Testamento (Antico e Nuovo)

da J.Ratzinger, La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo testamento in J.Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pagg.27-48


La parola “Testamento” non è stata imposta dall’esterno alle Scritture, ma è stata tratta da esse: il titolo che i cristiani danno ai due libri non si propone solo di descrivere a posteriori il senso essenziale del libro, ma di mettere in evidenza il filo interiore della stessa Scrittura e di nominare esplicitamente il termine fondamentale che costituisce la chiave per il tutto. Abbiamo dunque in questa parola un certo tentativo di esprimere in maniera sintetica l’ “essenza del cristianesimo” con un termine derivato da una delle sue fonti fondamentali...

Ma la scelta della parola latina Testamentum è stata davvero corretta? Questa traduzione rende in maniera appropriata i vocaboli usati nei testi ebraico e greco o porta in una direzione sbagliata? La problematica della traduzione emerga chiaramente dal contrasto tra la più antica versione latina e quella di san Girolamo. Mentre la prima usa il termine Testamentum, Girolamo ha optato per i termini foedus o pactum. Come titolo del libro si è imposto “Testamento”, ma, quando parliamo di ciò che si intende sul piano del contenuto, seguiamo Girolamo e parliamo di antica e nuova alleanza, tanto nella teologia quanto nella liturgia. Ma che cosa è giusto? Sull’etimologia della parola ebraica berit non vi è unanimità tra gli esperti; il significato inteso dagli autori biblici può essere compreso solo dal contesto contenutistico dei testi. Un’importante indicazione per la comprensione della parola sta nel fatto che i traduttori greci della Bibbia ebraica, in 267 passi sui 287 in cui compare, hanno reso la parola berit con διαθήκη, dunque non con la parola σπονδή o συνθήκη, che in greco sarebbe l’equivalente di “patto” o “alleanza”. Partendo dalla loro visione teologica del testo, essi giunsero chiaramente alla conclusione che nella fattispecie non trattava di una syn-theke – un accordo reciproco – ma di una dia-theke, una disposizione, in cui non sono due volontà a mettersi d’accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento...

Per quanto mi è dato a vedere, oggi la ricerca esegetica è concorde nella convinzione che in tal modo gli autori della Septuaginta hanno correttamente inteso il testo biblico. Ciò che noi chiamiamo “alleanza”, nella Bibbia non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono fra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche: questa idea di relazione i cui partner si pongono sullo stesso piano è incompatibile con l’immagine biblica di Dio. Le Scritture presuppongono piuttosto che l’uomo non sia di per sé in grado di stabilire un rapporto con Dio, né tanto meno di dargli qualcosa e, in cambio, di ricevere da lui o, addirittura, di imporgli degli obblighi in relazione alle azioni dall’uomo stesso compiute. Se si giunge a un rapporto tra Dio e l’uomo, ciò può avvenire solo grazie a una libera scelta di Dio, la cui sovranità resta per questo intatta. Si tratta dunque di una relazione del tutto asimmetrica, dato che nel rapporto con la creatura Egli è e resta il totalmente altro: l’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio. Certamente, con quest’ultima affermazione andiamo già oltre la pura questione filologica. Benché la struttura dell’alleanza abbia come modello i patti statuali ittiti e assiri, in cui il sovrano concedeva dei diritti al vassallo, l’alleanza di Dio con Israele è più di un contratto vassallatico: il re-Dio non riceve nulla dall’uomo, ma gli dà la via della vita nel dono della sua Legge...

Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma?

Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra però realizzare un’inattesa reciprocità...

Muovendo da un punto di partenza del tutto differente e di segno quasi opposto, il pensiero antico era consapevole che la relatio tra Dio e l’uomo poteva essere solamente asimmetrica. Dalla logica del pensiero metafisico nella filosofia greca si deduceva che il Dio immutabile non poteva stabilire delle relazioni mutevoli, che la relazione era caratteristica dell’uomo in quanto essere mutevole. Nel rapporto tra Dio e l’uomo si poteva quindi parlare solo di una relatio non mutua, di un volgersi dell’uno all’altro senza reciprocità: l’uomo si relaziona a Dio, ma non Dio all’uomo. La logica pare inoppugnabile. L’eternità esige l’immutabilità, l’immutabilità esclude relazioni che si collocano nel tempo e si riferiscono...

