1/ Il tiranno, l'innominato e la modernità di Manzoni, di Romano Luperini 2/ L'inquietudine ne "I promessi sposi" e il personaggio di Don Rodrigo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /06 /2017 - 22:05 pm | Permalink | Homepage
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1/ Il tiranno, l'innominato e la modernità di Manzoni, di Romano Luperini

Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un articolo di Romano Luperini pubblicato il 7/4/2013, con la breve introduzione che ne segnalava il contesto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti 11/6/2017)

Presentiamo ai nostri lettori un ciclo di lezioni su I promessi sposi che sostengono la tesi della modernità di Manzoni. Le lezioni proposte utilizzano i materiali multimediali all'interno di una struttura saggistico-argomentativa e potranno essere ripoposte in classe con l'ausilio della LIM o di un videoproiettore.

La concezione del tiranno: la linea giacobina e la linea biblica

In Manzoni la parola e il concetto di “tiranno” sono densi di implicazioni intertestuali che rinviano a due diverse linee: una di derivazione alfieriana poi foscoliana e montiana (con riferimento all’influenza che la Bassvilliana e la Mascheroniana ebbero sul poemetto Del trionfo della libertà e su altri scritti giovanili manzoniani), dunque libertaria, giacobina prima e risorgimentale poi; l’altra di ascendenza religiosa e più precisamente biblica. E’ questa seconda, anzi, che fornisce all’immaginario manzoniano una sorta di codice archetipico della figura del tiranno, dotato di potere assoluto ma anche – come si legge a proposito di Saul nel Primo Libro dei Re (o di Samuele) – tormentato «da uno spirito maligno mandato dal Signore» (I°, Re, 16, 14).

L'innominato e il dualismo apocalittico di Manzoni

Se l’innominato «non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto», è già a tu per tu con la divinità. Il castello stesso sembra non avere storia: i suoi interni sono nudi e bui, senza quella galleria dei quadri degli antenati che fanno parte del topos e che infatti adornano il palazzotto di don Rodrigo. Sembra esprimere la dimensione mitica, e quindi in una certa misura astorica e atemporale, del protagonista, che nel passaggio da Fermo e Lucia ai Promessi sposi ha perso la coloritura cronachistica del Conte del Sagrato.

L’innominato si presenta ora come un personaggio privo di radici familiari, senza passato e senza storia. Fra i protagonisti del romanzo è l’unico la cui vicenda narrativa non trovi una conclusione e la cui fine resti avvolta nel mistero: mentre in Fermo e Lucia il Conte del Sagrato moriva al servizio degli appestati, nei Promessi sposi nulla si sa dei suoi ultimi anni di vita e della sua morte: «né sopravvive alla storia né scompare entro la storia», come ha scritto, con la solita finezza, Giovanni Pozzi (G. Pozzi, I nomi di Dio nei Promessi sposi, Bernasconi, Lugano 1989, p. 23).

Si deve aggiungere inoltre che, in nessun momento della propria crisi, egli incontra la figura della mediazione che pure è centrale nella religione cristiana, la figura fraterna e caritatevole del Cristo, il cui nome d’altronde è quasi del tutto assente nel romanzo. Davanti all’innominato si erge invece un Dio padre e giudice, un Dio biblico, quello che atterra e suscita, che affanna e che consola. Come per Napoleone del Cinque maggio, il confronto avviene direttamente con Dio. Questi due grandi tiranni, Napoleone e l’innominato, tendono a rapporti assoluti, e a sfide radicali. La fantasia di Manzoni sembra abitata da un grandioso dualismo apocalittico.

