Primitivo (l’uomo primitivo e la sua somiglianza con noi)
da Archivi del Nord di M.Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pagg.9-13)
Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo. L’uomo ancora sparso, furtivo, talora disturbato dalle ultime spinte dei ghiacciai incombenti, e che ha lasciato ben poche tracce in quella terra senza caverne e senza rocce. Il predatore-re, il massacratore di bestie e di alberi, il cacciatore che colloca le sue trappole in cui si strozzano gli uccelli, e i suoi pali in cui s’infilzano gli animali da pelliccia; il braccatore all’agguato delle grandi migrazioni stagionali per procurarsi la carne da seccare per i suoi inverni; l’architetto dei rami e tronchi scorticati, l’uomo-lupo, l’uomo volpe, l’uomo-castoro che riunisce in sé tutte le astuzie animali, colui del quale la tradizione rabbinica dice che la terra rifiutò a Dio una manciata del suo fango per dargli forma, e i racconti arabi narrano che gli animali tremarono alla vista di quel nudo verme.
L’uomo con i suoi poteri che, in qualunque modo li si valuti, costituiscono un’anomalia nell’insieme delle cose, con il suo temibile dono di andare più lontano nel bene e nel male di qualunque altra specie vivente a noi nota, con la sua terribile e sublime facoltà di scelta.
I disegni a fumetti e i manuali popolari di scienza ci mostrano questo Adamo senza gloria sotto l’aspetto di un bruto peloso che brandisce una clava: siamo lontani dalla leggenda giudeo-cristiana secondo la quale l’uomo delle origini vaga in pace nella penombra di un bel giardino e, se possibile, ancora più lontani dall’Adamo di Michelangelo che si sveglia nella sua perfezione al tocco del dito di Dio.
Un bruto certamente, l’uomo della pietra spaccata e della pietra levigata, poiché quel bruto è ancora in noi, ma quel Prometeo selvaggio ha inventato il fuoco, la cottura degli alimenti, il bastone spalmato di resina che illumina la notte. Meglio di noi ha saputo distinguere le piante commestibili da quelle che uccidono, e da quelle che invece di nutrire provocano strani sogni. Ha osservato che il sole d’estate tramonta più a nord, che certi astri girano in tondo attorno allo zenith e si muovono in processione regolare lungo lo zodiaco, mentre altri vanno e vengono, mossi da impulsi capricciosi che si ripetono dopo un certo numero di lunazioni o di stagioni; ha utilizzato queste conoscenze nei suoi viaggi diurni o notturni. Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. Le stesse formule riduttive avrebbero potute essere usate, e lo sono state, nei confronti delle cattedrali considerate come il prodotto di una colossale contrattazione con dio o come una corvè imposta da una pretaglia rapace e tirannica. Ma lasciamo a Homais queste semplificazioni. Nulla vieta di supporre che lo stregone della preistoria, davanti all’immagine di un bisonte trafitto da frecce, abbia provato in certi momenti la stessa angoscia e lo stesso fervore di un cristiano di fronte all’Agnello Sacrificale.
Ed ecco ora, separati da noi da trecento generazioni al massimo, gli ingegnosi, gli esperti, gli adattati del neolitico, presto incalzati dai tecnocrati del rame e del ferro, gli artigiani che compiono con destrezza certi gesti che l’uomo ha fatto e rifatto fino alla generazione che precede la nostra; i costruttori di capanne su palafitte e di muri a secco; gli incavatori di tronchi d’albero destinati a diventare barchette o bare; i produttori all’ingrosso di vasi e di ceste; i villici i cui cortili ospitano i cani, alveari e macine; i guardiani di mandrie che hanno concluso con l‘animale divenuto domestico un patto sempre infranto dalle condanne a morte; coloro per i quali il cavallo e la ruota sono scoperte di ieri sera o di domattina. La fame, la sconfitta, il gusto dell’avventura, gli stessi venti dell’est che soffieranno tra cinquanta secoli al tempo delle invasioni barbariche, li hanno probabilmente spinti fin qui, come i loro predecessori e i loro successori lo sono stati o lo saranno un giorno; una linea sottile fatta dei residui delle varie razze si forma periodicamente lungo quelle coste, come, dopo la tempesta, su quelle stesse dune, la frangia di alghe, conchiglie e frammenti di legno rigettati dal mare. Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano.
Poi, tutto ad un tratto, delle voci che parlano una lingua di cui restano qua e là dei vocaboli isolati, dei suoni, delle radici: bocche che pronunciano press’a poco come noi la parola dune, la parola bran, la parola meule. Schiamazzatori, boriosi, cercatori di fortuna e di liti, tagliatori di teste e soldatacci spacconi: i celti con i loro cappucci di lana, le loro casacche molto simili a quelle dei nostri contadini di ieri, i loro pantaloncini da sportivi e le ampie brache che torneranno di moda tra i sanculotti della rivoluzione. I celti, altrimenti detti galli (gli scrittori antichi usano indifferentemente i due termini), rivendicati a dritta e a manca dallo sciovinismo degli eruditi, fratelli nemici dei germani, e le cui liti in famiglia non sono ancora cessate dopo venticinque secoli. I ragazzoni fastosi e pezzenti, amanti dei bei bracciali, di bei cavalli, di belle donne e bei paggi, che barattavano i loro prigionieri di guerra con giare di vino italiano o greco. La leggenda antica vuole che durante una delle loro prime puntate sulle coste basse del mare del nord, quegli scalmanati abbiano marciato in armi contro le grandi maree che minacciavano il loro accampamento. Quel pugno di uomini che sfida l’avanzata delle onde mi ricorda la nostra eccitazione di bambini assediati nelle nostre fortezze di sabbia invase insidiosamente dall’acqua, su quelle stesse spiagge, sotto quello stesso cielo grigio, decisi a resistere fino all’ultimo, agitando le nostre bandiere da pochi soldi, totem di varie nazionalità, che qualche settimana più tardi sarebbero state nobilitate dall’atroce prestigio della Grande Guerra. I nostri libri di scuola ci ripetevano fino alla noia che quei galli dal grande cuore non temevano nulla se non che il cielo cadesse. Più coraggiosi o più disperati di loro, ci siamo abituati, dopo il 1945, ad aspettarci di vedere il cielo cadere.