Capitolo IV


Ladik-Laodicea: i Laodicesi nella lettera ai Colossesi e nell’Apocalisse

Non risulta dalle nostre fonti che S.Paolo sia mai stato a Laodicea, ma piuttosto che da Efeso abbia mandato delle persone per l’evangelizzazione sia di Colossi che di Laodicea, che spesso sono citate insieme.
Cominciamo leggendo Col 2,1ss.:

1Voglio infatti che sappiate quale dura lotta io devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti coloro che non mi hanno mai visto di persona, 2perché i loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell'amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza, e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, 3nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza. 4Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti, 5perché, anche se sono lontano con il corpo, sono tra voi con lo spirito e gioisco al vedere la vostra condotta ordinata e la saldezza della vostra fede in Cristo.

Allora - come vedremo poi a Colossi - questi pensieri gnostici ai quali già abbiamo fatto riferimento nella riflessione fatta a Hierapolis, si stanno pian piano diffondendo a Laodicea. Ci sono delle correnti, all’interno delle comunità cristiane sia di Colossi che di Laodicea, che cominciano a teorizzare tutta una serie di figure angeliche che sarebbero in qualche modo più importanti di Cristo. Come abbiamo già letto, il presbitero Giovanni diceva, probabilmente a Gerapoli: “Chi va oltre Cristo, perde il Padre e il Figlio”.

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Laodicea, il teatro

Scrivendo la lettera ai Colossesi, S.Paolo, pensando anche a Laodicea, usa questa espressione bellissima: “la perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo”. Già vi ho spiegato ad Efeso come la parola “mistero”, che compare come termine importantissimo anche nella lettera agli Efesini, nel linguaggio cristiano non vuol dire “ciò di cui non si capisce nulla”. Dobbiamo stare attenti quando usiamo questa parola, la parola “mistero”, perché chi non crede la interpreta così. Se voi parlate con chi non conosce bene il cristianesimo sentirete spesso dire: “Dio è un mistero? Certo! Perché non ci si capisce niente: è uno, sono tre persone, ecc.”. In realtà Paolo non parla del mistero in questo senso, ma parla del mistero “che era nascosto e che è stato rivelato”. Dunque ora è conosciuto! Per aiutare a comprendere questo faccio sempre l’esempio del mistero dell’intimità e dei segreti delle persone. Perché una persona è un mistero? Perché non ci si capisce nulla? Oppure perché devi attendere che lei ti si riveli, per comprendere chi è in realtà?
A me è capitato, a volte, di incontrare persone molto arrabbiate o molto tristi e di avvertire che c’era un mistero, che c’era un motivo nascosto dietro questi atteggiamenti. Ci capita di sentire che c’è un problema, ma di non essere in grado di dargli un nome. La persona dinanzi a noi resta un mistero, ma non perché non è possibile capire niente di lei. E’ un mistero perché solo quando la stessa persona arriva a dire chi è veramente, qual’è la sua storia, che cosa ha vissuto, che cosa l’ha resa così - e a volte serve una grande fiducia, serve molto tempo per questo – solo allora tu capisci perché quella persona è così e così.
S.Paolo usa l’espressione “Dio è un mistero” non per dire che di Dio non si capisce niente. Per Paolo Dio è un mistero perché solo quando Egli, nella sua libertà, ha voluto donarci Gesù Cristo, solo allora noi abbiamo conosciuto davvero chi è Dio. Quando Paolo dice “il mistero di Dio, cioè Cristo”, intende proprio dire che Dio ha tenuto nascosto, fino alla venuta di Gesù Cristo, il mistero del suo amore, e ce lo ha rivelato nella persona di Cristo. Sapete che noi parliamo della bellezza della Trinità, perché noi crediamo che Dio non sia solitario. Dio è nella gioia, nella felicità, nell’amore. Lo era anche prima che esistesse il mondo, anche prima che esistessero gli uomini! Perché è mistero di tre persone che si amano. La Trinità è per noi l’annunzio che Dio è comunione, Dio è pienezza di amore.

Qual’è il mistero di Dio? E’ la persona di Cristo. Mai l’uomo avrebbe potuto immaginare il mistero trinitario di Dio, se Egli stesso non l’avesse rivelato nell’Incarnazione del Figlio. Il mistero di Dio ha una chiave che permette di penetrarvi all’interno. Ma questa chiave non è nelle mani dell’uomo. Solo dall’interno, dall’intimità di Dio, dal suo disegno insondabile, dalla sua infinita libertà, poteva nascere la decisione di aprire all’uomo la conoscenza del mistero. Dio stesso ha voluto rivelarsi, farsi conoscere. Nessun atto nato dall’uomo avrebbe potuto permettere questo.

E quando diciamo che l’uomo è fatto ad immagine di Dio, noi diciamo che proprio in questo sta questa somiglianza: in questa necessità di essere nell’amore, di essere in relazione, ad immagine di come è la Trinità, che è comunione di amore. Lo vedremo meglio parlando più avanti del I concilio di Costantinopoli, ma voglio accennarlo già qui. Perché l’uomo ha così bisogno di amare al punto che se non ama - e non è amato - sente profondamente di aver fallito la propria vita? Perché avverte che, senza amore, la propria vita non è servita a niente? Noi rispondiamo a questa domanda: “Perché così è Dio e perché l’uomo porta l’immagine di Dio. Perché l’uomo è stato pensato così, come Dio è, a sua immagine”. Dio prima ancora di creare l’uomo era amore in se stesso ed ha manifestato questo amore nella creazione e ancor di più nella salvezza, mandandoci Gesù Cristo. Per questo l’uomo ha bisogno di amare. Non perché è guidato dall’istinto della riproduzione, della conservazione della specie, ma perché è a immagine di Dio. Paolo parlando a Laodicea dice così: “il mistero di Dio, cioè Cristo”. E’ una frase secca, molto forte.

