Capitolo VI


Alaşehir-Filadelfia: la lettera dell’Apocalisse alla Chiesa di Filadelfia

Vogliamo solo leggere, nel breve tempo che ci è concesso prima di ripartire con il pullman, la lettere dell’Apocalisse scritta ai cristiani di questa città. La leggiamo qui, in mezzo a questi ruderi dell’antica basilica di S.Giovanni in Filadelfia, dove tanti nostri fratelli che il Signore già ha chiamato a sé, hanno vissuto e pregato nei secoli. E’, come abbiamo già visto più ampiamente a Smirne, una situazione di debolezza – “per quanto tu abbia poca forza” - quella nella quale versa la comunità cristiana di Filadelfia di quel tempo. E, ancora una volta, vediamo come l’autore dell’Apocalisse, sia lì non a spaventare, ma, piuttosto, a fare forza, ad incoraggiare. Una espressione, in particolare, vorrei sottolineare: “Ho aperto una porta che nessuno può chiudere”. Il Cristo è la porta nel vangelo di Giovanni. Ma Paolo usa la stessa espressione ad indicare la predicazione apostolica che si fa strada nei cuori. Così scrive, in riferimento ad Efeso, in Cor16,9:

Mi fermerò ad Efeso, fino a Pentecoste, perché mi si è aperta una porta grande e propizia, anche se gli avversari sono molti.

Ed ancora in 2Cor2,12:

Giunto a Troade, per annunciare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore, non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello.

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Filadelfia, rovine dela Chiesa di S.Giovanni il Teologo (evangelista)

Paolo esprime la profonda convinzione che è la grazia di Dio ad aprire la porta della predicazione, attraverso la parola pronunciata dalla Chiesa. Come Paolo ha cambiato la vita delle persone del suo tempo, così – ci deve sostenere questa convinzione – la stessa conversione, la stessa salvezza, viene donata nelle nostre parrocchie oggi. Veramente un credente cambia la vita degli uomini del suo tempo, come Paolo ha inciso profondamente nella vita degli uomini del suo tempo. Ma è la grazia di Cristo che opera in questo annunzio. Ed è questa grazia che fa comprendere che veramente di “lieto messaggio” si tratta, di compimento della promessa di Dio e delle attese profonde nascoste nel cuore dell’uomo.
Se Cristo, la porta, non può essere ostruito, ma anzi permette l’ingresso di sempre nuovi figli, ciò avviene attraverso la libera predicazione della Chiesa che nessuno potrà mai “chiudere”.
Questo il testo della lettera di Ap3,7-13:

7All'angelo della Chiesa di Filadelfia scrivi:
Così parla il Santo, il Verace,
Colui che ha la chiave di Davide:
quando egli apre nessuno chiude,
e quando chiude nessuno apre.
8Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. 9Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana - di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono -: li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato. 10Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch'io ti preserverò nell'ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. 11Verrò presto. Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona. 12Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo. 13Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

Sardi, dinanzi al ginnasio ed alla sinagoga: Ap3,1-6 e Melitone di Sardi

Dinanzi a queste splendide rovine di Sardi ci soffermiamo brevemente a leggere il testo dell’Apocalisse rivolto a questa città e poi, più lungamente, a conoscere un personaggio molto importante, anche se poco conosciuto, della Chiesa antica che ha vissuto qui: Melitone di Sardi. Cominciamo leggendo Ap3,1-6:

1All'angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. 2Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. 3Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te. 4Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni. 5Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti, non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. 6Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

E’ ancora, come in tutte le lettere alle 7 Chiese dell’Apocalisse, il Cristo stesso che parla, è Lui che ordina a Giovanni di scrivere. Il Cristo possiede i “7 spiriti di Dio”. I “7 spiriti” rappresentano la totalità dello Spirito Santo e la sua forza operante, nel linguaggio simbolico dell’Apocalisse – di nuovo 7 è un numero di totalità, come già abbiamo visto. Il Cristo ha la totalità dello Spirito Santo, poiché è Dio, come il Padre. Ancora: lo Spirito è il “suo” Spirito. Egli, il Cristo, lo possiede ed è il modo con cui l’Apocalisse esprime il fortissimo legame fra lo Spirito e Gesù – il legame “essenziale” e non aggiunto! – lo stesso legame espresso nell’epistolario paolino dalle espressioni “lo Spirito del Signore Gesù”, lo “Spirito di Cristo”, e dall’evangelo giovanneo con le affermazioni nei discorsi dell’ultima cena: “Lo Spirito vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto, perché prenderà del mio e ve lo annuncerà”. Non c’è uno Spirito senza il Figlio di Dio, come non c’è un Figlio di Dio senza lo Spirito, e la loro missione è comune. E’ l’annuncio che ci tiene lontani da ogni spiritualismo e da ogni contrapposizione fra il Cristo e lo Spirito Santo.

Ma il Cristo non solo possiede lo Spirito, possiede pure le 7 stelle, che sono chiaramente indicate, in Ap1,20:

Le sette stelle simboleggiano gli angeli delle sette chiese ed i sette candelabri le sette chiese.

