Giubileo della misericordia. 2 articoli di Alessandro D’Avenia 1/ Stanchi di rincorrere prestazioni ai giovani serve un altro stile di vita, di Alessandro D’Avenia 2/ [La novità della misericordia cristiana], di Alessandro D’Avenia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /02 /2016 - 17:35 pm | Permalink | Homepage
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1/ Stanchi di rincorrere prestazioni ai giovani serve un altro stile di vita, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da La stampa dell’8/12/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Un filosofo contemporaneo ha visto in Prometeo l’archetipo della società di oggi, composta da uomini stanchi, che hanno creato una vita che li incatena e divora continuamente. Il loro fegato ricresce ogni giorno, pronto per essere nuovamente distrutto dal meccanismo della prestazione. Per Prometeo non c’è misericordia: “La società del XXI secolo è una società della prestazione. I suoi stessi cittadini sono “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi.” (Byung-Chul Han, La società della stanchezza). La tecnica sostituisce ciò che è umano nell’uomo.

La stanchezza che caratterizza la società occidentale colpisce in modo particolare i giovani, ora disarmati di fronte ad una vita che chiede loro di essere oggetto di prestazioni e non soggetto di possibilità (adolescenza è l’irruzione di ciò che è propriamente umano, è l’assunzione di un destino: la necessità e l’entusiasmo di creare a partire da ciò che si è) e che si rifugiano nelle loro stanze come gli hikikomori o sono costretti a far regredire il loro corpo e il loro spirito a larva anoressica; ora armati a vuoto con l’unico scopo di distruggere (a maggior potenza creatrice corrisponde sempre maggiore estensione del caos), con violenza sul corpo altrui, o sul proprio, ferito per sapere di aver sangue e vita dentro di sé. Regressione fetale da un lato, esplosione kamikaze dall’altro: in entrambi i casi si mostra una forza sorprendente, di per sé creativa, che può impegnarsi a fini distruttivi, fino all’autodistruzione. L’assenza di misericordia trasforma l’amore di sé in amore della morte.

La prestazione è il contrario della misericordia, la capacità di interiorizzare, negli occhi dell’altro, la propria vita e accettarla per quello che è: un limite capace di superarsi, un limite capace di creare e di essere nuovo inizio, un inedito darsi. I giovani di oggi cercano, come ogni generazione, questa misericordia nella generazione precedente: la possibilità di riceversi così come sono. Ciò si impara primariamente in famiglia, la cui essenza è avere almeno un posto al mondo in cui si è accettati (se non si è frutto di un menu, e quindi oggetto di attesa di prestazione) e si accetta l’altro per come viene ed è e non per quello che può dare o fare. Un posto in cui qualcuno possa dire all’altro: “io darei la vita per te, come sei, adesso”. E quell’adesso è fondamentale, ed è misericordia.

Invece anche la famiglia, più fragile, diventa spesso luogo di prestazione: il figlio è caricato di tutte le attese dei genitori, che crollano se il figlio fallisce, perché la loro realizzazione non è primariamente nell’amore della coppia, ma nelle aspettative sul bambino (genitori che si ribellano per un cattivo voto del figlio, ma d’altronde la scuola è spesso ridotta a prestazione e voti, o si scannano durante le partite di calcio dei bambini). Se la felicità si identifica con una prestazione efficace, l’insuccesso è bandito. Invece la crescita e la maturità sono tessute di fallimenti, attraverso i quali il giovane impara che la realtà resiste ai suoi desideri di onnipotenza narcisistica e impara a stare al mondo, introducendovi la sua novità con la pazienza e il coraggio necessari. Questo è conquistare la maturità: interiorizzare il limite, trasformando il destino in destinazione. La società della prestazione spazza via la possibilità di fallire, perché non conosce misericordia, esilia la fragilità costitutiva dell’umano, generando soggetti spesso depressi e frustrati, perché non riescono ad essere quello che occhi senza misericordia si aspettano. Il doping diventa necessario: tanti professionisti hanno bisogno di drogarsi per essere produttivi, come si dopano le piante e gli animali perché forniscano materia nuova ogni giorno per gli scaffali.

