Aiutiamoli a casa loro: la miope guerra degli slogan, di Martino Ghielmi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /01 /2019 - 00:00 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Vado in Africa un articolo di Martino Ghielmi pubblicato il 20/10/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord-sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (13/1/2019)

Il discorso sull’Africa in Italia assomiglia a uno specchio deformante.

Si moltiplicano eventi, dibattiti e convegni. Ma si finisce sempre per avvitarsi su un solo, magico, verbo: AIUTARE

Siamo nel 2018 e assistere al match tra chi tuona “aiutiamoli a casa loro” e chi strepita “accogliamoli aiutandoli a casa nostra” è uno spettacolo indegno di un Paese (che si reputa) civile.

Una lotta ideologica che, involontariamente, offusca il ruolo geografico dell’Italia come ponte tra l’Europa continentale e il mondo Mediterraneo e africano.

Per uscirne proporrei di mettere al bando, almeno per una trentina d’anni, il verbo “aiutare” da qualsiasi frase che abbia come complemento “l’Africa”.

Quando il saggio indica la luna, lo stolto vede il dito

Contigua per geografia e cultura, l’Italia è lontana dal valorizzare le innumerevoli complementarietà economiche e sociali con il continente africano.

L’ignoranza per l’estero, già drammatica per tanti contesti europei e asiatici, raggiunge il suo picco massimo nei confronti dell’Africa. Su questa terra proliferano così narrazioni distorte e interessate, capaci di garantire rendite (economiche e politiche) a una pletora di intermediari.

L’Africa e i suoi abitanti vengono costantemente rappresentati in modo caricaturale, esotico e pietistico.

Per dirla esplicitamente: in assenza di cambi di direzione andremo incontro a un risultato di cui andare ben poco orgogliosi: PERDERE IL TRENO AFRICANO

Aiutiamoli a casa loro? Montagne che partoriscono topolini

Poche frasi hanno avuto la stessa fortuna delle quattro parole: aiutiamoli a casa loro.

Diffuse come reazione al fenomeno “richiedenti asilo” esploso dopo l’aggressione a Gheddafi, la frase ha conosciuto un sorprendente sdoganamento bi-partisan.

Ricordiamoci ad esempio che questo post, poi rimosso, non voleva essere un meme ironico:

Arringare le folle a suon di “aiutiamoli a casa loro” è un potente richiamo psichico su un corpo elettorale sempre più anziano e dunque impaurito dal futuro, simbolicamente rappresentato dal nero, il “diverso” per eccellenza.

Una parte non secondaria della galassia di caritatevoli risolutori dalla povertà del mondo, perpetuamente in cerca di fondi e legittimazione, lo ha preso in prestito per cercarsi un posto al Sole:

Aiutarli a casa loro si può

Si dice “aiutiamoli a casa loro”, allora facciamolo davvero!

Aiutateci perché i nostri bambini hanno fame di cambiamento

Insomma, senza accorgercene siamo finiti in questa celebre scena:

Jerry Maguire - Aiutami ad aiutarti 

L’Altro resta fermo nella posizione di oggetto “da aiutare” (perchè incapace di agire per ragioni ataviche) e per giunta “a casa sua” (non disturba così la nostra tranquillità).

Basta donare 2 euro per “salvargli” la vita. Attivare un RID per “riportare speranza”. E così via, in una stupidissima gara a chi è più buono e generoso.

Le organizzazioni impegnate nella “cooperazione allo sviluppo” hanno ormai scalzato i missionari (in via di estinzione a fronte ormai di un numero più alto di preti africani in Europa che viceversa) nel ruolo di intermediari con il “casa loro”.

Questo mondo, volendo generalizzare, presentano tendenzialmente tre aspetti comuni:

-una certa dipendenza da fondi pubblici (pur in presenza della definizione “Non Governativa”)

-una farraginosa burocrazia (acronimi di derivazione anglicista mascherati dalle esigenze di controllo di gestione)

-una cronica difficoltà a valutare l’efficacia della propria azione.

Una valanga di risorse sono così bruciate ogni anno per alimentare la fiamma dell’altare dello sviluppo. Sulla scia della convinzione che “senza di noi sarebbe il disastro”.

Bernard Kouchner (ministro e co-fondatore di MSF) 
porta un sacco di riso alla Somalia

Ma non è così. Si tratta di una bugia paternalista che, con il tempo, si squaglierà come neve al sole.

Già oggi si possono confrontare gli aiuti allo sviluppo con i flussi finanziari Sud-Nord (stimati in una perdita secca di circa 40 miliardi all’anno) e le rimesse, il denaro che gli emigranti rispediscono “a casa loro”, che valgono ormai il triplo degli aiuti!

L’industria della carità, nel suo complesso, è purtroppo simile a una risma di “Salvatori Bianchi”: giovani armati di buone intenzioni e inesperienza, quarantenni disillusi dalla vita “on the field” fino a veri e propri farabutti pronti ad approfittare del proprio status privilegiato di expat.

Una parte non minoritaria dei progetti di “aiuto” è un completo fallimento in termini di quantità e qualità dei risultati. Ma è difficile che qualcuno a corte arrivi a dire che “il Re è nudo”. Si cambia così qualche parola, qualche dettaglio di forma, per non cambiare nulla della sostanza.