La contrapposizione più netta tra i due Testamenti si trova in 2Cor 3,4-18 e in Gal 4,21-31. Mentre l’espressione “nuova alleanza” deriva dalle promesse profetiche (Ger 31,31) e lega pertanto tra loro le due parti della Bibbia, l’espressione “antica alleanza” si trova solo in 2Cor 3,14; la lettera agli Ebrei parla invece di “prima alleanza” (9,15) e chiama la nuova alleanza – oltre che con questa definizione classica – anche alleanza “eonica”, cioè “eterna” (13,20) con una terminologia che è ripresa dal canone romano nel racconto dell’istituzione, laddove si parla di “nuova ed eterna alleanza”...

La rigida antitesi tra le due alleanze, l’antica e la nuova, sviluppata da Paolo nel terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi ha da allora segnato profondamente il pensiero cristiano, e in ciò si è prestata scarsa attenzione al sottile rapporto di lettera e Spirito che si annuncia nell’immagine del velo. Soprattutto, però, si è dimenticato che in altri passi paolini il dramma della storia di Dio con gli uomini è presentato in modo molto più articolato. Nell’elogio di Israele fatto da Paolo nel nono capitolo della lettera ai Romani, tra i doni che Dio ha elargito al suo popolo figura anche questo: sue sono le “alleanze”, i patti che Dio ha concluso con lui. Il termine “alleanza” appare qui al plurale, conformemente alla tradizione sapienziale. E in effetti l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione; esse corrispondono ai tre gradi dell’alleanza o alle tre alleanze. L’Antico Testamento conosce l’alleanza con Noè, quella con Abramo, quella con Giacobbe-Israele, quella stabilita sul Sinai, quella di Dio con Davide. Tutte queste alleanze hanno una loro caratteristica specifica, su cui occorrerà ritornare. Paolo sa quindi che la parola alleanza, a partire dalla storia della salvezza prima di Cristo, dev’essere pensata e detta al plurale; delle diverse alleanze ne pone in evidenza due in maniera particolare, mettendole a confronto e riferendole, ciascuna a suo modo, all’alleanza stabilita da Cristo: l’alleanza con Abramo e quella con Mosè. L’alleanza con Abramo la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè è “sopraggiunta in seguito” (Rm 5,20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal 3,17), e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore, rappresentando piuttosto uno stadio intermedio nel piano di Dio...

D’altra parte l’alleanza con i patriarchi è considerata eternamente valida. Mentre l’alleanza come obbligo legale riproduce il patto vassallatico, l’alleanza della promessa ha come modello la donazione regale. In questo senso Paolo, con la sua distinzione tra alleanza abramitica e alleanza mosaica ha interpretato in maniera del tutto corretta il testo della Bibbia. Nello stesso tempo, con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica alleanza...

Un dato incontestato è che i quattro racconti dell’istituzione dell’eucaristia (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26) possono essere suddivisi in due gruppi, in base alla redazione del testo e alla teologia che vi esprime: la tradizione marciano-matteana e quella che troviamo in Paolo e Luca. La differenza principale tra di esse si trova nelle parole sul calice. In Matteo e Marco, a proposito del contenuto del calice, si dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”; Matteo aggiunge inoltre: “in remissione dei peccati”. In Luca e Paolo, invece, il contenuto del calice è così indicato: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”; Luca aggiunge: “che è versato per voi”. “Alleanza” e “sangue” sono grammaticalmente correlati in forma antitetica. In Matteo e Marco il dono del calice è “il sangue”,subito descritto come “sangue dell’alleanza”. In Paolo e Luca il calice è “la nuova alleanza”, di cui si dice che è fondata “nel mio sangue”. Una seconda differenza che possiamo registrare è che solo Luca e Paolo parlano di nuova alleanza. Una terza importante differenza va ricordata: solo Matteo e Marco contengono l’espressione “per molti”. Ambedue le linee si basano su tradizioni dell’Antico Testamento relative all’alleanza, ma scelgono ciascuna un differente approccio. In tal modo nell’insieme dei racconti dell’istituzione dell’eucaristia confluiscono tutte le idee fondamentali sull’alleanza, fondendosi in una nuova unità.