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Sardi, il ginnasio

A loro volta gli angeli delle chiese sono le sette chiese stesse viste nella loro radice soprannaturale, divina, direttamente legata alla persona del Cristo. Non solo c’è legame indissolubile fra il Signore Gesù – l’Agnello – e la Chiesa. Ma il legame è anche fra il Cristo, lo Spirito e la Chiesa. Giovanni ha dinanzi la Chiesa, le sete Chiese, ma non riesce a distaccarne la realtà dalla realtà del loro Signore che le possiede, il Cristo stesso. Come Paolo quando pensa alla Chiesa pensa al corpo “di Cristo” e lo vede nella sua realtà umana e insieme divina, soprannaturale, così fa l’autore dell’Apocalisse: antidoto a qualunque visione della Chiesa che ne sottolineasse unicamente la dimensione umana, orizzontale, sia per vederne il peccato che per esaltarne l’efficacia di bene storico. La chiesa non è mai senza il Cristo, è sempre divina ed umana allo stesso tempo! Così come il Cristo non può mai essere diviso dal suo essere per la Chiesa, per il suo corpo, come lo Sposo non può più sciogliere l’amore indissolubile con il quale si è legato alla sua Sposa. Ed anche la correzione veemente che il Cristo rivolge alla Chiesa di Sardi nasce proprio da questo amore sponsale con il quale la vuole vedere vivere dello stesso amore che aveva avuto un giorno.

Veniamo ora a Melitone. Abbiamo poche notizie storiche su di lui, oltre ad alcuni suoi testi che leggeremo. Eusebio lo conosce come “vescovo di Sardi” e cita una lettera a papa Vittore che lo definisce come “eunuco”, nel senso evangelico di celibe volontario. Visse sotto Marco Aurelio – quindi nel II secolo – al quale indirizzò una Apologia. Sotto la qualifica di Apologeti sono raggruppati alcuni scrittori cristiani, immediatamente successivi ai cosiddetti Padri Apostolici, che si assunsero il compito di scrivere delle apologie o difese del cristianesimo, per presentare la fede cristiana ai pagani che non la conoscevano. L’ultimo dato storico che possediamo è che Melitone, continuando la linea di Policarpo, difendeva la posizione quartodecimana sulla Pasqua. Dei suoi scritti si sono conservati una omelia sulla Pasqua e vari frammenti di altre opere.

Voglio sottolineare due temi di queste opere, proprio qui a Sardi, sua città. Innanzitutto il suo uso tipologico della Scrittura. Cosa vuol dire “tipologia”? Il cristiano sa che Cristo è il compimento di tutta la Scrittura, di tutta la rivelazione; Egli non annulla l’Antico Testamento, ma ne è la sua chiave di lettura più vera. Ecco che gli autori cristiani del primo periodo – e poi sempre di nuovo nella storia – hanno scandagliato l’Antico Testamento alla ricerca dei “tipi” di Cristo, cioè di quelle figure, di quegli episodi che, letti dopo la venuta del Signore, si sono rivelati nella loro identità di prefigurazione, di anticipo non compiuto che si illumina di luce nuova dinanzi alla storia di Cristo. Siamo nuovamente dinanzi alla lettura spirituale cristiana della Bibbia che, se mai rifiuta la lettera dell’Antico Testamento – come avviene invece nell’Islam che ritiene il testo biblico inutile, perché falso - tuttavia lo rilegge alla luce del Nuovo. Così Abele ucciso ingiustamente è immagine del Cristo, Isacco portato sul monte per il sacrificio è prefigurazione della passione e così via.

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Sardi, la sinagoga

Leggiamo, allora, dall’Omelia sulla Pasqua di Melitone (i titoletti sono tratti dall’edizione curata da R.Cantalamessa):

Il bozzetto e l’opera d’arte
36. Questo è ciò che avviene nel caso di un progetto preliminare. Esso non nasce come opera (definitiva), ma in vista di ciò che mediante l’immagine che ne costituisce la figura deve rendersi manifesto. Per questo dell’opera da realizzarsi si fa un modello di cera, o di argilla o di legno, affinché ciò che sta per sorgere maestoso in dimensioni, forte in resistenza, bello di forma e sfarzoso nell’ornamento possa essere visto attraverso un minuscolo bozzetto destinato ad essere distrutto.

37. Ma una volta realizzato ciò a cui tendeva il modello, allora quello che era figura della cosa futura, essendo diventato inutile, viene distrutto, avendo ormai trasmesso la sua immagine alla realtà che sussiste. Allora ciò che prima era prezioso diventa insignificante, all’apparire di ciò che è veramente prezioso.

38. C’è infatti un tempo appropriato per ogni cosa:
un tempo proprio per la figura
e un tempo proprio per la realtà.
Tu fai un modello in vista di una realizzazione. Esso ti è caro perché vi scorgi l’immagine di ciò che stai per realizzare. Appresti il materiale per il modello e lo vagheggi per ciò che, grazie ad esso, sta per venire alla luce. Poi esegui l’opera: solo questa ti sta a cuore; solamente essa tu ami, poiché in essa soltanto tu scorgi la figura, la sostanza e la realtà...

Il mistero da lungo preparato

57. Il Signore intanto veniva predisponendo in anticipo i suoi patimenti nei patriarchi, nei profeti e in tutto il popolo, conferendo loro così il sigillo della Legge e dei Profeti. Quello infatti che doveva un giorno accadere in modo tanto inatteso e grandioso fu predisposto molto tempo prima, affinché, una volta realizzatosi, fosse creduto in quanto, appunto, da lungo tempo prefigurato.

59. Se dunque tu vuoi contemplare il mistero del Signore, volgi lo sguardo
ad Abele come lui uccisoa,
a Isacco come lui legatob,
a Giuseppe come lui vendutoc,
a Mosè come lui espostod,
a David come lui perseguitatoe,
ai profeti anch’essi sottoposti a patimenti a causa di Cristo.