Al capitolo 4 della lettera ai Colossesi, si parla ancora di Laodicea, ai versi 10 ss.:

10Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni - se verrà da voi, fategli buona accoglienza - 11e Gesù, chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione. 12Vi saluta Epafra, servo di Cristo Gesù, che è dei vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio. 13Gli rendo testimonianza che si impegna a fondo per voi, come per quelli di Laodicèa e di Geràpoli. 14Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema.

Notate che ci sono Marco e Luca con S.Paolo, oltre a Barnaba. Sono fra i suoi grandi collaboratori. Due degli evangelisti hanno conosciuto S.Paolo – o almeno i loro evangeli si pongono nella loro sfera - e hanno camminato con lui. Più oltre ancora, così si conclude la lettera ai Colossesi

15Salutate i fratelli di Laodicèa e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua casa.

C’era qui una donna, Ninfa, nella cui casa si radunavano tutti quanti i cristiani.

16E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi. 17Dite ad Archippo: «Considera il ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene».

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Laodicea, via colonnata

Quindi questa lettera che Paolo ha scritto agli abitanti di Laodicea è persa, noi non l’abbiamo. Da questo testo sappiamo però che S.Paolo scrisse una lettera a questa comunità e chiese che quella di Laodicea fosse letta a Colossi e quella di Colossi fosse letta qui.

18Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia sia con voi.

Immaginate che questa lettera - e quella che leggeremo a Colossi – è stata letta qui dove sono queste rovine, forse a casa di questa Ninfa. Tutti i cristiani di Laodicea si sono radunati e hanno letto questa lettera ai Colossesi.

Una terza lettera neotestamentaria che è riecheggiata qui è quella alla Chiesa di Laodicea, contenuta nell’Apocalisse, nella sezione delle lettere inviate alle sette Chiese. Leggiamo il testo di Ap 3,14-22:

14All'angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi:
Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: 15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. 19Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. 20Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. 21Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. 22Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.

Vi faccio notare una cosa sola, in breve. Questo testo non va letto solo come un discorso morale che stigmatizza chi è sempre in mezzo al guado, chi è in una via di mezzo. Qui, di nuovo, come in Colossesi, si parla sempre di Cristo e del suo popolo. Se il popolo è tiepido, Cristo, all’opposto, viene definito l’ “amen”, il “testimone fedele e verace”. E’ perché c’è un altro dinanzi a noi, che noi possiamo avere la forza di desiderare di non essere tiepidi. Noi non possiamo essere “né carne, né pesce”, perché il Cristo è stato il “sì” di Dio..
Altrimenti saremmo continuamente pieni di sensi di colpa. Il popolo di questa comunità era ritenuto tiepido, non aveva forza, non aveva carattere. Però Colui che gli parla è veramente il testimone fedele e verace, il Cristo, Figlio di Dio. In più: “fedele”, πιστος, si può tradurre in due modi in greco: “perseverante” o “degno di fede”. Gesù è veramente fedele, ma Gesù è anche veramente degno di fede. Se ci ha rivelato il mistero di Dio, bisogna credergli, perché è degno di fede, perché è l’unico che viene da Dio e nel nome di Dio rivela e salva. Giovanni vuole allora scuotere questa comunità e dice: “Dinanzi a Gesù Cristo che è fedele, voi cosa state combinando? Misuratevi con la persona dell’ “amen”, del sì certo di Dio, della promessa di Dio che si compie, che da promessa diviene ora realtà e certezza, e vediamo cosa ne viene fuori!”

Honaz, Colossi, sulla sommità della collina: la lettera ai Colossesi e la lettera a Filemone

Questa lettera è stata letta qui, in cima a questo colle. E’ stata indirizzata alla città di Colossi, che non è ancora scavata. Le sue rovine sono sotto i nostri piedi, ancora coperte di terra..Immaginiamo proprio qui i cristiani radunati per ascoltare per la prima volta la lettera loro indirizzata.

Vogliamo riflettere insieme su pochi versetti importantissimi della lettera che ci permettono di capirne la ricchezza principale. Partiamo da Col 2,9:

9E' in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, 10e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà

Questa frase potrebbe essere una frase da ricordare come la sintesi di tutto il pellegrinaggio. E’ un po’ una frase capitale per capire tutto il Cristianesimo e, se volete, esprime proprio la fede cristiana. Noi capiamo perché viene rifiutata dal materialismo, da quello comunista o da quello scientista, oppure, all’opposto, da altre forme religiose spiritualiste dell’estremo Oriente. Perché dice una cosa apparentemente impossibile, se Dio non l’avesse fatta conoscere: “E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità”.

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Salendo sulla collina non ancora scavata di Colossi