Di quali tradizioni si tratta? Le parole sul calice di Matteo e Marco sono tratte direttamente dal racconto della stipulazione dell’alleanza sul Sinai. Con il sangue del sacrificio Mosè asperge anzitutto l’altare, che rappresenta il Dio nascosto, poi il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole” (Es 24,8). Antichissimi modi di pensare vengono qui accolti ed elevati a un piano superiore.

G. Quell ha così definito l’idea arcaica dell’alleanza, come appare nelle storie dei patriarchi: “[...] stipulare un’alleanza significa tanto entrare a far parte di un clan estraneo, quanto introdurre il partner nel proprio, stabilendo così una relazione giuridica con lui”. La fittizia parentela di sangue così realizzata “fa di coloro che vi partecipano dei fratelli carnali”. “L’alleanza produce una totalità che è pace” – Shalom. Il rito di sangue del Sinai significa che Dio compie con questi uomini, durante il cammino nel deserto, la stessa cosa che fino a quel momento hanno fatto tra loro solo dei gruppi tribali diversi: entra con gli uomini in una misteriosa parentela di sangue, così che ora egli appartiene a loro ed essi a lui. Indubbiamente la parentela qui stabilita, che nasce paradossalmente tra Dio e l’uomo, è caratterizzata, dal punto di vista del contenuto, dalla parola letta, dal libro dell’alleanza. Mediante l’appropriazione di questa parola, la vita da lui e con lui, nasce la parentela rappresentata cultualmente nel rituale del sangue. Quando Gesù, porgendo il calice, dice ai discepoli: “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, le parole del Sinai sono portate a un realismo estremo e, al contempo, ne viene dischiusa una profondità che prima non poteva essere colta. Quel che accade qui è insieme spiritualizzazione e supremo realismo. Infatti la comunione di sangue sacramentale, che ora diviene possibile, lega coloro che la ricevono a quest’uomo Gesù, fatto di carne, e insieme al suo mistero divino, in una comunione concretissima, che arriva fino alla corporeità...

Paolo ha descritto questa nuova “parentela di sangue” con Dio, che sorge mediante la comunione con Cristo, per mezzo di un ardito e crudo paragone: “O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? Infatti è detto: i due saranno una sola carne [Gn 2,24]. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito [pneuma]” (1Cor 6,17). In queste parole si chiarisce certamente anche la natura del tutto differente della parentela: la comunione sacramentale con Cristo e quindi con Dio estrae l’uomo dal mondo materiale e transitorio a lui proprio e lo innalza fin dentro l’essere stesso di Dio, che l’apostolo descrive con il termine “pneuma”. Il Dio che è disceso trae l’uomo in alto, in ciò che gli è proprio e che è nuovo. La parentela con Dio significa per l’uomo un nuovo e profondamente diverso livello esistenziale...

Per la nostra ricerca dell’essenza dell’alleanza è importante questo: la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata. Il rinnovamento dell’alleanza, che pure fin dalle origini è stato un elemento essenziale nella liturgia di Israele, raggiunge qui la sua forma più alta possibile.

Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere, ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. Conseguentemente essa ha sottolineato con forza che non si tratta di “alleanza”, ma di “testamento”, di una pura disposizione di Dio. Le espressioni riferite all’esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenenti l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendere in questo contesto. Che cosa dobbiamo dire in proposito, alla luce di quanto osservato finora? Due dati mi sembrano ormai chiari, che compensano l’unilateralità di queste antitesi e rendono evidente l’unità intrinseca della storia di Dio con gli uomini, così come è rappresentata in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento e dal Nuovo Testamento...

