«Dante ha fatto più per l’Italia, per la gloria e per l'avvenire del nostro Popolo, che non dieci generazioni d'altri scrittori o d'uomini di stato». “Dante”: testo integrale dell’articolo che Giuseppe Mazzini scrisse per gli Operai Italiani in Londra sulla rivista da lui fondata, l'Apostolato Popolare

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /04 /2021 - 23:31 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito l’articolo che Giuseppe Mazzini scrisse nel 1841 per gli operai italiani di Londra, sulla rivista da lui fondata, l'Apostolato Popolare (G. Mazzini, Dante, in Id., Scritti editi e inediti, IV, Letteratura, II, Milano, Daelli, 1891, pp. 19-32). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Dante Alighieri e Il Risorgimento.

Il Centro culturale Gli scritti (4/4/2021)

N.B. de Gli scritti. Fu il Risorgimento a riconoscere in Dante il padre dell’Italia, ben prima che gli animi risorgimentali potessero realizzare quell’unità che era già nella cultura, a partire dal medioevo. Cfr. su questo Fu Giuseppe Mazzini a riscoprire Dante come padre della lingua italiana e a darne l’interpretazione di primo patriota italiano, quasi precursore del Risorgimento, di Andrea Lonardo.

D A N T E[1]

15 settembre 1841

Nella chiesa di Santacroce in Firenze, tra i nomi di molti grandi Italiani, un monumento, innalzato da non molti anni, porta il nome di DANTE ALLIGHIERI. A Porciano, poche miglia lontano dalle fonti d'Arno, i contadini indicandovi la torre maggiore, vi dicono ch'ivi Dante fu prigioniero. In Gubbio, trovate una via che ha nome da Dante, e s'insegna con orgoglio, una casa ov'ei fu. A Tolmino, presso a Udine, i montanari additano al viaggiatore la grotta ov'egli lavorava, il sasso su ch'egli sedeva. In ogni città d'Italia, primo nome che vi s'affaccia allo sguardo, appena v'arrestate davanti all'invetriata d'un libraio, il primo ritratto che v'affascina l’occhio ogni qual volta voi guardate per entro a una bottega di stampe, è quello di Dante. Chi fu l'uomo, il cui nome è fidato alle memorie di tutto un popolo? Che fece egli per la Nazione che dopo cinque secoli e mezzo continua ad ammirarlo e a raccontarne il ricordo alle generazioni che verranno? Pochi tra voi lo sanno. Alcuni hanno udito ch'ei fu potente Poeta, e ignorano perché fu potente, quali idee lo animassero, qual fede lo dirigesse ne' suoi lavori. Nessuno forse sa ch'ei fu grande sovra tutti i grandi Italiani, perché amò sovra tutti la Patria, e l'adorò destinata a cose più grandi che non spettano a tutti gli altri paesi.

Nessuno sa che infelicissimo, ramingo, mendico, Dante conservo intatto fino all’ultimo giorno il pensiero che dominò la sua vita, e morì confortato, cinque secoli addietro, nella credenza che l'Italia sarebbe un giorno Nazione e direttrice una terza volta dell'incivilimento Europeo. Pure, qual forza non aggiungerebbe alla vostra fede il sapere che il più grande intelletto di tutta Italia, anzi di tutta Europa, era credente nella credenza che noi predichiamo, e tendeva allo scopo medesimo che noi oggi cerchiamo raggiungere?

Dante fu tale uomo, che a nessuno Italiano, comunque sfornito d'educazione, dovrebbe essere concesso senza rimprovero d'ignorarne il nome, i meriti, i patimenti e i pensieri. Dante ha fatto più per l’Italia, per la gloria e per l'avvenire del nostro Popolo, che non dieci generazioni d'altri scrittori o d'uomini di stato. Gli stranieri i più vogliosi di vilipenderci e dichiararci per sempre impotenti, s'arretrano quasi con terrore davanti a quel nome che nè secoli, nè viltà di servaggio, nè tirannia di stranieri, di principi nostri e di gesuiti hanno potuto o potranno mai cancellare: la terra che ha fecondato un'anima così potente è terra singolare e cova una vita che non può spegnersi. Tutti gli ingegni Italiani che scrissero virilmente e giovarono al progresso dell’idea Nazionale, trassero gran parte della loro ispirazione da Dante.

