Itinerario sui Padri della Chiesa in Roma, con i seminaristi di Genova. File audio di alcune meditazioni di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /04 /2014 - 14:12 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito i file audio di un itinerario guidato da Andrea Lonardo tenutosi nei giorni 28 e 29 gennaio 2014 con i seminaristi del Seminario di Genova. Per ulteriori file audio, vedi la sezione Audio e video.

Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2014)

Itinerario sui Padri della Chiesa in Roma, con i seminaristi di Genova. Parte 1 (File da 1 a 9)

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Itinerario sui Padri della Chiesa in Roma, con i seminaristi di Genova. Parte 2 (File da 9b a 9f)

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TESTI ANTOLOGICI UTIZZATI NEL CORSO DELL'ITINERARIO

Andrea Lonardo (www.gliscritti.it canale Youtube Catechistiroma e Gli scritti FB Andrea Lonardo)

Premessa: Perché i Padri della Chiesa?

da Tornare alle origini significa semplicemente tornare alla Scrittura o riscoprire insieme ad essa anche i Padri della Chiesa? J. Ratzinger e il ritorno alle fonti. Appunti di Andrea Lonardo, on-line su www.gliscritti.it (commentando J. Ratzinger, I Padri nella teologia contemporanea, in J. Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca, Milano, 2005, pp. 143-161).

b/ Un abbozzo di risposta: la “paternità” dei padri come interpreti autentici della Scrittura e della rivelazione tutta

Il dilemma posto sui Padri è, in fondo, il grande dilemma della teologia e della fede contemporanee, quello fra la scienza e la fede: sono esse lontane l’una dall’altra o la fede ha bisogno della scienza e la scienza della fede?

«L’interrogativo circa l’attualità dei Padri ci pone dunque di fronte al braccio di ferro della teologia contemporanea impostole dall’essere tesa fra due mondi: quello della fede e quello della scienza. Eppure quanto accade oggi alla teologia non costituisce qualitativamente qualcosa di totalmente nuovo, ma è soltanto un ritorno acuito dell’antico dilemma fra auctoritas e ratio, che ha sempre seguito la sua strada con la gravità che gli è tipica»[2].

Separando Scrittura e Tradizione, Scrittura e Padri, si può arrivare al paradosso di dimenticare che la Tradizione non è altro che interpretazione delle Scritture! La condizione, infatti, che permette un vero amore ai Padri è che essi siano tramite risplendente ad un vero apprezzamento della Scrittura e non dimenticanza di essa:

«Ci si deve infatti domandare innanzitutto se si possa essere testimone della Tradizione in modo diverso da quello di interprete della Scrittura e di ricercatore del suo significato autentico. Forse la saggezza delle formule di Trento e del 1870 si fonda proprio sul far convergere la Tradizione nella spiegazione della Scrittura e nel considerare i Padri come interpreti della Tradizione perché essi sono tramite alla Bibbia»[3].

Se l’esegesi ritiene talvolta di poter fare a meno dei Padri nella comprensione del messaggio biblico, non diversamente avviene dal punto di vista della teologia: anch’essa, infatti, sembra voler qualche volta ridimensionare il ruolo dei Padri:

«L’importanza dei Padri, che dal metodo storico-critico dell’interpretazione della Scrittura abbiamo visto ridotta al minimo, ora è posta in questione anche dal pensiero dogmatico e nel campo della stessa Tradizione»[4].

Questo appare evidente se si considera con attenzione la storia della teologia orientale e la si confronta con quella dell’occidente cristiano:

«Mentre la teologia della Chiesa orientale non cerca altro che essere teologia patristica, l'orientamento della Riforma nei confronti dei Padri è fin dall'inizio discorde ed è rimasto tale fino ad oggi. Melantone ha lottato con vigore per provare che nella Confessio Augustana si riproponeva quell'eredità della Chiesa antica, che era stata tradita dal cattolicesimo medievale. Flaccio Illirico, il primo storico di rilievo della Riforma, lo ha seguito sullo stesso indirizzo, come pure l'opera di Calvino con il suo volgersi ad Agostino in modo radicale. Al contrario la posizione di Lutero nei confronti dei Padri, compreso Agostino, divenne sempre più critica e in lui sembra confermarsi progressivamente la convinzione che il distacco dal Vangelo sia avvenuto molto presto. Basta ricordarne un testo molto indicativo: «Sono convinto di avere io stesso sciupato e perduto molto tempo con Gregorio, Cipriano, Agostino ed Origene. Dato che i Padri ai loro tempi provavano un gusto ed una simpatia straordinari per le allegorie, sono con ciò stesso eliminati e tutti i loro libri diventano bazzecole... La causa di tutto è questa: essi si sono rivolti alle loro incertezze e alle loro proprie convinzioni, non hanno seguito san Paolo che vuole lasciare libertà all'azione interna dello Spirito». A motivo del loro metodo allegorico sembra qui che i Padri siano screditati e il rapporto con loro una perdita di tempo rispetto all'accostamento diretto con la Parola della Scrittura»[5].

D’altro canto l’importanza dei Padri non può dipendere semplicemente dalla loro antichità, perché, da un punto di vista cristiano, antico non vuol dire necessariamente migliore:

«Anche escludendo il fatto che resta difficile dire per quanto tempo nella Chiesa si possa parlare di antichità, s'impone l'interrogativo se per il cristiano il fatto dell'età storica possa essere di per sé un criterio oppure se nella stima per il passato non si ripresenti una categoria fondamentalmente mitica, già espressa in Platone nei concetti di pálai ed arkaîoi, che gli fanno dire degli antichi: «essi erano privilegiati rispetto a noi e stavano più vicino agli dèi». Qui prevale un concetto naturale di antico, per il quale il primitivo in quanto tale è privilegiato, più prossimo al divino. Il passare del tempo sospinge i posteri sempre più lontano dall'origine, cosicché per loro diviene assolutamente necessario custodire l'elemento iniziale che comunica alla loro tarda ora l'annuncio della verità divenuta lontana. Al contrario nell'autocomprensione della teologia cristiana è stata programmatica, attraverso i secoli, una frase quasi incidentale di san Benedetto. Egli dice che sono da chiamare al capitolo monastico sia i giovani che i vecchi, «perché il Signore spesso rivela ad uno più giovane ciò che è meglio». Questo asserto ha reso possibile alla teologia medievale la delimitazione del principio dell'auctoritas e la formulazione dell'attualità della Rivelazione cristiana che non ha solo un pálai, bensì un autentico «oggi» a partire dalla fede nel Pneuma. Certo v'è anche per i cristiani un evento del passato, dell'«antico» che è originario, vincolante, e di conseguenza normativo. Esso però non si definisce in modo naturale, come l'elemento primordiale nel mito, così che quanto più una cosa è antica, tanto più è autentica in sé. Esso si definisce storicamente, è la nuova azione di Dio, che sorpassa ed annulla il mito dell'antico. A ciò si aggiunge la componente di presente già ricordata, la cui unità di tensione con l'origine deve sussistere in modo sempre nuovo. Pertanto è posta una distinzione fondamentale fra concezione mitica di tradizione e concezione cristiano-patristica. Anche se non si deve negare che, malgrado l'opposizione, fra i due esiste una certa analogia. Dobbiamo perciò dire che i Padri non sono ancora definiti semplicemente dal fatto che sono «antichi», e neppure l'essere cronologicamente vicini all'origine del Nuovo Testamento prova abbastanza che essi gli stanno al di dentro. Ed è proprio questo che importa: se la loro primitività cronologica deve avere un significato teologico positivo, questo può derivare soltanto dal fatto che essi in modo speciale appartengono all'evento originario, oppure che gli sono legati in qualche altro modo con una comunanza (Gemeinsamkeit), implicante in sé un significato distinto in senso teologico»[6].

Ci si avvicina, invece, al cuore della questione quando si riflette sul termine stesso di “padre”. Affermare che qualcuno ci è “padre”, implica affermare che noi abbiamo ricevuto la vita dalla sua, che ce ne sentiamo figli. Questo ha una grande rilevanza ecumenica, poiché le diverse comunità cristiane si sono divise esattamente sulla questione di chi siano i “padri” da cui si sente di aver ricevuto la fede evangelica:

«Ora possiamo dire che i Padri sono maestri di teologia della Chiesa non separata, e che la loro teologia è in senso originario «ecumenica», appartenente a tutti. Essi quindi sono «padri» non solo per una parte ma per tutta la Chiesa, indicabili realmente in senso distintivo e peculiare come «padri»»[7].

Saggiamente Ratzinger propone che i Padri siano chiamati tali esattamente perché senza di essi non si sarebbe ciò che noi siamo come figli: esistono figure, infatti, che sono Padri solo di una parte della Chiesa, mentre esistono altri che tutti ritengono essere Padri propri ed, insieme, della fede di tutti:

 «Se [alcuni] possono essere padri solo per una parte, non ci si deve indirizzare a quelli che una volta erano padri per tutti e due [oriente ed occidente]?»[8].

c/ Quattro aspetti della "paternità" dei Padri: la determinazione del Canone, il Simbolo di fede come chiave interpretativa delle Scritture, l’elaborazione sorgiva della liturgia come celebrazione della presenza del Dio nel tempo, la fondazione della teologia come espressione della rivelazione stessa

Ratzinger, a questo punto, mostra come concretamente esista questa “paternità” dei Padri che conserva un senso anche a fianco della “paternità” della Sacra Scrittura, di modo che noi possiamo dirci figli di entrambi. Egli suggerisce che si possano paragonare i Padri alla risposta giusta e bella all’appello che la rivelazione rivolge all’uomo: la Rivelazione ed i Padri si appartengono come Parola e risposta alla Parola stessa. Infatti, noi siamo certamente figli della rivelazione, ma anche dei Padri che sono tali perché inaugurano per noi la via della risposta adeguata:

«Questo criterio si può approfondire ulteriormente e completare a livello contenutistico. Il dato concreto, in cui siamo incappati circa il fatto che la Scritturainqualche modo è sempre letta sulla scorta di determinati «padri», ora dev’essere formalizzato in modo più generale, nel senso cioè che Scrittura e Padri appartengono allo stesso ambito come parola e risposta. Certo, l’una non è l’altra, non hanno la stessa valenza e la stessa forza normativa: al primo posto sta la parola ed al secondo la risposta. Il loro ordine non è invertibile, ma entrambe, per quanto diverse e non confondibili tra loro, non sono però neppure separabili. Infatti solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva»[9].

La centralità della risposta dei Padri che, in qualche modo, viene ad appartenere allo stesso fondamento che è la rivelazione attestata dalle Scritture può essere sintetizzata in 4 elementi: la determinazione del Canone, l’elaborazione del Simbolo di fede come chiave interpretativa delle Scritture, la costruzione della liturgia come celebrazione della presenza del Dio rivelato nel tempo, la fondazione della teologia come espressione della rivelazione stessa.

c.1/ La determinazione del Canone delle Scritture

Noi non sapremmo cosa è la Scrittura senza i Padri. Sono stati i Padri ad elaborare, con un processo osmotico compiutosi nella lettura liturgica e nella predicazione, il canone delle Scritture, offrendo a tutte le generazioni successivela Bibbia come libro unitario e definito:

«Il canone della Scrittura risale rispettivamente a loro ed alla Chiesa indivisa che essi rappresentano. È opera loro il fatto che proprio questa letteratura, che oggi chiamiamo «Nuovo Testamento», sia stata raccolta fra una pluralità di testimonianze letterarie in circolazione, e che il canone greco della Bibbia ebraica sia stato ordinato come «Antico Testamento» ed insieme con loro e a partire da loro sia stato compreso come «Sacra Scrittura». La costituzione del canone e della Chiesa primitiva sono un unico e identico processo, varia solo il punto di osservazione. Il diventare «canonico» di un libro si fondava sul fatto di essere letto in Chiesa; ciò significava che le numerose Chiese orientali, nelle quali soprattutto dominavano diverse consuetudini di lettura, alla fine accoglievano unitariamente questo libro nei lezionari liturgici. A sua volta il fatto che un libro veniva accettato ed un altro rifiutato presupponeva una precedente decisione, della cui tensione drammatica possiamo a malapena farci un'idea se da una parte leggiamo i vangeli gnostici, che volevano diventare Scrittura, e dall'altra le opere antignostiche dei Padri, nelle quali oggi ci appare chiaramente delineato lo spartiacque, che a quel tempo attraversava la Chiesa proprio nel suo centro ed era riconosciuto, combattuto e sofferto come tale»[10].

La definizione del Canone non sarebbe mai avvenuta senza il travaglio dei Padri nel rispondere alla rivelazione e nel testimoniarla al mondo:

«Questo significa che il canone in quanto canone sarebbe impensabile senza quella tensione spirituale che percepiamo nella teologia patristica. Il canone poggia su quella tensione spirituale ed accoglierlo implica necessariamente accettare quelle decisioni spirituali di fondo, che lo hanno costituito come tale. Parola e risposta si intrecciano così in modo inseparabile, malgrado per i Padri si tratti precisamente di distinguere la propria risposta dalla parola ricevuta, in opposizione alla confusione delle due, tipica della gnosi, rilevabile nella sua forma più classica nella mescolanza fra tradizione ed interpretazione del cosiddetto Vangelo di Tommaso»[11].

c.2/ La Regula fidei, il Credo

I Padri non solo hanno stabilito per sempre il Canone dei libri ispirati, ma hanno anche sintetizzato nel Simbolo di fede ciò che è più bello, nuovo, originale, salvifico dell’intero messaggio biblico, di modo che il Credo non è altro dalle Scritture, ma ne è la chiave che ne schiude il significato: i Padri hanno così creduto e insegnato che nelle Scritture si rivela il mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito ed il loro disegno di creazione e salvezza, attraverso l’Incarnazione e poi la vita della Chiesa:

«Nella scelta degli scritti che si dovevano riconoscere come Bibbia la Chiesa primitiva ha applicato un criterio che essa stessa chiamò kanòn tês písteos, regula fidei, regula veritatis. Funzione non certo insignificante di questo canone era condurre alla divisione fra scritti falsi ed autentici della Scrittura ed aiutare così la costituzione del canone «della» Scrittura. La «regula» per parte sua si prolunga in diversi simboli conciliari ed extraconciliari in cui ha trovato stesura vincolante la lotta della Chiesa antica per la distinzione della realtà cristiana. In questo senso la Chiesa patristica, oltre alla costituzione del canone, si caratterizza secondariamente come tempo in cui vennero create le professioni di fede basilari per tutta la cristianità. In quanto questi simboli sono usati come preghiera e la cristianità dichiara la propria fede in Gesù come Uomo e Dio e adora Dio come Uno in Tre Persone, quei Padri sono i suoi Padri»[12].

c.3/ La “forma” liturgica

I Pari della Chiesa sono i nostri Padri, i Padri della Chiesa tutta, non solo per aver donato a tutte le generazioni il Canone ed il Simbolo di fede. Essi hanno anche chiarificato, una volta per sempre, l’essenziale della forma liturgica della celebrazione. Nonostante le infinite modulazioni possibili che questa forma può assumere, è evidente che una è la liturgia, nei suoi elementi essenziali. Sono stati i Padri a determinare questa forma che permette ad ogni comunità nel tempo di celebrare la presenza vivente di Cristo nella storia:

«E questo ci induce ad una terza caratteristica: la Chiesa antica ha creato le forme basilari della liturgia cristiana da considerarsi base permanente ed inevitabile punto di riferimento di ogni rinnovamento della liturgia. Il movimento liturgico, che fra le due guerre mondiali ha portato sia la cristianità cattolica sia quella evangelica ad un nuovo modo di sentire l’essenza e la forma della liturgia cristiana, ha trovato le indicazioni decisive nelle grandi liturgie della Chiesa antica»[13].

c.4/ La teologia patristica all’origine della teologia tutta

Infine, sottolinea Ratzinger, i Padri hanno fondato la teologia e – si porrebbe aggiungere – la catechesi. Comprendendo che non si dà opposizione fra ragione e fede, bensì che la fede esige un continuo approfondimento, hanno reso possibile tutto lo sviluppo successivo del pensiero cristiano. Anche in questo senso i Padri sono i nostri Padri:

«I Padri, concependo la fede come una «philosophia» e ponendola sotto il programma del credo ut intelligam, hanno riconosciuto la responsabilità razionale della fede dando così origine alla teologia, come l'abbiamo intesa fino ad oggi, nonostante tutte le divergenze metodologiche nei particolari. Anche questo orientamento verso la responsabilità razionale non è qualcosa di ovvio: era il presupposto per la sopravvivenza del cristianesimo nel mondo antico, e lo è ancora per la sopravvivenza del cristianesimo oggi e domani. Si è spesso biasimato questo «razionalismo» dei Padri, senza per questo potersi sottrarre alla strada iniziata da loro, come ha ben dimostrato Karl Barth nella sua opera così grandiosa di protesta radicale nei confronti di ogni volontà di fondazione razionale, ed insieme piena di sforzo affascinante per la comprensione profonda di ciò che Dio ha rivelato. In questo senso la teologia per il fatto stesso che esiste sarà sempre debitrice verso i Padri ed avrà sempre nuovi motivi per mettersi alla loro scuola»[14].

1/ Sant’Ireneo

1.1/ Marcione, Valentino e gli gnostici, Ireneo ed i loro legami con Roma

- Marcione fu membro della comunità romana prima di esserne espulso e fondare una propria chiesa.
- il grande maestro gnostico Valentino che venne a Roma verso il 140 d.C., altri della cosiddetta scuola italica del movimento gnostico, vissero qui fra cui Tolomeo che visse a Roma nella seconda metà del II secolo d.C.

- non conosciamo dove risiedeva nel II secolo Eleuterio, vescovo di Roma, quando ricevette personalmente Ireneo di Lione inviato dalla sua comunità nel 177 a portare al pontefice la cosiddetta Lettera dei martiri di Lione, né dove risiedeva papa Vittore che ricevette a Roma una lettera di Ireneo, divenuto vescovo, sulla questione della data della Pasqua.

- il legame con S. Pietro a cui questa chiesa è dedicata. La tradizione che pone il martirio di Pietro qui sul mons Aureus (da cui viene Montorio) è tardiva e molto meno solida di quella del Circo di Gaio e Nerone presso il colle Vaticano. Deriva da un’antica espressione che poneva il luogo della morte di Pietro “inter duas metas”, cioè le due estremità del campo di corsa del circo, ma che fu interpretata come facente riferimento alle due “mete” rappresentate dalla piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e dalla meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo.

-  proprio a Pietro Ireneo farà riferimento, collegando la fede della chiesa di Roma alla tradizione apostolica, come vedremo. Sicuramente il vescovo di Lione, nel corso della sua permanenza a Roma, si sarà recato a pregare sul Colle Vaticano dove i cristiani già allora veneravano la sepoltura di Pietro e, forse, si sarà soffermato anche qui dove ora sorge la basilica di S. Pietro in Montorio.

1.2/ Marcione

- figure lontanissime da noi, ad una analisi più attenta si arrovellano già sulle grandi questioni che anche noi oggi dobbiamo affrontare e che la chiesa, fin da allora, ha illuminato con la saggezza del vangelo.

- Marcione visse intorno alla metà del II secolo d.C. (la sua morte viene posta al 160 circa); originario di Sinope sul Mar Nero, fu poi membro della comunità di Roma, cui donò un consistente patrimonio. Nel 144 fu escluso dalla comunità romana, per le sue posizioni che fra poco analizzeremo e Marcione fondò allora una propria chiesa. La chiesa gli restituì per questo la sua donazione.

- Non ci sono pervenuti scritti completi di Marcione, Marcione partiva dalla constatazione della radicale diversità dell’AT e del NT. Egli, affascinato dal Nuovo, vi scorgeva un dissidio insanabile ed era convinto che l’At ed il NT fossero la testimonianza di due diverse divinità. Per Marcione, il Dio dell’AT non poteva essere il Padre di Gesù Cristo. Probabilmente era proprio la straordinaria novità di Cristo che lo colpiva: la realtà nuova di Cristo gli faceva vedere l’AT come una realtà non da superare e da compiere, ma da contrapporre esplicitamente a Gesù. Potrebbe aver pesato, in questa sua posizione, anche una formazione che lo portava a disprezzare la creazione materiale, proiettando questo suo rifiuto della corporeità nell’interpretazione della Scrittura. Potrebbero ancora aver agito le due cose insieme.

Già il titolo dell’opera che egli scrisse manifesta questo: Antitesi. Sembra che quest’opera iniziasse, secondo un anonimo autore siriano che ha conservato questo frammento, «con un grido di gioia: “O meraviglia delle meraviglie, estasi, forza e stupore che non si possa dire nulla sul Vangelo, nemmeno dire qualcosa su di esso, nemmeno paragonarlo a nulla!” (l’unica frase che abbiamo dalla penna di Marcione)» [1].
Von Harnack, un teologo protestante liberale che nella prima metà del novecento ha studiato a lungo Marcione, afferma che «in tutte le Antitesi non [...] sembra ci fosse un termine più ricorrente di “nuovo» [2]: un Dio nuovo, una nuova divinità, un nuovo e inaudito regno, Cristo che porta il nuovo perché porta se stesso, Cristo nuovo dominatore e nuovo signore degli elementi del creatore, nuove dottrine di un nuovo Cristo, nuove virtù di Cristo, nuovo documento della potenza e del bene di Cristo, nuovo precetto che è quello di perdonare sempre i peccati, nuova istituzione di Cristo con la soppressione del sabato, nuova bontà di Cristo, diversa pazienza di Cristo, Paolo nuovo garante, lo spirito novità del Testamento, nuova creatura.

Questo portava Marcione a vedere una opposizione, una antitesi appunto, con tutto ciò che era precedente e al di fuori di Cristo, compreso l’Antico Testamento. Marcione non leggeva così la Bibbia secondo la fede della comunità cristiana che affermava l’esistenza di un unico Dio e che leggeva nella Bibbia un unico piano salvifico, che iniziava con la creazione e, attraverso la preparazione dell’AT, giungeva alla sua pienezza nel NT. Per Marcione non c’era un unico Dio dietro la rivelazione attestata dalle Scritture, bensì due opposte visioni di Dio, due divinità in contrasto fra di loro all’opera, una nell’At ed una nel NT.

Già Giustino, contemporaneo di Marcione, si era accorto di questo quando, parlando di Marcione nella Prima Apologia, afferma:

«Vi è un certo Marcione del Ponto, il quale tuttora insegna ai suoi seguaci a credere che esiste un altro Dio superiore al creatore. Costui, in mezzo ad ogni genere di uomini, con l'aiuto dei demoni, è riuscito a far sì che molti pronuncino bestemmie e neghino che Dio sia creatore dell'universo, e ammettano che un altro, il quale sarebbe superiore a Lui, ha compiuto cose maggiori di lui» (da Giustino, I Apologia, XXVI, 5).

Che cosa ci fa capire questo testo di Giustino su Marcione? Che Marcione affermava sì che il Dio dell’AT era il Dio creatore, ma che proprio questo Dio era da disprezzare.

Ancora Harnack afferma nel suo studio che «secondo Marcione, si deve leggere il Vangelo, le Lettere e l’Antico Testamento esclusivamente sotto un solo punto di vista: quanto nuovo sia il messaggio del Dio Redentore di amore e quanto spaventoso e miserevole sia il Dio crudelmente giusto del mondo e della Legge» [3]. L’opposizione riguardava così la creazione e la salvezza, ma anche la giustizia e la misericordia, le opere e la grazia.