La Pasqua della nostra salvezza

69. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.
Egli è colui che molto ebbe a sopportare nella persona di molti.
Egli è colui che fu
ucciso nella persona di Abele,
legato in Isacco, venduto in Giuseppe,
esposto in Mosè,
immolato nell’agnello,
perseguitato in David,
vilipeso nei profeti.

Tutta la storia della salvezza si compie ora nella Pasqua, nell’evento unico e nuovo che Dio realizza in mezzo agli uomini, con il suo Figlio:

70. Questi è colui
che si incarnò nella Vergine,
che fu appeso al legno,
che fu sepolto nella terra,
che risorse dai morti,
che fu assunto nelle altezze dei cieli.

71. Questi è l’agnello senza voce.
Questi è l’agnello trucidato.
Questi è colui che fu partorito da Maria, la buona agnella.
Questi è colui che dal gregge fu prelevato,
e al macello trascinato,
e di sera fu immolato
e di notte seppellito;
colui che sul legno non fu spezzato,
che in terra non andò dissolto,
che dai morti è risuscitato
e ha risollevato l’uomo dal profondo della tomba.

La tipologia appare numerose volte nei frammenti di Melitone. Il seguente è conservato, senza l’indicazione dell’opera alla quale apparteneva:

E’ in relazione al Signore Gesù Cristo che è scritto: “Come ariete fu legato” e “come agnello fu tosato e come pecora condotta al macello”. Come agnello fu crocifisso; sulle sue spalle portò il legno mentre veniva condotto per essere immolato come Isacco dal padre suo.

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Sardi, resti del Tempio di Artemide

Il secondo tema che Melitone annuncia frequentemente, con parole che hanno il ritmo della poesia - tale è la meraviglia del mistero che si è compiuto - è l’unione reale della divinità e dell’umanità in Cristo. Così, dai pochi frammenti conservati dalla sua opera dal titolo Sull’anima e il corpo

La terra tremò e le sue fondamenta furono scosse; il sole fuggì, gli elementi furono sconvolti e il giorno si cambiò (in notte), non potendo sostenere la vista del loro Signore appeso al legno.
Tutto il creato inorridì ed attonito esclamò:
Qual nuovo mistero è mai questo?
Il giudice è giudicato e tace;
l’invisibile è visto e non arrossisce;
l’incomprensibile è preso e non s’adira;
l’immenso è misurato e non oppone resistenza;
l’impassibile patisce e non si vendica;
l’immortale muore e non dice parola;
il celeste è sepolto e lo sopporta.
Quale nuovo mistero è mai questo?
Stupisce la creazione.
Ma non appena il Signore nostro risorse dai morti
e conculcò con i suoi piedi la morte
e vinse il forte
e sciolse l’uomo,
allora ogni creatura comprese che fu a causa dell’uomo
che il giudice fu giudicato,
che l’invisibile fu visto,
che l’incomprensibile fu preso,
che l’immenso fu misurato,
che l’impassibile patì,
che l’immortale morì,
che il celeste fu sepolto.
Il Signore nostro infatti, fattosi uomo,
è stato giudicato per far grazia;
è stato legato perché potesse sciogliere;
preso per poter liberare;
patì per concedere perdono;
morì per donare la vita;
fu sepolto per risuscitare.

Ed, ancora, dai frammenti del suo libro Sulla croce:

Per questo egli venne a noi; per questo da incorporeo che era si tessé un corpo della nostra stessa natura. Apparso come agnello, rimase pastore;
tenuto in conto di servo, non perse la sua dignità di Figlio; era portato da Maria, mentre era rivestito del Padre; calpestava la terra e riempiva i cieli;
si mostrava bambino, ma non abbandonò l’eternità della sua natura; rivestì un corpo, ma non sminuì la semplicità della sua natura divina; apparve povero, ma non si spogliò delle sue ricchezze;
bisognoso di cibo, in quanto uomo, non smise di nutrire il mondo in quanto Dio; rivestì la forma di servo, ma non mutò la forma del Padre. Nella sua natura immutabile egli era tutto. Stava dinanzi a Pilato, mentre era assiso con il Padre; era fissato al legno e sosteneva l’universo.

Voglio leggervi un ultimo frammento ancora, dal libro Sulla fede di Melitone, che si pone nella stessa linea dell’Omelia sulla Pasqua, tracciando un percorso che va dalla tipologia veterotestamentaria alla contemplazione della pienezza di Cristo:

Dalla Legge e dai Profeti noi abbiamo riunito tutte quelle cose che furono dette in vista del Signore nostro Gesù Cristo, per provare alla carità vostra che Egli è l’Intelletto perfetto e il Verbo di Dio generato prima della stella mattutina. Questi è creatore [con il Padre]; colui che plasmò l’uomo; che era tutto in tutte le cose:
Patriarca tra i patriarchi,
Legge sotto la Legge,
Sommo Sacerdote tra i sacerdoti,
Sovrano tra i re,
Profeta tra i Profeti,
Principe degli angeli tra gli angeli,
Verbo per la voce,
Spirito nello Spirito,
Re nei secoli dei secoli.

Questi infatti è colui
che in Noè fu nocchiero,
che guidò Abramo,
che in Isacco fu legato,
che in Giacobbe fu esule,
che in Giuseppe fu venduto,
che in Mosè fu condottiero,
che con Giosuè spartì l’eredità,
che in David e nei Profeti predisse la sua passione.

