1/ Ma noi piccoli o grandi egocentrici siamo i portavoce di ciò che accade, di Fabrice Hadjadj 2/ Fra uomo e donna l'amore pret-a-porter è romanticismo da società dei consumi, di Fabrice Hadjadj 3/ Laicismo, l'anti-religione contraria alla laicità, di Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /01 /2017 - 16:45 pm | Permalink | Homepage
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1/ Ma noi piccoli o grandi egocentrici siamo i portavoce di ciò che accade, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 13/11/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)

«Conosci Henri Raynal?». È la domanda che da alcuni mesi pongo ai miei amici e che si declina secondo diverse varianti: «Hai letto Cosmophilie, il suo ultimo libro appena pubblicato? E L'orgoglio anonimo? O forse uno dei suoi articoli nel Dizionario delle parole mancanti? Devi leggerlo, è un pensatore raro e uno scrittore notevole, uno che a forza di coltivare le stesse domande da cinquant'anni riesce a scrivere passaggi che hanno l'evidenza e lo splendore degli alberi o dei fiori».

Del resto, tra le domande da lui coltivate, c'è proprio questa. Raynal ha meditato profondamente il fenomeno che sto descrivendo: quel bisogno che abbiamo di comunicare ciò che ci colpisce, di raccontare ciò che ci accade, di riportare ad altri le nostre ammirazioni e le nostre indignazioni, le nostre scoperte e i nostri incontri, in un modo così irreprimibile che talvolta interrompiamo chi ci sta parlando oppure siamo interrotti dall'interlocutore, perché anche lui prova lo stesso bisogno. Questo fenomeno radicale, che fa di noi i portavoce della fenomenalità, Raynal lo chiama in modi diversi: «apostolato puro», «obbligo del testimone», «Complesso di Candaule»

Come mai il bambino che vede un cavallo esclama: «Guarda, mamma, guarda!». Avrebbe potuto custodire il suo stupore per se stesso; invece no, lo trasmette, vuole che sia contagioso. Raynal considera anche esempi meno innocenti: «Che cosa spinge Giacomo a trascinarmi, per un'ora intera, dalla cantina al solaio, dal garage alla lavanderia, dalle camere alla sala da bagno, non trascurando alcun dettaglio delle istallazioni della villetta che ha appena fatto costruire, non risparmiandomi nessuno dei problemi incontrati e poi risolti nel modo più adeguato? Perché Pietro appallottola febbrilmente la mollica del pane, aspettando il suo turno per raccontare una storia? Perché Giovanni non resiste alla tentazione di fare una battuta alle spalle di un compagno che del resto gli è simpatico? Perché Enrichetta mi interrompe nella lettura del giornale per leggermi ad alta voce alcuni passaggi di un'altra pagina dello stesso giornale, pagina che leggerei fra cinque minuti?».

Non posso trattenermi dall'aggiungere a questa sequenza mia suocera, che ha la capacità di fare tutto un romanzo, pieno di colpi di scena, con gli aneddoti più banali della sua vita quotidiana, dall'ultima messa in piega dal parrucchiere alla breve conversazione avuta con una coppia di giovani davanti al reparto macelleria del supermercato.

La spiegazione di questa loquacità invasiva è rapidamente trovata. È una mera conseguenza dell'egocentrismo. Ciascuno vuole condurre la danza, mettersi in mostra, avere il proscenio, a conferma di quell'antropologia liberale che presenta l'uomo come un individuo che cerca soltanto di soddisfare i suoi interessi.

E tuttavia, come suggerisce Raynal, questo egocentrismo si basa su un doppio decentramento. Sono io che parlo, ma per dire qualcosa a qualcuno. E per forte che sia il mio compiacimento nel farmi valere, è innanzitutto il reale che mi spinge – tale trovata, tale circostanza, tale avvenimento – ed è ad altri che mi rivolgo. Sotto l'egocentrismo, attraverso di esso, e perfino rendendolo possibile, c'è una generosità primordiale: quella che fa di noi gli apostoli delle cose, gli ambasciatori di tutto ciò che si muove e accade sotto il sole (notate che non ci guadagno niente con questa tesi, poiché mi costringe a rivalutare molto positivamente il comportamento di mia suocera).