Nella visione di Marcione, proprio per il rifiuto della creazione come opera dell’unico Dio, il Figlio di Dio non poteva essersi fatto pienamente uomo: Dio aveva semplicemente preso l’apparenza di un uomo, non la realtà della vita umana in quanto tale. È interessante notare qui che le prime eresie, a differenza di quello che abitualmente si attribuisce loro, non negavano affatto la divinità di Gesù, anzi i loro sostenitori erano talmente abbagliati dalla sua natura divina che non riuscivano a capire come egli potesse essere veramente uomo. Gli storici, per indicare la cristologia di Marcione e di altri autori simili hanno coniato il termine “docetismo” (dal greco dokeo=”appaio”), per indicare che in queste cristologie Gesù “appare” come uomo, si presenta come essere umano, ma non lo è in realtà, poiché la natura divina non può che essere contrapposta alla natura umana.

C’è un passo straordinario di Tertulliano, un cristiano vissuto nella regione che è l’odierna Tunisia, a cavallo fra il II ed il III secolo, che testimonia questa cristologia docetista di Marcione:

«[Marcione] è insofferente dell’attesa, ed il suo Cristo discende dal cielo in un batter d’occhio. ‘Toglimi di mezzo’ dice ‘questi censimenti di Cesare che ci disturbano sempre, questi alberghi disagevoli, questi panni sporchi, queste mangiatoie non certo confortevoli [dura praesepia]: se la schiera degli angeli ha intenzione di onorare il suo Dio di notte, faccia pure! I pastori farebbero meglio a badare alle pecore, e i Magi si risparmino pure la fatica del lungo viaggio: possono tenersi il loro oro!’» (da Tertulliano, De carne Christi, II, 1).

Ireneo testimonia:

«Un certo Cerdone prese le mosse dai discepoli di Simone, venne a Roma al tempo di Igino, che aveva l'ottavo posto della successione episcopale a partire dagli apostoli, ed insegnò che il Dio annunciato dalla Legge e dai profeti non è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo: perché quello è stato conosciuto, questo è ignoto; quello è giusto, mentre questo è buono. Marcione del Ponto, che fu suo successore, ampliò l'insegnamento bestemmiando senza pudore il Dio che fu annunciato dalla Legge e dai profeti: dice che è autore dei mali, che desidera le guerre, è anche incostante nelle sue decisioni e in contraddizione con se stesso. Dice poi che Gesù, inviato dal Padre, che è al di sopra del Dio creatore del mondo, venne in Giudea al tempo del governatore Ponzio Pilato, che era procuratore di Tiberio Cesare, si manifestò in forma umana a quelli che erano in Giudea, abolì i profeti e la Legge e tutte le opere del Dio che ha creato il mondo, che egli chiama Kosmokrator. Inoltre, mutilando il Vangelo secondo Luca e togliendo tutto ciò che è stato scritto sulla generazione del Signore e molti parti dell’insegnamento che si ricava dai discorsi del Signore – quelle in cui è scritto con la massima chiarezza che il Signore riconosce come suo Padre il creatore di questo mondo – ha persuaso i suoi discepoli che lui è più veritiero degli apostoli che hanno trasmesso il Vangelo. Egli però non trasmette loro il Vangelo, ma una piccola parte del Vangelo. Similmente ha mutilato anche le lettere dell’apostolo Paolo, togliendo tutti i passi in cui l’Apostolo ha insegnato citando i passi profetici che preannunciano la venuta del Signore» (da Ireneo, Adversus haereses, III, 27, 2-3).

Marcione ha creduto in Cristo, ma ha dimenticato il Dio creatore; ha affermato che la Scrittura è ispirata, ma ha spezzato la sua unità, affermando che l’AT è radicalmente diverso dal NT, al punto da ritenere impossibile riconoscere nella Bibbia un’unica storia di salvezza. Egli non riconosceva in Gesù il compimento di quelle Scritture, rifiutava che Dio potesse venire nella carne, ritenendo impossibile l’incarnazione.

Esistono due modi di negare l’evento assolutamente originale della fede cristiana che è l’incarnazione, il fatto che il Figlio di Dio si sia fatto realmente uomo, entrando come Dio nella creazione, pur trascendendola assolutamente. Una prima possibilità è diretta ed è il rifiuto esplicito della possibilità che Dio esista o che, esistendo, si sia realmente fatto uomo; la seconda è che Dio, pur esistendo e pur rivelandosi, non abbia potuto o voluto scendere così in basso fino alla condizione umana, di modo che l’incarnazione non è reale, perché Gesù è solamente Dio e non uomo. Marcione, affascinato dalla “divinità” di Dio, scelse la seconda soluzione: Gesù aveva annunziato la verità di Dio, ma non era entrato realmente nella materia della creazione e della storia, perché queste erano estranee a Dio.

Vi accorgete che, in nuce, sono presenti in Marcione molti dei temi che ancora oggi si dibattono fuori e dentro la chiesa.

Innanzitutto il rapporto fra creazione e redenzione, con il rischio di svalutare la creazione rispetto all’incarnazione. Ma Cristo, slegato dal Creatore, perde di significato.

In secondo luogo la possibilità di una incomprensione dell’AT – e con esso di tutto l’ebraismo – quando lo si ritiene radicalmente estraneo al NT ed alla fede cristiana, con il deprezzamento di tutte le strutture ed istituzioni tipiche dell’antica alleanza.

In terzo luogo la discussione sull’unità della Bibbia, con il rischio di spezzare il filo che lega l’intera rivelazione cristiana in un’unica storia della salvezza. Su questo tema, l’allora cardinal Ratzinger, ha ricordato più volte una affermazione importantissima di von Harnack, che nel suo studio già citato, aveva scritto:

«Rifiutare l'Antico Testamento nel secondo secolo [cioè al tempo di Marcione] fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16° secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale» [5].

L’allora cardinal Ratzinger, ha indicato una via di risposta a queste questioni:

«[Origene e gli antichi scrittori cristiani hanno elaborato principi di interpretazione cristiana della Bibbia del tutto specifici:] l'interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell'Antico Testamento. [Ma il vero fondamento di questa esegesi ] — al di là dei particolari dell'interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell'Antico Testamento — della “Scrittura” — e di darle l'interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l'autorità dell'autore stesso: “Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi” (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27)» [6].

La chiesa rifiutò le posizioni di Marcione, affermando che non c’erano due divinità, ma che l’unico Dio era insieme creatore e salvatore e che aveva donato a noi il suo Figlio. Ireneo ed i cristiani del suo tempo, come vedremo, risposero che la Sacra Scrittura era un libro unitario perché testimone dell’unico Dio. E fecero questo, perché lo avevano appreso dalla tradizione evangelica. Continua ancora l’allora cardinal Ratzinger:

«i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell'Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso» [7]

1.3/ Valentino e gli gnostici

Contemporaneamente a Marcione, la metà del II secolo vide lo svilupparsi in diversi luoghi e, si potrebbe dire, sopratutto a Roma, di una serie di dottrine che vengono comunemente raggruppate sotto il nome di “gnosticismo”.

Le principali correnti dello gnosticismo antico sono considerate dagli studiosi quella degli Ofiti e Sethiani (da ophis, il “serpente”, per la rilettura in positivo del tentatore di Gen 3 visto come elargitore della conoscenza, e da Seth, terzo figlio di Adamo, visto come primo degli uomini spirituali), quella dei Basilidiani (da Basilide, il caposcuola, vissuto in Egitto fra il 120 e la metà del II secolo), quella di Carpocrate (alessandrino) e di suo figlio Epifane, ed, infine, quella di Valentino e dei suoi seguaci.

Il nome più importante dello gnosticismo romano – e forse di tutto lo gnosticismo – è proprio quello di Valentino, forse di origine egiziana, che venne a Roma verso il 140 d.C. La sua scuola si scisse poi, secondo gli studiosi, in due rami, uno detto italico (le cui figure più importanti furono Eracleone, Tolomeo e Florino) ed uno orientale (con Teodoto e Marco). Tolomeo continuò in Roma la scuola del maestro nella II metà del II secolo.

Di questi autori non si sono conservati gli scritti originali, ma abbiamo conoscenza delle loro dottrine, come nel caso di Marcione, dalle numerose citazioni di autori che controbattevano le loro tesi.

Solo nel 1946 sono stati ritrovati a Nag Hammadi, discendendo il Nilo a nord di di Luxor, alcuni testi gnostici completi. Sono traduzioni tardive in lingua copta di originali greci che vengono fatti rimontare ad un periodo che oscilla fra il II ed il IV secolo d.C. Gli originali sembrano, comunque, testi leggermente successivi – così afferma Simonetti [8] – alla documentazione posseduta da Ireneo e dagli altri eresiologi dell’antichità possedevano. In particolare, la maggior parte dei testi di Nag Hammadi sembrano appartenere alla corrente valentiniana, anche se Valentino non vi è mai esplicitamente citato.

Il più importante fra i testi di Nag Hammadi è il cosiddetto Vangelo copto di Tommaso, probabilmente il più antico dei vangeli gnostici, che viene datato intorno alla metà del II secolo d.C. Recentemente lo ha superato in notorietà, per le polemiche che ha suscitato, ma non per importanza, il cosiddetto Vangelo di Giuda; non si conosce esattamente il luogo di ritrovamento di quest’ultimo, per le vicende poco chiare dei personaggi che lo hanno sfruttato in chiave economica, ma anch’esso è, comunque, una traduzione in copto di un originale greco che risale probabilmente alla II metà del II secolo (per approfondimenti sul Vangelo di Tommaso, sul Vangelo di Giuda ed, in generale, sui vangeli gnostici vedi:

È subito evidente da questi dati come i maestri gnostici appartengano al II secolo d.C., così come i primi anonimi vangeli apocrifi in greco che, nei secoli successivi, furono tradotti anche in copto: lo gnosticismo è, infatti, un fenomeno che caratterizzò il II secolo d.C.

Un importante colloquio sullo gnosticismo che si tenne a Messina nel 1966 è il punto di riferimento per tutti gli studiosi del fenomeno. Fu presieduto da Ugo Bianchi, allora professore alla Sapienza di Storia delle religioni, e propose una definizione di gnosticismo che lo differenziasse dal più generico termine gnosi con il quale si indicano abitualmente fenomeni molto diversi fra loro, distanti cronologicamente e sorti senza relazione reciproca [9]. “Gnosi”, in greco gnosis, vuol dire semplicemente “conoscenza” e “gnostico”, a livello etimologico, è colui che afferma di avere una “conoscenza” migliore, più profonda degli altri che gnostici non sono. Con il termine “gnosticismo” si propose di chiamare, invece, quel peculiare fenomeno storico che sorse nel II secolo d.C. e che ora ci proponiamo di conoscere.

1.4/ Lo gnosticismo presuppone e sviluppa il Logos di Giovanni

Quello che emerge dagli studi recenti è che lo gnosticismo non è successivo al cristianesimo solo da un punto di vista cronologico - pensate che i testi e gli autori che abbiamo citato sono successivi degli ultimi scritti del NT di almeno cinquant’anni ed addirittura vengono cento anni dopo i primi testi neotestamentari! - ma soprattutto sono dipendenti filosoficamente e teologicamente dalla fede cristiana.

Gli gnostici del II secolo possono elaborare le loro tesi proprio perché hanno prima conosciuto il cristianesimo, per poi svilupparlo in una peculiare direzione: non ci sarebbe stato lo gnosticismo, così come lo conosciamo, se non ci fosse stato prima il NT ed, in particolare, il vangelo di Giovanni, del quale gli scritti e gli autori gnostici sono evidentemente debitori.

Si pensi anche solo al fatto che il primo commento al vangelo di Giovanni che sia mai stato scritto è opera dello gnostico Eracleone, appartenente alla “scuola italica” dello gnosticismo. Di questo commento si sono salvati dei frammenti.

In una conferenza pubblicata anche sul sito www.gliscritti.it - Deus patiens: l’essenza cristologica dello gnosticismo. Lo gnosticismo, le sue origini cristiane e la sua importanza nello sviluppo teologico del cristianesimo - il prof. Lettieri, esperto dello “gnosticismo”, spiega molto bene alcuni punti-chiave del fenomeno gnostico:

«Lo gnosticismo è serio perché per la prima volta, a partire dal cristianesimo, pensa a Dio in maniera nuova ed inedita, come un movimento eterno, un divenire di Dio in Dio, come un movimento che mette in relazione diverse persone. Dio è il mistero della relazione d’amore tra persone divine. [...]
Lo gnosticismo cosa presuppone? L’affermazione straordinaria che Gesù di Nazaret è il Logos preesistente ed è il monogenes, l’Unigenito, ovvero è Dio. Ciò significa che lo gnosticismo rappresenta una specie di cortocircuito, come dire, di dilatazione paradossale e di interpretazione paradossale della rivoluzionaria affermazione giovannea che il divino è un divino che si articola in un Padre ed un Figlio
».

D’altronde anche gli autori antichi erano convinti che lo gnosticismo fosse un fenomeno eminentemente cristiano [10]. Ed è proprio Ireneo di Lione a ricordarci questa visione che gli gnostici sostenevano di un Dio che ha relazioni ed emanazioni in se stesso, quando parla dell’Ogdoade, cioè dei primi otto “eoni”, delle prime otto “entità” presenti in Dio:

«[Gli gnostici discepoli di Tolomeo] insegnano che Giovanni, il discepolo del Signore, ha rivelato la prima Ogdoade, dicendo così: “Giovanni il discepolo del Signore, volendo esporre l’origine di tutte le cose, secondo la quale il Padre ha emanato tutto, pone come principio ciò che per prima cosa è stato generato da Dio, che ha chiamato anche Figlio, Unigenito e Dio, e in lui il Padre ha emanato seminalmente tutte le cose. Da questo è stato emanato il Logos e in lui tutta la sostanza degli Eoni, che successivamente il Logos ha formato. Poiché parla della prima generazione, bene fa iniziare l’insegnamento dal principio, cioè dal Figlio e dal Logos”. Così dice:“Nel principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Questo era in principio presso Dio”. Prima distingue i tre, Dio, il Principio e il Logos, e poi li unisce, per far vedere l’emanazione di ognuno di loro, del Figlio e del Logos, e la loro unione reciproca e col Padre. Infatti il Principio è nel Padre e deriva dal Padre». (Contro le eresie, I,8,5).

Si vede già qui che la trama della riflessione è il vangelo di Giovanni, ma esso diviene l’occasione per delle speculazioni non aderenti al testo evangelico, perché il Principio diviene un “eone” differente, al quale seguiranno gli altri fino al numero di otto. Ireneo risponde alla tesi dell’Ogdoade, mostrando come gli gnostici giochino sui nomi e dimentichino l’unico Figlio, amato dal Padre, che con il Padre ha creato il mondo e che si è fatto carne:

«È dunque chiara la falsità dell'esposizione. Giovanni annuncia un solo Dio onnipotente e un solo Unigenito Gesù Cristo, per mezzo del quale dice che sono state fatte tutte le cose, ed afferma che questo stesso è il Figlio di Dio, l'Unigenito, il creatore di tutte le cose, la Luce vera che illumina ogni uomo, il creatore del mondo, colui che è venuto nel suo regno, che questo stesso si è fatto carne ed ha abitato fra noi; questi, invece, stravolgendo la esposizione secondo il loro pensiero, sostengono che per emanazione uno è l'Unigenito, che chiamano anche Principio, un altro è il Salvatore, un altro il Logos Figlio dell'Unigenito, un altro il Cristo emesso per la restaurazione del Pleroma. Distaccando dalla verità ciascuna delle cose dette e abusando dei nomi, le trasferiscono nel loro sistema, cosi che, a loro giudizio, in queste parole Giovanni non farebbe menzione del Signore Gesù Cristo. Se avesse detto Padre, Grazia, Unigenito, Verità, Logos, Vita, Uomo e Chiesa, secondo il loro sistema avrebbe parlato della prima Ogdoade, nella quale non c'è ancora Gesù e non c'è ancora Cristo, il maestro di Giovanni. Ora che l'Apostolo non ha parlato delle loro sizigie, ma del Signore nostro Gesù Cristo, che riconosce come Logos di Dio, lo ha detto chiaramente egli stesso. Riprendendo infatti quello che di lui aveva detto in principio, aggiunge: “Il Logos si fece carne ed abitò tra noi”. Eppure secondo il loro sistema non si è fatto carne il Logos, che non è neppure mai uscito dal Pleroma, ma il Salvatore derivato da tutti gli Eoni e dall'economia, venuto all'esistenza dopo il Logos» (Contro le eresie, I,9,2).

Valentino, così come gli altri gnostici, sostenevano che il Pleroma, cioè la “pienezza” di Dio, era articolato in se stesso. Nei suoi discepoli queste entità, gli “eoni”, divenivano 30 ed erano abbinate a coppie, dette “sizigie”; nelle forme di gnosi più complesse ed elaborate, ricorda Ireneo, arrivarono fino a 365 [11]:

«Dal terzo cielo, discendendo a mano a mano, è derivato il quarto; e cosi via allo stesso modo sono stati creati altri arconti, altri angeli e cieli in numero di trecentosessantacinque. Perciò l'anno ha tanti giorni quanti sono i cieli» (Contro le eresie, I,24,3).

Come Marcione era colpito dall’assoluta novità del vangelo, così gli gnostici erano così attratti da questa presenza di relazioni in Dio che ne moltiplicavano il numero, mettendo in ombra la relazione Padre-Figlio e l’amore nello Spirito che li unisce.

1.5/ Lo gnosticismo rifiuta l’importanza della creazione e della storia

Lo gnosticismo si caratterizzò poi per una visione del mondo nel quale, come in Marcione, la creazione non era opera di Dio stesso, ma gli era contrapposta, traendo origine da un peccato avvenuto all’interno del mondo divino. La creazione non era così opera libera ed amata di Dio, ma qualcosa che aveva avuto origine ad un livello inferiore del principio primo: responsabile ne era il Demiurgo che, a sua volta, si era generato da un “eone” decaduto in un processo di allontanamento da Dio.

Così Lettieri sintetizza la dottrina sulla creazione presente nei diversi sistemi gnostici:

«Questo demiurgo è il creatore del mondo ed è il Dio d’Israele. Egli crea il mondo materiale. Ecco allora il dualismo, tipico dello gnosticismo. A differenza del Dio trinitario c’è qui una realtà divina superiore ed una realtà divina inferiore, che crea e promulga la legge veterotestamentaria o filosofica» [12].

Questa dottrina sulla creazione ha delle conseguenze sulla visione dell’uomo tipica dello gnosticismo: solo la parte spirituale dell’uomo viene dal Dio “superiore”, ma essa non è stata creata dal pleroma come esterna a sé, bensì è parte della divinità, del pleroma stesso, è scintilla divina caduta nella materia che è stata, invece, “creata” dal Demiurgo. Afferma ancora il prof. Lettieri:

«Ci sono poi due nature nel mondo creato, una psichica ed una materiale, oltre a quella divina. Una parte del divino cade nel mondo inferiore. Il problema dello gnosticismo è quello del ritorno del divino caduto nel pleroma divino stesso. Solo gli uomini spirituali torneranno in questo pleroma divino».

Questa caduta all’interno del mondo creato dal Demiurgo avviene a causa di un “eone” estremamente importante nei diversi sistemi gnostici che è chiamato “sophia” (cioè “sapienza” che, si noti bene, è uno dei nomi che riceve Cristo, nella tradizione cristiana, a partire da una rilettura cristologica dell’AT). Nella “sophia”, che è celeste, avviene un peccato che origina il mondo. Lettieri afferma giustamente che è questo che i cristiani del II secolo «considereranno mostruoso nello gnosticismo, avere spinto a tal punto l’introduzione nella divinità dell’umano dall’aver attribuito al Dio di Gesù persino il peccato».

Corollario di queste affermazioni è che la venuta del Figlio non potrà che essere apparente e non reale. Egli non assumerà realmente la carne, perché essa è opera del demiurgo: la sua discesa servirà a riportare in Dio quella parte del pleroma stesso che è stata imprigionata nella materia e nel corpo.

Ed ecco, allora, la grande differenza fra lo gnosticismo ed il cristianesimo, nelle parole di Lettieri: «La risposta gnostica è una risposta che noi potremmo davvero definire razionalistica: è una verità eterna, un mistero eterno ed abissale, un mistero nascosto nella profondità dell’essere che materialmente appare soltanto per riflessi, superficialmente; è un mistero che, in fin dei conti, prescinde dalla pesantezza, e vorrei dire anche dalla fatica, dal peso della carne della storia».

Questo perché non c’è, nei sistemi gnostici, un vero peccato commesso dall’uomo che abbia incrinato la creazione uscita dalle mani di Dio, così come afferma il cristianesimo. Il peccato, per lo gnosticismo, è avvenuto eternamente in Dio e non storicamente nell’uomo; allo stesso modo non c’è vera redenzione attraverso l’evento storico dell’incarnazione e della croce di Cristo, poiché il pleroma viene semplicemente a recuperare quella parte di sé che è caduta nella materia, ritrovando l’unità con se stesso. Il Salvatore celeste discende per recuperare Sophia nella sua caduta, ma, come è stato acutamente scritto, egli non viene a salvare qualcuno che ama, bensì è un Salvatore che viene a salvare se stesso.

Scrive a questo proposito Ireneo, mostrando come gli gnostici rifiutassero la realtà dell’incarnazione di Cristo:

«Il Padre ingenerato e innominato, vedendo la rovina di tutti costoro, ha mandato il suo primogenito, l'Intelletto - e questo è colui che è chiamato Cristo - per liberare quanti avrebbero creduto in lui dal potere degli angeli che avevano creato il mondo. Alle genti di costoro egli è apparso in terra come uomo ed ha compiuto prodigi. Perciò non ha patito lui; ma un certo Simone di Cirene, costretto, ha portato la croce di lui al suo posto: questo è stato crocifisso per ignoranza ed errore, in quanto Cristo lo aveva trasformato sicché si credesse che fosse lui Gesù. Gesù invece aveva assunto l'aspetto di Simone e stando lì vicino irrideva i crocifissori. Infatti egli era la Potenza incorporea e l'Intelletto del Padre ingenerato: perciò si è trasformato come voleva ed è asceso a colui che lo aveva mandato, prendendosi gioco di quelli, poiché non poteva esser preso ed era invisibile a tutti. Pertanto coloro che sanno queste cose sono stati liberati dagli arconti creatori del mondo. E non bisogna professare fede in quello che è stato crocifisso, ma in colui che è venuto in aspetto di uomo ed è stato creduto crocifisso, è stato chiamato Gesù ed è stato mandato dal Padre, per distruggere con tale disposizione le opere dei creatori del mondo. Se pertanto qualcuno professa fede nel crocifisso, questi è ancora servo e sotto il potere di quelli che hanno creato i corpi: invece chi lo avrà rinnegato, è libero dal potere di quelli e conosce la disposizione del Padre ingenerato.
Di costoro solo l'anima si salva: infatti il corpo è per natura soggetto a corruzione
» (Contro le eresie, I,24,4-5).

1.6/ Le conseguenze dei sistemi gnostici

Da quanto detto consegue che, per gli gnostici, la storia di Israele sarà, in qualche modo, da disprezzare, perché originata dal Demiurgo creatore, originato a sua volta da un peccato avvenuto in Dio. La creazione stessa è un evento negativo, così come saranno da leggere in negativo tutte le vicende dei grandi personaggi dell’AT, perché fedeli al Dio creatore che è contrapposto al pleroma. Questo darà origine ad un caratteristico rovesciamento gnostico nella valutazione delle diverse figure veterotestamentarie: quelle esaltate nella tradizione ebraica saranno viste negativamente e viceversa (è lo stesso meccanismo che porterà alla riabilitazione di Giuda ed alla sconfessione gnostica degli altri alti apostoli).