Gli africani però, che tutto sono tranne che scemi, stanno gradualmente capendo la verità di quanto sosteneva in tempi non sospetti Ivan Illich:

Se qualcuno vuole farti del bene, scappa.

Aiutiamoli a casa nostra? Quando l’accoglienza nega la dignità

A fronte delle bugie del partito (bipartisan) degli “aiutiamoli a casa loro”, si contrappone l’ipocrisia eurocentrica di chi parla di continente in fuga (delle guerre, da Boko Haram, dal land grabbing, dai matrimoni forzati, dai dittatori, ecc.)

Grazie a costoro il nobile concetto di ospitalità, di fatto alla base di ogni società umana, si è tramutato in una dottrina di accoglienza in grado di:

-importare il complesso dei “salvatori bianchi” (o salvatrici) a “casa nostra”

-perpetuare il mito del “buon selvaggio” (da istruire, proteggere, salvare)

-rinforzare la presunzione della superiorità morale di chi, generosamente, accoglie i “poveri disgraziati”

-creare posti di lavoro e quindi consenso elettorale in territori ormai deindustrializzati

Anzichè sollecitare un serio ripensamento delle politiche migratorie e coinvolgere le comunità di origine straniera, la risposta al dramma della roulette russa Sahara-Libia-Mediterraneo sono state finora le magliette rosse e gli arancini sui moli.

Rimediare al tragico spopolamento e al conseguente collasso previdenziale affermando “noi siamo buoni e vi accogliamo” è un cortocircuito logico.

Perchè gli africani (o chi per loro) non sono “bambini dell’asilo” (politico). E martellare questo adagio è piuttosto la strada, lastricata di buone intenzioni, per rinforzare le convinzioni di menti ottenebrate dal razzismo.

Un tetto, un letto e un pasto caldo (senza entrare nel merito delle modalità, indegne, con cui sono spesso forniti) sono misure emergenziali, spesso necessarie, non in grado di avviare reali percorsi di interazione economica e sociale.

Perchè, in fondo, balli, pranzi e slogan sono del tutto inadeguati a riconoscere nell’ “altro” un soggetto portatore di desideri e progetti per il futuro.

La fazione dell’accoglienza rimane così paralizzata in un teatrino che genera frustrazioni tanto negli “accolti” (ancora una volta trattati come oggetti) quanto negli “accoglitori” (non sono rari gli operatori vittima di burn-out).

Il sistema è purtroppo una costosa “fabbrica di clandestinità di Stato” che, anzichè guardarle in faccia, tratta le persone come pacchi da numerare, classificare e contenere.

Ascoltiamoli per creare (seriamente) valore

La terza via è davanti ai nostri occhi. Senza alcun dubbio è la più difficile.

Anziché restare paralizzati nei solipsismi dell’aiuto (a casa loro o nostra), questo tempo è il momento buono per riconoscere le responsabilità occidentali, ammettere con coraggio di aver bisogno dell’Africa e chiedere il permesso per fare qualcosa insieme.

Mandare in pensione la modalità dei progettini e gli slogan retorici per creare insieme valore.

Perché le chiavi del ventunesimo secolo sono sempre più in mano alle potenze asiatiche (Cina e India davanti a tutti) che raccolgono, anche se non si sente ai TG, di una notevole popolarità tra i giovani africani.

Semplicemente perché sono meno retorici e più pragmatici degli occidentali. Hanno tanti limiti ma non danno lezioni da un piedistallo senza poi far seguire azioni concrete.

WTH: Chinese Guy Speaking African & African Guy Speaking Chinese

Di fronte a noi c’è dunque un bivio: imboccare la via di una fine patetica e ingloriosa, avvitandoci in una spirale di xenofobia e chiusura sempre più violenta, inframmezzata peraltro da moralistici appelli all’aiuto, oppure sfoderare ingegno e creatività per ascoltare l’altro e rispondere davvero alle sue richieste.

Generalizzando l’Africa non chiede aiuto ma una vera interazione economica, culturale e sociale.

Rilanciare programmi di studio con un continente di teenager, investire nel “Made in Africa”, promuovere spazi culturali euro-africani degni di questo nome.

Per farlo con un senso occorre partire dalle minoranze di origine africana (solo in Italia si tratta di un milione di persone) che vivono in Europa senza avere alcun bisogno (né ovviamente voglia) di essere “aiutati”.

Come chiunque al mondo hanno aspirazioni, competenze e passioni. Voglia di parlare e di raccontarsi. Ascoltarli (con un minimo di empatia) è, a mio parere, la sola via per costruire la società del futuro.

Per riuscirci occorre mettere da parte le ideologie e rimboccarsi le maniche.

L’alternativa è prepararsi a imbarcare acqua. Tanta.

Perchè tra trent’anni le eventuali “adozioni a distanza” delle ONG cinesi o nigeriane non basteranno a evitare la povertà dei nipoti di chi, etnocentricamente, predica le dottrine dell’aiuto a destra e manca.

Se ti ritrovi in questa terza via ti aspettiamo in VADOINAFRICA: NETWORKING GROUP