Sarà solo una figura femminile evocante immagini domestiche di tenerezza familiare e di devozione religiosa a fornire all’innominato una possibilità di accesso alla divinità e di un passaggio dal ferino al civile. L’unica mediazione è rappresentata da Lucia, dunque da un’immagine del femminile. La donna in Manzoni appare portatrice di valori non solo religiosi ma anche civili: la delicatezza, la misura e la dignità di Lucia sembrano anticipare quelle della madre di Cecilia. Come questa introduce nella degradazione della peste e nel regno dei monatti un segno di carità cristiana e, insieme, il gesto fermo della forma, della distinzione e di una elevata tradizione civica, così Lucia riesce a far penetrare in quel paesaggio analogamente infernale e selvaggio, in quel castellaccio minaccioso, un messaggio di pietas cristiana, di gentilezza femminile e di decoro civile.

L'inquietudine dell'innominato: il ritorno del rimosso

Nella redazione definitiva la inquietudine dell’innominato conosce due diversi momenti, entrambi segnati dalla ricorrenza di questo termine. Nel primo il personaggio appare turbato da un doppio timore, quello della morte e quello di un possibile giudizio divino, e il sintagma «nuova inquietudine» marca la loro congiunzione. D’altronde un senso oscuro di inquietudine è presente già nella percezione della vicinanza della morte, espressa con parole di straordinaria modernità:

«Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava».

Per l’innominato la morte non è un fatto che viene dall’esterno, o un momento che suggella la fine di una vita; è un’idea che ti invade dall’interno, che ti cresce dentro e a poco a poco ti conquista. Più la fuggi, più si avvicina.

La stessa cosa accade con il pensiero di Dio che a poco a poco, e suo malgrado, gli si afferma dentro e che si configura come un terrore segreto a lungo rimosso. L’idea di Dio affiora alla coscienza con l’energia di un automatismo interiore incontrollabile e inconsapevole o, se si preferisce, con quella del ritorno del rimosso: «in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva di sentirlo gridare dentro di sé: Io sono però» (dove si avverte di nuovo una evidente eco biblica, l’«Ego sum qui sum» di Esodo, 3, 14). Dio è l’inconscio; coincide con un grido interiore; è un insieme di pulsioni, di pensieri rimossi, di timori oscuri, di angosce senza nome e senza motivo. L’innominato cerca di negare il ritorno del rimosso, di fare appello alla coscienza, alla sua ideologia d’uomo d’arme senza paura, in modo da «nascondere a se stesso» questa irresistibile emersione, «mascherandola» attraverso il ricorso alla consueta ferocia e alle abituale disciplina. Questa attenzione a moti interiori in bilico fra inconscio e conscio, ai meccanismi dello spostamento, della rimozione e dell’autocensura, sembra render ragione della nota affermazione di Freud che vedeva nei capolavori della letteratura la prima anticipazione delle scoperte che porteranno alla nascita della psicoanalisi.

L'inquietudine dell'innominato: l'incontro col femminile

Il secondo momento, che coincide con la seconda ricorrenza del termine, si riferisce all’attesa di Lucia e ha a che fare con l’incontro con qualcosa che sinora era rimasto estraneo all’animo dell’innominato. Si tratta dell’incontro con il femminile, in questo caso reso più drammatico da una serie di opposizioni inerenti al topos – tipico del romanzo gotico e libertino – della vergine rapita a scopo di libidine: l’opposizione maschio/femmina è raddoppiata da quella oppressore/vittima e vecchio/giovane e infine, sulla scorta del modello sadiano, da quella vizio/virtù. Nei Promessi sposi si dà una congiunzione del topos della vergine rapita con quello della inquietudine del tiranno; anzi, tale unione di per sé costituisce una invenzione originalissima di Manzoni.