Una seconda conseguenza dell’impostazione gnostica è che l’umanità sarà divisa in due grandi gruppi: quello di coloro nella cui carne alberga, sia pure come prigioniera del corpo, l’anima divina e quello di coloro che sono
semplicemente creature del Demiurgo. Questa distinzione è determinata, nelle dottrine gnostiche, ab origine, “per natura”. Non è importante, cioè, la libertà dell’uomo: non è la libera scelta dell’uomo che lo porta ad allontanarsi da Dio o ad avvicinarsi a Lui, ma piuttosto alcuni uomini sono già destinati per la loro origine ad essere riassorbiti nel pleroma - quelli che vengono chiamati “gnostici” o “spirituali” – mentre altri a restare impantanati nella materia di cui fanno parte – quelli che gli gnostici chiamano uomini “psichici” o “ilici”, cioè “animati/carnali” per natura [13]. Solo le anime dei primi hanno la divinità che abita in loro, pur essendosi distaccati dal pleroma al momento della creazione del mondo e della materia.

Ed è per questo che la dottrina gnostica non veniva proposta a tutti ed in forma pubblica come via di salvezza, perché tale liberazione dal male era riservata ai soli “gnostici”, che venivano a configurarsi come una élite. La maggior parte degli uomini, infatti, a loro dire, non erano per natura in grado di comprendere la vera “gnosis”, non appartenendo al pleroma divino. Nello gnosticismo del II secolo scompariva così quell’aspetto tipico del cristianesimo che è la buona novella per tutti, anche e sopratutto per i piccoli ed i poveri.

Voglio concludere richiamando ancora ciò che è stato detto all’inizio: le dottrine gnostiche, pur nella loro inaccettabilità, traggono origine dalla novità cristiana. La fede cristiana nell’esistenza di un Figlio in Dio e la centralità del dono del suo Spirito nel cammino di salvezza dell’uomo attraggono gli gnostici del II secolo che, però, riprendono questi temi in un contesto nel quale questi elementi non possono che risultare, alla fine, compromessi e sfigurati.

Afferma ancora Lettieri:
«Lo gnosticismo, insomma, nella sua forma così paradossale, ha la grande capacità di cogliere alcune questioni nodali della storia del cristianesimo primitivo. Prima questione: Chi è Gesù?
La risposta gnostica è chiara: È Dio. [...]
Qual è il vangelo decisivo per gli gnostici? Giovanni.
Insomma, la questione gnostica è ben più affascinante delle storielle. Siamo ad un passaggio nel quale la teologia è costretta ad affrontare questioni nodali».

E le affermazioni gnostiche non sono solo tesi del passato – prosegue Lettieri - ma si ripresentano ancora oggi:

«È ricorrente la tentazione gnostica. Si può sintetizzare nella pretesa di avere qualcosa di divino in noi, il senso di estraneità e di distacco e anche di superiorità nei confronti del mondo, il rifiuto della Chiesa cattolica come chiesa di psichici - dicevano gli gnostici - cioè come Chiesa di massa, mentre invece la vera religione, la vera gnosi, è conoscenza elitaria, di pochi, di eletti. [...] Questo è il pericolo concreto dello gnosticismo, la trasformazione della rivelazione cristiana, che la Chiesa media, in facile dottrina antropologica che esalta astrattamente l’uomo [facendo sì che] la salvezza sia identificata unicamente nell’intuizione della propria radice divina» e non avvenga più tramite l’evento storico dell’incontro con Cristo.

1.7/ Ireneo di Lione

Arriviamo ora al cuore di questo nostro incontro, alla figura di Ireneo di Lione, colui che affrontò intellettualmente le dottrine marcionite e gnostiche per dimostrarne l’inconsistenza. Ireneo era originario dell’Asia minore, nato nel 130/140 d.C. circa, e da giovane aveva ascoltato l’anziano Policarpo di Smirne, che aveva conosciuto dal vivo, come uno degli ultimi rappresentanti della generazione apostolica.

Verso il 177 Ireneo è a Lione, in Gallia, al momento della grande persecuzione che quella comunità dovette sopportare. Proprio la comunità lionese lo inviò a Roma come latore della Lettera dei martiri ed è in quella circostanza che risiedette a Roma per un certo tempo.

Tornato a Lione, divenne successore del vescovo Potino che era stato martirizzato. Durante il pontificato di Vittore (189-198), gli scrisse una lettera per esortarlo alla pazienza sulla questione della data della celebrazione della Pasqua. Questa lettera sua dovette così arrivare a Roma ed essere letta nell’urbe.

1.8/ L’Adversus haereses: «la vittoria contro le eresie consiste nel manifestare le loro dottrine»

Di Ireneo si è conservata integralmente l’opera più importante che si intitola Adversus haereses, cioè Contro le eresie, testo importantissimo per conoscere il suo pensiero e la storia del II secolo d.C.

Fin dalle prime battute dell’opera, Ireneo denuncia il fatto che le eresie di cui si occuperà non si contrappongono esplicitamente alla fede cristiana, ma cerchino di presentarsi, sebbene solo apparentemente, come conformi al vangelo; esse però, in realtà, intendono dichiarare superato il cristianesimo, proponendosi come dottrine di valore superiore [14]:

«Grazie ad una forza di persuasione ingegnosamente combinata sviano la mente dei meno esperti e li fanno prigionieri, falsificando i detti del Signore e diventando, così, cattivi interpreti di ciò che è stato detto bene; rovinano molti, allontanandoli, con il pretesto di una conoscenza, da colui che ha formato e ordinato questo universo, come se potessero mostrare qualcosa di più alto e più grande del Dio che ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che contengono; essi in maniera persuasiva, grazie all'arte della parola, inducono i semplici ad un atteggiamento di ricerca, ma li rovinano in maniera assurda perché rendono il loro pensiero blasfemo e assurdo nei confronti del Demiurgo, non potendo essi distinguere il falso dal vero» (I,1,1).

Si noti che Ireneo utilizza subito la parola “conoscenza”, gnosis per designare il tratto peculiare di queste dottrine: esse, nel II secolo, si proponevano di offrire una conoscenza più perfetta di quella proposta dalla fede della chiesa. Continua Ireneo:

«Infatti, l'errore non si mostra in se stesso per non essere colto in flagrante, una volta messo a nudo, ma adornandosi ingegnosamente di un rivestimento verosimile, sembra presentarsi agli inesperti - è ridicolo perfino dirlo - più vero della stessa verità, grazie all'apparenza esterna. Da uno più bravo di noi è stato detto, a proposito di questi tali, che il vetro divenendo simile ad essa per artificio, disprezza una pietra preziosa come lo smeraldo, che è molto stimata da alcuni, quando non ci sia chi sa valutarlo e smascherare l'artificio compiuto ingegnosamente. Quando, ad esempio, si mescola il bronzo con l'argento, chi potrà valutarlo facilmente, se è inesperto? Non vogliamo dunque che qualcuno per colpa nostra sia rapito, come pecore dai lupi, non riconoscendoli per l'insidia della pelle di pecora che li ricopre all'esterno: quei lupi dai quali il Signore ci ha annunciato di stare in guardia, perché dicono cose simili, ma pensano cose diverse» (I,1,2).

Alcuni maestri gnostici vantavano di aver ricevuto nascostamente le loro dottrine tramite un insegnamento che essi affermavano di aver ricevuto segretamente da alcuni apostoli ai quali era stato loro rivelato, a loro dire, in maniera nascosta da Gesù. Il primo lavoro che Ireneo si propone di fare è, allora, di portare alla luce queste dottrine che gli gnostici affermavano di aver ricevuto in segreto: una volta rese pubbliche, non potevano che emergerne gli evidenti limiti. Qui Ireneo è sarcastico:

«Dopo aver letto gli scritti dei discepoli di Valentino, come essi dicono, dopo avere incontrato alcuni di loro e averne compreso il pensiero, ho ritenuto necessario esporti, mio caro, i meravigliosi e profondi misteri, che non tutti comprendono - perché non tutti hanno purificato il cervello - affinché anche tu, dopo averli appresi, possa farli conoscere a tutti quelli che sono con te ed esortarli a stare in guardia dall'abisso dell'ignoranza e della bestemmia contro Dio. Per quanto ci sarà possibile, esporremo succintamente e chiaramente il pensiero di quelli che ora insegnano diversamente, voglio dire dei discepoli di Tolomeo, che sono la fioritura della scuola di Valentino, e daremo spunti, secondo la nostra pochezza, per confutarlo, dimostrando che quello che dicono è assurdo e discordante dalla verità, noi che non siamo abituati a scrivere e non siamo esercitati nell'arte della parola. L'amore però ci esorta a manifestare a te e a tutti quelli che sono con te le dottrine che finora sono rimaste nascoste, ma ormai per grazia di Dio sono venute alla luce, “poiché non c'è niente di nascosto che non debba essere rivelato, e nulla di segreto che non si debba sapere”» (I,1,2).

La conclusione del Libro I dell’Adversus Haereses così sintetizza il sapiente atteggiamento di Ireneo:

«La vittoria contro costoro consiste nella manifestazione delle loro dottrine» (I,31,3).

Ed ancora:

«Perciò abbiamo tentato di mostrare l'informe e misero corpo di questa subdola volpe, rendendolo manifesto. Infatti non ci sarà più bisogno di molti discorsi per demolire la loro dottrina, una volta resa manifesta a tutti. Quando una belva si nasconde in un bosco e di qui assalta e devasta, se si taglia e si sfronda la selva e si fa apparire la belva stessa, non si deve più faticare per catturarla, perché si vede che quella belva è una belva (si può scorgerla, ci si può guardare dai suoi assalti, si può prenderla di mira da ogni parte, ferirla ed ucciderla). Così anche noi, allorché avremo messo in luce i loro misteri occulti e segreti, non avremo più bisogno di demolire il loro sistema con molte argomentazioni» (I,31,4).

È evidente che solo l’ignoranza dei dati storici porta alcuni moderni ad affermare che la chiesa del tempo di Ireneo voleva tenere nascosta una qualche verità. La questione si presentava, invece, esattamente nei termini opposti, poiché erano i maestri gnostici ad affermare di possedere dottrine segrete e ritenevano il volgo non adatto a riceverle: Ireneo vuole, invece, che tutti conoscano liberamente le tesi gnostiche per poterle valutare apertamente.

1.9/La Tradizionedella chiesa è pubblica e deriva dagli apostoli

Ireneo passa poi ad affermare che la fede della chiesa non ha mai scelto vie nascoste o segrete, ma fin dal principio è stata pubblica. Il cristianesimo è stato predicato apertamente a tutti, nonostante il rischio ancora presente delle persecuzioni:

«La Tradizione degli apostoli, manifestata in tutto quanto il mondo, possono vederla in ogni Chiesa tutti coloro che vogliono vedere la Verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi. Ora essi non hanno insegnato né conosciuto sciocchezze come quelle che insegnano costoro. Infatti, se gli apostoli avessero conosciuto misteri segreti, che avrebbero insegnato a parte e di nascosto ai perfetti, certamente prima di tutto li avrebbero trasmessi a coloro ai quali affidavano le Chiese stesse. Volevano infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo» (III,3,1).

In questa maniera Ireneo è in grado di mostrare che ciò che la chiesa annunziava era conforme a ciò che gli apostoli avevano predicato. Non erano così i cristiani ad aver contraffatto la dottrina apostolica, ma erano gli gnostici a proporre dottrine nuove che, pur richiamandosi apparentemente alla tradizione di qualcuno degli apostoli, in realtà non avevano niente a che fare con essi.

In particolare, Ireneo propone l’esempio della chiesa di Roma, elencando la successione apostolica dei vescovi dell’urbe che avevano sempre dichiarato pubblicamente e a rischio della vita la fede ricevuta. Chi è in comunione con il vescovo di Roma ha così la garanzia di professare la stessa fede annunciata dagli apostoli Pietro e Paolo, poiché una ininterrotta e pubblica tradizione apostolica lega l’ultimo anello della catena al primo:

«Poiché sarebbe troppo lungo in quest'opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo. Mostrando la Tradizione ricevuta dagli Apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Infatti con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d'accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte - essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli» (III,3,2).

S. Ireneo elenca tutti coloro che sono stati vescovi di Roma dalle origini ad Eleutero [15], il pontefice in carica al tempo della redazione dell’Adversus Haereses, ma dichiara anche che la successione episcopale delle altre chiese manifesta parimenti l’unità della fede e l’origine di essa negli immediati discepoli del Signore. Ireneo fa riferimento, in particolare, alla chiesa di Smirne, dove egli aveva personalmente conosciuto Policarpo prima che fosse martirizzato; attraverso di lui era venuto in contatto diretto con la generazione che aveva udito i discepoli del Signore [16]. Il brano ci testimonia, fra l’altro, che anche Policarpo di Smirne era venuto a Roma, ai tempi di papa Aniceto.

Ireneo spiega che esistono certamente le Scritture come punto di riferimento a conferma della verità della fede, ma che anche la trasmissione orale della fede ha un ruolo molto importante:

«Tali essendo dunque le prove, non si deve cercare presso altri la Verità, che è facile prendere dalla Chiesa, poiché gli apostoli ammassarono in lei, come in un ricco tesoro, nella maniera più piena tutto ciò che riguarda la Verità, affinché chiunque vuole prenda da lei la bevanda della Vita. Perché è lei l'ingresso della vita, mentre “tutti” gli altri “sono ladri e predatori”. Perciò si devono rifiutare quelli e amare con grandissimo zelo ciò che appartiene alla Chiesa ed afferrare la Tradizione della Verità. E che? Se ci fosse qualche controversia su una questione di poca importanza, non si dovrebbe ricorrere alle Chiese più antiche, nelle quali vissero gli apostoli, e prendere la dottrina esatta sulla questione presente? Anche se gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, non si dovrebbe seguire l'ordine della Tradizione, che hanno trasmesso a coloro a cui affidavano le Chiese?» (III,4,1).

Ireneo sottolinea che la diffusione dello stesso in tutti i luoghi, anche fra i popoli barbari, è un ulteriore attestazione dell’autenticità dell’unica fede:

«A quest'ordine obbediscono molti popoli barbari che hanno creduto in Cristo e possiedono la salvezza, scritta senza carta e inchiostro nei loro cuori mediante lo Spirito e custodiscono scrupolosamente l'antica Tradizione: essi credono in un solo Dio, Creatore del cielo e della terra e di tutto ciò che è in essi, e in Cristo Gesù, il Figlio di Dio che, a causa del suo sovrabbondante amore verso la sua creatura, accettò la generazione dalla Vergine, unì egli stesso mediante se stesso l'uomo a Dio, patì sotto Ponzio Pilato e fu risvegliato e fu elevato nella gloria, verrà nella gloria come Salvatore di coloro che saranno salvati e getterà nel fuoco eterno gli sfiguratori della verità, e i disprezzatori del Padre suo e della sua venuta. Coloro che senza lettere hanno abbracciato questa fede sono sì barbari per quanto riguarda la lingua, ma per quanto riguarda il pensiero, il costume e il modo di vivere sono sapientissimi in virtù della fede e piacciono a Dio vivendo in ogni giustizia, purezza e sapienza. Se si annunciassero loro le dottrine inventate dagli eretici, parlando nella lingua loro propria, subito tappandosi le orecchie fuggirebbero via e lontano, rifiutandosi di ascoltare quel discorso blasfemo. Così, grazie a quell'antica Tradizione degli apostoli, non accettano neppure nel pensiero alcuna loro falsa dottrina» (III,4,2).

Le eresie, invece, sono “recenti” e non possono vantare alcun legame con il NT e gli apostoli. Le dottrine di Marcione e degli gnostici – afferma Ireneo - non posseggono alcun solido raccordo con le origini cristiane:

«Prima di Valentino non c'erano i discepoli di Valentino, prima di Marcione non c'erano i discepoli di Marcione e non c'erano affatto altri sostenitori di false opinioni che abbiamo elencato sopra, prima che esistessero i mistagoghi e gli inventori della loro perversità. Valentino, infatti, venne a Roma sotto Igino, raggiunse la sua massima fama sotto Pio e ci rimase fino ad Aniceto. Cerdone, il predecessore di Marcione, visse anch'egli sotto Igino, che era l'ottavo vescovo; dopo essere venuto nella Chiesa e aver fatto pubblica penitenza, continuò così, ora insegnando di nascosto, ora facendo di nuovo pubblica penitenza, ora essendo denunciato per i cattivi insegnamenti che dava ed essendo allontanato dalla comunità dei fratelli. Marcione, che fu suo successore, raggiunse la massima fama sotto Aniceto, che teneva il decimo posto nell'episcopato. Tutti gli altri, che sono denominati gnostici, hanno avuto origine da Menandro, discepolo di Simone, come abbiamo indicato, e ciascuno di loro apparve come padre e mistagogo dell'opinione che adottò. Tutti questi, invece, si sono levati nella loro apostasia molto più tardi, quando i tempi della Chiesa erano già a metà del loro corso» (III,4,3).

L’insistenza sull’unità e sull’antichità della fede della chiesa è affermata con molta forza da Ireneo:

«In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede [...], conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un'unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca» (I,10,1-2).

E ancora:
«Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell'Oriente, dell'Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo» (I,10,1-2).

E ancora:
«Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza» (V,20,1).

Ma, allo stesso tempo, Ireneo tende a sottolineare che questa fedeltà all’origine non diviene un peso che impedisce al vangelo di essere sempre attuale, perché lo Spirito, con la sua presenza attiva, rinnova continuamente la chiesa:
«Conserviamo con cura questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, perché, sotto l'azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene» (III, 24, 1).

1.10/ I quattro vangeli ed il Credo

Ireneo ci testimonia inoltre che già alla metà del II secolo non vi era alcun dubbio nelle chiese che i vangeli riconosciuti da tutti erano i quattro libri di Mt, Mc, Lc e Gv:

«Del resto i Vangeli non possono essere né più né meno di questi. Infatti poiché sono quattro le regioni del mondo, nel quale siamo, e quattro i venti diffusi su tutta la terra e la Chiesa è disseminata su tutta la terra, e colonna e sostegno della Chiesa è il Vangelo e lo Spirito di vita, è naturale che essa abbia quattro colonne, che soffiano da tutte le parti l'incorruttibilità e vivificano gli uomini. Perciò è chiaro che il Verbo Artefice dell'universo, che siede sopra i Cherubini e sostiene tutte le cose, dopo essersi mostrato agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadriforme, ma sostenuto da un unico Spirito. Come appunto David, domandando la sua venuta, dice: “Tu che siedi sopra i Cherubini mostrati”. Infatti i Cherubini hanno quattro aspetti e i loro aspetti sono immagini dell'attività del Figlio di Dio. “Il primo vivente - dice - è simile al leone” e rappresenta la potenza, la eccellenza e la regalità di lui; “il secondo è simile al vitello” e significa la funzione sacrificale e sacerdotale; “il terzo ha un volto come di uomo” e descrive chiaramente la sua venuta secondo l'uomo; “il quarto è simile ad un'aquila che vola” e indica il dono dello Spirito che vola sulla Chiesa. Ora i Vangeli sui quali siede Cristo Gesù sono in accordo con questi animali» (III,11,8).

Ireneo è così il primo, stando alla documentazione superstite, a proporre un parallelo fra i quattro vangeli ed i quattro “esseri viventi” dell’Apocalisse che rimandano, a loro volta, al primo capitolo di Ezechiele [17].

A fianco della Scrittura e della viva tradizione della chiesa, Ireneo propone anche la centralità della “regola della fede”, cioè del Credo, come punto di riferimento per tutti i credenti:

«Noi teniamo salda la regola della Verità, che c'è un solo Dio onnipotente, che per mezzo del suo Verbo ha fondato, ordinato e creato dal nulla tutte le cose, perché tutte le cose esistessero, come dice la Scrittura: “Con il Verbo del Signore furono stabiliti i cieli e con lo Spirito della sua bocca ogni loro potenza”; e ancora: “Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto”. Ora dicendo “tutte le cose”, non se ne esclude nessuna, ma per mezzo di lui il Padre ha fatto tutte le cose: quelle visibili come quelle invisibili, quelle che si percepiscono con i sensi come quelle che si conoscono con l'intelletto, le temporali in base a qualche economia come le eterne. Non le ha create per mezzo di angeli né di alcune potenze staccatesi dal suo Pensiero, perché il Dio di tutte le cose non ha bisogno di nulla, ma per mezzo del Verbo e del suo Spirito crea, dispone, governa e dà a tutte le cose l'esistenza. Egli è colui che ha creato il mondo, che comprende tutte le cose; egli è colui che ha plasmato l'uomo, è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, al di sopra del quale non ve n'è un altro, né il Principio, né la Potenza, né il Pleroma; egli è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, come dimostreremo. Tenendo salda questa regola, anche se presentano insegnamenti molto numerosi e diversi, è facile per noi dimostrare che si sono allontanati dalla Verità. Infatti, quasi tutte le eresie che esistono dicono bensì che Dio è uno solo, ma con la loro errata concezione ne cambiano la natura, mostrandosi così ingrati nei confronti di colui che li ha creati, come lo sono le nazioni con la loro idolatria. Essi disprezzano l'opera plasmata da Dio e compromettono la propria salvezza, essendo severissimi accusatori di se stessi e falsi testimoni. Essi risusciteranno bensì nella carne, sebbene non lo vogliano, per conoscere la potenza di colui che li risusciterà dai morti, ma non saranno annoverati con i giusti per la loro incredulità» (I,22,1).

1.11/ La creazione come opera di Dio e la conseguente visione dell’uomo

Ireneo difende contro Marcione e contro lo gnosticismo l’unità delle Scritture ed afferma con grande forza che l’unico Dio Padre è anche il creatore: non c’è alcun Demiurgo o divinità inferiore, oltre all’unico Dio:

«Tutti questi [autori], pur provenendo da luoghi diversi ed insegnando dottrine diverse, convergono alla medesima posizione blasfema: feriscono mortalmente insegnando a bestemmiare contro Dio che ci ha creati e ci nutre e a non credere alla salvezza dell'uomo. L'uomo è, infatti, una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle mani di Dio, cioè dal Figlio e dallo Spirito, ai quali disse: “Facciamo l'uomo”. Questo è dunque il progetto di colui che ha invidia della nostra vita: rendere gli uomini increduli circa la propria salvezza e blasfemi contro Dio che li ha plasmati. Qualunque cosa dicano con solennità, tutti gli eretici arrivano in fin dei conti a questo: a bestemmiare contro il Creatore e ad opporsi alla salvezza della creatura di Dio, che è la carne, per la quale, come abbiamo dimostrato in molti modi, il Figlio di Dio ha compiuto tutta la sua economia. Abbiamo chiarito anche che le Scritture non hanno chiamato Dio nessun altro all'infuori del Padre di tutte le cose, il Figlio e tutti quelli che hanno l'adozione filiale» (IV, prefazione,4).

I diversi sistemi gnostici ritenevano, come abbiamo visto, che non Dio, ma una sua emanazione degradata avesse prodotto il mondo:

«È, dicono, il Protoarconte, l'artefice di questo mondo. Questi, raccontano, prese una grande potenza dalla madre, se ne andò lontano da lei nelle regioni inferiori e fece il firmamento del cielo, nel quale dicono che abita. Essendo l'Ignoranza, fece le potenze che sono sotto di lui, gli angeli, i firmamenti e tutte le cose terrene. Poi, dicono, si unì alla Audacia e generò Cattiveria, Gelosia, Invidia, Vendetta e Desiderio. Dopo che furono generati questi, la Sapienza, rattristata, fuggì, si ritirò nelle regioni superiori ed è l'Ogdoade per chi la conta dal basso. Dunque, quando essa si fu ritirata, egli pensava di essere solo, e perciò disse: “Io sono un Dio geloso, e non c'è nessuno all'infuori di me”. Queste le menzogne che costoro vanno raccontando» (I, 29, 4).