Questi è colui infine
che nella Vergine si è incarnato,
che a Betlemme fu partorito,
che dai pastori fu contemplato,
che dagli angeli fu glorificato.
Fu adorato dai Magi,
fu additato da Giovanni,
convocò gli Apostoli,
predicò il Regno dei cieli,
guarì gli zoppi,
ridonò la vista ai ciechi,
risuscitò i morti,
fu visto nel tempio,
non fu creduto dal popolo (ebraico),
fu tradito da Giuda,
fu catturato dai sacerdoti,
fu giudicato da Pilato,
fu trafitto nella carne dai chiodi,
fu appeso al legno,
fu sepolto nella terra,
risorse dal regno dei morti,
apparve agli Apostoli,
fu assunto al cielo,
siede alla destra del Padre.

Questi è il riposo dei trapassati,
il ritrovatore degli smarriti,
luce di coloro che sono nelle tenebre,
redentore degli schiavi,
sostegno degli erranti,
rifugio degli afflitti,
sposo della Chiesa,
auriga dei Cherubini,
principe dell’esercito angelico,
Dio da Dio,
Figlio dal Padre,
Gesù Cristo, Re dei secoli. Amen.

Akhisar-Tiàtira: Lidia di Tiàtira, la lettera dell’Apocalisse, Papilo

Eccoci all’interno della navata della grande Chiesa bizantina di Tiàtira. Non abbiamo la possibilità di fermarci a lungo qui, ma vogliamo lo stesso gustare qualcosa della storia cristiana di questo luogo, ancora una volta oggi così povera, rispetto al suo passato. E’ difficile comprendere il mistero di come Dio guidi la storia!

Leggiamo innanzitutto un brano che ci riporta in Grecia, a Filippi, dove siamo stati l’anno scorso. Lidia, colei che viene chiamata la prima cristiana d’Europa, la prima battezzata a Filippi, proveniva da Tiàtira, da questa città. Anche lei avrà camminato bambina in mezzo a queste vie che ora sono solo rovine. Filippi è la seconda città del territorio europeo che Paolo attraversa, dopo essere sbarcato a Neapoli, provenendo da Troade, che è ancora in territorio asiatico. Ed è a Filippi che avvengono le prime conversioni ed i primi battesimi sulla sponda europea del mare, ad opera di S.Paolo. Ecco il testo di At 16,13-15:

11Salpati da Troade, facemmo vela verso Samotracia e il giorno dopo verso Neapoli e 12di qui a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia. Restammo in questa città alcuni giorni; 13il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne colà riunite. 14C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. 15Dopo esser stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: «Se avete giudicato ch'io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare.

Leggiamo poi la lettera dell’Apocalisse rivolta alla Chiesa di Tiàtira, in Ap2,18-29:

18All'angelo della Chiesa di Tiàtira scrivi:
Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi simili a bronzo splendente. 19Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime. 20Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Iezabèle, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli. 21Io le ho dato tempo per ravvedersi, ma essa non si vuol ravvedere dalla sua dissolutezza. 22Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si ravvederanno dalle opere che ha loro insegnato. 23Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le proprie opere. 24A voi di Tiàtira invece che non seguite questa dottrina, che non avete conosciuto le profondità di satana - come le chiamano - non imporrò altri pesi; 25ma quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno. 26Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere,
darò autorità sopra le nazioni;
27le pascolerà con bastone di ferro
e le frantumerà come vasi di terracotta,
28con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. 29Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

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Tiàtira, parco delle rovine della via colonnata e della basilica cristiana

Mi soffermo solo su di un versetto che rappresenta un elogio fra i più belli che possiamo ricevere come cristiani: “Le tue ultime opere sono migliori delle prime!”
E’ la dinamica del crescere, del maturare. Vedete, non è straordinario un complimento del tipo: “Sei molto in gamba. Sei intelligente. Sei molto buono e generoso”. Lo è molto di più il dire: “Da quando ti conosco ti vedo cresciuto. Eri così ed ora sei cambiato. Eri triste, egocentrico, indifferente ed ora la tua vita si è trasformata!” E’ la verità della conversione cristiana. Non contano tanto le doti oggettive che si posseggono, ma la decisione di donarsi sempre più, di mettersi in gioco in maniera crescente per la maturazione della comunità cristiana e per la salvezza del mondo. Ci capita di vedere persone che hanno delle doti enormi e concedono solo delle briciole – io amo riflettere su questa espressione semplice che dice quando uno non si gioca, quando uno lascia solo cadere qualcosa dalla sua ricca mensa, senza sprecarsi. E queste briciole sembrano brillare. E a volte, scioccamente, ci lasciamo abbagliare da esse. Siamo invitati, invece, da questa lettera dell’Apocalisse a valorizzare molto di più chi parte da un livello inferiore, ma compie veramente un cammino. C’è un investire costante nel regno di Dio, nell’abbraccio della carità, al punto che Cristo dice: “Le tue ultime opere sono migliori delle prime!” Questo solo conta. Non l’oggettività quantitativa del dono, del tempo, delle qualità, ma la costante progressione con la quale ci si decide per Dio.

Un ultimo brano che leggiamo ci riporta alle parole che un martire di questa città, divenuto evangelizzatore di Pergamo, dice prima di essere ucciso nella stessa Pergamo che domani visiteremo:

Sono cristiano. Non ho altro da aggiungere. D’altra parte non ho niente di più grande e di più bello da dire (Dagli Atti del martirio di Carpo, Papilo ed Agatonice)

E’ Papilo che così risponde al proconsole romano che gli chiedeva di sacrificare agli idoli. Siamo negli anni 161-180, essendo imperatore Marco Aurelio. Non c’è dignità più grande, dopo quella di essere uomini, di quella di essere cristiani, figli di Dio. Anzi per noi credenti l’essere pienamente uomini e l’essere cristiani coincide!