Qui noi capiamo perché l’uomo è come teso continuamente, fra la terra ed il cielo. Perché da un lato vuole vivere di Dio, dell’Assoluto, d’altro canto ama la vita che Dio gli ha dato, la creazione opera del Signore, la terra. E l’uomo non riesce a conciliare questa tensione a partire dal suo pensiero, dalla sua filosofia. Gli manca una chiave per comporre in unità di senso tutto. Alcuni sistemi – quelli appunto materialisti - hanno scelto solo la terra. Come il marxismo, dicono: “Non esiste l’eterno. L’unico modo per salvare l’uomo è togliere Dio. Se Dio non c’è, ecco che l’uomo ha valore”. Perché se Dio c’è, Dio è nemico dell’uomo, Dio con la sua forza distrugge l’uomo, lo spezza, lo obbliga, lo costringe. Oppure, altra variante, Dio è inventato dall’uomo, da un determinato periodo economico, per nascondere i meccanismi materiali che soli hanno forza e valore. Per amare la terra, bisogna dimenticare Dio.
Altre forme scelgono l’altro corno del dilemma. Così, ad esempio, le religioni dell’Estremo Oriente che affermano, più o meno, che per salvare l’uomo bisogna rendersi conto che l’umanità, la terra, la materia, tutto questo è solo apparenza. Consideriamo la dottrina della reincarnazione: una persona passa di corpo in corpo, finché non capirà che nessun corpo è importante. Solo allora uscirà dal ciclo dannato della reincarnazione, quando smetterà di desiderare di essere individuata e si troverà – meglio, si perderà – nel tutto. La grande domanda che io pongo, dinanzi a chi propugna la reincarnazione è: “Ma, allora, a che serve stare vicino ad un bambino malato di tumore, a una persona che muore, o gioire per una nuova nascita, se tu devi vivere tante vite? Perché tanta sofferenza, tanta gioia, tanto impegno? Perché?” Costoro dicono che l’unico modo per trovare la pace è dimenticare la terra, poiché tutto passa e conta soltanto la nostra unione con l’assoluto.
Qui S.Paolo invece scrive: “E’ in Cristo che abita corporalmente la pienezza della divinità”, tutto Dio, tutta la pienezza di Dio, è presente in quell’uomo. Ed è questo che ci fa uscire dal dilemma, che ci conduce ad amare immensamente Dio, in Cristo, e ad amare immensamente la sua umanità, la sua carne, la sua unicità e, attraverso di essa, l’umanità e la creazione tutta. La persona umana diviene così una realtà dotata di un valore enorme. Proprio perché il Figlio di Dio si è fatto uomo, per noi l’uomo ha un valore enorme, assoluto. Qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa pensi, la persona umana ha un enorme valore proprio per questo grandissimo annunzio evangelico. E poi Paolo continua affrontando il problema gnostico, del quale abbiamo già parlato. Problema gnostico, lo ripetiamo, che ha delle somiglianze - anche se gli gnostici antichi erano un po’ più colti! – con delle posizioni assunte da autori odierni del New Age. Tanti sono innamorati di angeli, di locuzioni, di segni strani! Vedete quante persone sono un po’ bigotte, continuamente legate a queste cose.
S.Paolo non dice che non esistono gli angeli, i principati, le potestà – anzi lo afferma espressamente - ma ciò che gli sta più a cuore è chiarire che sono sottoposti a Cristo. Se Cristo non dice una cosa, non possono fare niente, perché sono suoi ministri. Al massimo, possono essere suoi nemici ed, in questo caso, sono sconfitti dalla sua morte e resurrezione. Noi crediamo profondamente nell’esistenza degli angeli, ma noi affermiamo che gli angeli sono i servitori di Cristo. A persone come Rosemary Althea o ad altri personaggi New Age che dicono di parlare con angeli o entità superiori - seguiti con interesse da tanti - dobbiamo far loro osservare che se veramente fossero angeli quelli che parlano loro, non potrebbero che dir loro: “Comincia ad andare in chiesa, comincia a confessarti, vai a messa la domeniche, ama il Papa, soprattutto diventa cristiano”. L’angelo è un servitore di Cristo! La lettera ai Colossesi annunzia che Cristo è il capo di ogni principato e di ogni potestà. E al versetto 15 dice:

15Avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo.

Esistono gli esseri angelici, esistono le potenze spirituali, ma esse sono poste nel corteo trionfale di Cristo. Avviene come nell’antichità, quando passava l’imperatore vittorioso: lui è il trionfatore e tutti gli altri sono le sue prede o sono i suoi sudditi, i suoi soldati, i suoi ministri e servitori. Subito dopo Col continua, ai versetti 16 e 17:

16Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: 17tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo!

Voi capite: qui è la libertà cristiana dalla legge. Il cristiano dice che ogni comandamento è importante, ma tutto è funzionale a Cristo. Questo è il principio a partire dal quale noi interpretiamo la legge. La legge dell’Antico Testamento è utile – essa ha comandato “sabati e digiuni” - ma noi sappiamo che Cristo ci ha liberati per cui, una volta arrivato Lui, tutte queste leggi devono essere reinterpretate, rilette, a partire da questo principio nuovo che è la sua persona. Questo fonda la libertà della vita cristiana. Tutto nell’Antico Testamento, adombra, prefigura, ma “la realtà è Cristo”. E’ il Figlio la Parola a partire dalla quale capire tutte le parole sugli angeli, i comandamenti, le prescrizioni cultuali, e così via.

Un secondo testo neotestamentario ha a che fare con questa città di Colossi: è la lettera a Filemone.
Non è una deutero-apolina, come Colossesi, ma è una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo. Questa lettera è scritta perché uno schiavo, Onesimo, è fuggito e si è rifugiato da S.Paolo.
E’ importante notare subito il ruolo della tradizione nella storia del cristianesimo. Il cristianesimo non arriva subito a proporre l’abolizione della schiavitù - i tempi sono troppo condizionati dalla storia e dalla cultura precedente - e solo col passare degli anni si colgono, su questo punto come su altri, tutte le potenzialità del vangelo. Paolo dice, da un lato che “uomo e donna, barbaro e greco, schiavo e libero” hanno la stessa dignità e non vi è differenza fra di loro, poiché sono uno in Cristo, sono persone in Cristo, però la cultura ci mette del tempo ad elaborare questa verità ed a coglierne le conseguenze. Proprio perché anche Paolo è un figlio del suo tempo e la schiavitù era costume abituale dell’epoca. S.Paolo non dice di per sé ancora, nella lettera a Filemone, che la schiavitù è un errore, però apre una riflessione che avrà grandi conseguenze nel prosieguo della storia, dicendo che si è fratelli in Cristo e quindi, sia il padrone, sia lo schiavo, debbono avere rapporti come tra fratelli. Dice, al versetto 8:

8Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, 9preferisco pregarti in nome della carità, così qual io sono, Paolo, vecchio, e ora anche prigioniero per Cristo Gesù; 10ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, 11Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. 12Te l'ho rimandato, lui, il mio cuore.