Si noti qui il rovesciamento del testo di Genesi e della fede del Simbolo, quando il Protoarconte afferma che c’è un solo Dio: «Io sono un Dio geloso, e non c'è nessuno all'infuori di me». Ma è proprio questa unicità di Dio che lo gnosticismo del II secolo rifiuta, poiché oltre al Protoarconte/Demiurgo c’è il pleroma, il vero Dio, con le sue otto emanazioni dell’Ogdoade. È il Demiurgo, spinto da gelosia verso il pleroma, ad affermare che c’è un solo Dio creatore, cioè se stesso, mentre in realtà, per gli gnostici, esiste un altro Dio superiore al creatore. La fede degli ignoranti aderisce alle parole del Protoarconte, asserendo l’esistenza di un solo Dio, mentre per “coloro che hanno la conoscenza” la fede si rivolge alla complessità relazionale del pleroma.

Questo comportava, come si è già accennato, un completo rovesciamento dell’AT ed, in fondo, un vero e proprio antigiudaismo gnostico, poiché il popolo ebraico aveva venerato il creatore, cioè una divinità inferiore, e non l’Ogdoade.

Ireneo conosceva pure un Vangelo di Giuda - probabilmente lo stesso testo recentemente riscoperto - e lo collocava giustamente nella sua vera prospettiva di testo contrario alla bontà della creazione e della materia. Tale vangelo apocrifo appartiene, infatti, al filone che sarà detto “cainita”, caratterizzato da un orizzonte ideologico volto a sostenere che è Caino il vero giusto, mentre Abele è l’uomo “ilico”, “carnale”. Caino, secondo questa corrente gnostica, avendo compreso che la carne è un male, uccide il fratello Abele proprio perché lo ama, aiutandolo così a sbarazzarsi finalmente del peso della carne. Allo stesso modo Giuda, secondo l’omonimo vangelo, aiuterà Gesù ad uscire dalla materia, tradendolo e permettendo così la sua morte vista come liberazione dalla prigione materiale del corpo. Afferma Ireneo:

«Altri ancora dicono che Caino deriva dal Principato superiore, e confessano che Esaù, Core e i Sodomiti e tutti i loro simili sono loro parenti; e per questo sono stati combattuti dal creatore, ma nessuno di loro è male accetto, perché la Sapienza strappava da loro per portarlo a sé ciò che c'era di suo proprio. Dicono che Giuda conobbe accuratamente queste cose e proprio perché egli solo conosceva la verità più degli altri, compì il mistero del tradimento. Per mezzo di lui dicono che si sono dissolte tutte le cose terrestri e celesti. Presentano tale invenzione chiamandola il Vangelo di Giuda» (I,31,1).

Anche nell’Esposizione della predicazione apostolica, Ireneo ribadisce, contro Marcione e contro gli gnostici, gli stessi concetti:

«Nessuno pensi che vi sia un altro Dio Padre diverso dal nostro Creatore, come immaginano gli eretici, che disprezzano il Dio vero e del dio falso ne fanno un idolo, si creano un padre al di sopra del nostro Creatore e ritengono di avere scoperto qualche cosa più grande della verità. In realtà tutti questi sono empi e bestemmiano il loro Creatore e Padre, come abbiamo dimostrato nella “Esposizione e Confutazione della falsa Gnosi”. Altri ancora disprezzano la venuta del Figlio di Dio e l'economia della sua incarnazione trasmessa dagli apostoli e predetta dai profeti per la restaurazione dell'umanità, come ti abbiamo in breve dimostrato. Anche queste persone vanno contate tra gli increduli. Altri ancora non ammettono i doni dello Spirito santo e respingono il carisma profetico, imbevuto del quale l'uomo produce come frutto la vita divina. Di questi dice Isaia: “Saranno come terebinto senza foglie e come un giardino senza acqua”. Questi tali non sono di alcuna utilità a Dio, perché non producono frutti.
Rispetto ai tre articoli del nostro sigillo, l'errore ha causato molte divagazioni lontane dalla verità. Perciò o disprezzano il Padre, o non accolgono il Figlio parlando contro l’economia della sua incarnazione, o rifiutano lo Spirito, cioè rigettano la profezia. Da tutta questa gente dobbiamo guardarci, evitare le loro vie, se realmente vogliamo piacere a Dio e ottenere la salvezza
» (99-100).

Dalla visione unitaria che Ireneo ha di Dio, della sua creazione e della storia di salvezza, scaturiscono le famose affermazioni dell’Adversus haereses sulla dignità e la grandezza dell’uomo. Proprio nella sua unità di corpo e anima l’uomo è gloria di Dio ed ha come destino l’incontro con la manifestazione divina in Cristo e la visione beatifica di Dio:

«Dunque, il Figlio è rivelatore del Padre fin dall'inizio, perché è con il Padre fin dall'inizio ed ha mostrato al genere umano, nel tempo giusto e per il suo vantaggio, le visioni profetiche, le diversità dei doni, i suoi ministeri e la glorificazione del Padre, alla maniera di una melodia ben composta e armoniosa. Dove c'è composizione, lì c'è melodia; dove c'è melodia, lì c'è tempo giusto; dove c'è tempo giusto, lì c'è vantaggio. Perciò il Verbo divenne dispensatore della grazia paterna a vantaggio degli uomini, per i quali ha stabilito così grandi economie, mostrando Dio agli uomini e presentando l'uomo a Dio: salvaguardando l'invisibilità del Padre affinché l'uomo non divenisse disprezzatore di Dio e avesse sempre un punto verso il quale progredire, ma nello stesso tempo mostrando Dio visibile agli uomini per mezzo delle molte economie, affinché l'uomo, privo totalmente di Dio, non cessasse di esistere. Infatti la gloria di Dio è l'uomo vivente e la vita dell'uomo è la visione di Dio. Ora se la manifestazione di Dio che avviene attraverso la creazione dà la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, molto più la manifestazione del Padre mediante il Verbo dà la vita a coloro che vedono Dio» (IV,20,7).

In un’altra espressione straordinaria, Ireneo spiega allora, contro gli gnostici, che cosa vuol dire “spirituale” nella fede cristiana:

«Gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» (V,6,1).

1.12/ La comunione della chiesa nelle legittime diversità: la questione della datazione della Pasqua

Merita un accenno un ulteriore problema affrontato da Ireneo, la questione della datazione della Pasqua; egli scrisse una lettera a Roma in proposito. A quei tempi si discuteva – e si continuò a discutere a lungo ed, in forme diverse, la discussione è ancora aperta – sulla scelta della data nella quale festeggiare la Pasqua. Le chiese dell’Asia minore si erano mantenute, in questo, fedeli alla tradizione ebraica e la celebravano il 14 del mese di Nisan (coloro che sostenevano questa datazione vengono oggi chiamati dagli studiosi “quartodecimani”); a Roma ed in molte altre chiese, invece, la celebrazione era fissata con un nuovo calendario che la poneva in giorno di domenica.

Ireneo scrisse a papa Vittore (189-198)
invitandolo a considerare che, se pure l’usanza della celebrazione della Pasqua in giorno di domenica era certamente la scelta migliore, non per questo bisogna rompere la comunione con chi la celebrava secondo il calendario ebraico.

È lo storico Eusebio di Cesarea ad aver conservato il testo in questione:

«Anche Ireneo inviò una lettera a nome dei fratelli della Gallia, di cui era a capo. È d'accordo che il mistero della risurrezione del Signore si deve celebrare solo nel giorno della domenica, ma poi esorta a lungo Vittore con riguardo a non scomunicare intere chiese di Dio che osservano la tradizione di un'antica usanza. E aggiunge quanto segue con queste precise parole:
“La discussione, infatti, non riguarda soltanto il giorno, ma anche la stessa forma del digiuno: alcuni pensano di dover digiunare un solo giorno, altri due, altri anche di più; altri misurano il loro giorno in quaranta ore diurne e notturne. E tale varietà di osservanze non si è verificata ora nel nostro tempo, ma risale molto addietro, al tempo dei nostri antenati. Essi hanno praticato una osservanza, a quanto sembra, inesatta. Hanno trasmesso ai posteri questa consuetudine nella sua semplicità e nella sua particolarità. Pur tuttavia tutti costoro rimasero in pace e noi siamo in pace gli uni con gli altri e la discordanza del digiuno conferma la concordia della fede”.
A questo aggiunge un racconto che sarà utile riferire. È di questo tenore:
“Tra loro anche i presbiteri anteriori a Sotere, i quali furono a capo della chiesa che ora guidi tu - intendo dire Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto - neppure loro osservarono quel giorno, né lo permettevano a quelli che erano con loro. Pur tuttavia essi stessi, sebbene non osservassero quella data, erano in pace con coloro che venivano dalle chiese dove la si osservava, quando venivano da loro. E certamente l'osservanza di quella data era molto odiosa per coloro che non la osservavano.
Eppure nessuno fu mai rifiutato per questo modo di fare, ma gli stessi presbiteri tuoi predecessori che non osservavano quella data mandavano l'Eucaristia ai cristiani che la osservavano.
Quando, il beato Policarpo venne a Roma, al tempo di Aniceto, sebbene avessero tra loro qualche piccolo contrasto su alcune altre cose, subito fecero la pace e su questo argomento non ebbero alcuna contesa. Né Aniceto poté persuadere Policarpo a non osservare la data, poiché aveva osservato quella data con Giovanni, il discepolo del Signore, e gli altri apostoli con i quali aveva vissuto; né Policarpo persuase ad osservarla Aniceto, il quale diceva di dover mantenere la consuetudine dei presbiteri suoi predecessori.
E pur stando così le cose, furono in comunione tra loro e nella chiesa Aniceto cedette l'Eucaristia a Policarpo, evidentemente come segno di deferenza, e si separarono in pace. Tutta la chiesa era in pace, sia coloro che osservavano quella data sia coloro che non la osservavano”
» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V,24,11-17).

2/ Costantino

2.1 L’attestazione di uno sviluppo germinale dalle domus ecclesiae a forme più articolate di edifici di culto nel III secolo

Degli edifici in superficie dedicati al culto, precedenti a Costantino, si conserva solamente quello di Dura Europos, città abbandonata nel 256 all’arrivo dei Persi Sassanidi (i cui monumenti sono quindi precedenti a quella data): taluni vi scorgono già un edificio del tutto nuovo, una vera e propria chiesa cristiana, mentre altri la interpretano come una domus ecclesiae che, però, ha ormai elaborato strutture e decorazioni proprie e stabili. Secondo gli studiosi l’edificio potrebbe essere stato costruito e decorato intorno all'anno 230. Esso consta di due sale, la prima non è affrescata mentre la seconda, probabilmente con finalità battesimali, è munita di affreschi con i temi, trattati in maniera rudimentale, delle Donne al sepolcro, del Buon pastore e di alcuni miracoli come la Guarigione del paralitico e Gesù che cammina sulle acque. Se la comunità cristiana di una cittadina marginale, adibita a stazione carovaniera, come Dura Europos, già stava specializzando una costruzione per il culto cristiano, cosa non doveva avvenire nelle grandi città dove il numero dei cristiani che si radunavano nello stesso luogo doveva essere ormai grande? L'importanza dei testi letterari è in questa prospettiva preziosa, perché permette di immaginare qualcosa di questo sviluppo incipiente, mostrando che l’architettura e l’arte cristiana, che si diffonderanno a macchia d’olio dopo Costantino, erano già in incubazione.

Le fonti letterarie testimoniano innanzitutto che già agli inizi del III secolo - 100 anni prima di Costantino - la comunità cristiana possedeva proprietà. La prima attestazione di un possesso pubblico è quella dei cimiteri ed, in specie, di quello che sarà poi detto di Callisto in Roma: la Chiesane deteneva la proprietà, pur essendo formalmente fuori legge a motivo della legislazione imperiale. Nella Confutazione di tutte le eresie, tradizionalmente attribuita ad Ippolito Romano (sebbene la paternità dell’opera sia discussa), si legge, infatti, che Callisto, allora diacono, venne incaricato da papa Zefirino, quindi negli anni 189-222, della custodia delle catacombe oggi dette di San Callisto. Così recita il testo: «Alla morte di Vittore, Zefirino, volendo [Callisto] come collaboratore nell’istruzione del clero, [lo] onorò a proprio danno, e trasferitolo da Anzio gli diede l’incarico di sorvegliante del cimitero» (Ippolito di Roma, Confutazione di tutte le eresie IX,12,14). La Confutazione attesta così chela Chiesa disponeva di un vero e proprio cimitero sotterraneo di cui era proprietaria, al punto che il vescovo di Roma designava la persona destinata ad incaricarsene. La proprietà cristiana del luogo era talmente nota che nello stesso cimitero di Callisto vennero arrestati poi, una cinquantina di anni dopo, papa Sisto II con quattro diaconi e successivamente San Lorenzo, anch’egli diacono, nel corso delle persecuzioni di Valeriano nell’anno 258.

L’esistenza di proprietà cristiane è attestata anche dal cosiddetto “editto di restituzione” di Gallieno. Emanato nel 262, stabiliva che le proprietà appartenute alla Chiesa prima delle persecuzioni di Decio e Valeriano fossero restituite ai cristiani. Così recita il testo che è stato conservato da Eusebio di Cesarea: «L’imperatore Cesare Publio Licinio Gallieno, Pio, Felice, Augusto, a Dionigi, Pinna, Demetrio e a tutti gli altri vescovi. Ho disposto che sia emanato in tutto il mondo il beneficio della mia concessione, perché vengano riaperti i luoghi di culto, e perciò anche voi potrete utilizzare la norma del mio rescritto, di modo che nessuno vi molesti. E ciò che è in vostro potere compiere, da tempo è già stato da me accordato, quindi Aurelio Quirino, direttore del fisco, farà osservare la norma da me emanata» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VII,13). Eusebio aggiunge al testo dell’editto un breve commento di sua mano: «Era opportuno riportare qui questo editto, tradotto dal latino per maggiore chiarezza. Dello stesso imperatore si conserva anche un’altra costituzione rivolta ad altri vescovi, che permette ai cristiani di ritornare in possesso di quei luoghi chiamati cimiteri» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VII,13).

Dal tenore dell’editto risulta evidente che non solo la comunità cristiana possedeva cimiteri e luoghi di culto prima delle persecuzioni della metà del III secolo, ma che l’imperatore Gallieno gliene confermava ora pubblicamente il possesso, sebbene il cristianesimo non godesse ancora dello statuto di religio licita, cioè di culto giuridicamente ammesso nell’impero.

Altri testi letterari, mentre confermano il possesso di edifici da parte della comunità cristiana, mostrano come questi stessero evolvendo dalle forme più antiche delle domus ecclesiae private verso una configurazione di vere e proprie chiese stabilmente adibite per le celebrazioni liturgiche.

Eusebio di Cesarea, ad esempio, racconta come l’imperatore Aureliano (270-275), quando il vescovo scismatico Paolo di Antiochia fu dichiarato deposto, assegnò la chiesa che era sede della Chiesa di Antiochia a Domno, vescovo cattolico, scrivendo: «Poiché Paolo non voleva affatto lasciare la sede della Chiesa di Antiochia, l’imperatore Aureliano, richiestone, prese in merito una decisione felicissima, ordinando che l’edificio fosse assegnato a coloro che avevano rapporti epistolari con i vescovi della religione cristiana in Italia e nella città di Roma. Così l’uomo suddetto fu cacciato dalla Chiesa con la massima vergogna ad opera del potere secolare» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VII,30,19). Sebbene il testo eusebiano sia redatto dopo la pace costantiniana, nondimeno si deve ammettere l’esistenza di un luogo di culto che era punto di riferimento per l’intera comunità cristiana di Antiochia e veniva officiato dal vescovo locale.

Similmente in un verbale di perquisizione della persecuzione di Diocleziano, nell’anno 303, relativo alla città di Cirta (nell’antica Numidia, oggi in Algeria) si legge che gli ufficiali romani vennero inviati  nella «casa in cui si riunivano i cristiani (ad domum in qua christiani conveniebant)» (Atti di Munazio Felice, amministratore della colonia di Cirta, riportati all'interno degli Atti del console Zenofilo, rr. 85-86): tale edificio viene indicato di passaggio, successivamente, con il nome di basilica quando egli domanda ad uno dei testimoni, dove abbia ascoltato che sono stati “consegnati” alle autorità romane due oggetti d'argento appartenenti alla Chiesa (Atti del console Zenofilo, r. 529).

In testi analoghi riferiti alle persecuzioni del 303 nella città di Abthugni (oggi in Tunisia), si utilizza per ben due volte il termine basilica: quando un testimone afferma di aver visto «a Zama e a Furnos distruggere le basiliche e bruciare le Scritture» (Atti di Felice di Abthugni, rr. 107-109) da parte dell'autorità romana, e quando un secondo testimone dichiara che sono state portate lettere di saluto «al di fuori della basilica» di Abthugni (Atti di Felice di Abthugni, rr. 140-142). Questa fonte fornisce di passaggio l'indicazione che l'edificio cristiano chiamato basilica è munito di una «cattedra (cathedra)», forse episcopale ma comunque stabilmente adibita a servizio di chi presiede, sulla quale sono poste le Sacre Scritture; il testo ricorda anche l’esistenza di una biblioteca e di un deposito alimentare in relazione alla basilica stessa (Atti di Felice di Abthugni, rr. 146-148).

Per quel che riguarda la pars orientalis dell'impero, Lattanzio afferma addirittura che, al momento dello scatenarsi della persecuzione di Diocleziano nel 303, esisteva già da tempo una chiesa talmente grande da essere visibile dal palazzo imperiale di Nicomedia, oggi Ä°zmit in Turchia, segno che la presenza di questi edifici cristiani doveva essere un fatto ormai normale. Così scrive Lattanzio: «I principi [Diocleziano e Galerio] intanto osservavano quello che succedeva (la chiesa infatti appariva in alto rispetto al palazzo) e non facevano altro che discutere se era meglio darle fuoco. Prevalse il parere di Diocleziano, che temeva che un grande incendio potesse bruciare pure una parte della città, dato che tutt’intorno [alla chiesa] c'erano molte grosse case. Allora arrivarono i Pretoriani in formazione da combattimento; furono mandati in tutti i punti [dell'edificio], e con asce e altri arnesi di ferro rasero al suolo in poche ore quel tempio così rinomato» (Lattanzio, Come muoiono i persecutori, XII,1-5). Sebbene anche questo testo sia posteriore a Costantino, essendo stato redatto probabilmente fra il 313 ed il 316, nondimeno esso ci informa sullo stato delle cose al momento in cui Diocleziano dette inizio alla sua attività persecutoria.

D'altro canto, l'esistenza di una nuova tipologia di edifici cristiani è confermata anche da un autore pagano come Porfirio che scrive, difendendo i templi pagani con i loro idoli e sacrifici: «Ma anche i cristiani, imitando le costruzioni dei templi, edificano case grandissime, all'interno delle quali si riuniscono per pregare, sebbene niente impedisca loro di fare ciò nelle [loro] case, perché è chiaro che il Signore ascolta dappertutto» (Porfirio, Contro i cristiani, frammento 76).

Per quel che riguarda Roma, le fonti sono molto più reticenti, nonostante la comunità romana sia ovviamente più numerosa di quella di cittadine di minore importanza. Oltre alla notizia della proprietà del cimitero di Callisto, per quel che riguarda edifici in superficie è rilevante un passaggio di Ottato di Milevi che, sebbene faccia riferimento agli anni immediatamente successivi alla pace costantiniana, lascia intuire che gli edifici di cui si tratta erano stati edificati negli anni precedenti ad essa. Ottato riferisce che Vittore, il primo vescovo scismatico donatista inviato nell’urbe tra il 314 ed il 320, giunto a Roma non aveva alcuna basilica nella quale riunire i fedeli donatisti, mentre la Chiesacattolica ne aveva già ben quaranta. Così recita il testo: «E in realtà non si doveva certo attribuire il nome di gregge e di popolo a un gruppo sparuto di poche persone che a Roma, dove sono quaranta e più basiliche, non avevano neppure un luogo dove raccogliersi. E così circoscrissero con una siepe di fascine una spelonca, fuori della città, dove, nel tempo stesso, poter radunare il loro piccolo gruppo» (Ottato di Milevi, La vera Chiesa, II,4).

La presenza di questo solo testimone potrebbe far pensare che la Chiesadi Roma abbia conosciuto più tardi di altre comunità un significativo sviluppo edilizio, ma certo lascia intuire che anche nell’urbe un’evoluzione dei luoghi di culto era in atto e che già si utilizzava per essi il termine basilica.

Queste numerose e concordanti indicazioni delle fonti letterarie non permettono di chiarire con esattezza quale forma e quale decorazione avessero questi edifici di culto, ma lasciano intuire che le basiliche costantiniane non apparvero improvvisamente, bensì vennero precedute da uno sviluppo progressivo dei luoghi che la comunità cristiana utilizzava per la liturgia battesimale ed eucaristica. Per questi primi edifici cristiani i testi utilizzano termini diversi come domus in qua christiani conveniunt, domus Dei, domus ecclesiae, ecclesia semplicemente, ma anche basilica, come si è visto, e la terminologia stessa utilizzata mostra come andasse maturando l'idea che in quei luoghi Dio offriva la sua presenza in maniera specifica. Di questa crescente consapevolezza è testimone già Origene che nel trattato Sulla preghiera afferma: «Aggiunge alla utilità qualche cosa di gradevole il luogo della preghiera, dove i credenti si riuniscono insieme, perché è credibile che ivi potenze angeliche partecipino alle assemblee dei credenti. Là discende la forza dello stesso Signore e Salvatore nostro, dove si radunano gli spiriti dei santi, a mio credere, quelli dei martiri che ci hanno preceduto e senza dubbio anche quelli dei santi ancora in vita, benché ciò non riesca facile a dirsi come avvenga. [...] Per tali ragioni non si devono tenere in poco conto le preghiere che si fanno nelle chiese, perché esse hanno veramente qualche casa di eccellente per chi legittimamente vi prende parte» (Origene, Sulla preghiera, 5).

Questa progressiva maturazione dell’architettura cristiana è estremamente significativa perché permette di comprendere che l'elaborazione di un'arte cristiana - arti visive, architettura, oggetti di culto, ecc. - non nacque innanzitutto come una concessione del potere imperiale, bensì in primo luogo come esigenza insopprimibile della comunità cristiana che avvertiva il desiderio di esprimere pubblicamente la fede.

2.2 Chiesa di “forti” o chiesa di “popolo”? Fin dall'inizio una chiesa di popolo!

prima e dopo Costantino: i lapsi ed i catecumeni che rinviano il battesimo

nel rescritto di Plinio a Traiano si parla di persone che avevano apostatato dalla fede, per paura delle persecuzioni. Così dice Plinio, parlando di loro all’imperatore: «Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo». Intorno all’anno 110, cioè, c’erano persone che già 20 anni prima, quindi intorno all’anno 90, avevano rinnegato la fede!

Le file dei catecumeni dovettero così ingrossarsi dopo la svolta costantiniana e così si spiegano le vite di Ambrogio di Agostino, di Paolino di Nola, di Gregorio di Nazianzo che erano catecumeni fin da piccoli, ma non erano ancora giunti al battesimo da adulti. Con Ambrogio ed Agostino, però, siamo già alcuni decenni dopo Costantino. Un altro caso famoso è quello del praefectus urbis Giunio Basso che morì nel 359, quindi solo pochi anni dopo Costantino. Il suo bellissimo sarcofago, custodito nel Museo della Basilica Vaticana, ricorda che egli morì neofitus, cioè “neofita”, appena battezzato. Probabilmente, quindi, dopo essere stato chissà per quanti anni catecumeno, solo in punto di morte, esattamente come Costantino, decise di ricevere il battesimo.

