La fierezza della bellezza e/o la dolcezza della bellezza come autoreferenzialità o come segno, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /04 /2021 - 00:19 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Educare all’affettività.

Il Centro culturale Gli scritti (18/4/2021)

Una donna può e deve essere fiera della propria bellezza. Può e deve sapere di piacere. E godere nel sapere di piacere.

Lo stesso vale per un uomo.

Ma esiste uno scatto di qualità che pochissime compiono. Esiste un piacere che pochissimi hanno mai sperimentato.

Eppure è solo tale passaggio, è solo tale svolta, che permette di apprezzarsi appieno, di godere appieno della propria bellezza, di saperla mostrare come deve essere mostrata.

È solo tale passaggio che nobilita fino in fondo la bellezza.

È quando chi porta tale bellezza è cosciente che essa è segno della bellezza di Dio che l’ha creata.

Mai avevo pensato così chiaramente a tale “qualità” della bellezza. Mi è venuta in mente scorrendo le pagine di un libro di Aldo Trento, Cristo e il lavandino[1], nel capitolo in cui egli tratta del vestire e di cosa comunichi agli altri il nostro modo di vestire.

Lì, fra le righe, per la prima volta ho intuito cosa voglia dire godere della bellezza di una persona, sapendo che essa ti viene regalata da Dio stesso. Che tale bellezza esiste perché esiste una bellezza infinitamente più grande.

E cosa voglia dire per una persona sentirsi bella, sapendo che non è a caso e non è senza un senso che si è creati belli. Portando la propria bellezza con l’umiltà di chi ha ricevuto un dono e rimanda al donatore da cui l’ha ricevuta. E, per questo, divenendo dolcezza e dono.

È la grande questione del segno. Se il mio corpo e la mia dolcezza parlano solo di me o se sono segno anche di altro. È la grande questione se esista un cuore del mondo a cui tutto rimanda. Essere segno o non essere segno: questo è il dilemma. Essere io, solo io. O essere più di me, segno. Questo è il problema.

P.S. Il volumetto di Trento propone, fra l’altro, un aneddoto relativo a san Tommaso d’Aquino che potrebbe essere apocrifo – nessun domenicano me ne ha confermato l’autenticità – ma che è profondamente evocativo:

«Ricordo sempre con commozione il racconto di san Luigi IX, re di Francia che invitò san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino a cenare nella sua dimora reale. Intorno al tavolo vi erano lì loro tre, oltre alla moglie del sovrano. La cena era iniziata e mangiavano tutti con gusto. L'unico che non toccava cibo era san Tommaso d'Aquino, che era come estasiato dalla bellezza della moglie del re. I suoi occhi continuavano a guardare in direzione della donna. Il re se ne accorse e, un po' nervoso, chiese spiegazioni al santo per quell'atteggiamento. Tommaso d'Aquino rispose: “Maestà, sono commosso dalla bellezza di sua moglie, che mi obbliga a pensare: se ella è tanto bella, come sarà il suo Artefice, il Creatore di tutto?”»[2].

Note al testo

[1] A. Trento, Cristo e il lavandino, Torino, Lindau, 2011, pp. 31-35.

[2] A. Trento, Cristo e il lavandino, Torino, Lindau, 2011, p.33.