Annunziare la Confessione. File audio di una relazione di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 01 /05 /2016 - 18:30 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito i file audio dell'incontro tenutosi presso la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini in Roma, il 20/2/2016, per il corso della storia della Chiesa di Roma. Per altri files audio di Andrea Lonardo vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (1/5/2016)

Annunziare la Confessione. File audio di una relazione di Andrea Lonardo

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Spiegazione della basilica di San Giovanni dei Fiorentini. File audio della visita guidata da Livia Mugavero

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Educare alla confessione (presso San Giovanni dei Fiorentini)
Andrea Lonardo www.gliscritti.it Canale YouTube Catechisti Roma www.giubileovirtualtour.it

Appuntamenti

- Sabato 16 aprile, Santa Sofia a via Boccea
Le cappellanie degli stranieri e l’educazione all’accoglienza degli immigrati tramite l’Iniziazione cristiana

- Casa della Parola con Bruna Costacurta e Innocenzo Gargano
Venerdì 26 febbraio dalle 18.00 alle 20.00 primo incontro del nuovo ciclo di lezioni dal titolo: “Genesi: i Patriarchi”. Iscrizioni presso le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida (via di Santa Maria in Cosmedin 5). Per informazioni ulteriori potete contattare l’Ufficio catechistico (06.69886301).

- sere dei lunedì 9, 16, 23 maggio Guardini, Chesterton, Manzoni

- forse ad agosto viaggio di studio in Armenia

1/ Perché in questo luogo: San Filippo Neri

- alcuni discepoli di Filippo Neri, divenuti sacerdoti, andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria nel 1564 per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa (precedentemente era stato papa Leone X a volere la chiesa). E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da San Girolamo e da San Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla "Copiosus in misericordia Deus" la "Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda". Filippo, che continuò a vivere nell'amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l'impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.

- l’oratoriano deve morire su uno di questi tre legni: l’altare, il confessionale, la sedia dell’oratorio

da Antonio Cistellini, “San Filippo Neri” l’Oratorio e la congregazione oratoriana
Diversamente da quanto si è potuto credere, l’Oratorio si configurò fin da principio, e sempre più in seguito, come un’istituzione per adulti, o quanto meno per giovani uomini non più adolescenti. Basta osservare, per convincersi, quello che si leggeva all’Oratorio, i discorsi che si tenevano, gli argomenti dei sermoni. E anche i padri della Congregazione, impiegati come per loro primo compito all’Oratorio, rivolgeranno le loro attività indistintamente ad ogni categoria di persone di tutte le età.

da Antonio Cistellini
“Egli indirizzava, sì, i suoi all’azione caritativa, e la visita agli ospedali rimarrà una pratica sempre in osservanza, fra i sodali laici dell’Oratorio; tuttavia l’esercizio delle opere di misericordia corporale non viene considerato come un diretto obiettivo della sua istituzione, bensì come una necessaria conseguenza di una coerente professione cristiana”.

da San Filippo Neri
Io Filippo Neri sopraintendente affermo non solo quanto di sopra, ma è molto più bisognerà crescere nelle spese, accrescendo il popolo e la divotione (lettera nell'Archivio di San Giovanni dei Fiorentini con cui Filippo chiede più soldi alla “nazione fiorentina”).

Non giudico atto a questo offitio il p. Giovanni Francesco Bordini, quale, se bene ha di molte belle parti e virtù, che ne deve rendere gratie a Nostro Signore Iddio, l'ho trovato sempre duro et di proprio parere, monstratolo in particolare nel volere vencere di comprare le case delle monache contro mio volere et senza necessità; il che, oltra al havere comprato case vecchie et muraglie fracide…
(inoltre a San Giovanni dei Fiorentini) si stava colle porte aperte, de sorte che la chiesa era impraticabile et a forestieri et a noi di casa, pel freddo grande et vento che entrava per tutto. Si che, non havendo imparato, tra l'altre virtù ch'ha, d'obedire et de credere troppo al suo parere et giudicio, non è atto a comandare né governare
Né meno reputo atto a questo governo il p. Antonio Talpa, che anco egli è troppo affetionato alle sue opinioni, senza cedere all'altrui quantunche migliore siano: come mostrò per voler fare un disegno de cavar acqua, quando si incomenzò a fabricare, nel che nacque et spesa et inconvenienti in casa… (dalle Disposizioni del 1585, quando era stata da poco annessa l'Abbazia di San Giovanni in Venere e si stava per aprire la filiale di Napoli)

È proverbiale l' episodio nel quale una madre porta a San Filippo Neri la figlia che afferma di vedere i santi e la Madonna; San Filippo la guarda negli occhi ed esclama: “Che si sposi!”

2/ Un annuncio: la grandezza del tema morale, la vita in Cristo

- lo vedi nel desiderio di un amico che sia sincero

- lo vedi nel fastidio per qualcuno che fa qualcosa contro di te e tu esclami: “non è giusto”

- lo vedi nel desiderio di essere sincero

Lewis C.S., Il Cristianesimo così com’è, Adelphi Edizioni, Milano 1997, pp. 25-26

A tutti è accaduto di sentire due persone che litigano. L'effetto a volte è un po' comico, a volte soltanto sgradevole; ma a parte l'effetto, credo ci sia molto da imparare ascoltando ciò che dicono queste persone. Dicono, per esempio: «Ti piacerebbe che qualcuno facesse lo stesso a te?»; «Questo è il mio posto, sono arrivato prima io -: «Lascialo in pace, non ti fa niente di male»; «Perché dovresti passarmi avanti?»; «Dammi uno spicchio della tua arancia, io ti ho dato uno spicchio della mia»; «Su, hai promesso»... La gente - persone colte e incolte, bambini e adulti - dice cose del genere ogni giorno.

Ora, ciò che mi interessa in queste frasi è che chi le usa non dice soltanto che il comportamento dell'altro non gli piace, ma si richiama a certe norme di comportamento di cui presume che anche l'altro sia a conoscenza. Ed è molto raro che questi ribatta: «Al diavolo le tue norme». Quasi sempre cerca di dimostrare che quanto ha fatto non è in realtà contrario alle norme, o se lo è, lo è per un motivo particolare. Sostiene che vi è una buona ragione, in quel caso specifico, perché la persona che ha preso il posto per prima non debba tenerselo; o che la situazione era tutt'altra quando gli è stato dato lo spicchio d'arancia; o che un evento imprevisto lo esime dal mantenere la promessa. Si direbbe, insomma, che entrambe le parti abbiano in mente una sorta di legge o regola di correttezza, di buon comportamento, di morale, o chiamatela come vi pare, sulla quale in realtà sono d'accordo. E così è, in effetti. Se non avessero in mente qualcosa del genere, due persone potrebbero azzuffarsi come animali, ma non litigare nel senso umano del termine. Litigare vuol dire tentare di dimostrare che il tuo avversario ha torto. E il tentativo non avrebbe senso se fra te e lui non esistesse un qualche genere di accordo su che cosa è ragione e torto, giusto e ingiusto; così come non avrebbe senso dire che un calciatore ha commesso un fallo se non ci fosse accordo sulle regole del calcio.