Questa generosità non è certo morale. Anche il chiacchierone impenitente ne è il soggetto. È ontologica, tocca le profondità dell'essere la cui essenza è allora rivelazione, manifestazione, gloria. Non soltanto le cose si mostrano, ma l'uomo, nel mezzo di esse, sollecitato da esse, animale aperto al mondo, ha per missione di annunciarle e magnificarle. Ogni specie – la quercia, il riccio di mare, la rana – si fa notare e ci sorprende con la sua forma propria, e noi, secondo Aristotele, abbiamo un’anima per natura ospitale e missionaria, «forma delle forme», capace di mettere tutto in relazione, di collegare tutto e di offrire tutto.

Anche la pettegola e il vanitoso sono portati da questo fiume profondo, e il loro solo vizio è di non approfittare abbastanza del senso della corrente, di provare troppo a ricondurre a sé ciò che viene dell'altro per andare verso l'altro.

Non fa difetto il fiuto al sociologo Alain Caillé, fondatore del M.A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali) che considera Henri Raynal come uno dei suoi più cari alleati. Pochi altri hanno esposto così chiaramente quanto l'egoismo, la concorrenza, la rivalità siano secondari e fondino invece la loro stessa possibilità su una donazione originaria, un movimento profondo di spinta di ogni cosa verso la luce. Anche se cerco solamente il mio interesse, il mio desiderio non viene da me, mi è stato dato con la mia esistenza. La parola stessa interesse – inter-esse – testimonia che il mio essere sta in mezzo ad altri e che resto obbligato ad interessarmene, non fosse altro che per emergere, guadagnare il loro consenso, attirare i loro occhi e i loro orecchi. Astuzia dell'universo che utilizza perfino il nostro narcisismo affinché gli rendiamo testimonianza.

È così che Raynal rilegge la storia del re Candaule, con una radicalità che manca alla lettura che ne fa René Girard. È nota la leggenda di questo re, narrata da Erodoto: desideroso di condividere con un altro il suo entusiasmo per la bellezza di sua moglie la regina, il re Candaule ordina alla sua guardia del corpo di nascondersi nella sua camera per ammirarla mentre si sveste – cosa che infatti porta la guardia a un'ammirazione tale che finisce per assassinare Candaule e prendere il suo posto nel letto e sul trono. Non si tratta forse di una triangolazione mimetica, di una voglia di eccitare l'invidia per gloriare sé stesso? Tale sarebbe il verdetto di una filosofia del sospetto.

Ora, Raynal sospetta che questa filosofia non vada più lontano delle motivazioni superficiali dell'io ignorando così una tendenza più essenziale, più ingenua, meno psicologica: «Ero persuaso che non fosse per orgoglio che aveva agito questo re, un orgoglio tale da oltrepassare le proteste della possessività carnale; ero sicuro che un sentimento meno angusto, nato fuori di lui, trasversale e non verticale, freccia e non serpente addestrato, lo avesse condotto a far nascondere il suo favorito affinché potesse vedere la regina nuda. Lo straordinario, per lui, era la bellezza di Nissia, e non il fatto, indifferente a tale bellezza, che fosse sua. Il mio [di "la mia donna"] si era senza alcun dubbio completamente cancellato davanti a questa. Un tale gioiello era fatto per essere mostrato».

Il re Candaule resta comunque un caso-limite. In lui, l'ordine dell'essere alla sua apparizione si intorbida, si rovescia in occultazione, non solo perché lui stesso scompare violentemente ma soprattutto perché quello che egli dice «Guarda come è bella mia moglie» deve preservare la sua donna dall'essere un semplice spettacolo seducente. Il pudore è necessario per la vera manifestazione. Permette all'apparizione di non degradarsi in esibizione, alla visibilità di compiere e non di abolire il mistero. Henri Raynal, a 87 anni, è il venerabile maestro di questa grande lezione, ed è a sua insaputa che vi ho introdotti nella sua camera.