2.3 La basilica cristiana ed il suo “orientamento”

Per R. Brague il tratto culturale essenziale dell’Europa è dato dalla capacità, ereditata dalla civiltà romana, di far proprio il portato positivo delle culture precedenti. "Significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da se stessi, e che lo si possiede solo a stento, in modo fragile e provvisorio", scrive Brague, aggiungendo "Dire che noi siamo romani... significa riconoscere che in fondo non si è inventato niente, ma che si è saputo trasmettere, senza interromperla, ma ricollocandosi al suo interno, una corrente venuta da più in alto".
Così afferma nel volume del 1992, Europe, la voie romaine, successivamente tradotto in Italia da Rusconi, con il titolo Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa. Creatore di linguaggio, amante dell’invenzione di nuovi termini, Brague chiama questo atteggiamento “spirito di secondarietà”.

2.4 Costantino cristiano?

Della visione di Costantino ci parlano le fonti cristiane (Lattanzio nello scritto Come muoiono i persecutori ed Eusebio nei diversi scritti che compose in elogio dell’imperatore), ma anche diverse fonti pagane (in particolare, i panegirici imperiali, cioè quei pubblici elogi che i retori pronunciavano in pubblico, per festeggiare l’imperatore).
È Lattanzio, chiamato a Treviri ad essere precettore del figlio di Costantino, Crispo, a scrivere per primo negli anni 318-321 che Costantino fu avvertito in sogno di incidere sugli scudi il segno delle lettere greche chi e rho (le prime due lettere della parola Christòs) che da allora fu chiamato “monogramma costantiniano”. Lattanzio lo chiama il caeleste signum Dei.
Prima di lui, Eusebio, nella Storia ecclesiastica (composta negli anni 312-317, anche se poi ritoccata nel 323/324), aveva invece riferito più semplicemente di una preghiera fatta da Costantino, prima della battaglia, “a Dio ed al suo Verbo, che è Gesù Cristo, il Salvatore di tutti”. Secondo questo scritto Costantino, dopo la vittoria, aveva fatto collocare il trofeo della “passione salvifica”, cioè la croce, nelle mani di una statua che lo raffigurava e che egli aveva fatto erigere in Roma.
Nelle opere di Eusebio il riferimento alla croce era poi divenuto sempre più evidente. Nel Panegirico per Costantino del 335 aveva affermato che mentre i nemici di Costatino combattevano “confidando nella moltitudine dei loro dèi” e portando “davanti a loro gli idoli, in simulacri senz’anima, quali cadaveri in vita”, l’imperatore aveva loro contrapposto “il segno che dà la salvezza e la vita”.
Nella Vita di Costantino, poi, pubblicata postuma poco dopo la morte di Eusebio avvenuta tra il 337 ed il 340, il racconto della visione di Costantino aveva assunto la forma definitiva che conosciamo: in una prima visione, al tramonto del sole, apparve a Costantino una croce con la famosa iscrizione “in hoc signo vinces” (naturalmente in greco), successivamente, nella notte, l’imperatore aveva visto Cristo stesso che gli era apparso, chiedendogli di erigere un labaro con l’insegna che aveva visto nella precedente visione.

Nel Panegirico per Costantino, scritto a Treviri da un anonimo panegirista pagano (scritto quindi alcuni anni prima dei testi di Lattanzio ed Eusebio) si legge così (dal Panegirico di anonimo per Costantino, figlio di Costanzo, Treviri, 313 d.C.; da Panegirici latini, D. Lassandro – G. Micunco, a cura di, UTET, Torino, 2000, pp. 288-293; 313-315; 323-325):
«[3, 4] Quale dio mai, quale divina potenza a te tanto vicina ti mosse, sicché, mentre quasi tutti i tuoi compagni e generali non solo borbottavano sotto voce, ma anche apertamente mostravano timore, mentre i consigli degli uomini ti erano contro, e ti erano contro i moniti degli aruspici, tu solo invece, da te stesso, sentivi che era venuto il tempo di liberare Roma? [5] Tu hai, certo, o Costantino, qualche misterioso rapporto con quella mente divina che delega a divinità minori il compito di prendersi cura di noi, e a te solo si degna di mostrarsi direttamente. D'altra parte, o fortissimo imperatore, anche così, dopo che, cioè, hai vinto, ci devi una spiegazione.
[4, 1] ...Chi ti ha dato consiglio se non la potenza di un dio? [2] O era proprio la tua mente (ed è, infatti, un dio la provvidenza che è in ciascuno di noi) a guidarti? E il tuo pensiero era che, in un confronto così diseguale, non poteva non trionfare la causa migliore e che, per quanto quello potesse mettere innanzi a sé truppe senza numero, tu avevi, però, dalla tua la Giustizia
».
Ed il testo conclude poi:
« [26,1] Per tutto questo a te rivolgiamo la nostra preghiera, sommo creatore del mondo, che hai tanti nomi quante hai voluto che fossero le lingue dei popoli (né possiamo sapere con quale nome tu preferisca essere chiamato), o che tu sia una forza e una mente divina che, sparsa per il mondo, ti confondi con tutti gli elementi e ti muovi da te stessa, senza l'intervento di forze esterne, o che tu sia una qualche potenza al di sopra di tutti i cieli, che guardi questa tua opera da una più alta rocca dell'universo: a te, ripeto, rivolgiamo la nostra preghiera; e ti chiediamo di conservarci questo nostro principe per tutti i secoli».
Nella lode sperticata che il panegirista pagano fa dell’imperatore egli viene messo in rapporto ad una divinità superiore che lo portò alla vittoria. Divinità minori sono qui chiaramente quelle venerate dagli aruspici, di tradizione etrusca, che facevano i vaticini per gli imperatori precedenti. Non si specifica qui, però, assolutamente quale fosse questa divinità che aveva aiutato Costantino.
Anche nella famosa iscrizione che decora l’Arco di Costantino, vicino il Colosseo - l’Arco fu eretto nel 315 per celebrare la vittoria contro Massenzio - è ancora oggi possibile leggere qualcosa di simile. L’iscrizione recita: «All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi» [4].
Si noti che qui si afferma che l’imperatore venne guidato instictu divinitatis, cioè “dall’ispirazione della divinità”.

Costantino viene criticato dalle fonti pagane per non essere salito al Campidoglio per venerare, secondo la tradizione, gli dèi di Roma, la triade capitolina, il cui Tempio si ergeva appunto sul Campidoglio. Egli si ritirò, invece, rapidamente, dopo il trionfo, nel palazzo imperiale del Palatino.
La rapidità del corteo è attestata ancora dal Panegirista del 313 che afferma: « [19,2] Felici quelli che ti potevano vedere da vicino, mentre quelli che si trovavano più distanti gridavano il tuo nome; e una volta che eri passato, chi ti aveva visto era dispiaciuto per il posto che aveva occupato. Volta per volta tutti, da una parte cercavano di avvicinarsi, dall'altra di venirti dietro; una folla innumerevole faceva a gara per vederti e ondeggiava per le spinte che venivano da varie direzioni; e ci si meravigliava che tanti uomini fossero sopravvissuti a quei sei folli anni di calamità. [3] Alcuni ebbero anche l'ardire di chiederti di fermarti ancora e di lamentarsi che così rapidamente tu fossi giunto al palazzo e, una volta entrato, di seguirti non solo con gli occhi, ma di fare quasi irruzione oltre la sacra soglia».
Un ulteriore elemento tratto da un’altra fonte pagana viene a confermare come i contemporanei di Costantino avessero colto in lui un mutamento di orientamento religioso. Lo storico Zosimo, che scrive alla metà del IV secolo, al tempo di Giuliano l’Apostata, sposta successivamente, senza però contestare le fonti precedenti, la “conversione” di Costantino, e precisamente dopo il 326, dopo che l’imperatore aveva fatto uccidere la moglie Fausta ed il figlio Crispo, accusandoli di preparare una rivolta contro di lui e di una relazione amorosa. Zosimo racconta:
«seguiva ancora i riti patri, non per ossequio ma per convenienza... Consapevole di quanto aveva fatto [...], si recò dai sacerdoti [evidentemente dai sacerdoti pagani] a chiedere sacrifici che ne espiassero le colpe. Poiché costoro gli dissero che nessun tipo di espiazione poteva purificarlo da simili empietà, allora un Egizio giunto a Roma dall'Iberia e divenuto intimo delle donne di corte, incontratosi con Costantino, affermò che il credo dei cristiani cancellava ogni colpa e comportava questa promessa: che gli empi, una volta cambiata fede, fossero liberati da ogni colpa. Accolte le sue parole, distaccatosi dai riti patri e partecipando a quelli di cui l'Egizio l'aveva fatto partecipe, intraprese la via dell'empietà [...]. Quando poi sopravvenne la festa patria, durante la quale era necessario che l'esercito salisse al Campidoglio e compisse i riti consueti, Costantino per paura dei soldati partecipò alla festa, ma quando l'Egizio gli mandò contro una visione che biasimava senza riserve l'ascesa al Campidoglio, si tenne lontano dalla sacra cerimonia e cadde in odio al senato e al popolo» (Zosimo, Storia nuova II,29).

È noto infine che l’adesione piena di Costantino alla fede cristiana avvenne solamente in punto di morte, quando egli ricevette il battesimo da Eusebio di Nicomedia, nel 337. Nel periodo precedente, se egli sostenne apertamente la chiesa ed i cristiani, come subito vedremo, non si schierò mai, però, apertamente contro il paganesimo. Sappiamo, ad esempio, che a Costantinopoli fece erigere anche due templi pagani, che a Spello fece erigere un Tempio alla gens Flavia, cioè alla propria famiglia divinizzata, come risulta da un’iscrizione, che volle sempre tenere in onore i senatori che erano in massima parte ancora di tendenze paganeggianti.

2.5 L’editto di libertà

«Essendo felicemente convenuti a Milano Noi, Costantino e Licinio Augusti, e trattando tutto ciò che riguarda il bene e la sicurezza dello Stato, tra le cose che pensavamo avrebbero giovato alla maggioranza degli uomini, abbiamo deciso di stabilire prima di tutto quelle che riguardano la religione, in modo di dare ai cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione preferita, affinché la Divinità che risiede nei cieli – qualunque essa sia – possa concedere pace e prosperità a Noi e a tutti i nostri sudditi. Abbiamo pensato che con giusto e ragionevolissimo principio si dovesse decidere di non negare a nessuno, che segua la religione cristiana o un’altra per lui migliore, tale libertà, così che la Suprema Divinità, che liberamente veneriamo, in tutto possa accordarci il Suo consueto favore e benevolenza. Conviene dunque che la tua Eccellenza sappia che abbiamo deciso di abolire ogni restrizione, che ti sia stata affidata per iscritto sui cristiani, ed ogni provvedimento ostile e contrario alla Nostra clemenza e che d’ora in poi tutti quelli che vogliono osservare la medesima religione cristiana possano farlo con perfetta tranquillità e serenità» (dalla Lettera degli imperatori Costantino e Licinio al governatore della Bitinia, tradizionalmente chiamata Editto di Milano, del 313, in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, X,5,4-14 e in Lattanzio, Sulla morte dei persecutori, XLVIII,2-12).
Si noti subito che il testo non si limita a dichiarare la libertà dei cristiani, ma afferma la libertà di coscienza nel seguire la religione che si crede. Anche da questo punto di vista il documento rappresenta una novità assoluta nella storia dell’impero romano e nella storia della civiltà più in generale.

Si deve notare anche che i cristiani sono nominati per primi. Tutti sono liberi di seguire le divinità che preferiscono, ma i cristiani vengono posti al primo posto e sono gli unici dei quali appare esplicitamente il nome. A differenza di quello che comunemente si afferma, Costantino non perseguitò assolutamente i pagani (ciò avvenne con gli imperatori successivi e vedremo successivamente più precisamente in che termini, anche qui differenti dalla vulgata abituale). L’unica legge emanata da Costantino nei confronti di altri culti fu il divieto di praticare l’aruspicina e la magia.
Si può immaginare la gioia che dovettero provare i cristiani, che uscivano dalla terribile persecuzione di Diocleziano. L’Editto di Milano continua affermando: «Abbiamo deciso di abolire ogni restrizione… Ordiniamo ancora che chi ha acquistato tempo addietro dal fisco o da qualche privato i luoghi medesimi, nei quali i cristiani usavano adunarsi – per i quali si diede specifica procedura in precedenti documenti -, li restituisca ai cristiani senza indugio e senza equivoco… e poiché si sa che i cristiani non possedevano soltanto i luoghi di convegno, ma anche altri spettanti alle autorità, non proprietà privata, ma delle chiese, tutto ciò comprendiamo sia ridato… che il divino favore a noi vicino e da noi sperimentato in tante difficili imprese, continui sempre ad assisterci».

2.6 Il cristianesimo non era ancora maggioranza

Come ha affermato Benedetto XVI il diffondersi del messaggio cristiano si era basato solo sul Logos e sull’Agape che lo caratterizzava:
«La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi» [6].
Tanti cittadini dell’impero di allora erano stati attratti dalla serietà intellettuale della fede cristiana e dall’amore che la contraddistingueva. Nella mente e nel cuore di tanti, la fede aveva fatto breccia. La testimonianza dei martiri portato i suoi frutti ed una ulteriore crescita numerica doveva esserci stato nei circa quarant’anni di pace seguiti all’Editto di restituzione di Gallieno, anni nei quali, praticamente anche se non giuridicamente, come abbiamo già detto, la fede cristiana era stata “religio licita”.
Manlio Simonetti ha così sintetizzato il rischio che consapevolmente Costantino dovette assumersi, scommettendo il futuro dell’impero sui cristiani: «agli inizi del IV secolo i cristiani costituivano ancora una minoranza, già rilevante in Oriente ma molto meno in Occidente: soprattutto erano quasi completamente pagani gli strumenti essenziali del potere, esercito e burocrazia, nonché la grande maggioranza della classe politicamente e socialmente egemone. Senti¬menti anticristiani erano ampiamente diffusi tra gli intellettuali e, più in generale, tra i molti ai quali non sfuggiva l'estraneità, non soltanto religiosa ma anche più latamente culturale, della comunità dei cristiani agli ideali dell'ellenismo e della romanità. Insomma, con la sua svolta Costantino non si limitò affatto a prendere atto di una situazione già definita a favore dei cristiani e a darvi sanzione ufficiale, ma giocò una carta incerta e pericolosa a vantaggio di chi era ancora il più debole: il fatto che essa sia risultata vincente non deve indurre a sottovalutare il rischio insito in quella mossa e perciò l'audace iniziativa di chi ne fu l'artefice» [7].

2.7 La crisi ariana

novità dell’eresia?=piuttosto l'eresia è una teoria vecchia!

In un meraviglioso testo moderno, il grande scrittore inglese G. K. Chesterton, così presenta il vero nucleo della questione ariana (da L’uomo eterno, Rubbettino 2008, pp. 281-282):
«Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: “Egli è amore”? La sola giustificazione di tale mistero è la mistica concezione che nella Sua stessa natura c’era qualche cosa di analogo all’autoespressione; qualche cosa che genera, e che contempla quel che ha generato. Senza tale idea, è illogico complicare la estrema essenza della divinità con un’idea come l’amore. Se i moderni realmente abbisognano di una semplice religione di amore, devono cercarla nel Credo atanasiano. La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici».

Costantino scrive:
«Dico queste cose non per costringervi ad essere completamente d’accordo su una questione fin troppo sciocca, quale che possa essere. Infatti voi potete conservare integra la dignità dell’assemblea e mantenere l’accordo fra tutti, anche se fra voi c’è disaccordo su questioni di minimo conto: infatti non vogliamo tutti le stesse cose né abbiamo una sola indole e una sola idea».
(da una Lettera di Costantino, in Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, LXXI, 6).

Ha scritto in maniera splendida sulla questione il prof. Simonetti: «Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare. Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso» [10].

2.8 L’imperatore sopra la chiesa! Il cesaropapismo (cfr. anche Sinodo russo del 1917)

Eusebio di Cesarea riferisce, nella Vita di Costantino, che l’imperatore si autoproclamò “vescovo di quelli di fuori”, in greco “episkopos ton ektos” (επισκοπος των εκτος), termine molto discusso negli studi moderni che si pongono la questione se “quelli di fuori” siano i “laici”, oppure i sudditi, laici e preti, in quanto si occupano delle cose temporali (ma si è appena visto che anche la teologia della chiesa egli la riteneva in qualche di propria pertinenza, perché necessaria alla pace dello stato romano). Certo è che egli intendeva far pesare la propria autorità sulla chiesa.
È noto che egli fece di tutto per presentarsi come “isoapostolos”, cioè “pari agli apostoli” e che preparò come propria sepoltura a Costantinopolila Chiesa dei Dodici apostoli (l’odierna moschea Fatih Mehmet Camii ad Ä°stanbul), volendo che la sua tomba fosse posta avendo i cenotafi degli apostoli a destra ed a sinistra.

2.9 Lo spostamento della capitale a Costantinopoli!

inizio del potere temporale della chiesa (anche se la donazione di Costantino è falsa!)

2.10 Il cristianesimo e il paganesimo

Simmaco non faceva la sua battaglia per una “libertà di coscienza” intesa alla maniera moderna, che era ovviamente impensabile a quel tempo. Il problema era che Graziano aveva rifiutato il titolo di pontifex maximus, cioè si rifiutava di fare i sacrifici come capo dello stato ed a nome dello stato. Ma se i sacrifici non erano fatti dall’imperatore e se non erano sovvenzionati dallo stato, non avrebbero avuto efficacia per placare gli dèi – spiegava Simmaco nella III Relatio. Per questo Simmaco affermava: “non si può giungere per una sola via ad un segreto tanto grande”, quello di Dio, affermazione che andava intesa non come un invito ad un pluralismo religioso e alla libertà di coscienza - che egli se avesse potuto avrebbe invece negato per ripristinare il divieto del cristianesimo - bensì come un invito all’imperatore perché, sebbene cristiano, venisse in Senato a sacrificare agli dèi rendendo così onore alla divinità sia tramite il culto cristiano, sia tramite quello pagano, in qualità di pontifex maximus. Questa qualifica che egli aveva rifiutato era esattamente il problema: l’imperatore, fino a quel momento, era stato il supremo sacerdote ed a lui spettava dirigere e guidare i sacrifici per ottenere il benessere e la vittoria dello stato. Ora, invece, egli si rifiutava di celebrarli, perché si dichiarava cristiano.

Benedetto XVI ha insistito molto e con intelligenza su questa alleanza che si creò fra la filosofia e la fede, mentre il conflitto culturale avvenne fra la mitologia e la fede. Così aveva scritto, ad esempio, nel discorso preparato per l’Università La Sapienza di Roma:
«L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c).
In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera» [14].

rapporto dialettico:

es. leggi contro i templi, ma non distruzione dei templi
il caso di Ipazia è unico

3/ Giustino e i Padri apologisti

Giustino è uno dei primi “padri della chiesa”. Che cosa vuol dire questa espressione? Giustino e gli altri che hanno ricevuto questo appellativo sono “padri” perché hanno trasmesso la fede, perché l’hanno generata nelle generazioni successive. E questo non solo in modo generico, poiché sono stati un anello tramite il quale la fede è giunta sino a noi, ma anche in senso forte perché il loro pensiero, la loro vita, la loro santità è stata così significativa da determinare la nostra fede.

Sono stati i “padri della chiesa” ad ordinare la liturgia, la preghiera, il canto, a trovare le giuste espressioni teologiche per chiarificare la fede, al punto che noi, senza neanche saperlo, abbiamo una fede che respira della loro.

Si è compiuta così, quasi inavvertitamente, la stessa esplicita volontà di Gesù che non ha dato agli apostoli ed ai loro successori innanzitutto il compito di mettere per iscritto la rivelazione neotestamentaria, ma primariamente di annunziarlo e di battezzare nel suo nome, insegnando tutto quello che egli aveva compiuto, nella promessa che lo Spirito Santo avrebbe fatto ricordare e comprendere sempre più in profondità il mistero dell’incarnazione e della Pasqua.

Giustino appartiene a quel gruppo di “padri” detto degli “apologisti”. Di Giustino si sono, infatti, conservate due Apologie, oltre ad un terzo scritto noto come Dialogo con il giudeo Trifone.

Apologia è termine che proviene dal greco e significa, letteralmente, “discorso di difesa”, “discorso di risposta”. Può essere utile ricordare che la parola apologia è già presente nel NT, nel brano di 1 Pt 3,15, che dice letteralmente: «Siate sempre pronti a compiere l’apologia a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (ετοιμοι αει προς απολογιαν, che la CEI traduce «siate sempre pronti a rispondere»).

Perché le Apologie ed i padri apologisti? Perché i cristiani erano accusati e condannati. Giustino scrive le due Apologie per difendere la fede dinanzi all’imperatore ed ai romani del suo tempo per mostrare loro che l’accanimento contro i cristiani era una assurdità e che anzi proprio i cristiani avevano ragioni da vendere.

Insieme a Giustino anche altri autori hanno ricevuto dai moderni il titolo di “padri apologeti” o “apologisti” – ricordiamo almeno Aristide, Taziano, Atenagora, Teofilo, ecc. – proprio perché tutti autori di Apologie: evidentemente la presentazione della fede dinanzi alle false accuse era un’esigenza che i cristiani del tempo dovevano affrontare. Ma non solo questo: tutti questi personaggi vissuti nel II secolo d.C., secolo dovevano avvertire anche l’esigenza di comunicare il perché della loro fede, di modo che le loro Apologie vennero scritte non solo a difesa dei cristiani, ma ancor più nel desiderio che altri potessero conoscerne la verità e la bellezza ed accogliere la fede (cosa che, di fatto, è poi avvenuta).

Ed è Giustino stesso a spiegare il fine della sua Prima Apologia all’inizio dell’opera: «Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro» (Prima apologia, I, 1).

3.1 La Prima Apologia indirizzata ad Antonino Pio

La Prima Apologia è indirizzata «all'imperatore Tito Elio Adriano Antonino Pio Cesare Augusto e al figlio Verissimo filosofo, ed a Lucio, figlio del Cesare filosofo e, per adozione, del Pio, amante del sapere, al Sacro Senato ed a tutto il popolo romano» (Prima apologia, I, 1): è indirizzata espressamente all’imperatore dell’epoca, che è Antonino Pio, ma Giustino la scrive anche per il Senato e per il popolo tutto.

Il testo continua: «La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false» (Prima apologia, II, 1). Notate l’inizio dell’argomentazione: Giustino afferma che è tipico dei filosofi discutere e non accettare qualcosa per vero semplicemente perché la tradizione degli antichi ce lo ha consegnato. È un invito ad ascoltare ed a confrontare le diverse argomentazioni per discernere la verità e l’errore. Discutere liberamente – dice Giustino - è il tipico atteggiamento del filosofo. Si noti bene: Giustino è cristiano, ma conserva il gusto della discussione, del dibattito, della libertà intellettuale, tipica del filosofo.

Prosegue poi: «Voi godete in ogni luogo - sta parlando di Antonino Pio, a cui era stato attribuito l’aggettivo “pio”, proprio perché ritenuto particolarmente timorato di Dio - la fama di essere pii e filosofi, custodi della giustizia e amanti della sapienza, se poi davvero anche lo siete sarà dimostrato» (Prima apologia, II, 2). Notate la libertà con cui si rivolge pubblicamente all’imperatore che potrebbe ucciderlo!

3.2 Libertà e ragione nel dibattito pubblico sulla verità di Dio

«Eccoci dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti, né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame» (Prima apologia, II, 3). Giustino chiede che si discuta del cristianesimo e del paganesimo, dell’adorazione degli imperatori e così via, alla ricerca della verità. Solo dopo un attento esame, dopo uno studio approfondito, sarà giusto emettere un giudizio di verità. Continua così questa esaltazione del gusto della libera discussione: Giustino domanda la piena libertà intellettuale, che è tipica del cristianesimo.