Bergama-Pergamo, vicino al Tempio di Traiano: la verità nel cristianesimo ed in S.Giovanni

Volevo leggervi oggi la terza lettera di Giovanni. Essa è scritta dal “presbitero”, Giovanni – abbiamo già parlato a Hierapolis di questo personaggio - ad uno che si chiama Gaio e, secondo le Costituzioni apostoliche, che è un testo che raccoglie i decreti dei primi secoli della Chiesa, questo Gaio era vescovo di Pergamo, nominato da S.Giovanni. Questo non ci da un assoluta certezza storica del fatto, ma ci da l’occasione per leggere 3Gv. In ogni caso, se anche non fosse stata inviata a Gaio di Pergamo, sarebbe stata comunque scritta in una di queste Chiese che stiamo visitando ed indirizzata ad un’altra di queste stesse Chiese di tradizione giovannea.
Leggeremo anche alcuni brani della prima lettera di Giovanni che, invece, non ha alcuna indicazione di luogo o riferimenti particolari di persone. 1Gv è probabilmente della stessa mano dell’autore del Vangelo di Giovanni. L’insieme di questi scritti, Gv, 1Gv, 2GV, 3Gv ed Ap, viene chiamato “corpus Joanneum”. Sono gli scritti neotestamentari attribuiti a Giovanni. Non è facile arrivare ad un accordo su quale sia il rapporto fra questi diversi scritti. Probabilmente – come nel caso dell’intero corpus delle lettere paoline - non sono della stessa mano, perché ci sono differenze letterarie anche molto marcate. Il Vangelo e la prima lettera potrebbero essere dello stesso autore, la seconda e la terza lettera di Giovanni di un secondo autore, l’Apocalisse di un terzo autore. E non dimentichiamo che all’interno del vangelo di Giovanni si riconosce almeno una seconda mano, quella della redazione definitiva. Questi scritti sono però certamente tutti appartenenti ad una stessa scuola, perché, ancora più marcate che le differenze sono le somiglianze e le omogeneità linguistiche e teologiche. Uno degli autori potrebbe essere direttamente Giovanni e gli altri potrebbero essere i suoi discepoli, perché usano gli stessi termini, ma modificandoli leggermente.

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Pergamo: il Tempio di Serapide, trasformato in basilica cristiana

Nella terza lettera leggiamo, dal versetto 1:

1Io, il presbitero, al carissimo Gaio, che amo nella verità. 2Carissimo, faccio voti che tutto vada bene e che tu sia in buona salute, come va bene per la tua anima. 3Molto infatti mi sono rallegrato quando sono giunti alcuni fratelli e hanno reso testimonianza che tu sei verace in quanto tu cammini nella verità. 4Non ho gioia più grande di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità. 5Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. 6Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, 7perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. 8Noi dobbiamo perciò accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità.

Giovanni è una persona che insiste moltissimo sul tema della Verità. In questi pochi versetti, ricorre 4 volte la parola “verità” ed 1 volta la parola “verace”. Il vangelo è definito semplicemente “la verità”. Sapete che l’annuncio della “verità” è anche uno dei temi più cari al Papa Giovanni Paolo II che collega sempre la verità e la libertà. Ed è uno dei grandi problemi del nostro tempo, fonte di grandi gioie e di grandi drammi.

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Pergamo, l'altare di Zeus (il Tempio è ora al Pergamon Museum di Berlino, interamente ricostruito)