Tale legge o regola del Giusto e dell'Ingiusto si chiamava una volta «legge naturale». Oggi quando parliamo di «leggi naturali» intendiamo di solito cose come la gravitazione, l'ereditarietà, i princìpi della chimica. I pensatori di un tempo, invece, definendo «legge naturale» la legge del giusto e dell'ingiusto, intendevano in realtà la «legge della natura umana». Volevano dire, cioè, che così come tutti i corpi sono soggetti alla legge di gravitazione, e gli organismi alle leggi biologiche, la creatura chiamata uomo ha anch'essa la sua legge. Con questa grande differenza: che un corpo non può scegliere se obbedire o no alla legge di gravitazione, mentre un uomo può scegliere tra obbedire e disobbedire alla legge della natura umana.

- un prete: mi sono accorto che non posso parlare dei 10 comandamenti se prima non parlo del bene e del male

- i bambini non sono per niente totalmente innocenti, totalmente buoni

- non banalizzare da parte di nessuno, nemmeno da parte dei sacerdoti

Da Tipicità evolutive nel bambino fra i 6 ed i 10 anni di età, di Giampaolo Nicolais (on-line su www.gliscritti.it )

È necessario innanzitutto premettere come nel corso degli ultimi 30 anni la psicologia dello sviluppo abbia profondamente modificato l’immagine del bambino e la mappa delle sue competenze nelle diverse fasi di sviluppo.

Grazie ad importanti studi soprattutto di natura longitudinale ma al contempo accogliendo ed integrando apporti e dati di ricerca da discipline affini (dalle neuroscienze alla psicoanalisi relazionale), ciò che noi oggi sappiamo della psicologia dello sviluppo è per alcuni versi sorprendentemente diverso da ciò che sapevamo qualche decennio fa…

Se… centriamo il nostro interesse sulle peculiarità della fascia di sviluppo 0-6, non vi è dubbio che qui la “novità” emergente dalla riscrittura delle mappe evolutive cui stiamo facendo riferimento sia relativa allo sviluppo morale.

Per Piaget, il bambino prescolare è un “essere premorale”. Dai 5 ai 9 anni sviluppa un “realismo morale” che è espressione diretta delle aumentate capacità cognitive del bambino (e quindi, ad esempio, un danno è grave tanto quanto determina conseguenze osservabili gravi. La sua valutazione è sganciata dall’intenzionalità di chi compie il danno stesso).

Freud fa coincidere l’abbozzo di uno sviluppo morale con la formazione del Super-Io, terza istanza psichica che si affianca all’Io e all’Es e che promana dall’interiorizzazione dei divieti genitoriali legati alla fase edipica. Attorno ai 3-4 anni, cioè, un “proto” senso morale del bambino si fa strada attraverso la progressiva accettazione di dover rinunciare all’esclusività del rapporto a due aprendosi alla triangolarità relazionale.

Questa enfasi sulla dimensione affettivo-emotiva della norma, in Freud legata alla dimensione del divieto e dell’interdizione, trova nella teoria dell’attaccamento una piena articolazione, con importanti indicazioni per il nostro discorso.

In breve: la teoria dell’attaccamento ci spiega come ciascuno di noi nasca biologicamente pre-programmato alla ricerca della vicinanza di un caregiver adulto che offra protezione e vicinanza fisica nei momenti di paura/stress/difficoltà. Tale disposizione, ereditata in termini evoluzionistici dai nostri progenitori che hanno sviluppato questo “comportamento di ricerca della base sicura” al fine di minimizzare la predazione dei piccoli da parte di altre specie, negli esseri umani ha implicazioni psicologiche formidabili.

Dalla nascita, infatti, il piccolo ricerca il caregiver per il drive biologico della protezione dalla difficoltà (in maniera prevalente la madre, anche se fin dall’inizio abbiamo diverse “figure di attaccamento”) e in questa dinamica ora sappiamo hanno luogo delicati processi di regolazione (assieme fisiologica ed emotiva) che costituiscono la base del “senso di sé” del bambino. La sua identità, così, è fin dall’inizio una “identità relazionale”.

In questo quadro, lo sviluppo morale ha avvio fin dalle primissime fasi dello sviluppo. Se, infatti, il comportamento morale è possibile dal momento in cui “standard interni” regolano aspetti del comportamento in assenza dell’adulto, essendo precoce l’avvio del loro processo di internalizzazione attraverso il rapporto diadico e la competenza interpersonale del bambino ne avremo evidenza già nel primo anno.

Ad esempio, è dimostrato che già tra i 7 e i 12 mesi sono osservabili precursori di questa internalizzazione (Emde): la compliance alle richieste del caregiver; l’inibizione di comportamenti precedentemente proibiti dal caregiver.

A 18 mesi (Kagan) il bambino si mostra consapevole degli standard ed aspettative altrui, come è evidente dalle sue reazioni emotive di fronte a degli oggetti di uso comune che vengono rotti in sua presenza. Sempre in questo periodo, l’uso semantico del “no” e la concettualizzazione di sé come “buono” o “cattivo” sono ulteriori indicatori.

Nel terzo anno l’interesse per sé comincia ad essere sistematicamente negoziato all’interno del contesto familiare e delle altre relazioni interpersonali, alternandosi alla propensione al comportamento di cooperazione. Assistiamo a vere e proprie “negoziazioni” che recano con sé tensioni conflittuali e veri e propri dilemmi morali.

I dati osservativi, perciò, ci confermano che prima dei 3 anni è già avviato e consistente lo sviluppo morale del bambino. A 3 anni i bambini sono in grado di rappresentare mentalmente e narrare tematiche di empatia, reciprocità, rispetto delle regole. Inoltre, se posti di fronte a dilemmi morali sono in grado di valutare e scegliere tra alternative di scelte prosociali.

Alla luce di una lettura derivata dalle processualità di sviluppo descritte nell’ambito della teoria dell’attaccamento, la propensione alla internalizzazione morale è biologicamente caratterizzata. Peraltro a questa acquisizione evolutiva concorrono anche fattori temperamentali specifici (si pensi all’importanza dei tratti caratteriali introversione/estroversione nel direzionare l’investimento ed il riconoscimento affettivo sull’altro).

È certo, e per chiunque facilmente evidente, che tale tensione richiede facilitazione e direzione all’interno della dinamica di rapporto con il/i caregiver/s. Si pensi al comportamento empatico, largamente influenzato dalla mediazione che l’adulto opera nel descrivere al bambino le proprie e altrui emozioni, rendendole via via comprensibili e confrontabili con le sue proprie.