È subito evidente anche la dimensione pubblica della prospettiva di Giustino: egli vuole comunicare e chiede di essere ascoltato. I cristiani fin dall’inizio – siamo alla metà del II secolo - pur essendo perseguitati affermano l’importanza della libertà di parlare di Cristo con tutti. Cristo non è qualcuno di cui parlare solamente all’interno della chiesa per tacerne all’esterno; l’annunzio del vangelo è proposto a tutti.

Se volete un esempio moderno dell’atteggiamento opposto a questo, pensate alla massoneria. Prima ancora che nei contenuti, già da un punto di vista formale la massoneria è opposta al cristianesimo, perché essa non è pubblica, non è per tutti; è vietato ascoltare cosa si dice in una loggia massonica, non si può essere messi a parte di quella realtà, se non si è degli iniziati.

Giustino, invece, vuole presentare il cristianesimo a tutti, lo vuole spiegare, lo vuole far conoscere. Dice apertamente che la “filosofia cristiana” può essere detta a tutti e tutti, anzi, debbono poterla ascoltare, non solo nelle case, ma anche nelle piazze. Il cristianesimo non è fatto per gli iniziati, non parla solo a loro, ma è per tutti.

Mi ha colpito recentemente, durante un’ordinazione episcopale, notare il fatto che l’ordinando viene presentato dinanzi a tutti e gli viene chiesto pubblicamente se crede quello che crede la chiesa. Egli deve giurare di avere la fede cattolica, perché tutti debbono sapere ciò che pensa il vescovo; se non si sapesse pubblicamente che cosa egli pensa, non lo si potrebbe ordinare. Pensate, all’opposto, ad alcuni fatti che avvengono nel contesto nel quale viviamo: capita di non sapere quale sia il pensiero ufficiale di alcune grandi religioni – a volte perché non esiste un pensiero ufficiale chiaro, altre volte perché su alcuni punti si preferisce non esporlo pubblicamente. Per il cristianesimo non è così: fin dall’inizio appare il desiderio di presentare con chiarezza quali sono i punti di vista che nascono dal vangelo, senza segreti o incertezze [2]. Spetterà poi a chi ascolta il rifiuto o l’accoglienza di ciò che ha conosciuto, ma tutto deve essere detto con chiarezza.

Giustino si pone agli antipodi di prospettive come questa. Il cristianesimo in lui parla pubblicamente ed a tutti e addirittura il nostro autore propone una libera discussione dinanzi all’imperatore ed al senato di Roma, anzi pretende che nessuno pronunci un’accusa contro la fede cristiana se prima non si è informato su di essa.

Giustino chiede, in sostanza, che si compia una analisi veritiera della vita e della fede dei cristiani, prima di decidere aprioristicamente se essa sia da perseguire o meno: «Ma affinché nessuno pensi che queste siano parole senza senso e temerarie, riteniamo giusto che siano prese in esame le accuse mosse ai cristiani, e che, qualora esse si dimostrino rispondenti al vero, siano puniti come conviene punire i convinti colpevoli; se invece non si può provare nulla, la vera ragione non consente di trattare ingiustamente, a causa di una cattiva fama, uomini innocenti: o meglio, trattare ingiustamente voi stessi, che ritenete giusto intervenire (penalmente) secondo un impulso irrazionale anziché secondo un giudizio di discrezione. [...] Disse in un passo anche uno degli antichi: “Se governanti e sudditi non sono filosofi, non è possibile che le città siano felici”» (Prima apologia, III, 1-3).

3.3 La critica cristiana degli idoli e la conseguente accusa di ateismo rivolta ai cristiani

Dopo aver visto l’affermazione che bisogna giudicare tutto liberamente e secondo ragione e verità, vediamo un secondo aspetto del pensiero di Giustino. Questa libertà di ricerca e di pensiero filosofico lo porta a sostenere che il Padre di Gesù Cristo è il vero Dio e che gli altri dèi sono idoli, perché falsi. Giustino non si limita ad una difesa teorica dell’uso della ragione, ma va oltre, applicando concretamente il criterio della ragionevolezza alla religione, per valutare ciò che è filosoficamente sostenibile e ciò che non ha fondamento.

Giustino accetta così parzialmente la strana accusa che era rivolta ai cristiani nel II secolo: i pagani, infatti, accusavano i cristiani di essere atei, perché questi affermavano con forza che le varie divinità del pantheon politeistico greco-romano non esistevano: «Ci è derivata l’accusa di essere atei. Certo ammettiamo di essere tali rispetto a questi supposti dèi, ma non certo rispetto a Dio verissimo, padre di giustizia e di sapienza e di ogni virtù, e immune da malvagità» (Prima apologia, VI, 1).

Tradotto in termini moderni, Giustino sostiene di rifiutare l’esistenza degli dèi, poiché non crede a Giove o a Venere o a Minerva. Per la sua filosofia cristiana Giove non è dio, poiché non esiste: in questo senso dichiara che è corretto chiamarlo “ateo” in relazione a questi presunti dèi inesistenti. Ma egli certo non è “ateo”, perché crede nel Dio verissimo, cioè nel creatore, in Colui che ha inviato il salvatore Gesù Cristo.

Questa accusa paradossale di ateismo veniva rivolta ai cristiani nel II secolo, perché affermavano l’esistenza dell’unico Dio e negavano la verità di tutte le altre immagini di Dio non corrispondenti alla rivelazione divina. Giustino insiste sul fatto che è tipico del filosofo affermare la falsità di dottrine che non hanno fondamento, sottolineando al contempo che questo non vuol dire disprezzare le persone che sostengono idee false. L’atteggiamento filosofico implica questa libertà di vedere le cose così come oggettivamente sono, senza che questo implichi inimicizia. Già il pensiero socratico aveva affermato che si doveva essere amici della verità e per essa non si doveva aver paura di contestare gli amici (la tradizione latina aveva condensato questa affermazione nel famoso detto Amicus Plato, sed magis amica veritas).

Trasportando le argomentazioni al tempo presente non si vede perché, ad esempio, uno che affermi con convinzione che Dio non si chiama Geova e che nella Bibbia non c’è la minima traccia del rifiuto delle trasfusioni di sangue, difese invece dai testimoni di Geova, debba per questo essere etichettato come intollerante. Egli è piuttosto semplicemente una persona che pensa e che aiuta a pensare.

La fede cristiana implica questa libertà di parola: proprio dinanzi alla rivelazione di Dio in Cristo, si comprende come talune affermazioni che l’uomo può fare su Dio non siano conformi a quella verità. Aver conosciuto il volto di Dio, rende liberi dinanzi ad altre posizioni non sostenibili dalla ragione e dal pensiero.

Vedremo come Giustino è un maestro equilibratissimo nel dialogo interreligioso del suo tempo: egli sostiene questa assoluta libertà di critica delle credenze altrui, ma sa anche valorizzare – lo vedremo tra breve - il bene che c’è nella cultura pagana.

In questo, la sua filosofia illumina anche il contesto odierno. Alcuni sostengono oggi che l’unico modo di vivere pacificamente in una società caratterizzata dal dialogo interreligioso implichi l’affermazione che non esiste una verità. Convivere vuol dire – affermano costoro – che nessuno deve affermare che una certa visione di Dio è falsa; chi crede con convinzione alla verità della fede sarebbe, per ciò stesso, un intollerante.

Invece, la ragione ha un compito purificatrice delle false idee di Dio. Un credente può denunciare tranquillamente i limiti di una certa visione religiosa ed il male che ne consegue, senza per questo divenire una persona violenta ed intollerante, ma semplicemente aprendo una vera discussione libera sulla verità.

Giustino porta avanti la sua polemica affermando l’assurdità dell’idolatria: non ha senso venerare gli idoli che «dopo averli effigiati e posti nei templi, chiamarono dèi, poiché sappiamo che sono oggetti inanimati e morti e privi della forma di Dio» (Prima apologia, IX, 1).

Per Giustino il Cristo è “la vera forma di Dio”. È a partire dalla rivelazione cristiana che egli può rifiutare l’immagine di Dio proposta dal paganesimo. L’uomo non ha conosciuto Dio con le sue forze, ma Cristo Gesù ce lo ha rivelato.

Giustino prosegue affermando che questo culto degli idoli «noi riteniamo irragionevole, ma anche offensivo di Dio, il quale, dotato di gloria ed aspetto ineffabili, in questo modo darebbe nome ad oggetti corruttibili e bisognosi di cura» (Prima apologia, IX, 3). Ed ancora afferma che non si debbono venerare dèi che «possiedano i vizi tutti quanti (per non annoverarli ad uno ad uno), voi lo sapete bene; corrompono anche le giovani schiave che lavorano con loro» (Prima apologia, IX, 5).

Più oltre, un passaggio della Prima Apologia ci fa vedere, da un ben altro punto di vista da quello oggi abituale, un personaggio del quale si è impossessato la mitologia contemporanea: «Non riteniamo fuor di luogo ricordare qui anche Antinoo, vissuto ai nostri tempi, che tutti, per paura, erano spinti a venerare come dio, pur sapendo chi fosse e di dove venisse» (Prima apologia, XXIX, 4). Il preferito di Adriano viene qui relativizzato, mostrando come l’imperatore usasse del suo potere per farlo venerare pubblicamente.

Giustino, avendo compreso per l’annuncio evangelico che Dio è amore, non può non sconfessare gli dèi del paganesimo che non manifestano l’amore della croce e non possono pretendere di rappresentare la verità di Dio. Dio è la giustizia, Dio è bontà infinita, Dio è il perdono, Dio ha inviato il Figlio a prendere su di sé i peccati del mondo: ed allora chi crede che gli dèi siano invece lascivi, litigiosi, vendicativi, per questo stesso fatto afferma implicitamente che questi dèi sono idoli e non esistono affatto.

Giustino dichiara che è stata la sua libera ricerca a convincerlo che si deve credere al Dio dei cristiani: «Incominciare ad esistere non dipendeva da noi; ma seguire ciò che gli è caro, scegliendo con le facoltà razionali di cui Egli stesso ci fece dono, questo sì ci persuade e ci conduce alla fede» (Prima apologia, X, 4).

3.4 La partecipazione dei cristiani alla vita pubblica

Giustino si trova poi a difendere i cristiani da un’altra accusa che veniva loro rivolta, quella di essere lontani dalla politica, disinteressati alla vita pubblica ed al benessere dello stato. L’accusa di ateismo rivolta ai cristiani si trasformava, infatti, subito anche in questa seconda critica poiché i cristiani rifiutavano di partecipare a quelle cerimonie pubbliche che implicavano la venerazione degli dèi e l’adorazione divina degli imperatori. Solo per fare un esempio, nella Roma imperiale la triade capitolina era ritenuta la protettrice di Roma: rifiutare di venerarla poteva apparire immediatamente come disinteresse per la vita dell’urbe.

Giustino risponde a questa accusa mostrando che il cristiano è un cittadino fedele ai doveri richiesti dalla collettività e che la comunità cristiana non ha alcuna intenzione di sovvertire lo Stato, bensì lo rispetta e lo serve. Scrive in proposito: «Quanto infatti non furono in grado di fare le leggi umane, lo avrebbe compiuto il Logos divino» (Prima apologia, X, 6). Con questa affermazione cerca di mostrare che, dove le leggi emanate dallo stato non riescono a rendere migliori i cittadini, ha invece successo la fede che converte al bene i cuori stessi degli uomini.

Giustino vuole che l’imperatore capisca che l’insegnamento cristiano sostiene la crescita del senso di giustizia e di responsabilità nei credenti, rendendoli delle persone leali ed affidabili per tutti. I cristiani obbediscono alle leggi non per semplice costrizione esteriore, ma perché trasformati nel cuore.

Giustino continua: «Voi, sentito dire che noi attendiamo un regno, senza riflessione avete supposto che parlassimo di un regno umano» (Prima apologia, XI, 1). È una rassicurazione che egli vuole offrire sulla natura del regno di Dio: i cristiani non vogliono rovesciare l’impero romano e sostituirlo con un’altra entità, poiché il regno atteso dai credenti non nasce da un’autorità umana conquistata attraverso lotte di potere.

Per spiegare che i cristiani non inseguono un regno terreno, porta un’ulteriore motivazione: i cristiani rifiutano ogni dissimulazione e non nascondono mai il loro pensiero sulla fede, anche a rischio di essere uccisi. Ecco le sue parole: «Se, infatti, ci attendessimo un regno terreno, negheremmo per non essere uccisi e cercheremmo di vivere nascosti per conseguire il nostro scopo: ma, dal momento che abbiamo le speranze rivolte non al presente, non ci diamo pensiero di coloro che ci uccidono: in ogni modo si deve morire» (Prima apologia, XI, 2).

Scrive ancora: «Più di tutti gli uomini noi vi siamo utili ed alleati per la pace, dal momento che questo è il nostro pensiero: è impossibile che sfugga a Dio il malfattore o l'avido o l'insidiatore, o anche l'uomo virtuoso, e ciascuno va verso un'eterna pena o salvezza, secondo che meritano le sue azioni» (Prima apologia, XII, 1). Giustino qui cerca di mostrare ulteriormente il sostegno che la fede cristiana fornisce alla vita civile. Il cristiano, sapendo che ci sarà un giudizio in cui ognuno dovrà rispondere a Dio delle sue opere, si sforza di vivere ponendosi al servizio del bene di tutti.

Più avanti, sempre nella Prima Apologia, Giustino ritorna sulla questione ed afferma: «Noi cerchiamo di pagare, prima di tutti gli altri, dovunque, tasse e tributi ai vostri incaricati, come Egli ci ha insegnato. In quel tempo infatti alcuni si avvicinarono a Lui e gli chiedevano se bisognasse pagare i tributi a Cesare. Ed Egli rispose: “Ditemi: di chi reca l'effigie la moneta”. “Di Cesare”, dissero. “Ed Egli di rimando a loro: “Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Pertanto solo Dio sì, noi adoriamo, ma, per tutto il resto di buon grado serviamo a voi riconoscendovi imperatori e capi di uomini, mentre facciamo voti che si trovi in voi saggezza di pensiero, insieme al potere imperiale» (Prima apologia, XVII, 1-3).

Giustino, insomma, non vuole che ci siano dubbi su questo: i cristiani non vogliono sovvertire lo stato, ma lo sostengono e ne riconoscono la funzione e l’importanza.

3.5 La nuova vita condotta dai cristiani

Giustino cerca anche di mostrare quale sia il genere di vita che i cristiani conducono. Molte dicerie, infatti, circolavano sui cristiani e chi non li conosceva personalmente doveva essere istruito sullo stile di vita dei credenti: «Dopo la manifestazione di Cristo, viviamo in comunità e preghiamo per i nemici e ci sforziamo di persuadere quanti ingiustamente ci odiano affinché, vivendo secondo i buoni comandamenti di Cristo, abbiano la bella speranza, di ottenere, insieme con noi, la stessa ricompensa da parte di Dio, signore di tutte le cose» (Prima apologia, XIV, 3).

Pensate a questa caratteristica sorprendente del cristianesimo che è l’amore verso tutti e non solo verso i credenti. Qui Giustino spiega che la preghiera dei cristiani si rivolge a Dio anche per i nemici e che la fede cristiana anima una speranza che riguarda tutti. E scrive questo all’imperatore che si comporta da persecutore.

Un’ulteriore argomentazioni sulla superiorità della vita condotta dai cristiani, che non abbiamo il tempo di seguire dettagliatamente ma che potete leggere nell’antologia distribuita, riguarda la vita affettiva: l’Apologia propone la testimonianza della fedeltà matrimoniale vissuta con tutto il cuore e con tutta la convinzione come realtà nuova, che proviene dalla legge di Cristo, invitando i romani a considerarne la bellezza.

3.6 Il Logos che i filosofi cercano è Gesù Cristo

Giustino giunge poi a presentare direttamente la fede dei cristiani, dopo averne già accennato al capitolo tredicesimo dell’Apologia: «Dimostreremo che a ragione noi veneriamo Colui che ci è stato maestro di queste dottrine, e per questo è stato generato, Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare; abbiamo appreso che Egli è il figlio del vero Dio, e Lo onoriamo al secondo posto, ed in terzo luogo lo Spirito Profetico. In questo credono di dimostrare la nostra follia, dicendo che noi diamo il secondo posto, dopo l'immutabile ed eterno Dio, creatore di tutte le cose, ad un uomo posto in croce, poiché non conoscono il mistero che vi è dentro: questo vi esortiamo a considerare attentamente» (Prima apologia, XIII, 3-4).

Giustino lascia subito intuire che i cristiani erano accusati di follia a motivo della croce di Cristo, che era ritenuta dai romani indegna di Dio. Per mostrare che non è pazzia, Giustino porterà a sostegno della verità della fede le profezie dell’AT, ma anche il fatto che la fede cristiana concorda con le migliori tesi del pensiero filosofico ed, anzi, riesca a superare le contraddizioni in cui questo era caduto.

Giustino arriva così al cuore della presentazione del cristianesimo, quando spiega che il Logos totale è Gesù. Logos è un’espressione utilizzata dal NT, nel prologo del vangelo di Giovanni, ma era anche il termine che indicava la saggezza divina nel linguaggio della filosofia stoica; gli imperatori della dinastia antonina - Adriano (117-138), Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180) - erano grandi sostenitori dello stoicismo.

I filosofi, dice Giustino, cercano questa sapienza, cercano il Logos, la ragione che governa l’universo intero. E proprio gli stoici erano convinti che il Logos - cioè una ragione, un senso, un motivo, un ordine – governasse tutte le cose che non erano lasciate al caos ed al disordine. L’Apologia annuncia che questo Logos si è manifestato nella sua pienezza in Gesù.

Per approfondire questo aspetto possiamo leggere alcuni passaggi della Seconda Apologia - questa non ha una intestazione chiara come la prima, ma si ritiene che debba essere stata indirizzata all’imperatore Marco Aurelio, succeduto ad Antonino Pio, e che sia da considerare quasi come un’appendice della Prima Apologia.

Scrive Giustino: «Non esiste un nome che si possa imporre al Padre dell'universo, dato che è ingenerato. Infatti qualunque nome, con cui lo si chiami, richiede un essere più antico che gli abbia imposto tale nome» (Seconda apologia, VI, 1). Dio, cioè, non porta un nome che gli è stato attribuito da una qualche divinità precedente, ma è l’origine di tutto: non esiste una genealogia degli dèi, ma un solo Dio.

Infatti, «le parole ‘padre’ e ‘Dio’ e ‘creatore’ e ‘signore’ e ‘padrone’ non sono nomi, ma denominazioni derivate dai suoi benefici e dalle sue opere» (Seconda apologia, VI, 2). Ed ecco la novità cristiana:

«Il Figlio di Lui, il solo a buon diritto chiamato ‘Figlio’, il Logos coesistente e generato prima della creazione, quando all'inizio per mezzo di Lui creò ed ordinò ogni cosa, è chiamato Cristo, perché è stato unto e perché Dio ha ordinato ogni cosa per mezzo di Lui; tale nome contiene anch'esso un significato sconosciuto, così come la parola ‘Dio’ non è un nome, ma un'opinione, innata nella natura umana, di una entità ineffabile. Gesù invece è un nome che ha il significato sia di ‘Uomo’ sia di ‘Salvatore’. Infatti, come dicemmo, Egli divenne uomo, concepito per volere di Dio e Padre, per il bene degli uomini che credono in Lui e per la distruzione dei demoni» (Seconda apologia, VI, 3-5).

Ecco la fede cristiana che viene espressa da Giustino: l’unico Dio ci ha donato il proprio figlio, che è il Logos. Con l’incarnazione, con la venuta di Gesù – questo sì è un nome che noi uomini possiamo capire – il Padre si è fatto conoscere e si è offerto a noi come salvatore. Questo Logos è coesistente con il Padre, è generato prima della creazione, ma è stato inviato come Cristo, è stato unto, quando Dio lo ha inviato a noi.

Continua Giustino: «La nostra dottrina dunque appare più splendida di ogni dottrina umana, perché per noi si è manifestato il Logos totale, Cristo, apparso per noi in corpo, mente, anima» (Seconda apologia, X, 1). Giustino afferma qui che tutta la ricerca filosofica, tutta la ricerca di Dio portata avanti dalla sapienza umana, ha raggiunto la sua meta solo nell’incontro con il Logos donato da Dio agli uomini. Abbiamo già visto che Logos vuol dire “saggezza”, “sapienza”, “verbo”, “parola”, “senso”, “ragione”, “motivo”, ecc. e che gli stoici affermavano che c’era un Logos dell’universo intero. Giustino, riprendendo il prologo del vangelo di Giovanni, afferma ora che il Logos non è una forza impersonale, una forza cosmica senza libertà ed amore, ma che quel Logos è il figlio del Padre che del suo amore ha riempito l’universo intero [3].

3.7 I Logoi spermatikoi

Tutto ciò che esiste, potremmo dire, ha fondamento e motivo nel Logos che è il Figlio di Dio. Gesù Cristo è così il Logos totale, il senso profondo di ogni realtà, finalmente rivelato e conosciuto. Giustino propone, però, un ulteriore considerazione a completamento della sua affermazione dell’assoluta perfezione ed unicità del Logos.

Se questo Logos è presente in maniera totale e piena solo nel Figlio, solo in Gesù Cristo, questo non vuol dire che esso non sia presente, anche se in maniera incompleta, anche altrove. E questo innanzitutto perché il Logos ha già parlato per bocca di profeti: «Quando udite le parole dei Profeti pronunziate come se fossero loro, non crediate che siano pronunziate da essi stessi sotto ispirazione, bensì dal Logos divino che le muove» (Prima apologia, XXXVI, 1).

Non solo, però, nei profeti, ma anche nel mondo che non ha conosciuto l’Antico Testamento - perché il Logos che si è manifestato pienamente in Gesù è lo stesso che ha anche creato il mondo insieme al Padre. Così esso è presente come Logos spermatikos – è il termine che usa Giustino – in tutto il creato ed anche nella ricerca di verità che abita il cuore dell’uomo. Il termine spermatikos contiene la radice “sperma”, “seme”, cioè qualcosa che non è maturo, che deve ancora diventare maturo e raggiungere la sua pienezza. Con questa espressione Giustino vuole affermare che solo Cristo è la pienezza, la maturità, ma che dei germi di bene, dei logoi spermatikoi che sempre da lui provengono ed a lui rinviano, sono presenti anche prima della sua incarnazione nel creato.

Giustino mostra così che, se da un lato la fede cristiana afferma con sicurezza che in Gesù c’è tutta la verità - e se ci sono delle mancanze nella vita cristiana, questo dipende dagli uomini e non da una insufficienza del Cristo cui non manca nulla – dall’altro sostiene parimenti che Cristo ha misteriosamente operato anche prima di incarnarsi e che, conseguentemente, deve essere operato un discernimento continuo in ciò che esiste nel mondo per scorgervi i germi di bene, i logoi spermatikoi, anche se essi si trovano frammisti insieme a ciò che si allontana dalla verità del Logos o, addirittura, lo combatte.

Afferma Giustino a riguardo: «Tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie ad una parte di Logos. Ma poiché non conobbero il Logos nella sua interezza, che è Cristo, spesso si sono anche contraddetti» (Seconda apologia, X, 2-3).