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Colossi, la collina dell'antica città abbandonata

Paolo è in catene lui stesso, non per schiavitù, ma per la prigionia dovuta alla persecuzione della sua fede, e dice di Onesimo a Filemone: “Prima era uno schiavo, ma era inutile, ti dava solo un aiuto concreto. Ora è diventato cristiano, addirittura ti può testimoniare Gesù. Io non ti obbligo di accoglierlo, sebbene come Apostolo potrei comandartelo, però in nome della carità ti prego di riprenderlo con te”.
Vediamo ancora Flm 17:

17Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. 18E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. 19Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso. Per non dirti che anche tu mi sei debitore e proprio di te stesso! 20Sì, fratello!

Paolo scrive: “Se tu sei mio amico, se ti consideri mio amico, è proprio un favore da amico che ti chiedo: prendilo con te. E se c’è qualcosa che lui ha fatto di male, ci penserò io. E sappi - e questo è stupendo, perché Paolo, aveva convertito anche Filemone - tu mi sei debitore di te stesso”. Io ti ho salvato, quindi tu mi devi la vita. Quello che ti chiedo ora è molto meno di quello che ti ho dato. Ti chiedo di accogliere questo schiavo e di perdonarlo, ma cosa è questo dinanzi alla salvezza che da me hai ricevuto?

Per concludere, possiamo tornare a quel grande messaggio che il Papa Giovanni Paolo II sta annunciando a tutto il mondo: il rapporto tra la giustizia e il perdono. Il Papa sta dicendo che in questo momento terribile dell’umanità l’unico modo di arrivare alla pace è quello di cercare insieme la giustizia e il perdono. Se ci fosse solo la bontà, ma non si cercassero i veri diritti dei popoli, sarebbe troppo poco, sarebbe spiritualismo. Ma se si cercasse solo la giustizia, non appena uno sbagliasse di nuovo comincerebbe una serie infinita di vendette. Sono stato di recente nelle montagne dell’Albania, dove vige un antico codice non scritto, che viene chiamato il “Kanun”. In esso è stabilita l’entità della vendetta - sapete che questo serve anche a limitare, per certi versi, i danni che si potrebbero infliggere per vendicarsi. Se uno uccide un altro, necessariamente, per ristabilire la giustizia - dice il Kanun – l’omicida stesso o altrimenti un parente della famiglia dell’assassino deve essere ucciso. Siccome una donna o un bambino non possono essere uccisi, se l’omicida si mette in salvo e c’è solo un suo figlio maschio, si aspetta che diventi grande e poi lo si ucciderà. Certo è vero che questa legge ha come obiettivo quello di limitare la vendetta, la catena delle vendette infinite. Ma c’è un modo più vero di realizzare questo: arrivare a perdonare. E’ la novità del perdono che permette di mettere un punto alla sequenza del male. Un autore chiamava questo “il problema della punteggiatura”. E’ la capacità di interrompere una catena di eventi nefasti con il cessare di vendicarsi, come quando, con un punto, si pone fine ad una frase e se ne comincia un’altra: “E’ vero, tu hai fatto questo, ma io non ti ricambio con la stessa moneta”. Il perdono - il Papa continua a dire al mondo - è un gesto di enorme dignità umana, è amare il nome di Dio ed è venerarlo realmente. Senza questo perdono, la vendetta seguirà la vendetta in una catena senza fine ed ogni pace sarà distrutta, un istante dopo, da un nuovo atto violento che pretenderà di ristabilire l’ingiustizia che aveva preceduto la pace. La giustizia, per portare alla pace, ha bisogno del perdono. Ecco, proprio questo vediamo qui: Paolo chiede di superare la giustizia. Per la legge di allora lo schiavo doveva essere punito. Paolo dice, invece, al suo amico Filemone: “Abbi carità. Accogli Onesimo, te lo chiedo io”.
La città di Colossi era allora in condizioni migliori di come è adesso questo cumulo di rovine, ma proprio qui, su questa collina, sono risuonate le parole di queste due lettere, la lettera ai Colossesi e la lettera a Filemone.

Aphrodisias-Afrodisia: ancora sul cristianesimo e la cultura classica

Dopo aver visto lo straordinario Tetrapylon e lo stadio, ancora splendidamente conservato della città, siamo ora dinanzi al Tempio di Afrodite, che fu trasformato in Basilica cristiana. Sappiamo che qui ad Aphrodisias fu eretta una statua di Elia Flavia Flaccilla, moglie di Teodosio (siamo intorno agli anni del I concilio di Costantinopoli che è del 381), l’imperatore sotto il cui regno l’impero divenne ufficialmente cristiano. Un mio amico, Marco Valenti, sta ultimando una tesi – N.d.R. che è ora consultabile su questo sito (Dai templi pagani alle Chiese paleocristiane e altomedioevali, nella Roma del primo millennio) - che studia il lento trasformarsi degli edifici templari pagani e degli edifici imperiali civili in edifici cristiani.