Il tema della femminilità minacciata acquista nei Promessi sposi un rilievo assai maggiore che in Fermo e Lucia, in cui manca la decisione dell’innominato di mandare la vecchia incontro alla carrozza di Lucia (nella redazione iniziale ella si trovava già al suo interno). Il fatto che l’innominato decida ora di mandare una donna a consolare la rapita per suscitare in lei il meccanismo di una solidarietà di genere in un mondo militaresco dominato dalla arroganza e dal potere del maschile è di per sé significativo. Ma anche le parole con cui viene impartito il comando mostrano una incertezza, un turbamento, una inquietudine, appunto, suggeriti dai puntini di sospensione che per due volte precedono la parola « giovine»:

«Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti col passo della morte. In quella carrozza c’è … ci deve essere … una giovine. Se c’è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga subito da me. Tu starai nella bussola, con quella… giovine; e quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera».

Quella morte che veniva dall’interno approssimando il momento del giudizio ora assume le sembianze della carrozza che si avvicina costringendo l’innominato a un resoconto definitivo con la propria vita e i propri rimorsi. È come se quella vettura portasse con sé tutto il suo passato con cui ora egli avverte il bisogno di fare i conti. Nello stesso tempo quei puntini rivelano un imbarazzo che non riguarda solo genericamente il crimine che egli sta compiendo, ma specificamente una violenza collegata al sesso e all’età della vittima.

È il mondo del femminile che, con la carrozza di Lucia, penetra inaspettatamente nella sua vita e confusamente comincia ad apparirgli come depositario di sentimenti opposti a quella violenza. Si tratta di sentimenti di delicatezza, di solidarietà, di compassione e consolazione alternativi a quelli a cui è avvezzo il mondo maschile; e infatti il Nibbio per primo aveva osservato: «è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo». Nei comportamenti di Lucia, che si getta ginocchioni davanti all’innominato esclamando «Son qui: m’ammazzi» secondo un linguaggio gestuale e un modello di atteggiamento mutuato da una tradizione cristiana secolare e da una memoria figurativa che evoca il concetto warburghiano di Pathosformeln, la mitezza, la disposizione al sacrificio, la “civiltà” del femminile possono assumere un potere: quello di far sentire in colpa l’aggressore e di rovesciare così i rapporti di forza.

Si fondono qui una riflessione antropologica sul maschile e sul femminile e la capacità, già riscontrata negli Inni sacri, di trasformare la dottrina e la storia del cristianesimo in forza mitica. Non per nulla il nesso potenza/debolezza è al centro di un capitolo delle Osservazioni sulla morale cattolica, dove si analizza il detto dell’Apostolo «Virtus in infirmitate perficitur» e si afferma che «la potenza divina arriva al suo fine per mezzo della debolezza». E in effetti è attraverso i gesti e le parole di una vittima (si ricordi: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia») che la potenza divina raggiunge il suo effetto.

Manzoni moderno

Nell’inquietudine del tiranno agisce insomma una vera e propria crisi di identità, in cui, come abbiamo visto anche in don Rodrigo, la questione del sesso e del genere assume uno spazio non secondario. Se il Nibbio, di fronte a Lucia, già aveva visto porre in discussione la propria virilità, così è anche per l’innominato nella drammatica angoscia notturna che precede il suo incontro con il cardinal Borromeo. La prima ragione d’ansia è quella dichiarata subito, appena egli è costretto a prendere atto della propria insonnia:

«Che sciocca curiosità da donnicciola, – pensava, – m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?...io non son più uomo, io?»

E poi:

«Io domandar perdono? a una donna? […] A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!»...

Nel momento più acuto della crisi, subito dopo l’impulso al suicidio, «l’umile preghiera» di Lucia, le sue parole di pietà cominciano ad assumere per lui «un suono pieno di autorità», mentre quella ragazza «supplichevole» gli appare ora come dispensatrice di «grazie e consolazioni». Una vera e propria inversione dei rapporti di forza. E se un pensiero può ora concedergli sollievo è ancora quello di un’altra figura femminile, quella sconosciuta della madre di Lucia a cui egli immagina già di ricondurre personalmente la figlia.