Anzitutto va ricordato che l’alleanza fondamentalmente nuova, quella con Abramo, mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. Paolo ha quindi colto nel segno osservando che l’alleanza con Abramo unisce in sé ambedue gli elementi dell’universalità intenzionale e del libero dono. In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani. Per quanto riguarda l’alleanza sinaitica, bisogna operare ulteriori distinzioni. Essa è strettamente legata al popolo di Israele; dà a questo popolo un ordinamento giuridico e cultuale (i due aspetti sono inseparabili), che come tale non può essere semplicemente esteso a ogni popolo. Dal momento che per Israele questo ordinamento giuridico è costitutivo, il “se” della Legge da rispettare è parte integrante della sua essenza e, di conseguenza, è condizionato, cioè legato al tempo, uno stadio delle disposizioni di Dio che ha una sua durata. Paolo ha messo chiaramente in luce tutto ciò e nessun cristiano può prescindere da tale fatto; la storia stessa conferma questa visione. Ma con ciò non si è detto tutto sull’alleanza mosaica né sull’ “Israele secondo la carne”. Infatti la Legge non è solo un peso che viene imposto, come noi pensiamo dando un’unilaterale accentuazione alle antitesi paoline. Nella prospettiva dei credenti dell’Antico Testamento la Legge stessa è la forma concreta della grazia. Infatti la grazia è conoscere la volontà di Dio. Conoscere la volontà di Dio significa conoscere se stessi, significa comprendere il mondo, significa sapere dove si va. Significa anche che veniamo liberati dall’oscurità delle nostre domande senza fine, che è giunta la luce, senza la quale non possiamo vedere e procedere. “A nessun altro popolo hai manifestato la tua volontà”: per Israele, almeno nei suoi migliori rappresentanti, la Legge è il manifestarsi della verità, il manifestarsi del volto di Dio e, quindi, la possibilità di vivere rettamente...

E’ a partire di qui che dobbiamo comprendere ciò che Paolo intende quando in Gal 6,2 – seguendo la speranza messianica giudaica – parla della Torah del Messia, della Torah di Cristo: anche secondo Paolo il Messia, Cristo, non lascia l’uomo senza legge, senza diritto. Caratteristico del Messia, come nuovo e più grande Mosè, è piuttosto il fatto che egli porta l’interpretazione definitiva della Torah, in cui la stessa Torah viene rinnovata, perché la sua vera essenza ora si svela completamente e il suo carattere di grazia appare indubitabilmente come realtà. Afferma in proposito H.Schlier nel suo commento alla lettera ai Galati: “La Torà del Messia Gesù è in effetti una “interpretazione” della legge mosaica [...] una “interpretazione” mediante la croce del Messia Gesù”. La sua autorità “svela la legge nella sua parola essenziale, come appello originario, suscitatore di vita, di colui che l’ha adempiuta”...

La Torah del Messia è il Messia stesso, è Gesù. A lui si riferisce dunque l’invito: “lui dovete ascoltare”. Così la “Legge” diventa universale, così essa è grazia, così fonda un popolo, che diventa popolo proprio mediante l’ascolto e la conversione. In questa Torah, che è Gesù stesso, ciò che delle tavole di pietra del Sinai è davvero essenziale e permanente appare ora iscritto nella carne vivente: il duplice comandamento dell’amore, che trova espressione nei “sentimenti” che furono in Gesù (Fil 2,5). Imitarlo, seguirlo, è dunque osservare la Torah, che proprio in lui ha trovato la sua pienezza definitiva...

Questa idea dell’unilateralità del testamento corrisponde senza dubbio al concetto della grandezza e della sovranità di Dio; essa è certamente condizionata anche da una struttura sociale. I monarchi dell’antico Oriente agivano solo unilateralmente, da sovrani; nessuno poteva porsi al loro stesso livello. Ma è proprio questo sfondo sociologico dello schema asimmetrico a venire lacerato e rifiutato nella Bibbia; così anche l’immagine di Dio viene delineata in modo nuovo. Dio dispone, ma c’è comunque – praticamente fin dall’inizio – un impegno che Dio stesso si prende, grazie al quale si sviluppa qualcosa di simile a una relazione tra partner. Agostino ha messo molto bene in evidenza questo aspetto, affermando: “[...] è fedele Dio, il quale si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi. Gli parve poco la promessa, ed allora volle obbligarsi anche per iscritto e ci rilasciò, per così dire, il documento autografo di queste sue promesse”...