Dante può riguardarsi come il padre della nostra lingua: ei la trovò povera, incerta, fanciulla, e la lasciò adulta, ricca, franca, poetica: scelse il fiore delle voci e dei modi da tutti i dialetti, e ne formò una Lingua comune che rappresenterà un giorno fra tutti noi l’Unità Nazionale, e la rappresentò in tutti questi secoli di divisione in faccia alle nazioni straniere. Dante fu grande come poeta, grande come pensatore, grande come politico nei tempi suoi: grande oltra tutti i grandi perché , intendendo meglio d'ogni altro la missione dell'uomo Italiano, riunì teorica e pratica, potenza e virtù: — Pensiero ed Azione. Scrisse per la Patria, congiurò per la Patria: trattò la penna e la spada. Costante nell'Amore, adorò fino all'ultimo giorno la memoria della donna che gli insegnò prima ad amare. Irremovibile nella Fede, patì miseria, esilio, persecuzioni, nè mai tradì la riverenza alla Patria, la dignità dell'anima, la credenza ne' suoi principii. Le madri Italiane un giorno ne trasmetteranno la vita, come insegnamento, ai fanciulli Italiani. Giova intanto indicarla per cenni al popolo ch'egli amò e che ne tradurrà un giorno in fatti il pensiero.

DANTE ALLIGHIERI nacque in Firenze, s'ignora in quale giorno del mese di maggio dell'anno 1265, da una famiglia d'antica discendenza romana: il padre tu giureconsulto; la madre ebbe nome Bella, non si sa di qual casa: il figlio, battezzato in San Giovanni, fu detto Durante, che s'accorciò poi in Dante. Madre e padre morirono, quand'egli era ancora fanciullo di nove anni o poco più.

Il primo fatto che noi conosciamo della vita di Dante è il suo primo amore. Condotto il primo giorno di maggio 1274 nelle case di Folco Portinari, ricco cittadino fondatore dell'ospedale di Santa Maria Nuova, innamorò di Beatrice, figlia di Folco, fanciulla d'otto anni e mesi. Questo amore, concepito a nove anni, ispirò, dominò tutta intera la vita di Dante: fu l'anima dell'anima sua. La storia del suo innamoramento sta registrata in un libretto intitolato Vita nuova, scritto da lui medesimo in gioventù: nè mai amore più puro, più caldo, più gentile e poetico si mostrò fra viventi. I primi versi ch'egli, nove anni dopo l'innamoramento, compose, riguardano Beatrice, e non molto dopo egli decideva che avrebbe fatto immortale quel nome, e lo fece. Fu riamato, ma castamente, quietamente e certo con meno fervore. Non s'accasarono, forse per la diversità di condizioni materiali. Beatrice fu data in moglie a un Simone dei Bardi, e non molto dopo, nel 1290, morì. Dante l'amò sempre dell'amore dell'anime, pensò ch'essa, dall'alto d'una vita migliore, lo proteggesse e lo guidasse a virtù, e ne perpetuò la memoria nel suo POEMA.

Alcuni de' suoi versi d'amore per lei, inseriti nella Vita Nuova, sono superiori a quei del Petrarca, il cui affetto sentiva spesso meno dell'uomo che del letterato.