Scrive Benedetto XVI nella Sua Lettera alla Diocesi sul compito urgente dell’educazione: «Già in un piccolo bambino c’è inoltre un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domande riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita».

Ho provato ad indicare come questo “desiderio di sapere e capire” che Benedetto XVI così bene descrive nel bambino piccolo sia scientificamente descritto e dimostrato fin dal periodo prescolare. Come, quindi, possa essere gravemente riduttivo puntare, nel momento della scolarizzazione, ad un progetto educativo unicamente ancorato alla dimensione classica della “performance cognitiva”. Come, in sintesi, sia la natura stessa del bambino, con la sua precoce capacità di lettura e considerazione morale, ad esigere un’educazione all’altezza: il consolidamento dello sviluppo morale nel bambino è possibile laddove la relazione educativa significativa lo sostanzia ed indirizza.

3/ L’annuncio: comprendere il senso del peccato dinanzi alla misericordia

Da Bellezza: quando Dio «seduce», di Alessandro D’Avenia

Ci innamoriamo e amiamo solo per la bellezza. Nessuno di noi ha desiderato avvicinarsi e conoscere qualcosa o qualcuno senza esserne prima sedotto. Questo principio di attrazione ha il suo fondamento ultimo qui: «Nessuno viene a me se non lo attrae il Padre». Tutte le volte che nell’ambito naturale (la grazia delle cose) o soprannaturale (la Grazia, dono di Dio a partecipare alla sua vita) la bellezza ci mette in movimento, sperimentiamo l’attrazione dell’Amore che ci trasforma, cioè vuole darci la sua forma, la sua essenza, per farsi tutto in tutti, pur mantenendo ciascuno la sua irripetibile identità.

Questa attrazione che Agostino chiamava delectatio victrix (piacere che avvince), in Dante è il movimento «amoroso» che Dio imprime alla creazione: «La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove», in cui «il più e il meno» non indica solo l’oggettiva scala di perfezione dell’essere delle creature, ma anche la loro risposta soggettiva. La gloria è lo stabile e progressivo manifestarsi e comunicarsi della bontà di Dio nel mondo e nella storia, si mostra come bellezza e si dà quasi senza ostacoli negli esseri privi di libertà (per questo a volte preferiamo cani gatti mari e boschi agli umani), mentre è più o meno o affatto rallentata dalla resistenza delle creature dotate di libertà (in questo senso il massimo del progresso è stato raggiunto una volta per tutte con Cristo)…

Quando l’azione beatificante (capace di rendere felici), che attira cose e persone verso il loro pieno e duraturo compimento di bellezza, trova un ostacolo, questa gloria non si irrigidisce ma diventa anzi resiliente e prende il nome di misericordia e, lasciandosi ferire, diventa limite imposto al male della e nella storia. Quando l’ostacolo del male si erge contro la gloria di Dio, trionfo di bellezza a cui ogni cosa e persona è chiamata, l’azione «attraente» di Dio si piega in forma di misericordia (Cristo si china sulla donna che tutti volevano lapidare) sul cuore duro e cerca di sedurlo, a volte con forza a volte con delicatezza, verso un bene più grande e misterioso, nel tempo e nello spazio che si renderanno necessari.

La misericordia accetta il rallentamento della gloria che si dispiegherebbe altrimenti al ritmo divino («Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali; e voi non avete voluto!»), ma proprio questo inciampo fa emergere un volto della gloria spiazzante per i canoni umani

Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia

Posso leggere la mia vita attraverso il capitolo 16 del Libro del profeta Ezechiele. Leggo quelle pagine e dico: ma tutto questo sembra scritto per me! Il profeta parla della vergogna, e la vergogna è una grazia: quando uno sente la misericordia di Dio, ha una grande vergogna di se stesso, del proprio peccato. C’è un bel saggio di un grande studioso della spiritualità, padre Gaston Fessard, dedicato alla vergogna, nel suo libro La Dialectique des “Exercises spirituels” de S. Ignace de LoyolaLa vergogna è una delle grazie che sant’Ignazio fa chiedere nella confessione dei peccati davanti al Cristo crocifisso. Quel testo di Ezechiele insegna a vergognarti, fa sì che tu ti possa vergognare: con tutta la tua storia di miseria e di peccato, Dio ti rimane fedele e ti innalza. Io sento questo. Non ho ricordi particolari di quando ero bambino. Ma da ragazzo sì. Penso a padre Carlos Duarte Ibarra, il confessore che incontrai nella mia parrocchia quel 21 settembre 1953, nel giorno in cui la Chiesa celebra san Matteo apostolo ed evangelista. Avevo 17 anni. Mi sentii accolto dalla misericordia di Dio confessandomi da lui. Quel sacerdote era originario di Corrientes, ma si trovava a Buenos Aires per curarsi dalla leucemia. Morì l’anno seguente. Ricordo ancora che dopo il suo funerale e la sua sepoltura, tornato a casa, mi sono sentito come se fossi rimasto abbandonato. E ho pianto tanto quella sera, tanto, nascosto nella mia stanza. Perché? Perché avevo perso una persona che mi faceva sentire la misericordia di Dio, quel «miserando atque eligendo», un’espressione che allora non conoscevo e che poi ho scelto come motto episcopale. L’avrei ritrovata in seguito, nelle omelie del monaco inglese san Beda il Venerabile, il quale descrivendo la vocazione di Matteo scrive: «Gesù vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: “Seguimi”». 

Questa è la traduzione che comunemente viene offerta dell’espressione di san Beda. A me piace tradurre miserando, con un gerundio che non esiste, “misericordiando”, donandogli misericordia. Dunque «misericordiandolo e scegliendolo», per descrivere lo sguardo di Gesù che dona misericordia e sceglie, prende con sé. 

Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia

Il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio. L’ho detto sinceramente, anche di fronte ai carcerati di Palmasola, in Bolivia, davanti a quegli uomini e a quelle donne che mi hanno accolto con tanto calore. A loro ho ricordato che anche san Pietro e san Paolo erano stati carcerati. Ho un rapporto speciale con coloro che vivono in prigione, privati della loro libertà. Sono stato sempre molto attaccato a loro, proprio per questa coscienza del mio essere peccatore. Ogni volta che varco la porta di un carcere per una celebrazione o per una visita, mi viene sempre questo pensiero: perché loro e non io? Io dovrei essere qui, meriterei di essere qui. Le loro cadute avrebbero potuto essere le mie, non mi sento migliore di chi ho di fronte. Così mi ritrovo a ripetere e a pregare: perché lui e non io? Può scandalizzare questo, ma mi consolo con Pietro: aveva rinnegato Gesù e nonostante questo è stato scelto. [...] 

