono nello specificamente umano, che non si può disprezzare senza
danno. Così anche le esperienze storiche dell’uomo, che si sono riflesse nelle
grandi religioni, sono fonti permanenti di conoscenza, di indicazioni per la ragione, che
interessano anche colui, che non può identificarsi con nessuna di queste tradizioni.
Riflettere prescindendo da esse e vivere senza prenderle in considerazione, sarebbe una
presunzione, che alla fine lascerebbe l’uomo disorientato e vuoto.
(da Europa di Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005)
Vorrei, a tale riguardo, citare un’espressione significativa di Tocqueville: “Il
dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso,
nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un’espressione di John Adams che va nella
stessa direzione: la Costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale
e religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo
accelerato e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di
fondo, lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa,
l’implicito riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e
che oltrepassano le singole confessioni. L’Europa – contrariamente
all’America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso
portavoce di una negazione quasi viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei
valori cristiani.
La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema
di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle
libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato. Il fondamento della
società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali –
a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello
Stato, ma fondarsi su un’unione libera degli individui. In questo senso si può
dire che alla base della società americana c’è una separazione fra Stato
e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di conseguenza, ben
altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del conflitto, dalla
Rivoluzione francese e dai sistemi e che a essa hanno fatto seguito. Lo Stato in America
non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose; è nella
sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e nel loro essere
non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla religione la sua
propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo Stato e dai suoi
ordinamenti, è una separazione concepita positivamente. Questo ha poi comportato un
rapporto particolare tra sfera statale e sfera “privata”, del tutto diverso da
quello che conosciamo in Europa: la sfera “privata” ha un carattere assolutamente
pubblico, ciò che è non statale non è affatto escluso per questo dalla
dimensione pubblica della vita sociale. La maggior parte delle istituzioni culturali non
è statale – prendiamo le università oppure gli enti per la tutela delle
discipline artistiche eccetera; l’intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo
tipo di cultura non statale e la rende possibile, mentre da noi, per esempio, le
università private costituiscono un fenomeno recente e di fatto marginale.
Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea
il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna
comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio
paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre
aggiungere che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione
tra sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione
delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a
partire dall’inizio dell’età moderna – il sistema delle chiese di
Stato è riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa
dello Stato. Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, proprio a causa delle
peculiarità di ciascuno di essi, la ricezione dell’illuminismo è avvenuta
in due modi del tutto differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla
sua emancipazione dalla fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al
suo patrimonio di fede, così che illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti
l’uno all’altro in un conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi
cattolici non avevano conosciuto alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi
più tardi, nel XVIII secolo. Da lì scaturì la nuova
“confessione” dei “laici”. Da allora la separazione tra cattolici e
laici è tipica dei paesi latini, mentre l’area linguistica germanica protestante
non solo non conosce l’uso della parola “laico”, ma trova il termine stesso
del tutto incomprensibile. Essere “laico” indica l’appartenenza –
nel senso più vasto della parola – alla corrente spirituale
dell’illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che
conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l’uno
all’altro.
E così sorge la domanda: come può l’Europa arrivare a una religione
civile cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo
siano di consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società?
E’ chiaro che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna
commissione e nessuna riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos
mondiale. Qualcosa di vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui
che vedo l’importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista
numerico, in gran parte dell’Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza,
anche se il numero dei battezzati è ormai in declino in alcuni paesi, specialmente
nell’Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germani ex comunista i battezzati non
sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono diventate stanche
e mancano di fascino.
Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza
morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la
“perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali
forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere
forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali
comunità, o, piuttosto, che esse si creano da sé quando la loro
capacità di convincere è sufficientemente grande.
Come terza tesi, dire che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in
piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la
Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza difende
ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui trasmissione
è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa grande
comunità, ma attingono nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in
essa ed è in grado di creare sempre nuova vita. Come quarta tesi, infine, direi
che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami
dell’albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli uni agli altri con una nuova
capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca,
d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere
classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci
sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi
possono sempre imparare qualcosa dall’altro. E’ per questo che la
distinzione tra cattolici e laici dev’essere relativizzata. I laici non sono un
blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’
“anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della
fede ecclesiale con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini
che cercano appassionatamente la verità che soffrono per la mancanza di verità
dell’uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della cultura e della
fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare
una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta. Gradi
diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo.
La questione del perché oggi la fede cristiana stenta a raggiungere, con il suo
grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente riguarda il cristiano credente
e anzitutto il pastore della Chiesa. Vedo due cause principali:
Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi
dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che
cos’è che tiene insieme il mondo. E’ la materia che crea la ragione,
è il puro caso che produce il significato, oppure sono l’intelletto, il logos, la
ragione che vengono prima, così che la ragione, la libertà e il bene fanno
già parte dei principi che costruiscono la realtà? Una valida religione
civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come
una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e che rende possibile
che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo sforzo per acquisire
un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso, contro le tendenze di
“decostruzione” che Lei ha esposto nel Suo contributo, sia una grande sfida comune
per cattolici e laici.
Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il relativismo —
quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata — tende
all’intolleranza, trasformandosi in un nuovo dogmatismo. La political
correctness, la cui pressione onnipresente Lei (N.d.R. Marcello Pera) ha evidenziato,
vorrebbe erigere il regno di un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo
apparentemente la innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora
raggiunte; soltanto cosi si dovrebbe ancora pensare e parlare se si vuole essere
all’altezza del presente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle
conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene
elevato a obbligo. Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un
nuovo pseudoilluminismo che minaccia la libertà di pensiero e anche la
libertà di religione. Che in Svezia un predicatore che aveva esposto
l’insegnamento biblico circa la questione dell’omosessualità senza se e
senza ma sia stato condannato a una pena detentiva è soltanto uno dei segni del fatto
che il relativismo comincia a prendere piede come una sorta di nuova “confessione”,
che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di sottoporle tutte al super-dogma del
relativismo.
Qui emerge appieno il dilemma dell’esistenza umana. Se si dovessero equiparare
razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della
“ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove
dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa.
C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di
Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la
fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come
tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli altri.
Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore
della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione
addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana.
Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto. C’è, per
prima cosa, il problema dell’essere «persona fin dal concepimento».
L’Istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base
alle conoscenze della genetica moderna, «dal primo istante si trova fissato il
programma di ciò che sarà questo vivente: un uomo, quest’uomo
individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate». O, in altre
parole: «nello zigote derivante dalla fecondazione si è già
costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano».
È qui che si passa dall’empirico al filosofico. L’Istruzione afferma
che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per constatare
l’esistenza di un’anima spirituale. Il documento formula la connessione tra
livello empirico e filosofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si
può constatare empiricamente che c’è un nuovo individuo:
«individuo» è un termine empirico in quanto si tratta di un organismo
che, pur essendo completamente dipendente da quello della madre, tuttavia è un
organismo nuovo, con un suo proprio programma genetico. Ne consegue la domanda: «Come
può un individuo umano non essere una persona umana?» Da cui risulta la
deduzione etica: «L’essere umano è da rispettare - come una persona -
fin dal primo istante della sua esistenza».
Il Magistero qui non propone una propria teoria filosofica, tanto meno argomenta
teologicamente; pone, al punto d’incontro dei livelli empirico e filosofico
(antropologico), una domanda che — a mio parere — comporta una chiara
conseguenza etica per la ragione. Da cui risulta, d’altra parte, una deduzione per
il legislatore: se le cose stanno così, allora l’autorizzazione
all’uccisione dell’embrione significa che «lo Stato viene a negare
l’uguaglianza di tutti davanti alla legge» (parte III). La questione del diritto
alla vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della
fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il
dibattito. Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci
costringerebbe ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la
Donum vitae, pur rifiutando, sulla base di un’etica che argomenta
antropologicamente, la fecondazione omologa come anche quella eterologa non esige dal
legislatore il divieto della fecondazione omologa extracorporea, ma vorrebbe comunque
vedere esclusa la fecondazione eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si
rinuncerebbe al valore, ancora protetto per legge, del matrimonio; sarebbe cioè un
«no» a un’istituzione fondamentale delle società basate sulla cultura
cristiana. Un tale affronto contro la base della nostra struttura sociale è in fondo
un’auto-contraddizione del legislatore; il fatto che ciò non venga più
percepito dimostra chiaramente quanto sia avanzato il processo di smantellamento
dell’istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia fede, come anche dalla ragione morale,
posso in questo riconoscere un segnale d’allarme molto serio per le nostre
società.
Partono innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri
decisivi per la coscienza in cerca della verità. Ma, d’altra parte, si rendono
anche conto che in politica si tratta di ciò che è realizzabile e di avvicinarli
il più possibile a ciò che la coscienza e la ragione hanno riconosciuto come il
vero bene per l’individuo e per la società. Alla politica appartiene il
compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi, il politico cristiano nella
sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in contraddizione con la sua
coscienza?
Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio
comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito,
concedere il diritto all’obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri
ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la
coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.
(dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger in Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza
radici, Mondadori, Milano, 2004)
L’Europa è, come parola, come concezione geografica e
spirituale, una creazione dei greci. Già il termine come tale è significativo.
Esso si rifà alla comune denominazione semitica della sera (ereb) e rimanda così
al fatidico dialogo dello spirito semitico e di quello occidentale, che appartiene
all’essenza dell’Europa. Geograficamente lo spazio inteso dalla parola si estende a
poco a poco. Dapprima esso abbraccia solo la Tessaglia, la Macedonia e l’Attica. Ma
già Erodoto indica nella ripartizione delle tre parti della terra – Europa, Asia,
Libia – una delle tre grandi zone geografiche e culturali, che si trovano contigue nello
spazio del Mediterraneo.