Concludendo. L’apporto di Manzoni alla problematica moderna dell’inquietudine mi sembra di assoluto rilievo. Nei Promessi sposi l’inquietudine esce dalla sfera della vaporosità di certa letteratura romantica. Abbandona l’ambito dello “stato d’animo”, delle malinconie indeterminate e dei turbamenti amorosi, per entrare in quello della rappresentazione drammatica dei meccanismi del ritorno del rimosso e della resistenza che esso suscita. L’elemento drammatico è inoltre rafforzato dall’analisi potente e rigorosa dei rapporti di forza fra i personaggi e delle contraddizioni psicologiche di uomini dotati di grande potere e di grande autorità, nel male come nel bene. Partendo da archetipi biblici, filtrati anche dalla lezione di Dante e di Shakespeare, di Alfieri e di Pascal, nonché dei grandi predicatori francesi del Seicento, Manzoni ci offre una grandiosa rappresentazione dell’inquietudine del tiranno. La figura del despota turbato e angosciato, che dopo aver tiranneggiato il prossimo comincia a torturare se stesso, non è certo un’invenzione dei Promessi sposi, ma Manzoni ha indubbiamente contribuito a delinearla in modo più modernamente problematico. Ne è una conferma e quasi ulteriore riprova il fatto che la crisi d’identità dell’innominato sia prodotta non solo dall’incombere della morte e del giudizio di Dio, ma anche dal confronto aperto e drammatico con l’elemento femminile.


2/ L'inquietudine ne "I promessi sposi" e il personaggio di Don Rodrigo

Riprendiamo dal blog di Roberto Contu http://www.laletteraturaenoi.it/ un articolo di Romano Luperini pubblicato l’1/4/2013, con la breve introduzione che ne segnalava il contesto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.

Il Centro culturale Gli scritti (11/6/2017)

Presentiamo ai nostri lettori un ciclo di lezioni sui Promessi Sposi che sostengono la tesi della modernità di Manzoni. Le lezioni proposte utilizzano i materiali multimediali all'interno di una struttura saggistico-argomentativa e potranno essere ripoposte in classe con l'ausilio della LIM o di un videoproiettore.

L'inquietudine di Manzoni

Per molto tempo l’immagine di un Manzoni serenamente composto e armoniosamente classico ha impedito di coglierne la modernità. Questa interpretazione rassicurante, d’altronde coerente con lo spirito tradizionalista della cultura italiana, è stata abbandonata solo dalla critica più recente; e basti qui ricordare, a scopo esemplare, solo i nomi di Raimondi o di Calvino.

Sta emergendo insomma l’immagine di un Manzoni diverso, assai più problematico, assai più inquieto di quanto un tempo si sospettasse. Personaggi come Gertrude o l’innominato, così complessi e tormentati, affondano radici robuste nella cultura e nella psicologia dell’autore. Non sarà certo un caso se Manzoni, parlando di Pascal nelle Osservazioni sulla morale cattolica, dichiari di ammirare nei suoi Pensieri «lo sguardo turbato e confuso della contemplazione dell’abisso umano». Anche quello di Manzoni è «uno sguardo turbato» volto a contemplare l’«abisso umano» di questi grandi personaggi.

Persino don Rodrigo, troppo spesso dipinto semplicemente come un «briccone dozzinale» o, addirittura, «un bestione» (Russo), conosce turbamenti e sfumature che gli fanno assumere alla fine una dimensione tragica. Nel caso di don Rodrigo e soprattutto dell’innominato, inoltre, gioca un ruolo di spicco non solo l’interesse psicologico e morale per gli abissi del cuore umano, ma anche quello culturale e politico per la figura del tiranno. D’altronde la sfera psicologica ed etica e quella culturale e politica sono sempre strettamente connesse nell’immaginario manzoniano, come mostrano anche le riflessioni sulle grandi personalità e sul problema del potere che costellano la sua opera: da Adelchi, al Conte di Carmagnola al Napoleone del Cinque maggio sino alla figura di Riccardo II nella Lettre à Monsieur Chauvet o al padre di Gertrude nei Promessi Sposi. In tutti questi casi il personaggio dell’uomo dotato di un grande potere o addirittura del despota ha una sua grandiosa cupezza che esclude messaggi semplificatori e unidirezionali.