Ho letto nella documentazione del processo di beatificazione di Paolo VI la testimonianza di uno dei suoi segretari, al quale il Papa [...] aveva confidato: «Per me è sempre stato un grande mistero di Dio, che io mi trovo nella mia miseria e mi trovo davanti alla misericordia di Dio. Io sono niente, sono misero. Dio Padre mi vuole molto bene, mi vuole salvare, mi vuole togliere da questa miseria in cui mi trovo, ma io sono incapace di fare questo da me stesso. Allora manda il suo Figlio, un Figlio che porta proprio la misericordia di Dio tradotta in un atto d’amore verso di me… Ma ci vuole per questo una speciale grazia, la grazia di una conversione. Io devo riconoscere l’azione di Dio Padre nel suo Figlio verso di me. Una volta che io ho riconosciuto questo, Dio opera in me tramite suo Figlio». 

È una sintesi bellissima del messaggio cristiano. E che dire dell’omelia con cui Albino Luciani iniziava il suo episcopato a Vittorio Veneto, dicendo che la scelta era ricaduta su di lui perché certe cose, invece di scriverle sul bronzo o sul marmo, il Signore preferiva scriverle sulla polvere: così, se la scrittura fosse restata, sarebbe stato chiaro che il merito era tutto e solo di Dio. Lui, il vescovo, il futuro papa Giovanni Paolo I, si definiva «la polvere». Devo dire che quando parlo di questo, penso sempre a ciò che Pietro ha detto a Gesù la domenica della sua resurrezione, quando lo ha incontrato da solo. Un incontro a cui accenna l’evangelista Luca (24,34). Che cosa avrà detto Simone al Messia appena risorto dal sepolcro? Gli avrà detto che si sentiva un peccatore? Avrà pensato al rinnegamento, a quanto accaduto pochi giorni prima, quando per tre volte aveva finto di non conoscerlo, nel cortile della casa del Sommo Sacerdote. Avrà pensato al suo pianto amaro e pubblico. 

Se Pietro ha fatto questo, e se i Vangeli ci descrivono il suo peccato, il suo rinnegamento, e se nonostante tutto ciò Gesù gli ha detto «Pasci le mie pecorelle» (Vangelo di Giovanni 21, 16), non credo che ci si debba meravigliare se anche i suoi successori descrivono se stessi come “peccatori”. Non è una novità. 

- Follia del nostro tempo: non esiste il peccato, non c’è colpa

- Questione della psicoanalisi e della psicologia

- il peccato che dipende dalle strutture?

- René Girard: il problema dell’espiazione  e del sacrificio… è la violenza il grande problema della cultura… come arrestarla? Ecco l’invenzione pre-cristiana del sacrificio (che però perpetua la violenza)…

Da La sovversione evangelica del mito, di René Girard (su www.gliscritti.it )

Ora, leggiamo un'altra maledizione che evoca la dinamica che abbiamo individuato: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: "Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti". Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri» (Mt 23,29-32).

I farisei non negano che gli omicidi dei profeti abbiano avuto luogo. Lungi dall'approvarli o ignorarli, li condannano severamente. Vogliono dissociarsi dai loro antenati. Agli occhi di Gesù, tuttavia, non vi riescono. Il comportamento religioso dei farisei perpetua paradossalmente la solidarietà che vorrebbe negare, la solidarietà con l'omicidio dei profeti. L'omicidio dei profeti fu un'azione collettiva e anche il rifiuto arrogante della partecipazione ad esso è un'azione collettiva. «Se fossimo stati vivi al tempo dei nostri padri non avremmo preso parte con loro all'omicidio dei profeti» (Mt 23,30). In altre parole non avremmo ceduto al contagio mimetico della dinamica della vittima collettiva. I farisei rassicurano se stessi del fatto che non sarebbero capaci di un tale atto.

Da Ratzinger J., Dio e il mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 384-385

Mi consenta di citarla: «L'incapacità di riconoscere la propria colpa è la forma più pericolosa di ottundimento psichico che si riesca a immaginare, perché è la sola capace di impedire all'uomo di migliorare».

Si parla molto dei sensi di colpa che il Cristianesimo istilla negli uomini e con cui li vuole tenere sotto pressione. Naturalmente abusi dei sensi di colpa non si possono escludere. Ma è molto più grave lo spegnersi della capacità di percepire la colpa perché indurisce interiormente l'uomo in maniera patologica. Pensiamo al passo successivo di un processo di questo genere: coincide con quanto avvenne in epoca nazista. Si credeva di poter anche assassinare, come diceva Himmler, conservando la propria onorabilità - e ciò ha provocato una devastazione nella coscienza umana e lo stravolgimento di tutta la persona. La capacità di percepire la colpa è sopportabile e si sviluppa solo se esiste un rimedio alla colpa stessa. E questo, a sua volta, dipende dalla possibilità dell'assoluzione. La psicoterapia può far molto nell'individuare e correggere distorsioni nella struttura psichica delle persone ma non può superare la colpa. Allora oltrepassa i propri limiti, e per questo finisce spesso per fallire. Solo il Sacramento può davvero superare la colpa con l'autorità che gli viene da Dio.

Dobbiamo comunque ammettere che nella nostra epoca, così impregnata di individualismo, risulta all'uomo estremamente difficile varcare la soglia della Confessione personale. Ma laddove siamo guidati dallo spirito della fede, possiamo impararlo da capo. Innanzitutto perché non ci viene chiesto di confessare le nostre colpe davanti ad altri uomini ma dinanzi a Dio, e perché questo sforzo viene suggellato dal perdono - e forse anche da indicazioni pratiche che ci aiutano a superare le conseguenze della colpa.

p. 386

Credo che l'aiuto a far esprimere la coscienza sia molto importante. Da questo punto di vista siamo resi insensibili dal peccato originale e tendiamo a voler coprire le nostre colpe con il velo dell'oblio quando ci rapportiamo con il nostro prossimo in maniera in appropriata. Accettiamo la menzogna con facilità, ad esempio. Il nostro grosso pericolo è l'ottundimento della coscienza, che avvilisce l'uomo. Perciò è essenziale educare all'ascolto della voce della propria coscienza. È perciò preciso compito della Chiesa individuare in ogni epoca i peccati più tipici e aiutare la società a evitare in questi essenziali ambiti dell'esistenza umana il rischio dell'ottundimento e della decadenza morale.