Le grandi domande del nostro tempio, riprendono quelle antiche. Ci domandiamo oggi, come Pilato allora: “Che cos’è la verità?” Esiste la verità? O, essendoci tante verità, in fondo non ce n’è nessuna e tutto è soggettivo e relativo? L’uomo ha paura della verità, perché ha paura che la verità gli tolga la libertà. Se c’è una verità allora io debbo obbedire, devo cambiare, debbo conformarmi. L’uomo moderno teme che la verità possa distruggere la sua libertà. Ma ecco sorgere la domanda simmetrica: cos’è la libertà senza la verità? Un uomo è veramente libero se non ha la verità? Perché Giovanni ci ricorda che Gesu disse: “La verità vi renderà liberi”? Quale è la relazione fra verità e libertà, allora?
Nella cultura moderna si è cominciato a dubitare della verità, proprio per la paura che la verità potesse castrare l’uomo. Paul Ricoeur ha chiamato “maestri del sospetto” tre dei grandi padri del pensiero moderno: Marx, Nietzsche e Freud. Pur essendo esponenti di dottrine diverse fra di loro, anzi opposte su molti punti, Marx, Nietzsche e Freud sono accomunabili dall’aver criticato modi di pensare apparentemente immutabili nella vita umana, mostrando come è possibile sospettare di tutto perché ciò che si presenta come verità nasconde in realtà, a loro dire, un inganno, una menzogna, che va portata alla luce. La loro critica è occasione per “liberare l’orizzonte per una parola più autentica” (P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Paris, 1965)
Marx ha indicato l’economia come vera causa delle strutture di pensiero di una determinata epoca: quello che alcuni dicono essere la verità è in realtà la copertura ideologica di un potere di classe. Allora, sostiene Marx, quando qualcuno fa un’affermazione, quando afferma vera una cosa, bisogna dubitare di lui, finché non appare qual’è la struttura economica della quale il suo pensiero è solo sovrastruttura. Solo il materialismo è vero, tutto il resto deriva da questo substrato economico che dà forma a differenti verità, ad uso della classe dominante.
Freud ha affermato, invece, che ciò che appare vero ad una lettura superficiale, nasconde in realtà le pulsioni intime, sessuali, affettive, di una persona. Il comportamento e la razionalizzazione nascono da una realtà molto più profonda e nascosta che è la storia dei primi anni di vita o, addirittura, della vita intrauterina. Diciamo di agire per un certo scopo, ma, in realtà, questo cela ben altri motivi e tensioni.
Paul Ricoeur li chiama i “maestri del sospetto” perché tendono a dire che, qualsiasi cosa noi affermiamo, c’è da scavare sotto a lungo, prima di arrivare alla verità che è ben diversa da quella che appare. Ma, dei tre, il grande maestro del nostro tempo, affascinate e insieme terribile, è certamente Nietzsche. Non pensate che Nietzsche sia semplicemente l’autore del “superuomo” – anzi gli studi moderni mostrano come questa dottrina che non è centrale nel suo pensiero sia stata travisata dai nazisti ed, in alcuni punti, forse dipende addirittura da alcune interpolazioni, da alcune aggiunte, del testo originale nietzschiano.
In realtà, il cuore del pensiero di Nietzsche è l’affermazione che la verità non esiste. Fin da un testo giovanile, il breve scritto Su verità e menzogna in senso extramorale, la via percorsa dal filosofo tedesco è stata quella di dire che il pensiero umano è inganno, che la riflessione è il tentativo umano di sottrarsi all’evidenza che la specie umana è effimera e senza futuro nell’universo e destinata a scomparire. L’uomo ha cercato di nobilitare se stesso, cercando di indicare un senso alla sua vita che, invece, non esiste. Compito del pensiero è, allora, demistificare radicalmente il pensiero, mostrando il nulla che sta alla sua base. E’ la posizione del nihilismo, secondo la quale nulla ha senso, in maniera radicale. Ecco allora i passi nietzschiani sulla morte di Dio, nei quali, alla perdita di Dio, segue la perdita di ogni orientamento umano. Se Dio non c’è più, se Dio è morto - nel senso che non è più possibile e sensato riferirsi a lui - ecco che niente ha più un senso definito ed il mondo non ha più l’alto, né il basso. Ecco che, non essendoci la verità, tutto sembra cadere sempre più in un abisso. La proposta nietzschaian è quella di sostenere l’assenza della verità, con forza. Con il rischio, appunto, che personalità particolari diano forma ad un tempo particolare della storia. E che questa forma, non avendo nessun riferimento ad un assoluto, resista finché quell’epoca non volge al termine e, dopo periodi più bui, un nuovo senso non venga temporaneamente a rischiarare, anche se solo in apparenza, l’orizzonte. All’uomo non resta che costruire, in qualche modo, un sistema di valori sapendo che è relativo e che sarà superato da un modello successivo.
Il nostro tempo è - a volte senza nemmeno saperlo - figlio di questo radicale “sospetto”. La mentalità corrente ha ignorato le punte drammatiche del pensiero di Nietzsche, quelle più rigorosamente nihiliste e che portano l’uomo quasi al limite della follia e dell’abisso, per accogliere, invece, la deriva di uno scetticismo generale che ne deriva, come suo prodotto più digeribile. Un’espressione ricorrente nell’argomentare dei nostri giorni è indicativo in tal senso: “Tu pensala come vuoi, io la penso come voglio io. Ognuno ha la sua verità, tutte le verità hanno diritto ad essere rispettate”. Questo atteggiamento ha radici profonde, perché, in effetti, la verità è stata talvolta usata per dominare e non come luce per un cammino. Ed ecco che la persona pensa che per essere veramente se stessa, deve prescindere dalla verità – perché è profondamente vero che dire che esistono tante verità vuol dire che non ne esiste nessuna, tranne un generale scetticismo sulle capacità umane.

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Pergamo, il teatro

Invece Giovanni è qui a dirci la cosa opposta: “La verità vi renderà liberi”. L’uomo, senza la verità, non può essere libero. Il p.Ignace de la Potterie, di cui abbiamo già parlato ad Efeso, ha fatto la sua tesi di laurea proprio su questo tema: la verità in S.Giovanni.
Giovanni ci ricorda Gesù che dice questa frase enorme: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Sapete che questo è uno dei culmini del messaggio di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Egli annunzia che la Verità esiste, a differenza appunto del pensiero nietzschiano e del nichilismo conseguente. Ed, in questo, troviamo un completo accordo con gli sviluppi filosofici delle due grandi correnti – quella platonica e quella aristotelica – del pensiero antico. Per i due grandissimi filosofi del mondo greco, Platone ed Aristotele, la verità non era una costruzione del pensiero umano. All’opposto, il pensiero si misurava con una verità già data, cercando di relazionarsi con essa e di arrivare a conoscerla.