L'inquietudine di don Rodrigo

Rispetto a figure come queste don Rodrigo rischia senza dubbio di apparire un mediocre, un «tirannello» di paese. Su questo punto Manzoni è esplicito. Alla fine del cap. XIX infatti si legge:

“Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile”.

La contrapposizione rispetto all’innominato, autentico tiranno perché «salvatico», è evidente. D’altronde, nella Lettre à Monsieur Chauvet, Manzoni annota che in un’opera d’arte l’apparizione del male non va associata al sublime ma al mediocre. E tuttavia don Rodrigo non è amorale, cinico e spensierato come il conte Attilio, né organicamente malvagio e coerentemente immorale come Egidio. Pur nella sua rozzezza, è figura più complessa e turbata. Non manca in lui il tarlo di un senso di colpa per quanto sempre rimosso, di un oscuro timore acuito dal confronto con i ritratti degli antenati, dal sentimento di inferiorità o di impotenza, o addirittura di castrazione come farebbe pensare il frequente ricorso alla spada come simbolo di un potere sadico-fallico e di una possibilità di risarcimento a esso connessa. Per questo, subito dopo il colloquio tempestoso non meno che perturbante con fra Cristiforo, l’arma viene da lui cercata e indossata per recarsi al “pubblico ridotto” – una casa da gioco o, più verosimilmente, stante il contesto psicologico, di malaffare – . L’ansia prodotta dal senso di colpa è avvertita da don Rodrigo come frustrazione di un bisogno di virilità e di potenza che dovrebbe escludere pentimenti e debolezze. Si tratta di un procedimento psicologico assai meno sfumato ma nella sostanza non molto diverso da quello dell’innominato nella notte della crisi esistenziale e religiosa quando il rimorso per l’ultimo crimine e la compassione per le lacrime di una donnicciuola vengono da lui inizialmente concepiti come una defaillance della propria virilità. L’incubo spaventoso provocato dalla febbre della peste – certo, uno dei più grandi sogni della letteratura italiana prima di Freud - è la traccia di un lavorìo dell’inconscio che al lettore moderno è impossibile sottovalutare.

Anche don Rodrigo, dunque, è un tiranno inquieto? L’aggettivo non campare nei Promessi sposi, ma in Fermo e Lucia. All’inizio del cap. IX del quarto tomo don Rodrigo, ormai fuori di sé per la febbre, spia nel lazzaretto il ricongiungimento di Fermo, Lucia e fra Cristoforo. Vi si legge:

“Dal volto traspariva un misto di furore e di paura, e in tutta la persona una attitudine di curiosità e di sospetto, uno stare inquieto, una disposizione a levarsi, non si sarebbe saputo se per fuggire, o per inseguire”.

È uno spunto bellissimo, uno dei non molti che fanno rimpiangere la redazione iniziale. È come se qui, nella infermità delirante della malattia giunta alla sua fase terminale, in questo spiare geloso e minaccioso ma anche implorante una solidarietà da cui si sente escluso, si rivelasse finalmente la verità di don Rodrigo, il lato incerto e inquieto del suo carattere, timoroso e aggressivo, egualmente disposto a fuggire e a inseguire, in una crisi di sicurezza e di identità che la stesura definitiva conferma ma in parte anche rimpiccolisce.

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NOTA

Questo testo è stato concepito originariamente come relazione introduttiva al Congresso degli italianisti tedeschi, all'Università di Marburg, in Germania, tenuta il 29 febbraio 2008.

La prima immagine è dell'illustratore Marco Lorenzetti.

La seconda e la terza illustrazione sono tratte da Franzesco Gonin, I promessi sposi, edizione 1940.