Intanto ei pensava alla patria, e s'occupava, come deve ogni uomo che nasce in libero stato, delle cose pubbliche. Già egli aveva, nell'età di ventiquattro anni, combattuto valorosamente nelle prime fila della cavalleria Fiorentina a Campaldino contro i Ghibellini d'Arezzo; e l'anno dopo nella guerra dei Fiorentini contro ai Pisani. Ma nel 1300, a trentacinque anni d'età, ei fu eletto uno dei Priori in Firenze, quando le discordie civili fra i così detti Bianchi e Neri infuriavano nella città. Dante ottenne che i capi delle due fazioni fossero mandati in esilio. S'era proposto di ricorrere, come a mediatore, a uno straniero, Carlo di Valois, protetto di Papa Bonifazio VIII, e di confidargli l'armi e il danaro della città: Dante s'oppose. Pare ch'ei fosse amato da' suoi colleghi di governo: fatto è che allontanato sotto pretesto d'ambasceria a Roma, mentr'egli cercava indurre a fini di pace Papa Bonifazio VIII, e Papa Bonifazio VIII lo teneva a bada, si trovò condannato in Firenze, da un tribunale composto di Neri, a una multa d'ottocento lire e a due anni d'esilio, e la gente della fazione che lo condannava die' il guasto a' suoi averi e alla sua abitazione. Il processo era ingiusto e feroce; lo condannava assente per falli non veri, su false scritture; lo condannava per azioni spettanti al tempo del suo Priorato, che nessuno aveva più diritto d'esaminare. Dante non fe' conto del giudizio, non pagò la multa, non si presentò. I suoi nemici, crescendo in ira, fulminarono contro lui una seconda condanna, e, nel marzo 1302 decretarono ch'egli, dove mai fosse preso, fosse arso vivo. D'allora in poi, Dante, tenuto dapprima per Guelfo, fu tenuto, ed è tuttavia tenuto da tutti per Ghibellino. L'aver mutato partito è l'unica colpa di che gli scrittori poco favorevoli a lui credano poterlo accusare: l'unica di che i favorevoli si credano in dovere di cercargli scuse. E perchè mutare partito, non per convinzione maturata, ma per ira e nimicizie personali o persecuzioni patite, e delitto dei più gravi che la potenza dell'intelletto aggrava più sempre, è necessario spiegarvi, quanto è concesso in poche parole, il vero di questa accusa, perchè non crediate che acciecati dal Genio noi proponiamo alla vostra venerazione un colpevole.

Il vero è che Dante non fu Guelfo nè Ghibellino, ma com'egli dice in un verso del suo poema, s'era fatto parte per sè stesso. Le idee di Dante erano ben altre e più ardite che non quelle dei Guelfi o dei Ghibellini. Egli fu quindi or cogli uni or cogli altri, tanto quanto gli parevano poter giovare come mezzi a raggiungere lo scopo ch'ei s'era prefisso non più. Inoltre, i partiti allora, per la natura dei tempi e per influenza continua degli eventi stranieri, mutavano spesso nome, capi, alleati, così che l'individuo il quale si rimanea fermo nelle prime credenze pareva mutare a riguardo del proprio partito. Cangiò il Guelfismo, non Dante.

I Guelfi erano i difensori del Papa, i Ghibellini dell'Impero. L'Impero rappresentava l'organizzazione feudale, l'aristocrazia: i nobili quindi furono ghibellini. Il municipio, il Comune, il popolo insomma fu Guelfo. Il Guelfismo trionfò. Il Comune si stabilì irrevocabilmente. Il feudalismo diventò impossibile. Rimase influenza, e in alcune parti potere, a taluni, fra gli individui della nobiltà; ma la nobiltà, come corpo, fu spenta, d'allora e per sempre, in Italia.

Bensì, il popolo vincitore non seppe trarre tutto il frutto che si poteva dalla sua vittoria. I tempi non erano maturi per la Nazione. Rimase dunque tra quei Comuni senza legame un fermento d'anarchia che suddivise i partiti, e creò nuove liti, non di principii ma di passioni, d'interessi, d'ambizioni individuali. I papi che per tenerla divisa chiamavano in Italia uno straniero contro l'altro, le attizzavano sempre più. Sotto Urbano IV, che chiamò in Italia Carlo d'Angiò, i partiti s'erano già modificati. Sotto Bonifazio VIII, che chiamò Carlo di Valois, cangiarono interamente. I Guelfi e i Ghibellini diedero luogo ai Bianchi e ai Neri: popolani i primi, patrizi i secondi. I Neri parteggiavano per Carlo di Valois, e perchè Carlo era stato chiamato da Bonifazio VIII, si dissero Guelfi. I Bianchi stavano contro il Francese, e dacchè i Ghibellini s'erano mostrati avversi ai Francesi fin dalla chiamata di Carlo d'Angiò, s'affratellarono con essi, quando Carlo di Valois li cacciò da Firenze.