2/ Fra uomo e donna l'amore pret-a-porter è romanticismo da società dei consumi, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 27/11/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)

Il romanticismo si è sviluppato contemporaneamente alla rivoluzione industriale. A prima vista, esso si presenta come una reazione a quest’ultima: contro il rigore logico illuminista, il romanticismo afferma il mistero della notte stellata; contro la razionalizzazione dei rapporti sociali, esalta la passione, il colpo di fulmine, l’incontro imprevedibile che sfida le istituzioni. L’uomo e la donna allora non trovano tanto la loro realizzazione nella famiglia, troppo istituzionale, quanto nella coppia che fugge nei boschi o su un’isola deserta, per vivere d’amore e acqua fresca.

Wagner compone Tristano e Isotta nel 1865, l’anno di fondazione della Chicago and North Western Railway e della Società per le strade ferrate romane. Niente sembra opporsi al rumore delle locomotive più della melodia infinita degli amanti solitari e maledetti. E tuttavia la motorizzazione e il romanticismo troveranno una certa unità nel cuore di Adolf Hitler, lui che in gioventù era pronto a rinunciare a mangiare per molti giorni pur di assistere una terza volta al Tristano… Si tratta dunque soltanto di una reazione?

Non c’è forse un legame più essenziale, direi anche una certa complicità, tra la visione romantica dell’amore e l’industrializzazione della produzione? Il romanticismo presenta la relazione amorosa tra uomo e donna come fuori dal mondo. È un “tu ed io”, “io e tu”, e non importa se in città o in campagna, in un palazzo o su una zattera.

L’arca sulla quale Noè imbarca la sua famiglia e tutti gli animali non acquatici perde il suo valore emblematico. Anche sul Titanic, soprattutto sul Titanic, gli amanti possono amarsi: vada pure a fondo la nave, essi si amano ancor di più perché il loro amore si manifesta allora come più vasto e più profondo dell’Oceano: subito prima di annegare…

Lungi da me l’idea di contestare assolutamente questa meraviglia, e non soltanto per il timore di perdere ogni credito presso le fanciulle in fiore. L’amore, nella sua grazia, è un avvenimento che crea in qualche modo le proprie condizioni di possibilità. Quante storie testimoniano di quel fulmine, quello shock che sconvolge ogni programma e ogni fatalità?

Nel romanzo 1984, quando Winston e Julia si amano per la prima volta in mezzo a una radura, sfuggono al Big Brother: «Il loro amplesso era stato una battaglia – scrive Orwell – l’orgasmo una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico». L’incontro dell’uomo e della donna è così naturale che fa tremare la pesante costruzione artificiale. Esso ha il carattere dell’origine – la freschezza di una sorgente anche in mezzo al deserto.

Del resto, se Dio crea il mondo per amore, bisogna pensare che ogni vero amore sia in qualche modo precedente il mondo e possegga il potere di rinnovarlo. Il nostro amore resta tuttavia quello di creature, dipendenti dal loro ambiente.

Credere a un amore umano al di sopra ogni condizione materiale sarebbe cadere in una grave eresia spiritualistica. Pure il vivere d’amore e d’acqua fresca ha bisogno almeno dell’acqua fresca, potabile, che diventa sempre più rara e deve essere depurata e venduta da imprese private.

In un’aria troppo tossica è impossibile dire: «Ti amo». E senza una casa dove vivere insieme è impossibile che l’amplesso superi l’illusione e la disillusione dell’orgasmo. Julia e Winston possono conoscere quell’attimo isolato lontani dal mondo totalitario: per svolgere la loro relazione nella durata, hanno bisogno di un rifugio propizio, ed ecco perché finiranno in frantumi, fino a neanche riconoscersi più.

È cosi che un romanticismo sentimentale diventa più un collegato del mondo tecnoeconomico che non una resistenza a esso. Credere che gli amanti possano realizzare il loro amore al di la di qualsiasi condizione materiale è renderli indifferenti e dunque loro malgrado complici delle condizioni materiali loro imposte, che li circondano e che finiscono per fagocitarli.