Da Ratzinger J.-Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Lindau, Torino novembre 2006, pp. 85-89

Al termine del Sinodo dei vescovi dedicato al tema della famiglia, trovandoci a riflettere in un gruppo ristretto sui possibili temi del Sinodo successivo, la nostra attenzione fu richiamata dalle parole con le quali Gesù, all'inizio del Vangelo di Marco, riassume l'intero suo messaggio: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è giunto: convertitevi e credete al Vangelo». Allora uno dei vescovi si fece pensieroso e disse a proposito di tali parole: «Ho l'impressione che da tempo abbiamo addirittura dimezzato il messaggio di Gesù qui riassunto». Parliamo tanto e facilmente di evangelizzazione e di lieta novella. per rendere il cristianesimo attraente agli uomini. Ma quasi nessuno, a giudizio di quel vescovo, ha ancora il coraggio di proclamare il messaggio profetico: convertitevi! Quasi nessuno osa più ripetere al nostro tempo questo invito elementare del Vangelo, con cui il Signore intende dirci che ognuno deve riconoscersi personalmente peccatore e colpevole, fare penitenza e divenire un altro. E aggiunse: «L'odierna predicazione cristiana mi sembra la registrazione di una sinfonia, cui è stata tagliata la parte iniziale con il primo tema fondamentale, sicché tutta la sinfonia risulta amputata e il suo andamento incomprensibile».

Con queste parole il vescovo aveva effettivamente toccato un punto dolente dell'attuale situazione storico-culturale. Il tema del peccato è uno dei temi su cui oggi regna un perfetto silenzio. La predicazione religiosa cerca di evitarlo accuratamente. Il teatro e la cinematografia utilizzano il termine in senso ironico o come tema di intrattenimento. La sociologia e la psicologia cercano di smascherarlo come un'illusione o un complesso. Persino il diritto tenta di fare sempre più a meno della nozione di colpa e preferisce servirsi di una terminologia sociologica, che riduce l'idea del bene e del male a un dato statistico e si limita a distinguere tra comportamento normale e comportamento deviante. Ciò implica che le proporzioni statistiche possono anche capovolgersi: quel che oggi è la deviazione può un giorno diventare la regola, anzi, forse bisogna addirittura tendere a fare della deviazione la norma. Riducendo così tutto alla quantità, la nozione di moralità scompare. Ciò è logico, se per l'uomo non esiste alcuna misura a lui preesistente, una misura non escogitata da noi, bensì derivante dalla bontà intrinseca del creato.

In questo modo siamo già arrivati al nucleo vero e proprio di questo procedimento. L'uomo odierno non conosce alcuna misura, non vuole riconoscerne alcuna, perché vede in essa una minaccia alla propria libertà. Al riguardo si potrebbero citare le parole dell'ebrea francese Simone Weil che una volta disse: «Facciamo l'esperienza del bene solo quando lo compiamo [...]. Quando invece facciamo il male, non lo conosciamo, perché il male aborre la luce». Riconosciamo il bene solo se lo facciamo. Riconosciamo il male solo se lo evitiamo.

Così il tema del peccato è diventato un tema rimosso, ma dall'altro lato vediamo che esso è appunto solo rimosso, mentre in realtà è rimasto. Indicativa al riguardo mi sembra l'aggressività sempre pronta a scattare che sperimentiamo in maniera crescente nella nostra società, la prontezza impaziente a denigrare l'altro, a riconoscerlo colpevole della propria sventura, a bollare d'infamia la società e a voler cambiare con la violenza il mondo. Mi sembra che tutto questo possa essere capito solo come espressione della verità rimossa della colpa, di cui l'uomo non vuole prendere atto. Ma poiché essa esiste, ecco che egli si vede costretto ad attaccarla e calpestarla. E poiché l'uomo può sì rimuovere la verità ma non eliminarla ed egli si ammala per la verità rimossa, ecco allora il che uno dei compiti dello Spirito Santo consiste nel convincere «il mondo quanto al peccato» (Gv 16,8). Non si tratta di guastare la vita agli uomini, di comprimerli con divieti e negazioni. Si tratta semplicemente di guidarli alla verità e così guarirli. L'uomo può divenire sano solo se diviene vero, se smette di rimuovere la verità e di calpestarla. Il terzo capitolo del libro della Genesi… è un frammento di questa azione dello Spirito Santo che permea la storia. Egli convince il mondo e noi di peccato non per umiliarci, ma per renderci veri e sani, per «redimerci».

pp. 91-92

Alla luce della tentazione d'Israele, la Sacra Scrittura presenta la tentazione di Adamo come l'essenza della tentazione e del peccato di tutti i tempi. La tentazione non comincia con la negazione di Dio, con la caduta nell'ateismo dichiarato. Il serpente non nega Dio; comincia piuttosto con una domanda apparentemente del tutto ragionevole, che però contiene una insinuazione, trascina l'uomo in tale insinuazione e lo fa passare dalla fiducia alla diffidenza: «È vero che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». All'inizio non c'è la negazione di Dio, bensì il sospetto sulla sua alleanza, sulla comunione di fede, di preghiera e dei comandamenti, in cui viviamo in virtù del Dio dell'alleanza. Quando cominciamo a sospettare dell'alleanza, infatti, scopriamo tante intuizioni che suscitano la diffidenza, sollecitano la libertà e denunciano così l'obbedienza dell'alleanza come una catena che ci tiene lontani dalle autentiche promesse della vita. È così facile convincere l'uomo che questa alleanza non è un dono, bensì l'espressione di un'invidia nei suoi confronti, che l'alleanza lo priva della sua libertà e delle cose più preziose della vita. Tale sospetto sull'alleanza spinge poi l'uomo a fabbricarsi da solo il suo mondo. In altre parole: esso propone all'uomo di non accettare i limiti del proprio essere, di non considerare i limiti del bene e del male, i limiti della moralità in generale, bensì di potersene e doversene semplicemente liberare ignorandoli.

pp. 102-103

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).

Limitiamoci alla sua connessione con la storia della caduta nel peccato, cui chiaramente allude, anche se sembra aver avuto sotto gli occhi una versione un po' diversa da quella riportata in Genesi 3 (cfr. ad esempio Gb 15,8). Gesù Cristo percorre in senso inverso il cammino di Adamo. Diversamente da questi egli è veramente come Dio». Ma questo essere come Dio, questa uguaglianza con Dio, è essere-Figlio e quindi totalmente relazione. «Il Figlio non fa nulla da sé stesso». Per questo colui che è realmente uguale a Dio non si aggrappa alla propria autonomia, alla illimitatezza del proprio potere e volere. Egli percorre la via inversa: diventa il totalmente dipendente, diventa il servo. Percorrendo non la via del potere, ma la via dell'amore egli può ora discendere fin nella menzogna di Adamo, fin nella morte e stabilire là la verità, dare la vita. Così Cristo diventa il nuovo Adamo, con cui ha inizio la nuova umanità. Egli, che è radicalmente relazione e rapporto - il Figlio -, rimette in ordine le relazioni. Le sue braccia spalancate sono la relazione aperta, che sta sempre a nostra disposizione. La croce, il luogo della sua obbedienza, diventa così il vero albero della vita. Cristo diventa la figura opposta al serpente, come Giovanni afferma nel suo Vangelo (Gv 3,14). Da questo albero non discende la parola della seduzione, bensì la parola dell'amore redentore, la parola dell'obbedienza, in cui Dio stesso è divenuto obbediente e ci offre la sua obbedienza come spazio della libertà. La croce è l'albero della vita divenuto nuovamente accessibile. Con la passione Cristo ha messo via la spada fiammeggiante, ha attraversato il fuoco ed eretto la croce come il vero asse del mondo, che permette a questo di stare nuovamente in piedi.