Viene meno lo stupore paziente dell’essere “così” di cose e persone, viene meno la stessa consistenza di cose e persone che hanno bisogno di tempo per darsi a conoscere. “Rispetto” e “riguardo” dicono che per avere accesso alla realtà bisogna guardarla (-spectare -guardare) con un certo distacco, più e più volte (ri-), nel tempo, senza esigere il tutto-e-subito. Tolto il ri- della misericordia rimane solo lo spettacolo (spectare) dell’eterno presente, del multitasking, dello sguardo che pretende, della prestazione che affatica e divora, come l’aquila, il fegato del giovane Prometeo, portatore di fuoco.

Non c’è spazio perché il nostro io disarmato sia e cresca, nella pazienza delle stagioni. Il corpo si trasforma in protesi da migliorare con la chirurgia, l’amore si riduce a tecnica di seduzione e di piacere, la felicità si riduce a benessere, la salvezza a sicurezza, gli altri diventano app da smartphone. Riguardo e rispetto, cioè misericordia, sono merce rara, perché non dipendono dalla tecnica che tutto può, ma da un cuore capace di accogliere la realtà, prima di aver pensato di sfruttarla.

Un giovane non guardato e amato per ciò che è e non per ciò che dovrebbe dare e fare, si stanca della sua esistenza prima ancora di cominciare il compimento, che ne segna corpo e spirito. Non impara a conoscere e amare se stesso per quello che è, quindi non trova il coraggio per essere nuovo inizio (dare e fare come conseguenza dell’essere), agisce un copione per cui non ha talento, finendo con ribellarsi (o si chiude o esplode) al continuo fallimento a cui è paradossalmente costretto. La solitudine di Prometeo potrebbe guarire, la sua ferita rimarginarsi, se ricominciassimo, anche grazie al Giubileo (che non riguarda solo i credenti) a creare uno stile di vita basato, non sulla prestazione che genera stanchezza, ma su una vita attiva nutrita da uno sguardo che sappia farci sentire in pace per quello che siamo e non solo per quello che possiamo dare/fare. Se trovassimo questo sguardo, al fegato divorato ogni giorno dalla prestazione, potremmo sostituire un cuore ogni giorno rigenerato dalla misericordia.

2/ [La novità della misericordia cristiana], di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato senza titolo sul suo blog www.profduepuntosero.it l’8/12/2105 . Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/2/2016)

Gli dei antichi erano tutto tranne che misericordiosi, non potevano esserlo, perché li aveva inventati il cuore ferito dell’uomo, tanto che Virgilio nell’esordio del suo poema chiede sbigottito: “Così grandi sono le ire nelle anime dei celesti?”. Non immaginava che Dio potesse essere misericordia incarnata in un cuore umano, eppure Cristo sarebbe nato pochi anni dopo.

La misericordia è attributo sorprendente del Dio della Rivelazione, lontana da moralismo velleitario, irenismo sentimentale, in versione secolarizzata (filantropia). La misericordia divina, alla quale veniamo educati in modo speciale nell’anno giubilare, acquisendo gli stessi “pensieri-sentimenti” di Cristo, nel cuore del quale questa si è resa visibile e accessibile, ha due caratteri ben precisi, riassunti nella Dives in misericordia di San Giovanni Paolo II (in particolare nella nota 52): hesed e rahmim.

Il primo vocabolo indica la fedeltà di Dio alla sua alleanza, anche e soprattutto quando l’uomo non vi corrisponde: “si manifesta ciò che era al principio, amore che dona, amore più potente del tradimento, grazia più forte del peccato”. Da questa fedeltà a se stesso e alla sua creazione deriva la sua inesausta grazia, non ritira il dono: «Io agisco non per riguardo a voi, gente di Israele, ma per amore del mio nome santo» (Ez 36,22). Oggi più che mai c’è bisogno di questa fedeltà, data la diffusa mancanza di fedeltà al proprio essere (ci si ama solo se ci si riceve da Dio), che genera fughe da sé, la mancanza di fedeltà agli altri (ci si ama solo se si ama Dio negli altri), che genera tradimento e abbandono.