La novità cristiana che Giovanni pone in luce, rispetto ai filosofi classici, sta in questo: la Verità è una verità personale. Non è semplicemente una verità oggettiva, ma è la persona di Gesù, la presenza del Figlio di Dio nel mondo.
Se poniamo ancora una volta, dal punto di vista cristiano, il problema del rapporto fra libertà e verità, potrebbe a prima vista apparire che l’uomo sia ancora meno libero se la verità non è un’idea, ma la persona di Gesù Cristo. Perché l’obbedienza che così è richiesta all’uomo non è tanto a delle verità oggettive, sulle quali si può raggiungere un accordo, non è tanto a dei valori, a dei punti di riferimento, a delle parole, alle leggi, ma ad una persona! Quando Gesù dice “seguimi”, noi ci fidiamo di Lui e basta, per essere veramente suoi discepoli. Il nostro cuore e la nostra intelligenza si ribellano ancor più. Obbedire ad una persona? Ma questo non vuol dire proprio perdere la libertà?

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Pergamo, il Tempio di Traiano

Eppure Giovanni insiste moltissimo su questo tema della Verità. Come spiegare allora oggi che la verità conduce ad una maggior libertà? Provo a farlo innanzitutto con due riflessioni che aprano la strada, prima di venire allo specifico cristiano. Prima riflessione: se non c’è la verità, qual è la tragedia nei rapporti umani? E’ che ognuno cercherà di comandare sull’altro, ma nessuno dei due cercherà di aderire alla Verità. Se io dico che la Verità è Cristo - e non sono io - significa che non posso più comandare sull’altro, né che l’altro può farlo su di me, ma tutti e due dobbiamo guardare alla Verità. Se si toglie di mezzo la Verità, ecco apparire la tentazione dell’uomo di assoggettare l’altro a sé o di farsi al contrario suddito dell’altro. Alcuni psicologi italiani hanno delineato l’impasse nella quale si trovano i genitori non convinti della verità. Provano a dire al figlio che una cosa è bene, ma, di fronte al suo rifiuto, ai suoi capricci, vanno in crisi e tornano sui loro passi. Se il figlio non dà loro ragione, non sono convinti di aver ragione. Un genitore deve, invece, vivere della verità e dei suoi valori, deve essere convinto in prima persona del bene. Poniamo l’esempio dello studio, della formazione. Il genitore sa che lo studio nel quale il figlio deve crescere è un bene e sostiene il figlio in esso anche se il figlio, in alcuni momenti, non ne ha nessuna voglia. Se aspettasse di avere l’approvazione del figlio per dargli dei tempi di studio, probabilmente il figlio passerebbe tutto il tempo a giocare! La coscienza del bene, della verità, mi rende libero dall’attendere una conferma impossibile e mi fa vero educatore.

La seconda considerazione riguarda la permanenza della verità anche se l’uomo è incoerente. Un genitore che ha commesso uno sbaglio anche grave, un peccato anche serio, non per questo smette di avere il dovere di essere educatore. Certo la coerenza aiuta ad essere educatori credibili, ma la verità resta tale, anche se il figlio è consapevole di un peccato del genitore. Non è la coerenza del genitore a fondare la verità, ma genitore e figlio debbono camminare verso la verità. Altrimenti un genitore separato, ad esempio, non potrebbe più dir niente sulla vita ai suoi figli!
Egli continua a dire: “Esiste la Verità. Io ho sbagliato, ne sono consapevole, però la verità è là e non è modificata minimamente dai miei errori. E tu, figlio, continuerai a camminare verso di essa”. Se togliamo di mezzo la verità, tutto si basa allora solo sulle capacità, personali, sull’affetto che si crea fra due persone. Ed uno resta invischiato in questo. Proprio la verità permette anche la libertà del distacco. La libertà di confrontarsi con la verità, ci svincola dal rischio della possessività del fratello.

Facciamo ora un passo ulteriore. La filosofia cristiana ha posto una distinzione decisiva fra la libertà ed il libero arbitrio, distinzione di grandissima rilevanza. Il libero arbitrio è dato a tutti gli uomini, per nascita, ed è la capacità autonoma di poter scegliere fra cose diverse. La libertà è, invece, la capacità dell’uomo di poter scegliere il bene. E questa è data dalla grazia divina. Io posso avere il libero arbitrio, ma, se non conosco Cristo e non ricevo la sua grazia, non posso giungere alla speranza cristiana, perché non mi è stata fatta conoscere! Faccio un esempio semplicissimo: immaginiamo che la pizza sia il cibo migliore del mondo, ma io non la conosca ancora, perché nessuno me l’ha fatta assaggiare. Ecco che ho il libero arbitrio di scegliere fra i fagioli ed i ceci, con il mio libero arbitrio, ma non avrò mai la libertà di mangiare la pizza! La libertà è di una qualità diversa dal libero arbitrio, perché nasce solo a partire dalla rivelazione piena della verità e del bene. In più la libertà è tale perché la grazia non solo esteriormente, ma anche interiormente mi fa gustare il bene e fa che io sia attratto da esso. Il discorso sarebbe lunghissimo, sono veramente solo accenni quelli che stiamo facendo. Certo è che i due concetti, radicalmente diversi, di libertà e libero arbitrio sono spesso confusi fra di loro.

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Pergamo, la via Tecta

Se accogliamo il Cristo allora è perché comprendiamo che Lui è la vita: non un estraneo che si sovrappone alla nostra esistenza, ma l’unico necessario, a partire dal quale l’umanità nostra è stata plasmata! “Ad immagine di Dio” l’uomo fu creato! Il bene che Cristo ci chiede, la fede nel Padre che ci domanda, l’amore per la vita e per i fratelli che esige non sono un di più nella nostra esistenza. Sono piuttosto la nostra identità più profonda. Senza di Lui resteremmo con il nostro libero arbitrio, ma senza libertà. Perché siamo figli del Padre ed è Lui a sapere il nostro nome, il nostro bene, la nostra vita. La prova della vita cristiana sta proprio in questo mostrare che l’abbandono a Dio non è perdita, ma acquisto di libertà, che l’obbedienza della fede non è diminuzione di umanità, ma piuttosto compimento di essa.