- 4 leggi che lavorano nel cuore dell’uomo

- il peccato è dinanzi a Dio, è relazione

- senso della vergogna

Vergognarsi [da Avvenire del 9 settembre 2011] di Gianfranco Ravasi

Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna.

Vae victis!, avrebbe gridato Brenno, capo dei Galli, ai Romani impauriti dopo la sua devastazione di Roma nel 390 a. C., stando almeno alla Storia di Roma di Tito Livio. Che i vinti debbano sempre temere è anche convinzione di quello spirito freddo e pragmatico che è il nostro Machiavelli, che oggi ho voluto presentare in una delle sue frasi lapidarie e realistiche, tratta dalle sue Istorie Fiorentine (1520-25).

Il vincitore ha sempre ragione, potremmo sintetizzare, prescindendo purtroppo da ogni considerazione morale sui mezzi, le forme e il merito stesso della vittoria. L'amoralità del vincere è una convinzione da secoli diffusa, per cui ci si premura subito di aggregarsi alla folla e al carro del vincitore, spesso senza pudore. È, questa, una sorta di legge nella politica, nella guerra, nella carriera e così via, in tutte le occasioni dalle quali emergono nettamente vincitori e vinti.

Ciò che vorrei, però, mettere in luce nella frase di Machiavelli è quel «non riportarne mai vergogna». L'arroganza del vincitore lo rende spudorato, gli cancella il rimorso, gli amputa dal cervello il senso critico. Quella della perdita della vergogna è una delle più truci esperienze dei nostri giorni, un vizio che non è più appannaggio dei vincitori, ma di tutti. Scherzando, lo scrittore russo Anton Cechov parlava di «un bassotto che camminava per la strada e provava vergogna di avere le gambe storte».

Ora, invece, le gambe storte - soprattutto le storture dello spirito - vengono ostentate e diventano materia di spettacoli televisivi. Come, invece, è profondo l'asserto di un altro russo, il pensatore Vladimir S. Solov'ëv: «Provo vergogna, dunque esisto».

da John Henry Newman, Meditazione sullo Spirito Santo, in Meditazione e preghiere, Jaca, Milano, 2002, pp. 96-97
O mio Dio, posso io peccare, quando tu sei così intimamente unito a me? Posso io dimenticare chi è con me, chi è in me? Posso io cacciare un ospite divino per una cosa che egli aborre più di ogni altra, che è l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua? Mio Dio, di fronte al peccato io mi trovo in una doppia sicurezza: innanzi tutto il timore di profanare al tuo cospetto tutto ciò che tu sei per me; quindi la fiducia che questa stessa presenza mi preserverà dal peccato. Mio Dio, se pecco tu ti ritiri da me, e mi abbandoni al mio miserabile io. Voglio fare uso di ciò che mi hai dato, voglio invocarti quando sono provato o tentato. Voglio guardarmi dalla negligenza e dalla non curanza in cui cado di continuo. Con la tua grazia non ti abbandonerò mai.

4/ Un annuncio: Chi è buono? Chi è giusto? Gesù con il suo perdono

- Gesù è la misericordia… certo il cristianesimo è la religione del perdono, ma soprattutto è la religione di Gesù che è il perdono

- con la Confessione sta o cade tutto il Vangelo

Il paralitico calato dal tetto: Figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati… chi può rimettere i peccati se non Dio solo… l’adultera perdonata… neanche io ti condanno, va in pace e non peccare più… il padre e i due figli… Cristo che invita i secondogeniti e i primogeniti… Simone debbo dirti una cosa… colui a chi si perdona poco ama poco… Maria Maddalena… la morte in croce… oggi sarai con me in Paradiso

- Lewis: Gesù o un folle megalomane o il Figlio di Dio… la Confessione è una Confessione di fede: Gesù è Dio

- Dio perdona tutto… chiedendo il perdono nel dono dello Spirito possiamo giungere a ciò che desideriamo

Da papa Francesco, Il nome di Dio è misericordia

La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio. Gesù ha perdonato persino quelli che lo hanno messo in croce e lo hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non si parla solo di accoglienza e di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della misericordia è la gioia della festa, che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: «Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (15, 7). Non dice: e se poi dovesse ricadere, tornare indietro, compiere ancora peccati, che si arrangi da solo! No, perché a Pietro che gli domandava quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: «Settanta volte sette» (Vangelo di Matteo 18, 22), cioè sempre. 

Al figlio maggiore del padre misericordioso (il riferimento è alla parabola del Figlio Prodigo, ndr.) è stato permesso di dire la verità di quanto accaduto, anche se non capiva, anche perché l’altro fratello, quando ha cominciato ad accusarsi, non ha avuto il tempo di parlare: il padre l’ha fermato e lo ha abbracciato. Proprio perché c’è il peccato nel mondo, proprio perché la nostra natura umana è ferita dal peccato originale, Dio che ha donato suo Figlio per noi non può che rivelarsi come misericordia. [...] 

Seguendo il Signore, la Chiesa è chiamata a effondere la sua misericordia su tutti coloro che si riconoscono peccatori, responsabili del male compiuto, che si sentono bisognosi di perdono. La Chiesa non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio. Perché ciò accada, lo ripeto spesso, è necessario uscire. Uscire dalle chiese e dalle parrocchie, uscire e andare a cercare le persone là dove vivono, dove soffrono, dove sperano. L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, di pronto intervento, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno i check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore. 

5/ L’annunzio: nella Confessione la presenza di Cristo che ha operato nell’Incarnazione è viva e attuale (come in tutti i Sacramenti)

Gv 20,22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Mt 18,15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

Mt 16,18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

6/ L’aspetto ecclesiale della Confessione

- il peccato e la grazia sono comuni

7/ Come celebrare (cfr. video n. Comunioni 11)

Cfr. COMUNIONI 11 - PREPARARE I BAMBINI ALLA CONFESSIONE

- hanno paura

- non c’è nessun tipo di peccato che può cambiare il rapporto con il sacerdote: il sacerdote è abituato; i peccati sono sempre gli stessi

- per uno che apre veramente il cuore c’è grande stima

- i luoghi: Confessionale (es. pulirlo)

- la Confessione è breve… il sacerdote prega per te… fare l’esame di coscienza… non è giusto dire che sono come “la lista della spesa”

- vincere laura di non sapere l’atto di dolore

- il valore della penitenza

Da Ratzinger J., Dio e il mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 384-385

Il Sacramento della Penitenza: taluni dicono che mette l'uomo in una situazione intollerabile, istillandogli sostanzialmente solo paura e sensi di colpa. Altri dicono che, se la Confessione non ci fosse, bisognerebbe inventarla.