Dante fu Guelfo ne' suoi primi anni di gioventù; poi fu Bianco: sempre col Popolo, cioè con l’elemento della Nazione futura.

Ma i tempi non erano allora, come abbiam detto, maturi per la Nazione. Il popolo non andava più in là dell'idea di Comune. I Papi non potevano nè volevano fondare l'Unità Italiana; e l'Unità Italiana era il pensiero predominante nell'anima di Dante. Cercando per quali mezzi potesse fondarsi, ei si trovava tra la Francia e la Germania; ambe tendenti a governare l'Italia: ma la Francia, forte per unità, pericolosa per la simpatia che svegliava pur troppo fra noi; la Germania, incapace allora d'Unità, incapace, per la lingua, per l'opposizione dei Papi e altro, di conciliarsi favore. L'Imperatore era intanto riconosciuto da tutta Europa come centro nominale dell'autorità temporale. Dante, non potendo distruggere questo fatto, volea giovarsene; ma in qual modo?

A Dante poco importava che l'uomo il quale avrebbe rappresentato, vivo lui, l'Impero, fosse Italiano o Germanico: più che l'Imperatore, gli importava l'Impero: gli importava di toglierlo alla Germania e di ripiantarlo in Italia; gli importava, che dall'Italia partisse allora come sempre la parola dell'Autorità, la direzione del movimento Europeo. Dante sentiva fremersi dentro l'orgoglio della vita Italiana più potente che non fu nei migliori tra' suoi concittadini fino ai tempi nostri. La Patria era per lui una Religione. Adorava in essa non solamente il bel paese dov'egli avea ricevuto la prima carezza materna o salutato il primo sorriso d’amore di Beatrice, ma la terra destinata da Dio alla grande missione di dare unità morale all'Europa e per mezzo d’Europa all'Umanità. Ei piantava per base «che il popolo Romano avea per diritto e per divina predestinazione preso impero sopra' tutti i mortali — che Roma era la sede preparata dalla Provvidenza all'Impero.» Affermava «che nessun popolo avea più dolce natura nel signoreggiare, più forte nel sostenere, più sottile nell'acquistare, della gente latina, massimamente del santo romano popolo». Credeva che «fossero degne di reverenza le pietre che stanno nelle mura della santa e gloriosissima Roma, e il suolo dov'ella siede fosse degno oltre quello che per li uomini è predicato e provato.» Roma, capitale dell'Italia, era dunque sede naturale dell'Impero universale: in Roma dovea collocarsi il rappresentante di questo Impero: da Roma partire l’ispirazione all'Umanità. È chiaro che con siffatte credenze, consegnate da lui in libri che pochissimi fra gl'Italiani leggono, intitolati Convito e Della Monarchia, Dante si separava tanto dai Ghibellini quanto dai Guelfi. I Ghibellini volevano sottomettere l'Italia all'Impero Germanico: Dante volea assorbire l'Impero Germanico in Roma, e provare che a nessun uomo, Italiano o straniero, era possibile esercitare ragionevolmente codesto Impero se non dall'Italia e da Roma.

Tale era il pensiero di Dante, dell'uomo il più potente per ingegno che sia nato in Italia.