Si noti che Giustino valorizza più che le altre religioni – abbiamo visto che è molto critico verso il paganesimo – la ricerca filosofica e morale dell’uomo. Giustino sentiva che lo sforzo di comprendere il bene e la verità proprio dell’uomo doveva avere a che fare con Dio e con il suo Logos, sebbene in forma incompleta ed anche contraddittoria. Scrive ancora Giustino: «Ciascuno infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però, contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile. Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, poiché Egli per noi si è fatto uomo affinché, divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire. Tutti gli scrittori, attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed un'imitazione concessa per quanto è possibile, un'altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l'imitazione» (Seconda apologia, XIII, 3-5).

In particolare, Giustino valorizza il pensiero di Socrate e di Platone e giunge ad affermare che ciò che di vero c’è nel loro pensiero deriva dal Logos che è il Cristo:
«Io confesso di vantarmi e di combattere decisamente per essere trovato cristiano, non perché le dottrine di Platone siano diverse da quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, così come quelle degli altri, stoici e poeti e scrittori» (Seconda apologia, XIII,2).

La dipendenza di Platone e Socrate dal Logos viene fatta derivare da Giustino, che non possedeva quella sensibilità storica che abbiamo noi moderni, anche dal fatto che, a suo dire, essi avrebbero letto il Pentateuco e, quindi, avrebbero imparato da Mosè i buoni insegnamenti che si trovano nei loro scritti: «Quando Platone disse: ‘La colpa è di chi sceglie, Dio non è responsabile’, prese il concetto da Mosè, poiché Mosè è più antico anche di tutti gli scrittori greci. Tutte le teorie formulate da filosofi e poeti sull'immortalità dell'anima, o sulle punizioni dopo morte, o sulla contemplazione delle cose celesti, o su simili dottrine, essi le hanno potute comprendere e le hanno esposte prendendo le mosse dai Profeti. Per questo appaiono esserci segni di verità presso tutti costoro. Li si può però accusare di non aver inteso giustamente, quando si contraddicono tra loro» (Prima apologia, XLIV, 8-9).

Ad un motivo teologico si aggiunge così un motivo storico che, però, non ha un fondamento reale. La motivazione teologica è più importante perché Giustino, a partire dalla fede nella creazione opera del Padre e del Figlio, si rende conto che Dio ha agito anche al di là dei confini del popolo di Israele e poi della chiesa, proprio perché il Logos è creatore, oltre ad essere salvatore.

Questa riflessione segnerà la storia successiva del cristianesimo, rivelando ciò che è in nuce nella Sacra Scrittura e conducendo ad un apprezzamento della cultura umana che caratterizzerà il cristianesimo successivo.

3.8 Il Dialogo con il giudeo Trifone ed il racconto autobiografico di Giustino

Nel Dialogo con il giudeo Trifone, Giustino ci fornisce alcuni elementi autobiografici per conoscere il percorso che lo condusse a Cristo.

Straordinaria è innanzitutto la sua determinazione nel porre il problema di Dio come un elemento decisivo per la felicità della vita dell’uomo:

«O forse non è questo il compito della filosofia, di indagare cioè il divino?
– Certamente, dissi, questa è anche la mia convinzione, ma la maggior parte dei filosofi non su questo ha rivolto la propria riflessione, se vi siano cioè uno o più dèi e se provvedano o no a ciascuno di noi, in quanto ritengono che il conoscere queste cose non concorra alla nostra felicità. Di più, essi si sforzano di convincerci che Dio si prende sì cura dell’universo e dei vari generi e specie, ma non di me e di te e di ognuno in particolare, altrimenti non lo pregheremmo notte e giorno.
– Dove questo li porti non è difficile capirlo: i seguaci di questa dottrina si prendono impunemente la libertà di dire e di fare ciò che vogliono; essi infatti né temono una punizione né si aspettano una qualche ricompensa da parte di Dio. E come potrebbe essere altrimenti? Essi affermano che le cose si ripetono all’infinito e che io e tu riprenderemo tali quali da capo il corso della nostra vita, senza essere diventati né migliori né peggiori. Altri invece, partendo dal presupposto che l’anima è immortale e incorporea, ritengono che non saranno puniti per aver fatto qualcosa di male – ciò che è incorporeo infatti non può subire patimenti – e che non hanno alcun bisogno di Dio, essendo appunto l’anima per se stessa immortale.
– Trifone, allora, sorridendo con arguzia, disse: - E tu, come la pensi su queste cose, qual è la tua concezione di Dio, qual è insomma la tua filosofia? Su diccelo!»
(Dialogo con il giudeo Trifone, I, 3-6).

Giustino racconta allora come si sia rivolto alle diverse filosofie del tempo, cercando una risposta ai suoi quesiti su Dio e sulla vita: «Ti dirò come vedo io le cose, dissi. La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l’animo alla filosofia. Ciò nondimeno ai più è sfuggito che cos’è la filosofia e perché mai è stata inviata agli uomini: diversamente non vi sarebbero stati né platonici né stoici né teoretici né pitagorici, perché unico è il sapere filosofico.
Anch’io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini, mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, d’altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico. Acuto, o almeno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l’inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo.
Il mio animo tuttavia era ancora gonfio del desiderio di ascoltare lo straordinario ammaestramento proprio della filosofia, per cui mi recai da un pitagorico di eccellenza reputazione, uomo di grandi vedute quanto alla sapienza. Come dunque venni a conferire con lui, volendo diventare suo uditore e discepolo, mi fece: Vediamo, hai coltivato la musica, l’astronomia, la geometria? O pensi forse di poter discernere alcunché di quanto concorre alla felicità senza prima esserti istruito in queste discipline, che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare direttamente il bello e il bene?
Così, dopo aver tessuto le lodi di queste scienze ed averne affermato la necessità, mi rispedì, avendo io dovuto ammettere che non le conoscevo. Ero afflitto, com’è naturale, avendo mancato le mie aspettative, tanto più che ero convinto che quel tale avesse una certa competenza. D’altra parte, considerando il tempo che avrei dovuto passare su quelle discipline, non potei tollerare l’idea di accantonare così a lungo le mie aspirazioni.
Senza vie d’uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevano progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla visione immediata di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone»
(Dialogo con il giudeo Trifone, II, 1-6).

Infine Giustino racconta di essersi recato in riva al mare, insoddisfatto di tutto ciò che gli era stato proposto, per riflettere e di aver lì incontrato un anziano, un filosofo cristiano che così gli parlò:

«Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l'hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall'ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito. [...] Essi non hanno presentato i loro argomenti in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore a ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo loro. Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché hanno glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, e hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato. [...] Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce, si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio e il suo Cristo» (Dialogo con il giudeo Trifone, VII, 1-3).

Giustino, rimasto solo, così racconta della propria reazione a quelle parole: «Dopo aver detto queste e altre cose [...] quel vecchio se ne andò con l'esortazione a non lasciarle cadere, e da allora non l'ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all'istante nel mio animo e mi pervase l'amore per i profeti e per quegli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e me le sue parole trovai che questa era l'unica filosofia certa e proficua. In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore» (Dialogo con il giudeo Trifone, VIII, 1-2).

Giustino manifesta qui la consapevolezza cristiana che l’uomo non può conoscere Dio con le proprie forze, ma è Dio che si fa conoscere attraverso la sua rivelazione. Abbiamo già letto il brano sulla croce di Cristo, che è follia per il pensiero dei filosofi pagani: solo l’amore crocifisso di Cristo rivela il volto del vero Dio e solo la croce risponde alla domanda che Giustino si era posto se Dio poteva prendersi cura “di me e di te e di ognuno in particolare”.

3.9 Il battesimo e l’eucarestia al tempo di Giustino

Torniamo ora alla Prima Apologia per leggere la preziosa testimonianza sul battesimo e sull’eucarestia che vi è contenuta. Volendo presentare agli uomini del suo tempo cos’è la fede cristiana, Giustino si sofferma su questi due sacramenti, poiché essi sono decisivi per capire il cristianesimo. Possiamo tornare ad immaginare che Giustino, nel descrivere l’eucarestia, facesse riferimento proprio a quella che si svolgeva in questi locali al piano superiore di queste terme sulle quali è sorta poi S. Pudenziana.

Scrive Giustino nella Prima Apologia: «A quanti siano persuasi e credano che sono veri gli insegnamenti da noi esposti e promettano di saper vivere coerentemente con questi, si insegna a pregare ed a chiedere a Dio, digiunando, la remissione dei peccati, mentre noi preghiamo e digiuniamo insieme con loro» (Prima Apologia, LXI, 2).

Le espressioni “a quanti siano persuasi e credano” ci riporta all’evangelizzazione ed alla catechesi. Prima di conferire il battesimo i cristiani del II secolo spiegavano la fede e chi ne diveniva persuaso e credeva alla verità poteva ricevere il battesimo. La Prima Apologia parla poi di digiuni perché il battesimo, come avviene ancora oggi per gli adulti, avveniva nella notte di Pasqua e la preparazione ad essa implicava digiuno e penitenza. Si potrebbe dire che vediamo qui l’origine della Quaresima che nasce proprio come itinerario penitenziale in preparazione al battesimo.

Continua Giustino: «Poi vengono condotti da noi dove c'è l'acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell'acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell'universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo» (Prima Apologia, LXI, 3). Ed ancora: «Questo lavacro si chiama ‘illuminazione’, poiché coloro che comprendono queste cose sono illuminati nella mente. E chi deve essere illuminato viene lavato nel nome di Gesù Cristo, crocifisso sotto Ponzio Pilato; e nel nome dello Spirito Santo, che ha preannunziato per mezzo dei Profeti tutti gli eventi riguardanti Gesù» (Prima Apologia, LXI, 8).

Giustino prosegue parlando dell’eucarestia. Una delle strane accuse rivolte ai cristiani era di compiere un rito “cannibalico”, poiché la gente sentiva parlare di un banchetto in cui si mangiava il corpo e si beveva il sangue di Cristo e non aveva la minima idea di cosa fosse l’eucarestia.

Giustino richiama, innanzitutto, l’insegnamento dei quattro vangeli che erano già gli unici riconosciuti in tutte le chiese: «gli Apostoli, nelle loro memorie chiamate vangeli, tramandarono che fu loro lasciato questo comando da Gesù, il quale prese il pane e rese grazie dicendo: ‘Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo’. E parimenti, preso il calice e rese grazie disse: ‘Questo è il mio sangue’; e ne distribuì soltanto a loro» (Prima Apologia, LXVI, 3).

Giustino cerca di presentare il cibo eucaristico, perché i romani potessero averne un’idea più chiara: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato. I battezzati possono mangiare dell’eucaristia, infatti li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso è carne e sangue di quel Gesù incarnato» (Prima Apologia, LXVI, 1-2). Quel pane e quel vino, dice Giustino, sono realmente la vita di Cristo che noi riceviamo.

La Prima Apologia afferma che l’eucarestia era celebrata nel giorno detto “del sole” e presenta i vari momenti della celebrazione: «Nel giorno chiamato ‘del Sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto, cioè il sacerdote, colui che presiede. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate» (Prima Apologia, LXVII, 3-7).

3.10 Il processo di Giustino e dei suoi compagni

Chiudiamo leggendo il processo di Giustino che è un testo molto semplice, ma di una grande bellezza. Sono giunti fino a noi gli atti di vari processi antichi di martiri; molti di questi sono chiaramente leggendari, ampliati per esaltare le loro vicende, mentre altri sono molto essenziali e si presume siano trascrizioni fatte realizzare da parte degli stessi magistrati come documentazione di archivio. Sono perciò estremamente affidabili per conoscere gli antichi processi dei martiri.

A questa categoria appartengono gli atti del processo di Giustino e dei suoi compagni: probabilmente i cristiani poterono ottenere una copia del processo tenutosi in prefettura, con il verbale di ciò che era stato detto. Il testo non ha fronzoli, né ampliamenti leggendari, ma è molto sobrio ed essenziale.

Il processo avvenne dinanzi al prefetto di quel tempo che, come abbiamo già visto, si chiamava Rustico - era il prefetto di Roma ai tempi di Marco Aurelio. La prefettura era situata più o meno nella zona dove sorge oggi S. Pietro in Vincoli, ma gli archeologi non ne hanno trovato ancora l’esatta ubicazione. Il prefetto era la massima autorità responsabile degli eventi che riguardavano la città di Roma.

Così recitano gli atti:

«Dopo il loro arresto, i santi furono condotti dal prefetto di Roma di nome Rustico. Comparsi davanti al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: ‘Anzitutto credi agli dèi e presta ossequio agli imperatori’».

È chiaro subito il capo di accusa: Giustino è accusato di ateismo e deve venerare gli dèi e, forse, lo stesso imperatore per sottrarsi a questa accusa. A Rustico non interessa convincere il cuore e la mente di Giustino, gli basta l’ossequio formale; è sufficiente che Giustino offra sacrifici agli dèi. È palese la differenza con la fede cristiana che riguarda, invece, la libera e convinta decisione dell’uomo.

«Giustino disse: ‘Di nulla si può biasimare o incolpare chi obbedisce ai comandamenti del Salvatore nostro Gesù Cristo’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Quale dottrina professi?’.
Giustino rispose: ‘Ho tentato di imparare tutte le filosofie, poi ho aderito alla vera dottrina, a quella dei cristiani, sebbene questa non trovi simpatia presso coloro che sono irretiti dall’errore’.
Il prefetto Rustico disse: ‘E tu, miserabile, trovi gusto in quella dottrina?’.
Giustino rispose: ‘Si, perché io la seguo con retta fede’.
Il prefetto Rustico disse: ‘E qual è questa dottrina?’.
Giustino rispose: ‘Quella di adorare il Dio dei cristiani, che riteniamo unico creatore e artefice, fin da principio, di tutto l’universo, delle cose visibili e invisibili; e inoltre il Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, che fu preannunziato dai profeti come colui che doveva venire tra gli uomini araldo di salvezza e maestro di buone dottrine. E io, da semplice uomo, riconosco di dire ben poco di fronte alla sua infinita Divinità. Riconosco che questa capacità è propria dei profeti che preannunziano costui che poco fa ho detto essere Figlio di Dio. So bene infatti che i profeti per divina ispirazione predissero la sua venuta tra gli uomini’.
‘Dove vi riunite?’.
Rispose Giustino: ‘Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è così, perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempie il cielo e la terra ed è venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli’.
Riprese Rustico: ‘Insomma dove vi riunite , ovverosia, dove raduni i tuoi discepoli?’. Giustino disse: ‘Abito presso un certo Martino, sopra le terme Timotine, dall’inizio di questo secondo periodo della mia permanenza in Roma. Non conosco altri luoghi di riunioni, all’infuori di quello, dove, se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo facevo partecipe delle divine parole della verità’.
Il prefetto si volse quindi a Caritone: ‘E tu, Caritone, sei pure cristiano?’.
Rispose Caritone: ‘Sì, per volere di Dio’.
Rivolto a Carito il prefetto chiese: ‘Che dici tu, Carito?’.
Carito rispose: ‘Sono cristiana, per dono di Dio’.
Rustico chiese quindi a Evelpisto: ‘Tu pure sei uno di loro, Evelpisto?’.
Evelpisto, schiavo dell’imperatore, rispose: ‘Anch’io sono cristiano, reso libero da Cristo e, per sua grazia, partecipo alla medesima speranza di questi’.
Rivolto a Jerace, il prefetto domandò: ‘Anche tu sei cristiano?’.
Jerace rispose: ‘Sì, sono cristiano poiché venero e adoro lo stesso Dio’.
Il prefetto proseguì l’interrogatorio chiedendo: ‘È stato Giustino a farvi diventare cristiani?’.
Jerace rispose: ‘Sono cristiano da lungo tempo e cristiano rimarrò’.
Peone, alzatosi in piedi, dichiarò: ‘Anch’io sono cristiano’.
Rustico gli chiese: ‘Chi è stato il tuo maestro?’.
Peone rispose: ‘Dai genitori abbiamo ricevuto questa nobile confessione’.
Evelpisto aggiunse. ‘Ascoltavo volentieri i discorsi di Giustino, ma ho appreso anch’io dai miei genitori le parole della verità di Cristo’.
Chiese il prefetto: ‘Dove vivono i tuoi genitori?’.
Evelpisto rispose: ‘In Cappadocia’.
Rivolto a Jerace, Rustico chiese: ‘Dove vivono i tuoi genitori?’.
Egli rispose: ‘Il nostro vero padre è Cristo e la madre la fede in lui; quanto ai miei genitori terreni, sono morti e io sono giunto qui, cacciato dalla città di Iconio, nella Frigia’.
Il prefetto chiese quindi a Liberiano: ‘E Tu, che dici? Sei cristiano? Neppure tu veneri i nostri dei?’. Liberiano rispose: ‘Anch’io sono cristiano: adoro e venero infatti l’unico vero Dio’.
Rustico disse: ‘Sei dunque cristiano?’.
Giustino rispose: ‘Sì, sono cristiano’.
Il prefetto disse a Giustino: ‘Ascolta, tu che sei ritenuto sapiente e credi di conoscere la vera dottrina; se dopo di essere stato flagellato sarai decapitato, ritieni di salire al cielo?’.
Giustino rispose: ‘Spero di entrare in quella dimora se soffrirò questo. Io so infatti che per tutti coloro che avranno vissuto santamente, è riservato il favore divino sino alla fine del mondo intero’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Tu dunque ti immagini di salire al cielo, per ricevere una degna ricompensa?’.
Rispose Giustino: ‘Non me l’immagino, ma lo so esattamente e ne sono sicurissimo’. Il prefetto Rustico disse: ‘Orsù torniamo al discorso che ci siamo proposti e che urge di più. Riunitevi insieme e sacrificate concordemente agli dèi’.
Giustino rispose: ‘Nessuno che sia sano di mente passerà dalla pietà all’empietà’.
Il prefetto Rustico disse: ‘Se non ubbidirete ai miei ordini, sarete torturati senza misericordia’.
Giustino rispose: ‘Abbiamo fiducia di salvarci per nostro Signore Gesù Cristo se saremo sottoposti alla pena, perché questo ci darà salvezza e fiducia davanti al tribunale più temibile e universale del nostro Signore e Salvatore’.
Altrettanto dissero anche tutti gli altri martiri: ‘Fa quello che vuoi; noi siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli’.
Il prefetto Rustico pronunziò la sentenza dicendo: ‘Coloro che non hanno voluto sacrificare agli dèi e ubbidire all’ordine dell’imperatore, dopo essere stati flagellati siano condotti via per essere decapitati a norma di legge’.
I santi martiri glorificando Dio, giunti al luogo solito, furono decapitati e portarono a termine la testimonianza della loro professione di fede nel Salvatore»
.

Si noti, in questo testo straordinario, la testimonianza di uno schiavo che, pur essendo schiavo dell’imperatore, si sente ormai libero. Il martirio avvenne “al luogo solito”, che, però, è difficile da determinare; ho chiesto a vari appassionati di storia romana dove avvenivano le decapitazioni, ma ancora non ho ricevuto una risposta certa.

Giustino non è così solo filosofo, ma anche martire, perché oltre alla sua convinzione filosofica offrì la sua vita per testimoniare che credeva nell’unico Dio e nel suo Figlio, il Logos, rivelazione piena del volto divino. Nel testo del processo, come nelle due Apologie non traspare il minimo odio né contro Rustico, né contro Marco Aurelio che conducono lui ed i suoi compagni al martirio

Per ragioni di tempo non è possibile soffermarci su altri aspetti del pensiero di Giustino. Vi enuncio solo alcune tematiche che potrete vedere voi stessi leggendo i testi che avete in antologia.

Giustino ci conserva il rescritto dell’imperatore Adriano a Minucio Fondano, proconsole d’Asia nel 124/125 d.C., nel quale sono espresse le disposizioni sulla persecuzione dei cristiani vigenti a quel tempo. Non c’è ancora la ricerca d’ufficio dei cristiani, come avverrà in un secondo momento nel corso dell’impero di Marco Aurelio ai tempi del martirio di Giustino, ma si può procedere contro i cristiani solo a partire da un’esplicita accusa che deve essere provata.

Interessante è anche il duplice motivo che da origine alla Seconda Apologia. Giustino torna a scrivere in difesa dei cristiani per rispondere alle polemiche sorte a motivo di una donna che si era separata dal marito che non voleva vivere con lei la fedeltà coniugale; la moglie aveva scoperto la bellezza di questo valore solo dopo essere divenuta cristiana (Tolomeo e Lucio, che l’avevano resa cristiana, erano stati martirizzati per le accuse del marito).

Ma la Seconda Apologia vuole rispondere anche alle accuse che un certo Crescente, filosofo, aveva rivolto a Giustino. Giustino gli risponde scrivendo, fra l’altro:

«se già vi sono noti i miei quesiti e le sue risposte, allora vi è chiaro che egli non conosce nulla delle nostre dottrine; se invece le conosce, non osa (come invece fece Socrate) parlare per timore di chi l'ascolta: allora, come dissi sopra, si dimostra non amante del sapere, ma amante dell'opinione, incapace di apprezzare il bellissimo detto di Socrate: ‘Non si deve anteporre l'uomo alla verità’» (Seconda Apologia, III, 6). Anche in questa occasione concreta, Giustino porta avanti la sua difesa della verità come ciò a cui bisogna massimamente attenersi, dopo averla ricercata.

Meriterebbe un approfondimento anche la questione del rapporto di Giustino con l’ebraismo. Egli è stato talvolta accusato per alcune sue espressioni rivolte contro il popolo ebraico che non riconosceva in Cristo la pienezza della rivelazione e, d’altro canto, egli ci testimonia delle persecuzioni che i cristiani avevano ricevuto, ancora ai tempi di Adriano, sia da parte degli ebrei agli ordini di Bar Kochba, ai tempi della II guerra giudaica, che avevano suppliziato numerosi cristiani che non accettavano di bestemmiare il nome di Cristo, sia in altre circostanze non specificate a cui Giustino fuggevolmente accenna parlando del rapporto fra la Bibbia ebraica e quella greca.

Interessante è anche questo riferimento all’esistenza di una Bibbia ebraica e di una Bibbia greca, tradotta quest’ultima dai rabbini di Alessandria d’Egitto, segno che la cosa doveva far discutere a quel tempo (per un approfondimento di questa questione, vedi sul sito www.gliscritti.it, nella sezione Mostra sulla Bibbia, La Bibbia dei LXX).

4/ San Lorenzo

Sappiamo dallo storico Eusebio di Cesarea che, verso la fine dell’anno 248, scoppiò una persecuzione contro i cristiani. Nacque non per decisione imperiale, ma da moti spontanei della popolazione locale. Nel 248 era imperatore Filippo l’Arabo, che forse fu il primo imperatore cristiano. La cosa è discussa: Eusebio non si sbilancia, ma dalle sue espressioni alcuni studiosi hanno ipotizzato che Filippo sia stato, ben prima di Costantino, il primo imperatore cristiano. Quello che è certo è che, comunque, ebbe una politica benevola verso il cristianesimo.

Nel giro di un anno, però, le cose si rovesciarono. Decio salì al potere nel 249, dopo Filippo, e subito, nell’autunno, cominciò a perseguitare i cristiani. È certo che fece uccidere subito Fabiano, il papa di allora.

Nella primavera dell’anno successivo, il 250, l’imperatore emise un editto che chiedeva a tutti i cittadini dell’impero di recarsi nei templi delle differenti città – pensiamo in particolare ai diversi capitolia, i templi nei quali si venerava la cosiddetta triade capitolina, cioè Giove, Giunone e Minerva, dèi protettori di Roma – per sacrificare alle divinità. Ogni persona doveva munirsi di un documento rilasciato da funzionari addetti ai templi che certificasse che aveva ottemperato al sacrificio. Questi documenti, fra poco ne leggeremo alcuni, vengono chiamati i libelli di Decio.