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Aphrodisias, il Tetrapylon

Voglio qui fare una riflessione ulteriore che prolunga quella che già abbiamo fatto a Priene, parlando di Alessandro Magno. Quale è stato l’atteggiamento dei Padri della Chiesa, vissuti in questi luoghi, proprio nel passaggio ad un Impero ormai cristiano, dinanzi alla cultura pagana greca che avevano dinanzi? La domanda non è solo storica, ma apre delle importanti prospettive per la riflessione odierna, per il dialogo fra la fede e le culture. Data una fede, la fede cristiana, quale valore e peso dare a ciò che cristiano non è? In particolare quale rilievo dare a tutta la riflessione sull’uomo, a tutta la ricerca di verità, a tutta la bellezza che l’uomo ha generato nei secoli? Particolare rilievo acquista questa problematica anche nel dialogo interreligioso e nelle prospettive di evoluzione di ciascuna religione. Prendiamo solo il caso della Turchia. Proprio qui ad Aphrodisias abbiamo appena incontrato la tomba dell’archeologo Kenan T.Erim, che ha dedicato tutta la sua vita agli scavi di questa città. Come valuta la religione islamica questo? Che spazio viene dato, nella formazione delle nuove generazioni, all’amore per la grecità classica, che, oltre ad essere pre-cristiana e, ovviamente, anche pre-islamica?

Ma procediamo con calma. L’affermazione un po’ banale che il cristianesimo non solo non si sia interessato a tutto ciò che era stato creato culturalmente ed artisticamente prima di lui, ma anzi lo abbia combattuto, crolla immediatamente dinanzi alla constatazione dell’amore che tanti periodi storici informati dal cristianesimo – e fra l’altro il tanto “biasimato” Medioevo! – hanno avuto per i classici pre-cristiani.
Mi servo qui di uno studio di sintesi molto importante scritto da Manlio Simonetti, uno dei più grandi studiosi del periodo patristico in Italia. Nel suo volumetto Cristianesimo antico e cultura greca (Borla, Roma, 1983) mostra come, fin dal principio, si sono confrontate nel cristianesimo nascente due visioni, una positiva ed una negativa, dei valori della cultura pre-cristiana. Alcuni autori hanno voluto bollare in toto come peccaminosa tutta la cultura pagana, sia perché politeista, sia perché moralmente non rispettosa dei valori della famiglia e della giustizia, sia, infine, per le sue derive persecutorie nei confronti del cristianesimo dei primi secoli. Ma, fin dal Nuovo Testamento, e poi via via nel tempo, si è andata strutturando ed imponendo la posizione opposta degli autori che, essendo loro per primi uomini di cultura, hanno voluto salvaguardare l’opera di coloro che li avevano preceduti, riconoscendone certo alcuni limiti, ma anche valorizzandone il grande portato, anche in chiave educativa, nei confronti delle nuove generazioni.

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Aphrodisias, lo stadio

E’ innanzitutto negli ambienti alessandrini – di Alessandria d’Egitto – che va imponendosi questo rapporto con il passato. A Clemente Alessandrino fa seguito l’opera ancora più matura di Origene, che si trasferirà poi a Cesarea Marittima in Palestina, costituendo lì una scuola teologica, dopo quella già affermata di Alessandria. Così scrive M.Simonetti, nel volume che vi ho citato, a pag. 53:

Origene giustifica l’utilizzazione della filosofia greca da parte dei cristiani con l’allegoria dell’episodio dell’Esodo che racconta come gli Israeliti, abbandonando l’Egitto, avessero portato con sé l’oro e l’argento che avevano sottratto agli egiziani: come quelli si servirono del materiale sottratto agli Egiziani per preparare oggetti per il servizio divino, così i cristiani si servono della sapienza pagana per approfondire la loro conoscenza di Dio, in quanto le scienze dei Greci possono introdurre allo studio delle Sacre Scritture:
Io mi augurerei che tu prendessi dalla filosofia dei Greci quelle che possono diventare – per così dire – discipline generali e propedeutiche per il cristianesimo, e anche dalla geometria, come dall’astronomia, le nozioni che potranno essere utili all’interpretazione delle Sacre Scritture” (ep. ad Greg. 1).
Coerente con questo programma, sappiamo che Origene nella scuola di Cesarea di Palestina iniziava i suoi allievi allo studio della Scrittura mediante l’insegnamento preliminare delle varie filosofie greche, ad eccezione di quelle che negavano l’azione della provvidenza divina nel mondo, cioè l’epicureismo e, a livello minore, l’aristotelismo... Origene si caratterizzava soprattutto per aver dato a questi principi teorici, nonostante il rischio che essi comportavano, un’applicazione molto più organica e di vasto respiro.

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Aphrodisias, gradinate dello stadio

Ma il passaggio decisivo nella fusione di cristianesimo e mondo classico avviene, in Oriente, proprio alla fine del IV secolo e proprio qui, nei luoghi dell’odierna Turchia, attraverso le figure dei tre grandi Padri della Chiesa che vengono chiamati i Padri Cappadoci. Sono Basilio, Gregorio di Nissa, fratello minore di Basilio e Gregorio di Nazianzo che fu studente ad Atene con Basilio e che divenne suo grandissimo amico. Così M.Simonetti – vi leggo le pagg.88-91 del suo volumetto – scrive di loro:

