Persona (nella Trinità)
di Joseph Ratzinger
(da Introduzione al cristianesimo)
Le
‘tre persone’ sussistenti in Dio, costituiscono la realtà
della parola e dell’amore nella loro mutua circuminsessione. Non sono
sostanze, personalità intese nel senso moderno, bensì una correlazione,
la cui pura attualità (‘pacchetto d’onde!’) non distrugge
l’unità dell’Essere supremo, ma ce la spiega.
S. Agostino ha trasfuso questo pensiero nella seguente formula: “Egli
viene chiamato Padre non in relazione a sé, ma solo in relazione al
Figlio; considerato in se stesso, egli è semplicemente Dio”.
Qui sì che vien bene in luce il fatto decisivo. ‘Padre’
è un puro concetto di relazione. Solo nella sua contrapposizione all’Altro,
egli è Padre; nel suo essere in sé, egli è semplicemente
Dio. La persona, dice puramente un rapporto di correlazione, non altro. In
lui però, la correlazione non è qualcosa che venga ad aggiungersi
alla persona, come avviene in noi, ove essa sussiste solo in linea di possibilità
di rapporto.
Espresso con le immagini classiche della tradizione cristiana, ciò
significa questo: la prima persona non genera il Figlio come se alla persona
finita venisse ad aggiungersi l’atto del generare, ma è invece
il fatto stesso del generare, dell’abbandonarsi, del fluire. Essa si
identifica con l’atto di abbandono. Solo in quanto atto siffatto è
persona; per cui non è l’essere che si dona, bensì l’atto
stesso di donazione; è ‘onda’, non ‘corpuscolo’...
Con quest’idea di correlazione esprimentesi nella parola e nell’amore,
indipendente dal concetto di ‘sostanza’ e non catalogabile fra
gli ‘accidenti’, il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale
del concetto di ‘persona’, che dice qualcosa di ben diverso e
infinitamente più alto della semplice idea di ‘individuo’.
Ascoltiamo ancora una volta s.Agostino: “In Dio non si danno accidenti,
ma solo... sostanza e relazione”. In questa semplice ammissione, si
cela un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta
del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione
viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si
rende così possibile il superamento di ciò che noi chiamiamo
oggi ‘pensiero oggettivante’, e si affaccia alla ribalta un nuovo
piano dell’essere. Con ogni probabilità bisognerà anche
dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze
di fatto è ancora ben lungi dall’esser stato eseguito, quantunque
il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non
sarebbe nemmeno immaginabile.
Nel
vangelo di Giovanni, Cristo dice di sé: “Il Figlio non può
far nulla da sé” (Gv. 5,19-30). Ciò sembra denotare la
destituzione da ogni potere cui soggiace il Figlio, egli non ha nulla di proprio,
ma è tuttavia presente come Figlio, per cui può agire unicamente
attingendo a colui dal quale trae l’essere. Balza quindi subito agli
occhi come il concetto di ‘figlio’ sia un’idea di relazione.
Chiamandolo ‘Figlio’, Giovanni designa il Signore in una maniera
che addita perennemente un principio che sta fuori e sopra di lui; impiega
quindi un’espressione che sottintende essenzialmente una correlazione.
Viene così a collocare l’intera sua cristologia nel contesto
dell’idea di relazione. Formule come quella da noi testé citata
non fanno che sottolinearlo; si limitano soltanto quasi a dedurre in modo
esplicito ciò che sta racchiuso nel termine ‘figlio’; la
relatività che esso implica. Apparentemente, questo sta in contraddizione
con quanto lo stesso Cristo dice poi di se stesso, sempre ancora in Giovanni:
“Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv. 10,30). Chi però
osserva le due affermazioni a distanza ravvicinata, potrà subito rilevare
come esse in realtà si richiamino e si postulino a vicenda. Mentre
Gesù vien chiamato Figlio, e quindi collocato in posizione ‘relativa’
col Padre, mentre si sviluppa la cristologia sotto forma di dottrina impostata
sulla relazione, fluisce automaticamente la totale riconnessione di Cristo
al Padre. E proprio perché egli non sta a sé; sta invece in
lui, formando così una perenne unità con lui.