Prima di tutti questi testi sta la misteriosissima storia della conclusione dell’alleanza con Abramo, in cui il patriarca, secondo il costume orientale, divide a metà gli animali sacrificali. I partner dell’alleanza usano passare in mezzo agli animali divisi, rito che ha valore di giuramento imprecatorio: se rompo l’alleanza, accada a me come a questi animali. In una visione Abramo vede come un forno fumante e una fiaccola ardente – ambedue immagini della teofania – passare tra le carni degli animali divisi. Dio suggella l’alleanza garantendo lui stesso la fedeltà ad essa con un inequivocabile simbolo di morte. Ma Dio può morire? Può punire se stesso? L’esegesi cristiana dovette vedere in questo testo un misterioso e prima di allora indecifrabile segno della croce, in cui Dio, con la morte di suo figlio, si fa garante della indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21). Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce. Proprio dal carattere incondizionato dell’agire di Dio sorge così, nella prospettiva della Bibbia, una vera bilateralità; il testamento diventa alleanza. I padri della Chiesa hanno espresso questa nuova bilateralità, che scaturisce dalla fede in Cristo come Colui che adempie le promesse, con i due concetti di incarnazione di Dio e divinizzazione dell’uomo. Il legame che Dio si autoimpone passa quindi attraverso il dono della Scrittura come parola vincolante della promessa e arriva al punto che Dio si lega, nella sua stessa esistenza, alla creatura umana assumendo la natura di uomo. Ciò significa, viceversa, che il sogno originale dell’uomo si realizza e l’uomo diventa “come Dio”: in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva...

Abbiamo osservato che nella concezione antica l’uomo poteva entrare in rapporto con Dio riconoscendolo e amandolo, ma che, per contro, una relazione del Dio eterno con l’uomo temporale era considerata contraddittoria e, dunque, impossibile. Il monoteismo filosofico del mondo antico aveva aperto la porta alla fede biblica in Dio e al suo monoteismo religioso, che pareva rendere nuovamente possibile l’accordo smarrito tra ragione e religione. I padri, che partivano da questa corrispondenza tra filosofia e rivelazione biblica, dovettero però constatare che dell’identità dell’unico Dio della Bibbia si poteva parlare essenzialmente per mezzo di due predicati: creazione e rivelazione, creazione e redenzione. Ambedue, però, sono concetti relazionali. Il Dio biblico è dunque un Dio-in-relazione e, quindi, nell’essenza della sua identità, si contrappone al Dio chiuso in sé della filosofia...

Una categoria preesistente, quella di relazione, mutò radicalmente il suo significato. Nella tavola aristotelica delle categorie la relazione si colloca nel gruppo degli accidenti, che rinviano alla sostanza e da essa dipendono; in Dio non vi sono dunque accidenti. Attraverso la riflessione cristiana sulla Trinità, la relatio esce dallo schema sostanza-accidente. Dio stesso viene ora descritto come trinitaria realtà relazionale, come relatio subsistens. Se dell’uomo si dice che è immagine di Dio, ciò significa che egli è l’essere costruito come relazione; che egli, attraverso e dentro tutte le sue relazioni, cerca la relazione che è il fondamento del suo esistere. Allora l’alleanza è la risposta all’uomo come immagine e somiglianza di Dio; in essa si chiarisce chi e che cosa noi siamo e chi è Dio: per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”...

Anche se tutta la portata di questo processo non è ancora chiara, tuttavia la fusione delle categorie tradizionali è del tutto evidente in Agostino, De Trin., V,V,6 (PL 42,914): “Quamobrem nihil in eo [=in Deo] per accidens dicitur, quia nihil ei accidit; nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur [...] hoc non secundum substantiam dicuntur, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile”...


 

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