Con Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa la fusione tra profondo sentire cristiano e paideia greca è completa e si realizza al livello più alto sia di spiritualità cristiana sia di formazione classica. Di alta estrazione sociale, educati nel modo più tradizionalmente raffinato e completo, e nel contempo cresciuti in ambienti pro­fondamente cristiani, essi realizzarono l’ideale di un cri­stianesimo colto, che sapesse accettare tutto ciò che c’era di valido nell’ellenismo, senza sfigurare le linee portanti del messaggio cristiano, in una sintesi che sarebbe rima­sta paradigmatica per la cristianità orientale. Ciò vale soprattutto per Basilio e il Nazianzeno, che completarono i loro studi ad Atene. Il Nisseno non ebbe questo privilegio.
Temperamenti diversi, il Nazianzeno rappresenta, fra i tre, la tendenza letteraria; e la sua apertura alla tradizio­ne classica è completa, senza quelle remore, seppure teo­riche, nei confronti della retorica tradizionale che (troviamo)... in Basilio e nel Nisseno: il suo stile è del più puro e sfrenato asianismo, la sua adesione ai modelli classici, sia in oratoria sia in poesia, è totale, la grande conoscenza degli autori pagani traspare ogni momento nel suo dettato sia per reminiscenze sia per citazioni pre­cise. Il Nisseno non è altrettanto dotato sul piano lettera­rio, ma è molto più approfondito su quello filosofico: Filone Plotino, soprattutto Origene, sono i suoi autori, e in tempi già tempestosi per il Fortleben di quest’ultimo non teme di riecheggiarne temi già soggetti a critica e discussione. Basilio contempera le doti letterarie dell’uno con la preparazione filosofica dell’altro in una sintesi di superiore livello, all’insegna di un senso della misura ch’è la quintessenza del classicismo e fa di lui l’insuperato esemplare di cristiano ellenizzato. Tutti e tre insieme, nella varietà di atteggiamenti e nella omogeneità dei mo­tivi ispiratori di fondo, stanno a significare la fecondità del felice incontro di cristianesimo ed ellenismo.
L’ideale che essi propugnano, l’iniziativa che portano avanti sono sostanzialmente quelli di Origene, autore che fu carissimo anche a Basilio e al Nazianzeno, ma aggior­nati ad esigenze nuove, che Origene non aveva neppure potuto immaginare. Con Origene infatti l’incontro fra kerygma cristiano e cultura greca era avvenuto in circo­stanze difficili, fra ostilità da una parte e dall’altra, e si era proposto l’adeguamento di quel messaggio alle esigen­ze del greco colto quasi esclusivamente a livello specula­tivo, al fine di fornirgli un adeguato fondamento dottrina­le in linea con la riflessione filosofica dell’epoca. Al tempo dei Cappadoci la situazione è radicalmente mutata, il cristianesimo è diventato addirittura religione di stato, e il problema è di carattere ben diverso: si tratta di vivere il cristianesimo non solo superficialmente ma con assolu­ta sincerità, e insieme non rinunciare a quanto di bello, nobile, anche raffinato aveva prodotto la civiltà greca; si tratta, insomma, di sfatare con la realizzazione pratica la convinzione di chi ravvisava radicale inconciliabilità fra la fede irrazionale dei cristiani, nemica di ogni valore del mondo, e il razionalismo greco con la sua visione sostanzi­almente ottimista del mondo. L’ambiente elevato da cui provenivano e col quale erano sempre in contatto per mille tramiti rendeva i Cappadoci particolarmente sensi­bili a questa esigenza; ed essi con la raffinatezza lettera­ria, con l’ardua speculazione filosofica, con «politesse» tipicamente ellenistica, spinta fino all’affettazione (si leggano certe lettere di Basilio e soprattutto del Nazianze­no), nell’intrattenere rapporti sia con letterati pagani sia con le più alte autorità sia con ogni altro ordine di cor­rispondenti, dimostrarono la compatibilità dell’impegno cristiano con gli aspetti più raffinati della civiltà greca. L’intransigenza della fede ispirò in loro, soprattutto in Basilio, l’intransigenza più rigida ed eloquente nei con­fronti delle mille ingiustizie che funestavano il mondo di allora, ma non li rese sordi al richiamo dei valori essen­ziali della civiltà classica, così come il saldo fondamento scritturistico della loro formazione li rese aperti all’ap­porto della ricca tradizione filosofica greca.
Questa sintesi operata dai Cappadoci fra cristianesimo ed ellenismo è tanto più significativa in quanto la loro ade­sione al cristianesimo si realizzò nella forma più spetta­colarmente estranea allo spirito greco, quella del mona­chesimo. Soprattutto Basilio e il Nazianzeno sentirono a fondo il sottile fascino della ricerca della perfezione nell’allontanamento dal mondo, e Basilio fu anche grande organizzatore di vita monastica. Ma essi compresero che l’ideale monastico non s’identificava con gli eccessi asce­tici e le costumanze pittorescamente contestatrici di certo monachesimo egiziano e siriaco; lo sfrondarono da queste sovrastrutture appariscenti, in cui l’ascesi si sposava spesso ad un esibizionismo di poco significato cristiano; dimostrarono che il rifiuto della sapienza del mondo non deve significare totale ignoranza. Ridotto così alla sua vera essenza, che è ricerca di perfezione cristiana nell’allontanamento dal mondo per un più diretto e continuo contatto con Dio, l’ideale monastico non solo non è incompatibile con certi valori essenziali della tradizione greca, ma sa addirittura trarre frutto dall’amor Dei intellectualis, che di quella costituisce una delle conquiste più alte... la durezza dei tempi mise ben presto a dura prova l’ideale di cristianesimo ellenizzato proposto dai Cappadoci, ma non ne avrebbe scalfito il significato esemplare.

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Aphrodisias, l'agorà

M.Simonetti sottolinea come, in questa valorizzazione, sia decisiva una scelta di formazione scolastica, una scelta educativa. La valorizzazione dei classici avviene attraverso la proposta del loro studio richiesto come propedeutico addirittura in vista di un corretto studio delle Sacre Scritture e della loro interpretazione. Non è sufficiente, allora, una formazione teologica, ma il giovane necessita di tutte le risorse sviluppate da quelle che chiameremmo oggi “scienze umane”. Così ancora M.Simonetti alle pagg.76-77:

Ormai anche là dove l’impegno cristiano era più profondo, l’esistenza della scuola pagana non era messa in discussione: Basilio nel Ai giovani considera lo studio delle Sacre Scritture troppo impegnativo, con i loro misteri, per giovani in tenera età, che invece nella istruzione classica acquisteranno le attitudini necessarie per poter in seguito affrontare quello studio,così come l’istruzione ginnica deve precedere quella militare. L’opera, che Basilio indirizzò a due suoi giovani parenti che si accingevano ad intraprendere gli studi, ebbe fortuna immensa, e stabilì in modo definitivo per l’Oriente anche bizantino i modi della utilizzazione cristiana degli autori classici:
Dato che alla nostra vita dobbiamo giungere per mezzo della virtù, per spingerci ad essa molte cose hanno detto i poeti, colte gli storici, molte di più i filosofi, alla parola dei quali bisogna soprattutto applicarsi. Infatti è non poco utile che l’anima dei giovani acquisti familiarità e abitudine con la virtù, poiché tali insegnamenti, se s’imprimono in profondità grazie alla malleabilità delle anime, diventano irremovibili”. Dato però che negli autori classici si trova il bene misto col male, bisogna saper scegliere, prendere la rosa ed evitare la spina.