Nè mai egli tradì quel pensiero. Tutta la sua vita, combattuta e tristissima vita, fu d'uomo che sente la dignità della propria fede e non vuole contaminarla. Cacciato in esilio, cercò d'operare per le proprie credenze. Gli esuli lo elessero nel 1302 membro d'un Consiglio di dodici che doveva occuparsi delle cose loro; ma trovando che i suoi colleghi operavano stoltamente, Dante li abbandonò. Ritentò nel 1307, ma inutilmente. Andò pellegrino per tutta Italia, di città in città, di corte in corte, tormentato dall'ira generosa che alternava in lui coll'amore, dalla miseria, dal tedio compagno inseparabile dell'esilio, e da un pensiero insistente che lo affaticava, ma senza avvilirsi, senza tradirlo col silenzio o con atti non degni. Trattato con sospetto o con fasto villano dai capi di parte, or Guelfi or Ghibellini, che lo ospitavano, imparò

«…… come sa di sale
Lo pane altrui, e come è duro calle
Lo scender e il salir per l'altrui scale.»

imparò a diffidare della fama, della riconoscenza, dell'amicizia; e d'ogni cosa fuorchè dell'anima sua, dell'avvenire della sua Patria e di Dio: imparò quel desiderio di morte che stilla a goccia a goccia nelcuore dell'esule finchè invada tutta la sua persona, e ch’egli espresse in quegli altri suoi versi

«…… non so quant’io mi viva
Ma già non fia il tornar mio tanto tosto,
ch’ia non sia col voler prima alla riva.»

E imparò, studiando gli uomini e le cose e i condottieri ambiziosi e i tirannetti italiani nei quali ad ora ad ora ei cercava infondere un pensiero generoso d'unificazione Italiana, che non v'era nulla da sperare e l’amarezza di quell'idea che dice: tu morrai senza vedere verificato il concetto più santo dell’anima tua. E nondimeno, durò. Non piegò vilmente la testa davanti al soffio della sventura, o se la piegò talora segretamente, fu

«come la fronda che flette[2]la cima
Nel transito del vento, e poi si leva
Per la propria virtù che la sublima.»

Patì in silenzio: scrisse; consegnò via via nel Poema eterno al quale lavorava, le impressioni dell’anima, le sue vendette contro ai malvagi, le sue benedizioni ai pochissimi che trovò buoni, serbandole per gettarle ai posteri dietro il sepolcro; e intanto quando gli eventi glie ne porgevano occasione, non tralasciò mai di predicare le proprie credenze, e di chiamare all’Unità la sua Patria.

Intorno al 1316, quand'egli era vecchio di cinquantun anno, quei che governavano Firenze gli offrirono di ripatriare e di riavere i suoi beni a patto ch'ei si dichiarasse perdonato, e quindi colpevole. Altri, invitato, accettò; ma Dante negò; e noi vogliamo tradurvi quel tanto che ci è rimasto della lettera latina con ch'egli rispose all’amico che gli trasmetteva quella proposta, perchè l'anima di Dante v'è tutta scolpita, e porchè molti esuli dei tempi nostri hanno bisogno di meditarla.

«Dalle vostre lettere, colla debita riverenza e con affetto da me ricevute, ho con animo grato e pensatamente raccolto quanto vi stia a cuore ch'io ritorni alla patria: e tanto più io vi sono riconoscente quanto è più raro che gli esuli incontrino amici. Rispondo or dunque alle cose in quelle significate, e se nol fo come forse la pusillanimità di taluni vorrebbe, prego affettuosamente che l'esame della vostra prudenza preceda il giudizio.

«Le lettere del vostro e mio Nipote e d'altri parecchi amici mi dicono che in virtù di decreto novellamente escito in Fiorenza sull'assoluzione degli esuli, io, purchè accettassi di pagare una certa somma e sottomettermi alla vergogna dell'oblazione, potrei, rimanendomi assolto, tornare in patria immediatamente. Nel che, per vero dire, sono, o Padre, due cose degne di riso e mal consigliate; mal consigliate dico, accennando a quei che le espressero, dacchè le vostre lettere più prudenti e assennate non contenevano siffatte proposte.

«È questo dunque il glorioso modo per cui Dante Allighieri è richiamato, dopo quasi quindici anni di esilio, alla patria? Questo merita un'innocenza a tutti patente? Questo i sudori e le lunghe fatiche negli studi durate? Lungi dall'uomo della Filosofia famigliare questa inconsiderata bassezza degna d'un cuore di fango, ch'egli a guisa di certo misero saputello e d'altri vuoti di fama patisca, quasi vinto d'essere offerto al riscatto! Lungi dall'uomo apostolo della giustizia, ch'egli, offeso d'ingiuria, paghi agli offensori, quasi lo avessero beneficato, un tributo del suo!