La Confessione ha indubbiamente subito nel corso della sua storia trasformazioni esteriori maggiori di qualsiasi altro Sacramento. Proprio perché così personale ha dovuto assumere forme diverse, a seconda delle mutevoli costellazioni dell'individualità umana e delle diverse sensibilità culturali per il processo di disvelamento della propria interiorità o di chiusura in se stessi. In seguito al Concilio Vaticano II, si è tentato di individuare nuove possibilità di cui una è, a mio parere, estremamente positiva, e cioè l'esame di coscienza collettivo, che può essere d'aiuto alla Confessione individuale.

La seconda forma è stata la predisposizione di locali appositi dove la Confessione può aver luogo sotto forma di colloquio. Anche questo può costituire un grosso aiuto e contribuire a far aprire le persone, a far loro superare quelle soglie che
costituiscono per tutti un ostacolo alla Confessione. Il rischio intrinseco è d'altro canto una deformazione psicologizzante della Confessione, che mina la sua grandezza autentica. Si è molto diffusa l'assoluzione collettiva, che però non può essere considerata una vera e propria forma della Confessione, la cui essenza è connessa alla personalizzazione, e ha senso e può aver luogo solo in circostanze straordinarie.

8/ Il rapporto fatica/gioia nella Confessione

Leonardo Mondadori, ha scritto: «L’ho già detto ma mi preme ripeterlo: la confessione ben fatta, sincera, completa, è tra le maggiori fonti di gioia che un uomo possa sperimentare. Hai la certezza di essere riaccolto nella casa del Padre: riconciliato con Lui, con te stesso, con gli altri. Anche, forse soprattutto in questo, mi sento profondamente cattolico: non mi basta fare i conti a tu per tu con Dio. Ho bisogno di quello strumento umano, che mi testimonia il perdono e la misericordia divina, che è il sacerdote. Naturalmente è una gioia che nasce dalla sofferenza che costa il mettersi così a nudo, nella propria miseria. Esaminarci sulle nostre colpe, assumercene l’onere, ci aiuta a recuperare quel senso di responsabilità che rischiamo di perdere; ci confronta beneficamente con la verità su noi stessi, senza alibi e senza scuse ideologiche e sociologiche. È stato il realismo cattolico, il suo richiamo alle responsabilità di ognuno, che mi ha aiutato e mi aiuta a stare lontano da ogni vittimismo, da ogni giustificazionismo da sociologo “alla Rousseau” o da psicologo “progressista”, per il quale ogni colpa è della società, dell’educazione, delle circostanze, magari del governo. In ogni caso, degli altri. Non esistono soltanto “problemi” che, per definizione, possono trovare una soluzione, come vorrebbero indurci a credere. Ci sono cose, tante cose - troppe, se guardiamo al nostro desiderio di felicità terrena -, che sono irrimediabili, alle quali non si può sfuggire e che possono essere non solo sopportate ma trasfigurate guardando a quel Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Quel Dio che, facendosi uomo tra gli uomini, non è venuto a distruggere la croce ma a prenderla sulle spalle e, alla fine, a stendervisi sopra».

9/ I casi oggi discussi

Il primo libro di Francesco: "Nessun peccato è troppo grande per Dio", di Paolo Rodari, da La Repubblica del 10/1/2016

Bergoglio fa esempi concreti. Tre più di altri sorprendono, perché testimoniano la larghezza d'animo di un pastore che ha fatto sua l'idea che la Chiesa o è "prossima" alla gente - "propter homines" - o non è.

Il primo [N.B de Gli scritti: nel libro è alle pp. 32-33 ]è il racconto di una sua nipote che si è sposata civilmente con un uomo prima che lui potesse avere il processo di nullità matrimoniale. "Quest'uomo era tanto religioso - spiega il Papa - che tutte le domeniche andando a messa andava al confessionale e diceva: "Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e quest'altro, mi dia una benedizione". Questo è un uomo religiosamente formato".

Il secondo esempio [N.B de Gli scritti: nel libro è alla p. 75] è un ritorno sulle parole che il Papa disse di ritorno dal viaggio in Brasile nel 2013 a proposito delle persone omosessuali: "Chi sono io per giudicare?". Francesco rivela che gli piace il fatto che "si parli di "persone omosessuali": prima c'è la persona, nella sua interezza e dignità. "E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore. Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnarle".

"La Chiesa non è al mondo per condannare ma per accogliere", dice Francesco. E di ciò si accorse una prostituta di Buenos Aires (terzo esempio [N.B de Gli scritti: nel libro è alla pp. 73-74]). Ricevette dalla Caritas un pacco per Natale. Ringraziò Bergoglio non per il regalo, ma perché, gli disse, "lei non ha mai smesso di chiamarmi "signora"". È la delicatezza di un Papa che vuole prossimità, insistendo su misericordia e tenerezza di Dio, tratti salienti di un magistero che già al Concilio portarono a un nuovo inizio.

10/ Una riprova luterana

Da Bonhoeffer D., La vita comune, Queriniana, Brescia 1969, pp. 138-141

«Confessare le vostre colpe gli uni agli altri» (Giac 5,16). Chi resta solò con il male che è in lui, resta completamente solo. Può accadere che cristiani, nonostante culto comune, preghiera comune e comunione nel servizio, siano lasciati soli, che non riescano a fare l'ultimo passo verso una reale comunione, perché sono, sì, in comunione tra loro come, credenti, come uomini pii, ma non come uomini colpevoli e peccatori. La comunità, perché pia, non permette a nessuno di essere peccatore. Perciò ognuno deve nascondere di fronte a sé stesso ed alla comunità i suoi peccati. Non ci è permesso di essere peccatori. Come inorridirebbero molti cristiani, se scoprissero improvvisamente che un vero peccatore è capitato in mezzo alla gente pia! Perciò restiamo soli con il nostro peccato, nella menzogna e nell'ipocrisia; perché è così: siamo peccatori.   