La mia convinzione odierna è che questo rapporto con il passato e con i classici, oltre che l’amore per la cultura del nostro tempo, sia la chiave di volta per lo sviluppo delle nuove generazioni musulmane. Soprattutto là dove un confronto diretto ed aperto con il cristianesimo è impedito. Non è l’esportazione del consumismo che fa evolvere l’Islam! E’, invece, un accresciuto amore a ciò che è l’uomo ed, in conseguenza, alla capacità dell’uomo di esprimersi attraverso le tante forme che possediamo: la letteratura, la musica, il cinema, l’arte, l’affettività, il pensiero e la filosofia. Credo che una ricchezza a questo livello non possa che far bene. Ed è molto bello vedere in tanti giovani turchi una passione per tutte le creazioni dello spirito umano e, attraverso di esse, all’uomo in quanto tale. Da questo punto di vista, è evidente che il mondo arabo – pur nelle enormi differenze fra un paese e l’altro – è globalmente più indietro. Questo ha una sua profonda ragione storica che non dobbiamo dimenticare, per non limitarci ad esprimere giudizi moralistici: il mondo arabo si era incamminato anch’esso in questa strada, ma ha vissuto una battuta d’arresto, alla fine del Medioevo, a causa della dominazione Turca.

Vediamo cosa è avvenuto, a grandissime linee, nel Medioevo. Il periodo dei Padri, che vi ho brevemente richiamato, non si chiude in se stesso. Il mondo medioevale, soprattutto in alcuni secoli specifici – non dimentichiamo che il concetto di Medioevo, sebbene lo usiamo correntemente, è un concetto di per sé anticlericale e, comunque, grossolano, tanto è vero che racchiude un periodo di almeno 10 secoli enormemente diversi fra loro! – ha avuto un amore per la classicità ancora più grande che nei primi secoli di storia del cristianesimo. E questo è avvenuto anche in alcuni territori di dominazione musulmana. Uno dei campi di ricerca che ha fatto progredire di più gli studi di storia della filosofia medioevale, nel secolo scorso, è stato quello della storia delle traduzioni dal greco dei testi dei filosofi classici. Si è scoperto che molti testi di Aristotele sono arrivati, all’inizio, in Occidente attraverso la mediazione delle traduzioni arabe. Platone ed Aristotele non erano tradotti solo in latino, ma anche in arabo ed in ebraico. Sapete che Afrodisias è nota anche per il suo filosofo Alessandro di Afrodisia, il più celebre commentatore antico di Aristotele. Ebbene, nel Medioevo, a Toledo sorge una scuola di traduttori di Aristotele, perché il vescovo desidera che sia conosciuto e studiato. Lui, un filosofo pagano! Molti testi di Aristotele vengono tradotti in arabo da filosofi musulmani perché tali pensatori ritenevano necessario, per la loro ricerca teologica, essere nutriti non solo del Corano, ma anche degli scritti filosofici classici. E’ proprio nel Medio Evo che il mondo arabo ha avuto delle aperture culturali che oggi sono impensabili. Sapete che il sistema di numerazione che usiamo e che chiamiamo numerazione araba, non è in realtà arabo, ma indoeuropeo, ma furono gli studiosi di matematica araba a tradurre i testi dei matematici dell’Estremo Oriente e, tramite loro, arrivarono anche in Europa. La parola “algebra” è una parola araba – così come altri termini matematici - e così pure le equazioni di terzo grado sono state sviluppate da matematici arabi medioevali. Abbiamo, infatti, dei matematici di primissimo livello, nei secoli che vanno dal IX al XII secolo, come al-Khuwarizmi, Thabit ibn-Qurra, Abu’l-Wafa, al-Karkhi, Ibn-Sina (Avicenna, che fu soprattutto filosofo), al-Biruni, ibn-al-Haitham (Alhazen), Omar Khayyam, Nasir Eddin, al-Kashi. Soprattutto nella Spagna musulmana, a Baghdad ed in Persia. La dominazione turca non solo pose fine all’impero bizantino, ma sottomise per secoli (fino alla fine della I guerra mondiale) il mondo arabo, impoverendolo molto soprattutto dal punto di vista culturale. Alla fine della dominazione ottomana il livello degli studi nelle città arabe non era più assolutamente paragonabile a quello delle città europee.

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Aphrodisias, il tempio di Afrodite, trasformato in basilica cristiana

Quello dello studio, della formazione, resta uno degli impegni che la Chiesa sostiene con più energia e, dove le viene concesso, non si stanca di aiutare popoli anche di altre religioni in questo cammino di passione per la cultura, formatrice di umanità e di sviluppo.