Mentre il primo ha un connotato maschile e paterno, il secondo vocabolo indica l’altro versante della misericordia divina, infatti rahmim, nella sua radice, denota l’amore della madre (rehem è il grembo materno) ed è la variante «femminile» della fedeltà a se stessi, espressa dalla hesed. Il legame che la madre ha con il bambino è sconosciuto al padre, proprio per la sua visceralità: è un amore gratuito, non frutto di merito, si dà e basta. Questo versante della misericordia “genera la bontà e la tenerezza, la pazienza e la comprensione, cioè la prontezza a perdonare”: «Si dimentica forse una donna del suo bambino? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). Questo amore è capace di accogliere, sostenere, gestare la vita dell’uomo, sempre e comunque: Dio non sa cosa sia l’aborto.

In queste due espressioni, di carattere antropomorfico, scorgiamo il volto paterno e materno di Dio: un amore che, a contatto con il male e, in particolare, con il peccato dell’uomo e del popolo, non si tira indietro. Sono le caratteristiche del padre in attesa del figlio prodigo: rimane padre, e quindi il ragazzo rimane figlio anche se è andato via, lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia, lo bacia, ne ascolta la confessione, gli restituisce la dignità originaria.

In questa doppia connotazione, resa visibile da Cristo, scorgiamo il volto della misericordia di Dio (“chi vede me vede il Padre”), ancora oggi. Tutto le volte che questa misericordia ci raggiunge abbiamo un tuffo al cuore, ci sentiamo a casa, come chi guarda il crocifisso ligneo di Torcello, sull’asse verticale del quale l’artista applicò dei pioli, indicando nel crocifisso la scala che porta al cielo, dopo essere stata dal cielo calata. Il Dio che crea è il medesimo che redime e, se la redenzione è il rendersi riconoscibile della verità, la misericordia diventa la redenzione che ci raggiunge personalmente, in Cristo. Come? Dove?

In un sacerdote che siede in confessionale e aspetta con la pazienza del Padre il ritorno del figlio, anche se non verrà nessuno. In una coppia sposata che rinnova ogni giorno la presenza di Cristo nella sua fedeltà al vincolo matrimoniale, costi quel che costi. In un laico che porta avanti la sua professione cercando di compierla con perfezione umana e al servizio degli altri. In un bagliore di bellezza naturale, come in questi giorni il tripudio di colori delle foglie autunnali, vestite a festa, benché debbano cadere, dimostrando che la morte è un passaggio verso l’alto e non un muro. In una donna che, in una giornata di pioggia in cui tutti vanno di fretta, si china a offrire tre mandarini dalla sua spesa ad una mendicante per terra, dicendole “questi li mangi lei, non li dia ai cattivi”. In un educatore che presta un libro che possa aiutare un ragazzo o cerca le parole giuste per parlargli. In una suora che nel silenzio della clausura ci ricorda che Dio solo basta. In una madre che, stanca, prepara con cura la cena per la sua famiglia. In un padre che, stanco, gioca con il figlio e rinuncia al riposo o porta un mazzo di rose alla moglie in un giorno in cui non ci sia nulla da celebrare. In un giovane che trova qualche minuto, ogni giorno, per parlare a tu per tu con il suo Dio. In una giovane che dedica qualche minuto del suo tempo alla solitudine di un malato. In una Messa affollata in giorno feriale, prima che il lavoro cominci. Sono tutte immagini “aggraziate”, cioè del dono di misericordia che Dio fa all’uomo nella vita di tutti i giorni, se l’uomo si lascia raggiungere da questa grazia, che ci rende “graziosi” (belli) e non “disgraziati” (brutti). Fedeltà paterna (che non nasconde il male delle azioni del figlio ma lo aiuta, anche ruvidamente, a prenderne consapevolezza) e accoglienza materna (che dimentica quel male se il figlio si apre al perdono) sono sistole e diastole del cuore di Dio, un cuore che avremo nella misura in cui chiederemo in dono quello di Cristo e di sua Madre. Questo è lo scopo del giubileo: rientrati nel cuore paterno-materno di Dio trasmetterne qualche battito a chi ci sta accanto.