Veniamo ora ad alcuni rapidi accenni alla prima lettera di Giovanni che, come abbiamo già accennato, non ha un destinatario preciso. Pure, lo sappiamo ormai bene, Giovanni ed i suoi discepoli – chiunque sia l’autore della lettera – hanno vissuto in questi luoghi ed hanno inviato lettere a cristiani di questi luoghi. 1Gv comincia dicendo (1Gv1,1-4):

1Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita 2(poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), 3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. 4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.

Questo sintetizza tutto il Vangelo di Giovanni. Giovanni è tra coloro che hanno visto il Verbo della vita che si è fatto visibile. Nel prologo al vangelo Giovanni dice: “Dio nessuno l’ha mai visto, proprio il Figlio unigenito ce lo ha rivelato”. Dio stesso ha deciso di mandarci il Figlio. La lettera testimonia dunque la presenza del Figlio nel mondo. Per questo la lettera dice ancora - pensate a quanto è sintetico Giovanni – che esistono solo due virtù e due peccati. Le uniche virtù di cui parla Giovanni sono la fede in Cristo e l’amore per i fratelli, la carità. Qui è tutta quanta la morale di Giovanni. I peccati sono, all’opposto, il rifiuto di Cristo e l’odio verso il fratello. E’ tutto sintetizzato. Giovanni che ha amato Gesù, riduce tutto a cose essenziali. Nella lettera c’è il passo in cui, parlando dell’anticristo, si dice:

L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio (1Gv2,22).

L’anticristo è proprio colui che si pone contro Cristo e rifiuta il Padre e il Figlio.

E il mondo non ci conosce perché non ha conosciuto lui (1Gv3,1).

Un’ultima cosa: la lettera di Giovanni ha quella sintesi di portata enorme che è l’enunciazione della sintesi nell’amore. Giovanni, riassumendo tutta la tradizione biblica ed insieme la novità cristiana, scrive (1Gv2,7-8):

Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin dal principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito. E tuttavia è un comandamento nuovo, quello di cui vi scrivo.

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Pergamo, i simboli di Asclepio in una colonna dell'Asklepeion

E’ antico perché noi sappiamo che ogni uomo l’ha ricevuto, per il fatto di essere uomo - questo è stupendo! Questa è la lettura che il cristianesimo dà di chi non è credente, di chi è ateo: Dio ha fatto l’uomo perché ami. Il comandamento di Cristo per certi aspetti è antico, perché ogni uomo deve amare. Giovanni nella lettera, infatti, cita Caino e Abele e dice che Caino è cattivo perché non amò il fratello Abele.

Però poi dice: “Il comandamento è nuovo perché Egli ha dato la sua vita per noi”. Perché l’uomo, solo con il comandamento antico, non riesce a voler bene. Quando si trova di fronte all’odio dell’altro, al peccato con cui l’altro lo ha ferito, quando deve chiedere perdono, l’uomo non trova la forza di amare. Giovanni dice: “Dio ha dato la vita per noi, dandoci Gesù Cristo”. E’ questo evento che rende nuovo il comandamento, che rende possibile cercare le forze per amare a nostra volta dello stesso amore. E c’è, nella prima lettera di Giovanni, la sintesi delle sintesi, l’affermazione “Dio è amore” (1Gv4,7 ed 1Gv4,16).

Siamo dinanzi al Tempio di Traiano e vediamo, anche dal punto di vista architettonico, la novità cristiana. Se voi guardate bene, ogni tempio romano, a differenza di come è fatta una chiesa, ha una struttura per la quale il popolo è fuori, non è dentro. La cella è quella davanti a voi, con le grandi pietre, dove era conservata la statua della divinità. Lì nessuno poteva entrare tranne i sacerdoti. L’altare, invece, sta all’esterno, perché le persone vedano all’esterno il sacrificio, senza poter entrare poi con il sacerdote nella cella. Se voi avete visto Siracusa, la cattedrale nell’isola di Ortigia, comprendete cosa succede quando un tempio è stato trasformato in chiesa. Si abbatte il muro della cella e si murano le colonne, perché tutto il popolo entri nel tempio. E’ un cambiamento di prospettiva. Si instaura il mistero della comunione con Dio, per la quale è veramente annunziata la vicinanza di Dio all’uomo. Ogni fedele entra nella parte sacra e per questo la parte sacra deve essere allargata, a differenza del culto greco-romano nel quale il popolo non ha accesso alla pienezza del mistero!

Il fatto poi che Dio sia amore, è radicato nella priorità della sua decisione sulla nostra:

Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi (1Gv4,10).

Ed è per questo che anche noi possiamo amarci gli uni gli altri

E’ un po’ la sintesi di tutto il messaggio di Gesù, in questi pochi capitoli, vertiginosi. Contengono concetti che si rincorrono continuamente e si approfondiscono sempre di più. Continuiamo a camminare per le rovine di Pergamo, immaginandoci Gaio che potrebbe essere il destinatario di 3Gv proprio in questa città e la 1Gv che sicuramente ha risuonato, appena scritta, anche qui.


Note

a) Gen. 4,8

b) Gen. 22,9

c) Gen. 37,28

d) Es. 12,3

e) 1 Re 19,9


[Turchia e Patmos]