«Per via siffatta, o padre mio, non si ritorna alla patria; ma se un’altra per voi o poscia per altri si troverà che non tradisca la fama o l'onore di Dante, io mi v'appiglierò a passi non lenti; e se per via si fatta non s'entra in Fiorenza, io mai in Fiorenza non entrerò. Che? non vedrò io d'ogni dove le sfere delle stelle e del sole? Non potrò io d'ogni dove sotto il cielo meditare intorno alla dolcissima verità, se prima io non mi tolga ogni gloria, anzi mi renda ignominioso al popolo e alla città Fiorentina? Pane, certo, non mi mancherà».

Per siffatta risposta i Fiorentini gli rifulminarono contro un altro bando. Bensì Dante trovava, negli ultimi anni della sua vita, stanza più riposata e confortata di cure amichevoli, presso Guido, signor di Ravenna, e per breve tempo anche in Verona nella Corte di Cane della Scala, famoso a quei tempi e capitano della Lega Ghibellina. Dante avea moglie, una Gemma Donati, da lui presa dopo la morte di Beatrice, ma non l'ebbe mai seco da quando fu esule: avea figli, ma è incerto s'ei ne avesse mai presso alcuno. Scrisse, oltre il Poema, più libri latini e italiani dei quali or non importa parlarvi. Amava con ardore la musica, e sapea di disegno. Aveva il volto bruno di colore, mestamente severo e pensoso. Era di mediocre statura, alquanto curvo nelle spalle. Parlava poco, eloquentissimo quando s'incaloriva. Morì nel 1321, il 21 settembre, in età di cinquantasei anni, di ritorno da una ambasciata a Venezia per Guido Novello, signor di Ravenna, che lo accorò pel mal esito. Guido gli celebrò i funerali, e poco dopo fu costretto dai casi a fuggir di Ravenna a Bologna. Nè se i figli suoi non s'opponevano virilmente avremmo in oggi certezza del luogo ove dormono l’ossa del più grande pensatore d'Italia, dacché il Cardinale Poggetto si mosse verso Ravenna non molto dopo la fuga di Guido, con ordine di Papa Giovanni di dissotterrare l'ossa di Dante e maledirle e disperderle.

Un giorno, Dante pellegrinando venne al monastero del Corvo in Monte Caprione nella Lunigiana, e richiesto da un frate che si cercasse, rispose: PACE. Pace, nessuno, frate o altri, poteva dargliela in terra. Ma la pace dei morti, s'essi, come crediamo, guardano ancora con amore alle cose nostre, e l'adempimento del pensiero che li agitò sulla terra. Volete voi Italiani, onorare davvero la memoria dei vostri Grandi e dar pace all'anima di Dante Allighieri? Verificate il concetto che lo affaticò nella sua vita terrestre. Fate UNA e potente e libera la vostra contrada. Spegnete fra voi tutte quelle meschinissime divisioni contro le quali Dante predicò tanto, che condannarono lui, l'uomo che più di tutti sentiva ed amava il vostro avvenire, alla sventura e all'esilio, e voi a una impotenza di secoli che ancor dura. Liberate le sepolture dei vostri Grandi, degli uomini che hanno messo una corona di gloria sulla vostra Patria, dall'onta d'essere calpeste dal piede d'un soldato straniero. E quando sarete fatti degni di Dante nell'amore e nell'odio — quando la terra vostra sarà vostra e non d'altri — quando l'anima di Dante potrà guardare in voi senza dolore e lieta di lutto il santo orgoglio Italiano — noi innalzeremo la statua del Poeta sulla maggiore altezza di Roma, e scriveremo sulla base:

AL PROFETA DELLA NAZIONE ITALIANA GLI ITALIANI DEGNI DI LUI.

Note al testo

[1] Scritto per gli Operai Italiani in Londra, nell'Apostolato Popolare.

[2] Che piega la cima nel passar del vento.