L’Europa appare quindi costituita anzitutto di spirito greco. Se dimenticasse la sua
eredità greca, non potrebbe essere più Europa. Il mito di “Europa”
rientra sì nella sfera delle religioni croniche e dell’ambito religioso minoico,
ma la formazione dell’Europa si fonda sul superamento della religione ctonica mediante la
forma apollinea. Che cosa significhi la Grecia come eredità vincolante è
difficile dirlo in dettaglio. Io vedrei il punto centrale in ciò che Helmut Kuhn ha
chiamato differenza socratica: la differenza tra il bene e i beni dove si danno insieme
convegno, a un tempo, il diritto della coscienza e la reciproca relazione di ratio e di
religio. Si può formulare l’eredità della Grecia anche da un’altra
angolazione, per noi forse più tangibile. La sua scoperta, valida al di sopra dei tempi
(pur con tutte le distinzioni di quanto oggi si intende con la parola), è la democrazia,
la quale però, come Platone ha spiegato, è legata per sua essenza all’
“eunomia”, alla validità del buon diritto e solo in questo rapporto
può ancora essere democrazia. La democrazia non è quindi mai puro dominio di
maggioranze, e il meccanismo di produzione delle maggioranze deve sottostare al criterio della
comune signoria del “nomos”, di ciò che, interiormente, è giusto,
è cioè subordinato al riconoscimento di valori, che sono una premessa vincolante
anche per la maggioranza.
Lo strato secondo del concetto “Europa” si può percepire nel noto episodio di At 16,6-10. In questo frammento narrativo, altamente misterioso e drammatico, lo Spirito di Gesù vieta a Paolo di continuare la sua evangelizzazione in Asia. Invece gli appare nella notte in visione un uomo macedone che gli grida: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Il testo poi continua: “Dopo che (Paolo) ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”. Tutto ciò si trova narrato solo negli Atti degli Apostoli, tuttavia io ritengo che una base un po’ più estesa si possa trovare anche nel resto del Nuovo Testamento. Quanto qui viene detto a mio avviso, trova un intimo riscontro con una frase del Vangelo di Giovanni che, per di più, è collocata in un punto importante. Poco prima della Passione, dopo l’entrata di Gesù in Gerusalemme, in un momento in cui si parla dell’adempimento della gloria di Gesù, si narra la richiesta di certi greci a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). Il vescovo Graber ha osservato che nel racconto della Pentecoste di Luca (At 2,11), sulla lista dei popoli che rappresentano la terra vengono nominati solo degli asiatici. Ma quasi all’ultimo posto, si parla anche di “stranieri di Roma”. Il punto di partenza del Vangelo si trova dunque in Oriente. Luca sottolinea (come anche Giovanni e tutto il Nuovo Testamento) la radice che è Israele: la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22). Ma Luca vi aggiunge una strada che apre una porta nuova. La strada presentata dall’insieme degli Atti degli Apostoli è la strada che conduce da Gerusalemme a Roma, la via ai pagani, i quali distruggeranno sì Gerusalemme ma poi la riassumeranno in sé in una maniera nuova. Il cristianesimo è, perciò, la sintesi operata in Gesù Cristo, tra la fede d’Israele e lo spirito greco. Wilhelm Kamlah ha esposto tutto ciò in maniera penetrante. Su questa sintesi si fonda l’Europa. Il tentativo del Rinascimento, volto a distillare l’elemento greco, eliminando quello cristiano, per restaurare la pura grecità è insensato e senza prospettive, come lo è il tentativo recente per un cristianesimo disellenizzato. L’Europa in senso stretto nasce, a mio parere, da questa sintesi e vi si basa.
Altro strato che costituisce l’Europa è l’irrinunciabile
apporto dello spirito dell’età moderna.
Come noi sappiamo per esperienza, l’età moderna viene descritta
per così dire in maniera idealpolitica, così come essa voleva
vedersi, ma come essa concretamente non è mai esistita. L’ambivalenza
dell’età moderna si fonda sul fatto che essa, molto presto, non
riconobbe la radice e il fondamento vitale dell’idea di libertà
e si mosse con forza verso un’emancipazione della ragione, la quale è
in interna contraddizione con l’essenza della ragione umana, in quanto
non divina, e doveva quindi diventare, essa stessa, irragionevole. La quintessenza
dell’età moderna appare, in ultima analisi a torto, in quella ragione
perfettamente automatizzata, che riconosce oramai solo se stessa, ma che è
in tal modo diventata cieca e diviene, nella distruzione del suo fondamento,
inumana e ostile alla creazione. Questa specie di autonomia della ragione è
certamente un prodotto dello spirito europeo, ma al tempo stesso è nella
sua essenza post-europea, anzi anti-europea, come intima distruzione di ciò
che è costitutivo non solo per l’Europa, ma presupposto di ogni
società umana. Così noi dobbiamo assumere dall’età
moderna, come dimensione essenziale ed irrinunciabile dell’elemento europeo,
la separazione relativa di stato e chiesa, la libertà di coscienza, i
diritti umani e l’autoresponsabilità della ragione. Ma di fronte
all’esaltazione unilaterale di questi valori deve al tempo stesso essere
tenuto fermo il radicamento della ragione nel rispetto di Dio e dei valori etici
fondamentali, che derivano dalla fede cristiana.
(da Chiesa, ecumenismo e politica di Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline,
Torino, 1987)
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