Soprattutto, è rappresentarsi il loro amore al di fuori della fecondità familiare, o rappresentarsi la famiglia esclusivamente come un insieme di persone che si amano al di là di ogni economia e di ogni politica, e non come un dato al tempo stesso naturale e culturale che costituisce il dominio economico e forma la base della Città.

Dal momento in cui la comunità di uomo e donna non è più concepita come un oikos (radice comune delle parole economia ed ecologia; oikos in greco significa "casa" e anche "famiglia") e dunque come il luogo primo dell’economia e dell’ecologia, dal momento in cui essa è vista come un amore separato dalle strutture sociali, quella stessa comunità con la sua avventura essenziale, si disfa.

Diventa soltanto la società passionale e passeggera di due salariati – perché il romanticismo moderno, lo ripeto, si basa sull’avvento del lavoro dipendente. E questa società coniugale – che la contabilità nazionale francese chiama ménage e la cui funzione principale è il consumo: si regge, bene o male, per volontarismo morale, come in apnea, in una fedeltà che è innanzitutto uno sforzo per onorare un contratto, ma che non corrisponde più alla realtà di una fruttificazione comune nell’intreccio dei compiti quotidiani.

Piuttosto che essere apertura drammatica alla vita, diventa un elemento del divertimento totale, una fuga davanti all’angoscia del vuoto e della morte. È abbastanza terribile vedere giovani che si amano e che bruscamente scoprono che il loro amore implica tutta un’economia. Il romanticismo non li ha preparati e li consegna legati mani e piedi. Certamente percepiscono tutto questo come una caduta.

Ma la caduta originaria è al contrario quella di diventare una coppia senza economia: cadere, per Adamo ed Eva, fu la perdita di quell’Eden nel quale erano stati stabiliti per coltivarlo e custodirlo (Gn 2, 5 e 15). Il loro matrimonio implicava un giardino. La vita domestica non si limitava al salone e alla sala da pranzo. Esigeva un campo.

Anche il cavaliere Yvain, icona dell’amore appassionato nel romanzo di Chrétien de Troyes, deve sorvegliare la fontana dalla sua dama e preservare le sue terre. Se si dimentica il giardino da coltivare, il timore è che Adamo ed Eva siano sostituiti da Adolf ed Eva, colmi di romanticismo e di ambizioni smisurate dal fondo del loro bunker.

Da quando l’economia consiste nella dispersione della famiglia e nella sua sottomissione al lavoro d’ufficio, si può comprendere che la necessità di sistemarsi appaia ai giovani innamorati come una caduta. La questione economica vi si riduce alla questione finanziaria.

Non si tratta più di un’opera comune ma della necessità di guadagnare denaro ciascuno per conto proprio. Se l’oikos ha ceduto il posto a un trilocale dove ci si riduce a consumare articoli prodotti dall’industria – per esempio stirare col ferro abiti prêt-à-porter guardando serie televisive americane – diventa impossibile essere veramente padrona di casa o padre di famiglia. È normale, allora, che la donna creda di emanciparsi quando lavora per un capo, e che l’uomo, nel suo stesso maschilismo, sia contentissimo di lasciarle il posto, avendo avuto il tempo di disilludersi sul carattere liberatorio del lavoro d’ufficio.

3/ Laicismo, l'anti-religione contraria alla laicità, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 4/12/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2017)

La parola “laico” è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l'udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola “laico” ci colpisce meno della visione di un crocifisso.

Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello – o del segno più dell'addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.

Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall'eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico.

Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale. A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili».

Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un'evidenza di quaggiù).

Allora, l'accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede.

Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto. Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia».

Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c'è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l'idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio – ahimè! – non c'è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie? Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente».

Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L'unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana. In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia.

Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l'esistenza ebraica che le è legata intimamente – la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all'interno del pensiero stesso della Chiesa).

O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l'eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell'anti-religione, il laicismo.

Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l'esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.

Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell'enciclopedia, nel quale D'Alembert deplora l'«abuso dell'autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell'abuso nel senso opposto.