Ma lo dobbiamo alla grazia dell'Evangelo, così difficilmente comprensibile per l'uomo pio, se siamo posti di fronte alla verità e ci sentiamo dire: Sei un peccatore, un grande inguaribile peccatore; e ora vieni, da peccatore quale sei, dal tuo Dio che ti ama, Egli ti vuole così come sei; non vuole da te una qualunque cosa, un sacrificio, un’opera buona, ma vuole solo te. «Figliolo, dammi il tuo cuore» (Prov 23,26). Dio è venuto da te per redimere il peccato. Rallegrati. Questo annunzio è liberazione mediante la verità. Davanti a Dio non puoi nasconderti. Davanti a Lui non ti serve la maschera che porti davanti agli uomini. Vuole vederti così come sei, e vuole farti grazia. Non occorre più che tu menta a te stesso e ai tuoi fratelli, come se fossi senza peccato; puoi essere un peccatore; ringrazia il Signore, perché egli ama il peccatore, ma odia il peccato.

Cristo è divenuto fratello nostro nella carne, perché gli credessimo. In Lui l'amore di Dio era venuto dal peccatore. Davanti a Lui gli uomini potevano essere peccatori e solo così furono guariti. Di fronte a Cristo ogni apparenza era cessata. La miseria del peccatore e la misericordia di Dio: ecco la verità dell'Evangelo in Gesù Cristo. In questa verità doveva vivere la sua comunità. Perciò diede ai suoi il pieno potere di ascoltare la confessione del peccato e di perdonare il peccato nel suo nome. «A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti» (Gv 20,23).

Con ciò Cristo ha fatto in modo che la comunità e in essa il fratello divengano mezzo di grazia per noi. Egli ora sta al posto di Cristo. Davanti, a lui non occorre che mi comporti come ipocrita. Solo davanti a lui in tutto il mondo posso essere quel peccatore che sono; qui regna la verità di Gesù Cristo e la sua misericordia. Cristo divenne nostro fratello per aiutarci; ora, per opera sua, il nostro fratello è divenuto per noi il Cristo nel pieno potere del suo incarico.

Il fratello sta davanti a noi quale segno della verità e della grazia di Dio. Ci è dato come aiuto. Ascolta la confessione dei nostri peccati al posto di Cristo e ci perdona i nostri peccati al posto di Cristo. Serba il segreto della nostra confessione come Dio lo serba. Se vado a confessarmi dal fratello, vado a confessarmi da Dio…

Il peccato vuole restare solo con l’uomo, lo vuole distogliere dalla comunità. Quanto più un uomo si isola, tanto più forte diviene il potere distruttore del peccato su di lui; quanto più profondo è l’irretimento nel peccato, tanto più funesta diventa la solitudine. Il peccato vuole restare nascosto, teme la luce. Nell’oscurità del silenzio avvelena tutto l’essere dell’uomo. E questo può accadere in mezzo alla comunità di uomini pii. Nella confessione la luce dell’Evangelo penetra nell’oscurità e nel segreto del cuore. Il peccato deve venire alla luce. Tutto ciò che finora è stato taciuto viene detto e confessato apertamente. Tutto ciò che vi è di nascosto e occulto deve venire alla luce. È una dura lotta prima che si riesca a confessare il peccato. Ma Dio spezza battenti di bronzo e spranghe di ferro (Salmo 107,16). Con la confessione del peccato al cospetto del fratello cristiano, l'ultima fortezza dell'autogiustificazione viene abbattuta. Il peccatore si consegna, abbandona tutto il male che è in lui, dà il suo cuore a Dio, e trova perdono per tutti i suoi peccati nella comunione con Cristo e con il fratello. Il peccato confessato a parole ha perso ogni suo potere. Si è manifestato come peccato ed è stato giudicato. Non ha più il potere di spezzare la comunità. Ora la comunità porta il peccato del fratello. Egli non è più solo con il male che è in lui, egli ‘deposto’ il suo male nella confessione, lo ha consegnato a Dio. Gli è stato tolto. Ora egli è nella comunione dei peccatori che vivono della grazia di Dio nella croce di Gesù Cristo. Ora può essere peccatore, eppure rallegrarsi della grazia di Dio. Può confessare il suo peccato e proprio in questo trovare la comunione.

Il peccato nascosto lo separava dalla comunità, rendeva fittizia ogni apparente comunione, il peccato confessato lo aiutò a partecipare alla vera comunione con ifratelli in Gesù Cristo.

Veramente qui si è parlato solo della confessione tra due cristiani. Per ritrovare la comunione con tutta la comunità non è necessaria una confessione dei peccati a tutti i membri della comunità. Nel fratello a cui confesso i miei peccati e che mi concede il perdono, incontro tutta la comunità.

p. 144-145

Il perdono concessoci da noi stessi non può mai portare alla rottura col peccato; questa può essere, solo data dalla Parola di Dio che giudica e, concede grazia. Chi ci da la certezza che nella confessione e nel perdono dei nostri peccati noi non ci troviamo di fronte a noi stessi, ma al cospetto del Dio vivente? Questa certezza ci viene data da Dio per mezzo del fratello. Il fratello spezza il cerchio dell'inganno di se stessi. Chi confessa i suoi peccati al fratello, sa che non si trova di fronte a se stesso, sente nella realtà dell’altro la presenza di Dio. Finché nella confessione dei peccati resto con me stesso, tutto rimane nelle tenebre; al cospetto del fratello il peccato deve venire alla luce. Ma poiché il peccato deve pur venire alla luce, prima o poi, è meglio che sia oggi tra me e il fratello che non l'ultimo giorno alla luce del giudizio universale. È grazia il poter confessare i nostri peccati al fratello. Ci viene così risparmiato il terrore del giudizio universale. Per questo mi è dato il fratello, perché tramite lui io possa fin d'ora avere la certezza di Dio nel suo giudizio e nella sua salvezza. Come la confessione del mio peccato mi sottrae ad un inganno di me stesso dove è fatta al fratello, così anche la promessa del perdono è assolutamente certa dove un fratello me la annunzia per incarico di Dio. La confessione al fratello ci è stata donata in vista della certezza del perdono di Dio.

p. 147

La confessione fa parte della libertà del cristiano. Ma chi ricuserà, senza subirne un danno, un aiuto che Dio ha ritenuto necessario offrirci?

pp. 147-148

Non è l’esperienza della nostra vita che rende capaci di ascoltare una confessione, ma l’esperienza della croce. Il miglior conoscitore di uomini sa infinitamente di meno sul cuore umano del più semplice cristiano che vive sotto la croce di Gesù. Infatti la più profonda conoscenza, capacità ed esperienza psicologica non riesce a comprendere una cosa: cos’è il peccato. Conosce pene, debolezze, fallimento, ma non conosce la lontananza dell’uomo da Dio. Perciò non sa neppure che l’uomo perisce solo a causa del suo peccato e può essere guarito solo mediante il perdono. Questo lo sa solo il cristiano. Di fronte allo psicologo posso solo essere un ammalato, di fronte al fratello cristiano posso essere un peccatore.