Quale importanza rivesta tutto ciò, oltre che per la cristologia, anche
per lumeggiare il significato e l’idea dell’esistenza cristiana
in genere, viene chiaramente in luce quando Giovanni estende questo pensiero
ai cristiani, ossia a coloro che discendono da Cristo. Qui risulta evidente
come egli spieghi con la cristologia la posizione tipica del cristiano. A
questo proposito, c’imbattiamo nello stesso intrecciarsi delle due serie
di asserti che abbiamo notato prima. Parallelamente alla formula “Il
Figlio non può far nulla da sé”, che spiega la cristologia
come dottrina della relatività partendo dal concetto di ‘figlio’,
si dice parlando degli adepti di Cristo, dei suoi discepoli: “Senza
di me non potete far nulla” (Gv. 15,5). In tal modo, l’esistenza
cristiana vissuta assieme a Cristo vien incasellata nella categoria della
relazione. E parallelamente alla conseguenza che porta Cristo a dire “Io
e il Padre siamo una cosa sola”, sgorga dalle sue labbra la preghiera:
“affinché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola”
(Gv. 17,11-22). La rilevante differenza che stacca quest’ultima impostazione
dalla cristologia, vien messa a fuoco dal fatto che l’unione dei cristiani
fra loro non viene espressa all’indicativo come un’affermazione
tassativa, ma in forma ottativa di preghiera. Vediamo ora di analizzare brevissimamente
il tracciato sciorinatoci sotto gli occhi, esaminandolo nei suoi importanti
riflessi. Il Figlio in quanto tale non sussiste affatto isolatamente, per
conto suo, ma è invece una cosa sola col Padre; siccome non sussiste
affatto accanto a lui, non rivendicando nulla di proprio perché sarebbe
soltanto lui, non contrapponendo al Padre nulla di esclusivamente suo, non
riservandosi alcuno spazio a titolo di pura proprietà sua, egli è
ovviamente uguale e identico al Padre. La logica è stringente: se nulla
c’è per cui egli sussista meramente a sé, se nella sua
esistenza non si dà alcuna vita privata a parte, egli coincide ovviamente
con lui, formando “una cosa sola”. Ora, è appunto questa
totalitaria fusione tra i due Esseri, che intende esprimere la parola ‘figlio’.
Per Giovanni, il termine ‘figlio’ denota un ‘essere-in-derivazione
dall’altro’; con tale vocabolo, egli definisce quindi l’essere
di questo Uomo come un derivare dall’Altro ed essere polarizzato su
di lui, come un essere completamente aperto da entrambi i lati che non conosce
alcuno spazio chiuso, riservato al solo ‘io’. Se in tal modo appare
chiaro che l’essere di Gesù in quanto Cristo è un essere
totalmente aperto, un essere ‘derivante’ e ‘protendentesi’,
che non poggia mai su se stesso né sussiste mai per conto suo, è
al contempo tanto ovvio che tale essere è pura relazione (non sostanzialità),
ed essendo pura relazione è anche pura unità. Ora, ciò
che per principio si dice di Cristo, assurge simultaneamente – come
già abbiamo visto – ad interpretazione dell’esistenza cristiana.
Per Giovanni evangelista, esser cristiani vuol dire essere come il Figlio,
diventar figli, e quindi non sussistere in sé e per sé, ma vivere
invece in posizione completamente aperta, in ‘derivazione’ e in
‘protensione’. Per il seguace di Cristo, in quanto ‘cristiano’,
ciò mantiene tutto il suo valore. E di fronte a tali asserzioni d’altissima
portata, egli avvertirà chiaramente quanto poco sia davvero cristiano.