Un aspetto ancora, spesso a torto trascurato, che voglio richiamarvi qui è quello del diritto. Questo atteggiamento di valorizzazione e di stima della classicità e dell’umanesimo, questo amore per una cultura che non aveva avuto la stessa religione del cristianesimo, religione ormai dominante nell’impero, ha portato con sé anche un profondo apprezzamento del diritto romano. Proprio Giustiniano, l’ultimo imperatore che ha unificato Oriente ed Occidente, è noto per un capolavoro giuridico, che ha fatto scuola per tutti i secoli successivi, il Codex Iuris Civilis o Codex Justinianus. E’ sotto il suo governo che furono fatte ricerche e fu raccolta la legislazione romana precedente, perché la si ritenne frutto altissimo di ricerca giuridica per i rapporti fra le persone, nello Stato.

La laicità della politica e dello Stato non ha la sua origine prima nella rivoluzione francese. Non solo perché i diritti dell’uomo proclamati nel 1789 sono cronologicamente preceduti dai diritti proclamati in Virginia (1776) e poi negli altri stati americani, proprio nel nome di Dio, ma, ancor più, perché la separazione fra religione e politica affonda nella concezione originaria del cristianesimo, nel suo rapportarsi alla realtà civile.
Il cristianesimo, non nascendo come religione di Stato - e nemmeno preoccupato della conquista di uno Stato - si sviluppa avendo nel suo DNA la differenziazione dalla compagnie statale. Il principio affermato da Gesù “Date a Cesare ciò che è di Cesare ed a Dio ciò che è di Dio”, ripreso immediatamente da Paolo e dagli altri testi neotestamentari, rinvia ad un rispetto dell’autorità civile. Il cristianesimo non nasce così in prospettiva anarchica, poiché non idealizza né una dissoluzione dello Stato, né una occupazione di esso. Il tentativo degli apologeti - gli scrittori cristiani del II secolo che scrivevano delle apologie, delle difese/presentazioni del cristianesimo per chi non lo conosceva o lo avversava - dinanzi alla ricorrente accusa rivolta ai cristiani di essere “odiatori del genere umano”, sarà proprio quello di mostrare come il cristiano sia un fedele servitore dello Stato. Il cristiano non rifiuta lo stato – spiegavano gli apologeti – ma rifiuta di esso solo il suo eventuale farsi divino, il pretendere un ossequio religioso, nella venerazione cultuale degli imperatori o dei loro dei. Ad eccezione di questo, in tutto, il cristiano si conforma al diritto ed alle leggi per contribuire al bene della compagine civile stessa.

E, quando la maggioranza dei cittadini diverrà essa stessa cristiana e lo stesso imperatore sarà un figlio della Chiesa, mai la legge stessa rivelata, mai la Bibbia, pretenderà di divenire legge statale. Sarà così lo stesso imperatore cristiano, nella persona di Giustiniano o più tardi di Leone VI, a far curare la raccolta delle leggi romane, lo Jus Romanum, perché ne derivi l’ordinamento dello Stato e dei suoi cittadini. La cultura giuridica, coltivata da autori cristiani nello studio della legislazione romana, sarà uno dei capisaldi della civiltà tardoantica e medioevale. L’idea di una sharia cristiana, di una legge civile che sia direttamente derivata dalla Bibbia, non è mai stata difesa dalla Chiesa; semmai è stata proposta da frange minoritarie o protestanti, animate da una forte tensione utopica, che si sono contrapposte alla grande Chiesa ed al suo realismo storico. Voglio leggervi un passaggio di un acuto saggio giovanile dell’attuale card.J.Ratzinger che, paragonando la visione politica di Agostino e di Origene, affermava:

Per Agostino gli Stati e le patrie della terra passano a un rango secondario perché ha trovato la città, lo Stato di Dio e in esso la patria unica di tutti gli uomini. Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono “Stati terreni” anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono Stati su questa terra e quindi “terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo stato romano come sua patria e si è preoccupato amorevolmente del suo perdurare. Ma giacché tutte queste formazioni non sono infine e non rimangono che stati terreni, rappresentano un valore relativo e non meritano una sollecitudine d’ordine supremo. Essa spetta soltanto alla patria eterna di tutti gli uomini, alla civitas caelestis... convinto che con questo nome, civitas caelestis, può essere chiamata non solo la celeste Gerusalemme avvenire, ma già anche il popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il deserto del tempo terreno: la Chiesa (J.Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 1973, pagg. 95-97).

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Aphrodisias, il Sebasteion

Da qui, nella tradizione cristiana, contro ogni tentazione anarchica ed utopistica, l’amore e la cura dello Stato, delle autorità nazionali, comunali, municipali, delle forze dell’ordine, dell’esercito stesso, delle corporazioni professionali e del loro sviluppo.

La coscienza della differenza fra fede e politica è ciò che ha permesso ai cristiani di riconoscere, nel dispiegarsi delle diverse stagioni, quella tentazione di dominio che li ha, invece, talvolta presi. Così pure quando cristiani hanno preteso di ottenere con la forza ciò che solo la libera adesione di fede è in grado di conseguire. Le richieste di perdono su questi temi – secondo la grande intuizione di Giovanni Paolo II - si radicano proprio in questa distinzione fra l’adesione di fede e le norme che debbono regolare il vivere civile.

Non vi sembri, allora, una parentesi senza significato, nell’itinerario del nostro pellegrinaggio, il passeggiare per le rovine di Aphrodisias. Anche noi mettiamoci tra coloro che onorano la grande figura di Kenan T.Erim, l’archeologo che tanti anni ha dedicato a questa città. L’avere la certezza della fede non ci renda mai incapaci di apprezzare l’opera dell’uomo, non ci renda mai autosufficienti, come se l’avere la fede ci rendesse per ciò solo capaci di dettar legge in ogni campo della vita o del sapere. No! La fede è quello sguardo particolare che riempie di sé ogni aspetto della vita, ma insieme rispetta e venera la vita perché l’uomo stesso è originato dallo stesso Dio che ci dona la fede. Ed ammirare l’opera dell’uomo è rendere gloria al Creatore stesso dell’uomo.


[Turchia e Patmos]