La norma non riguardava solo i cristiani. Tutti dovevano recarsi ai templi; l’editto doveva essere applicato in tutto l’impero. La norma era, però, direttamente anti-cristiana, poiché aveva lo scopo di far venire alla luce i cristiani: essi erano, infatti, gli unici che si sarebbero rifiutati di sacrificare agli dèi pagani.

È noto che, dai tempi di Cesare, gli ebrei erano esentati dai pubblici sacrifici, perché l’ebraismo era stato dichiarato religio licita (così sanciva il diritto di allora). Il cristianesimo invece, non possedeva questo status e, per questo, i credenti che avessero voluto conservare la loro fedeltà al vangelo, non recandosi ai sacrifici, si sarebbero trovati sprovvisti dei libelli richiesti da Decio.

Abbiamo già visto negli incontri precedenti che, pur essendo il cristianesimo illegale dai tempi del rescritto di Traiano, le persecuzioni non erano però continue: talvolta ad una violenta persecuzione seguiva poi un periodo di tranquillità.

I diversi imperatori adottarono, infatti, politiche diverse verso i cristiani che progressivamente crescevano di numero e di importanza ed anche le modalità delle persecuzioni furono differenti fra di loro. Prima dell’editto di Decio, come abbiamo appena detto, ci fu una persecuzione popolare, senza l’intervento dello stato. Le persecuzioni precedenti prevedevano, invece, che si potesse condurre al martirio un cristiano se qualcuno lo denunciava alle autorità in forma non anonima. Con Decio, invece, la persecuzione diviene globale. Tutti indistintamente sono obbligati a sacrificare agli dèi e coloro che si rifiutano, cioè i cristiani, sono perseguitati.

Nel 251 Decio, però, morì in battaglia e la sua persecuzione si arrestò. Salì al trono, dopo una serie di traversie, Valeriano. In una prima fase del regno (253-257), come ai tempi di Filippo l’Arabo, sembrò che la pace fosse tornata per i cristiani. Poi improvvisamente, nella primavera o nell’estate del 257, Valeriano iniziò una persecuzione ancora più violenta di quella di Decio.

Questa volta non si richiese di ottenere dei libelli, ma si colpì direttamente la chiesa in quanto tale, con la chiusura delle chiese, la confisca dei cimiteri e dei luoghi di riunione, l’invio in esilio dei vescovi, presbiteri e diaconi.
Si noti bene: questo vuol dire che la comunità cristiana aveva già delle chiese, aveva la proprietà di cimiteri, possedeva dei beni, aveva vescovi e sacerdoti che erano pubblicamente conosciuti. Questo fa capire, come vedremo meglio nel prossimo incontro dedicato a Costantino, come sia falso il mito secondo il quale la chiesa sarebbe divenuta una entità pubblica solo per il favore dell’impero dopo l’editto del 313. La chiesa tende invece, per sua natura, ad essere pubblica ed a strutturarsi pubblicamente e proprio per questo Valeriano poté colpirla.
Nell’anno successivo, il 258, Valeriano emanò nuovi decreti che comportavano l’uccisione immediata di vescovi, presbiteri e diaconi, insieme ai senatori e cavalieri che fossero cristiani, con l’esilio delle matrone e la condanna alle miniere o al lavoro forzato dei cesariani trovati fedeli del vangelo.
L’intento era chiaro: dopo la confisca dei beni avvenuta con il primo editto, qui Valeriano aveva come scopo l’eliminazione della gerarchia ecclesiale e di tutti quei laici di alto rango che erano favorevoli alla chiesa.
A motivo di questo secondo decreto di Valeriano, avvenne così prima il martirio di papa Sisto II (257-258) insieme a 4 diaconi, il 6 agosto del 258, e poi il martirio di san Lorenzo, quattro giorno dopo, il 10 agosto. Il 14 settembre dello stesso anno avverrà anche il martirio di san Cipriano, vescovo di Cartagine. Ovviamente, questi sono solo i nomi più illustri di una persecuzione che fu terribile.
Nel 260, però, l’imperatore Valeriano fu fatto prigioniero in guerra e la persecuzione si arrestò. Si giunse così al suo successore Gallieno che cambiò nuovamente politica religiosa. È attestato, infatti, un suo editto (testimoniato in Egitto nel 262, ma probabilmente precedente) che è noto come “editto di restituzione”.
L’editto stabilisce cioè che le proprietà dei cristiani sottratte da Valeriano ritornino alla chiesa. Il cimitero di Callisto, ad esempio, che era proprietà della chiesa di Roma e che era stato sottratto dall’imperatore quando vi furono trovati Sisto con i quattro diaconi recatisi lì probabilmente per celebrare a favore dei defunti, doveva essere restituito ai cristiani. Lo stesso avvenne per gli altri luoghi – cimiteri, catacombe, chiese, ecc. - che appartenevano ai cristiani al tempo di Valeriano e che egli aveva loro sottratti.
L’editto di Gallieno è di fatto il primo riconoscimento ufficiale della Chiesa nello stato romano. Infatti, se formalmente è solo un ritorno allo statu quo precedente, in realtà rappresenta un profondissimo cambiamento giuridico: se lo stato, infatti, restituiva alla chiesa queste proprietà, questo voleva dire implicitamente che riconosceva il diritto della chiesa di avere luoghi di culto e proprietà. L’esistenza dei cristiani e la loro vita comunitaria e pubblica vennero, in qualche modo, riconosciute così per la prima volta da Gallieno.

4.1 La persecuzione di Decio ed i libelli

Vediamo ora i testi che testimoniano degli eventi di quegli anni, poiché sono di grande interesse.

Abbiamo detto che, dopo il tempo relativamente pacifico di Filippo l’Arabo, Decio impose una persecuzione sistematica, imponendo a tutti i cittadini dell’impero di munirsi di libelli che comprovassero l’osservanza dei sacrifici agli dèi. Si sono conservati una quarantina di questi libelli (libellus vuol dire piccolo libro), di questi certificati che attestavano che non si era cristiani, ma “pagani”.

I libelli ritrovati sono scritti su papiro; le copie superstiti provengono non da Roma, ma dall’Egitto, dove il clima secco ha permesso la conservazione di questi documenti che sarebbero altrimenti facilmente scomparsi. Sono testi, quindi, che presentano la situazione geograficamente lontana dell’Egitto imperiale, ma che fanno capire come erano redatti gli analoghi documenti anche a Roma.

Così dice il libellus di Aurelio Sakis e dei suoi due figli (Papiro Michigan, inv. 262):

«Agli ufficiali incaricati dei sacrifici, da Aurelio Sakis, del villaggio di Theoxenis, con i suoi figli Aion ed Heras, residenti temporaneamente in Theadelphia. Siamo sempre stati fedeli nel sacrificare agli dei ed anche ora, alla vostra presenza, in accordo con le disposizioni, abbiamo sacrificato ed offerto libagioni e partecipato al banchetto sacro, e vi preghiamo di certificare questo per noi soprascritti. Possiate voi stare bene.

Noi, Aurelio Serenus ed Aurelio Hermas, vi abbiamo visto sacrificare.

Nel primo anno dell’imperatore Cesare Gaio Messio Quinto Traiano Decio Pio Felice Augusto, Pauni 23
(N.d.R. 17 giugno)»

Così recita, invece, il libellus di Aurelia Bellis e di sua figlia (Papiro Michigan, inv. 263):

«Agli ufficiali incaricati dei sacrifici nel villaggio di Theadelphia, da Aurelia Bellis, figlia di Peteres, e sua figlia Kapinis.
Siamo sempre stati fedeli nel sacrificare agli dei ed anche ora, alla vostra presenza, in accordo con le disposizioni, abbiamo sacrificato ed offerto libagioni e partecipato al banchetto sacro, e vi preghiamo di certificare questo per noi soprascritte. Possiate voi stare bene.

Noi, Aurelio Serenus ed Aurelio Hermas, vi abbiamo visto sacrificare.

Io, Hermas, lo certifico.

Nel primo anno dell’imperatore Cesare Gaio Messio Quinto Traiano Decio Pio Felice Augusto Pauni 27
(N.d.R. cioè 21 giugno)».

Ovviamente chi non era in possesso di questi libelli rischiava la confisca dei beni e l’esilio.

4.2 L’epistolario di Cipriano di Cartagine

La persecuzione di Decio colse la chiesa impreparata: alcuni confessarono con coraggio la fede, rifiutando di recarsi nei templi, ma una gran parte, per evitare la persecuzione, preferì sacrificare agli dèi ed ottenere i libelli che garantivano l’incolumità. Questo evidenzia che il cristianesimo era già diventato una religione popolare, molto diffusa, con gradi diversi di convinzione: molti amavano sì il Signore Gesù, ma non con una forza sufficiente da essere disposti a rinunciare ai propri beni ed a partire in esilio.

Possiamo fare un paragone con la fede delle nostre parrocchie odierne: c’è gente convintissima che forse oggi accetterebbe il martirio, ma ci sono altri che, pur battezzati e sposati in chiesa, pur non sentendosi atei, non avrebbero una fede forte, capace di resistere ad una eventuale persecuzione violenta. E, probabilmente, anche qualcuno molto convinto, dinanzi ad una persecuzione, potrebbe non avere lo stesso la forza di resistere.

Sappiamo di questa reazione non dovunque salda di fronte alla persecuzione di Decio dall’epistolario di Cipriano, vescovo di Cartagine, contemporaneo del diacono Lorenzo e degli altri martiri. Fra l’altro, l’epistolario di Cipriano è il primo epistolario cristiano che si sia completamente conservato, dopo quello neotestamentario di Paolo. Sono superstiti circa ottanta lettere fra quelle scritte da Cipriano e quelle da lui ricevute.

Di queste lettere alcune hanno un’origine o una destinazione romana. Ci permettono così di sapere cosa succedeva a Roma e le situazioni che si generarono via via nel corso delle persecuzioni di Decio e Valeriano.

L’importanza dello scambio di lettere nel cristianesimo è già evidente con S. Paolo. Si potrebbe anzi sostenere a ragione che è stato l’apostolo ad inventare il nuovo genere letterario dell’epistola come testo comunitario e non solo come lettera personale, proprio perché le diverse comunità si inviavano messaggi non strettamente personali, bensì che dovevano essere letti da un ampio numero di persone (cfr. su questo Introduzione all’epistolario paolino, di Giancarlo Biguzzi).

Le lettere di Cipriano, al di là del loro contenuto, mostrano anche che il latino aveva ormai preso piede nella comunità cristiana. Prima di Cipriano la maggioranza degli scritti cristiani, compresi quelli provenienti dall’ambiente romano, erano ancora in greco, perché quella era la lingua maggiormente utilizzata nell’impero non solo negli scambi culturali - era anche la lingua del NT e dei primi teologi cristiani – ma anche nella vita quotidiana. Le lettere di Cipriano sono, invece, tutte in latino; egli scrive dall’Africa e scrive in latino.

L’epistolario mostra l’aggravarsi delle persecuzioni, a cominciare da Decio e proseguendo con Valeriano. Vediamo innanzitutto la lettera ottava che è inviata dal clero di Roma alla chiesa di Cartagine.

La lettera evidenzia la differente reazione delle due chiese alla persecuzione ed, indirettamente, critica Cipriano. Il vescovo di Cartagine, infatti, avendo saputo della persecuzione, si era nascosto per guidare la chiesa da un luogo più sicuro. Si tenga presente che, secondo il NT, Gesù aveva affermato di “fuggire nelle campagne” al sopraggiungere della persecuzione, cioè di non cercare il martirio a tutti costi, ma solamente di saperlo accettare. Ciò che il vangelo assolutamente chiedeva era di non rinnegare mai la fede, anche a costo della vita; non chiedeva, però, di buttarsi per primi nelle braccia dei persecutori.

Cipriano si era rifugiato nelle campagne, in una villa privata. La lettera romana scrive allora: «Siamo stati informati dal suddiacono Cremenzio, che ci avete inviato con incarico preciso, che il venerato vescovo Cipriano si è rifugiato in un luogo segreto: voi ne approvate il comportamento, giustificandolo con il fatto che si tratta di persona di rilievo».

La lettera continua: «Ma badate di non dimenticare che infuria la lotta, che Dio permette nel mondo, […] noi siamo i capi della comunità e con la funzione di pastori dobbiamo difendere quel gregge».

La comunità di Roma non condanna Cipriano, ma rende noto che Fabiano, i presbiteri ed i diaconi (e probabilmente anche Lorenzo) non si sono allontanati dalle chiese. Fabiano, il pontefice in carica, era stato anzi catturato ed ucciso, testimoniando con il martirio la fede.

La lettera evidenzia, insomma, una diversità di scelte pastorali dinanzi alla persecuzioni che i romani vogliono porre in evidenza. Si legge così, sempre nella lettera ottava, la citazione del vangelo di Giovanni: «Il mercenario che non è pastore e al quale le pecore non appartengono vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde». Per questo «non abbandoniamo la comunità dei fratelli». È un invito indiretto a Cipriano a non nascondersi, a ritornare a Cartagine, anche a costo di subire il martirio.

4.3 I martiri, i confessori ed i lapsi

La lettera ottava racconta, al contempo, ciò che avveniva a Roma: «Alcuni già stavano salendo al Campidoglio per compiere il sacrificio a cui erano forzati: siamo riusciti a trattenerli». Possiamo immaginare la scena dai Fori, sotto il Campidoglio: alcuni cristiani, forse famiglie, padri o madri, forse catechisti o preti, per paura si stavano recando a sacrificare ed altri cercavano di dissuaderli ed invitarli ad avere forza.

Continua la lettera inviata da Roma: «Alcuni sono crollati perché o si trattava di persona in vista o erano stati colti da umano timore». I più ricchi, i senatori o quelli che erano più in alto nelle cariche, non se l’erano sentita di perdere il loro posto ed avevano sacrificato agli dèi pagani. Leggiamo ancora: «È evidente che si sono separati da noi; tuttavia non li abbiamo abbandonati: anzi abbiamo rivolto esortazioni, e tuttora le rivolgiamo, perché facciano penitenza, se mai sono in grado di ricevere il perdono da chi può accordarlo. Vogliamo evitare che diventino peggiori, qualora si vedano da noi trascurati». Il clero si rendeva conto della difficoltà della situazione ed aveva comunque deciso di non abbandonare a se stessi gli apostati, cioè coloro che avevano rinnegato la fede.

Cipriano risponde alla lettera ottava, con l’epistola nona, che è scritta ai presbiteri ed ai diaconi perché il nuovo papa evidentemente non era ancora stato eletto: «È vostra cura darmi esauriente ragguaglio del suo [di Fabiano] transito glorioso» dove per transito glorioso è da intendersi il passaggio al cielo, glorioso a motivo del martirio. E continua: «Ho intensamente gioito al pensiero che una morte parimenti degna di ogni lode ne ha suggellato la perfetta conduzione della vita». Cipriano dichiara qui di essere stato colpito dalla fedeltà della testimonianza di Fabiano, fedele alla sua missione fino alla fine.

Cosa doveva succedere allora in quei giorni, come ci è testimoniato da questo scambio epistolare? A motivo della persecuzione di Decio alcuni cristiani venivano uccisi: questi erano propriamente i martiri.

Altri si rifiutavano di sacrificare agli idoli, ma venivano lo stesso risparmiati dai romani: questi erano i confessores, cioè coloro che avevano “confessato” la fede, anche a rischio della vita, a volte perdendo i loro beni o subendo l’esilio, altre volte invece rilasciati incolumi o, al contrario, dopo essere stati torturati.

C’erano, infine, i lapsi, letteralmente “coloro che erano caduti, cioè quelli che avevano rinnegato la fede ed avevano sacrificato agli idoli. I lapsi erano ulteriormente suddivisi in libellatici (se avevano ottenuto solo il libello, senza compiere atti di culto pagani), sacrificati (se avevano anche compiuto sacrifici agli idoli), turificati (se avevano offerto incenso), traditores (se avevano consegnato le Sacre Scritture).

I forti nella fede erano così i martiri ed i confessori. Nella lettera di Luciano a Celerino, conservatasi sempre nell’epistolario di Cipriano, il primo scrive al secondo – erano entrambi vescovi – esprimendo l’ammirazione per la testimonianza ricevuta: «Hai potuto persino intimorire il gran serpente, precursore dell’anticristo, con quelle espressioni che Dio ti ha ispirato e che io ben conosco. Tu l’hai vinto, come uno che porta amore alla fede e nutre geloso affetto alla disciplina del Cristo». Celerino è così, evidentemente un confessore.

È evidente che Decio cercava ancora di evitare la strage, limitandosi a voler ottenere che i cristiani rinnegassero la fede. In molti casi i magistrati, anche dinanzi a coloro che non rinnegavano il vangelo, erano quindi tolleranti. È noto anche il caso di Origene, che fu imprigionato e torturato nel 250, perché probabilmente, data la sua fama, si sperava di ottenere la sua apostasia per scandalizzare molti. Egli, però, si mantenne fedele, non venne ucciso e fu infine liberato; morì, probabilmente nel254, in seguito alle ferite riportate nella tortura.

4.4 La questione dei lapsi

Quando la persecuzione di Decio terminò, con la morte dell’imperatore, subito emerse il problema dei lapsi che chiesero di essere riammessi nella chiesa.

È ancora Cipriano nel suo scritto De lapsis a farci capire cosa accadeva a Cartagine e, quindi, anche a Roma. Egli scrive: «La pace è stata finalmente restituita alla Chiesa, e con l'aiuto e la protezione di Dio abbiamo riacquistato la nostra tranquillità» (De lapsis, I). Evidentemente Decio era morto e Valeriano non aveva ancora iniziato la sua persecuzione che si sarebbe rivelata ancora più terribile; anzi niente doveva lasciarla presagire. I cristiani vivevano di nuovo apparentemente in pace, senza pericoli imminenti.

Cipriano continua affermando che la persecuzione di Decio non aveva avuto il potere di togliere ai cristiani la libertà di amare l’unico Dio, poiché anche nella prigione i martiri ed i confessori avevano continuato a professare la fede nel Signore Gesù, senza mai rinnegare la fede: «La vostra voce di credenti ha confessato il Cristo, nel quale ha confessato di aver creduto una volta per tutte; le vostre mani sante, che non hanno toccato nulla, se non le opere di Dio, hanno resistito ai sacrifici sacrileghi; la vostra bocca, santificata dai cibi divini, ha rifiutato il contatto degli dèi profani e delle parti lasciate agli idoli, dopo la comunione con il corpo e il sangue del Signore; il vostro capo è rimasto libero da quel velo empio e scellerato con il quale là si coprivano le teste prigioniere dei pagani che sacrificavano; la vostra fronte, pura per il sigillo di Dio, non poté tollerare la corona del diavolo, ma si conservò immacolata per la corona del Signore. Con quale gioia vi accoglie felice nel suo seno la madre Chiesa, di ritorno dal combattimento!» (De lapsis, 2).

Il vescovo continua, però, affermando che c’è un grande dispiacere, quello dei lapsi, c’è «una sola tristezza che rattrista queste celesti corone dei martiri[...]: il nemico violento ha strappato una parte delle nostre viscere, l'ha distrutta e l'ha gettata a terra» (De lapsis, 4). Notate la bellissima espressione: il vescovo chiama i lapsi “le nostre viscere”: esse “ci sono state strappate”. È un’immagine straordinaria dell’unità del corpo di Cristo, della Chiesa. Cipriano utilizza la metafora paolina del corpo, pensata inizialmente per dire l’unità dei diversi carismi, per parlare qui dei peccatori.

«Sono necessarie le lacrime più delle parole, per esprimere il dolore che sta straziando e affliggendo il nostro corpo, per elencare i molteplici lutti che tormentano il nostro popolo, un tempo numeroso» (De lapsis, 4). Afferma cioè che ora si deve piangere perché si era in tanti e molti hanno rinnegato.

«Perché un pastore è maggiormente colpito dalla ferita inferta al suo gregge. Li stringo al mio petto uno per uno, partecipo al peso del loro lutto, del loro dolore» (De lapsis, 4). Cipriano cerca di darsi una motivazione per questa defezione che individua in un rilassamento che, a suo dire, la chiesa aveva vissuto: «Ciascuno si preoccupava di aumentare il patrimonio, nei sacerdoti non c'era più una pietà sincera […] gli uomini ostentavano una barba ben curata, le donne una bellezza artificiosa – cioè il popolo cristiano si lasciava irretire dalla bellezza - il vincolo matrimoniale univa credenti e gentili - cioè chi era cristiano si sposava con chi non lo era e cessava di vivere la propria fede e si adeguava alla vita comune - si spergiurava; con spavalda arroganza si disprezzavano i capi della Chiesa – con linguaggio odierno, potremmo dire che la gente parlava male dei laici, dei preti, dei cardinali, e così via - ci si calunniava reciprocamente con accuse piene di veleno, si era sempre in disaccordo e perfino ci si odiava profondamente» (De lapsis, 6).

Cipriano, insomma, afferma che i lapsi erano caduti perché già prima la loro fede si era impoverita e descrive impietosamente lo stato della chiesa prima della persecuzione affermando che c’era in essa “chi si odiava”!

Si noti che siamo ancora cinquant’anni prima di Costantino. Si intravede – lo ripetiamo - quanto sia falsa quella visione di una chiesa che si corrompe a causa della pace costantiniana. Il fatto è ben più complesso, poiché l’uomo è sempre peccatore: Cipriano descrive una ben povera chiesa già ai tempi della persecuzione di Decio, ma, insieme, ricorda in essa lo splendore dei confessori e dei martiri.

Cipriano continua: «Quale vergogna! Certuni hanno rimosso ogni cosa e hanno dimenticato tutto. Non aspettarono neppure di essere catturati per salire al sacrificio, né attesero di essere interrogati per negare […] correvano spontaneamente al foro» (De lapsis, 8). Cipriano ricorda qui che alcuni, a Cartagine, ma come si è visto lo stesso successe anche a Roma, non aspettarono neppure che l’ufficiale incaricato chiedesse loro di sacrificare, ma addirittura, per paura delle conseguenze, corsero a sacrificare senza ancora essere ricercati.

«Anche i bambini furono presi o trascinati dalle mani dei genitori e persero già da fanciulli ciò che avevano ottenuto subito alla prima origine, alla prima nascita» (De lapsis, 9). È chiaro che il battesimo dei bambini è già un fatto ovvio – in realtà, lo è dalle origini, dal NT stesso. I bambini delle famiglie cristiane venivano battezzati subito; nel corso della persecuzione di Decio gli stessi genitori avevano preso i loro bambini piccoli, già battezzati, e li avevano condotti a sacrificare mettendo loro in bocca del cibo o delle bevande consacrate agli idoli. Abbiamo visto come questo sia attestato dai libelli superstiti, dove si dice i genitori portavano anche i loro piccoli ai templi, per ottenere anche per loro il libellum prescritto.

Ecco allora che nella chiesa una parte aveva affrontato con coraggio la persecuzione ed un’altra parte era “caduta”. Davanti a questa situazione nacquero due posizioni estreme che, come vedremo, saranno entrambe condannate dalla chiesa: da un lato quella di coloro che affermavano che l’apostasia era facilmente perdonabile e volevano dare il perdono e riammettere nella chiesa senza chiedere una seria penitenza, e, dall’altra, quella dei rigoristi, di coloro cioè che pensavano che i lapsi non appartenevano più alla chiesa, a motivo del loro peccato.

Fra i lassisti c’erano anche alcuni confessori che scrivevano dei “contro-libelli” con cui, in base alla loro autorità di confessores, pur essendo laici, ritenevano di poter autorizzare i lapsi a ricevere nuovamente la comunione, riammettendoli nella chiesa.

Cipriano stesso lo racconta in una lettera inviata a Roma e letta sicuramente anche dal diacono Lorenzo: «Il nostro fratello Luciano, appartenente anch’egli al numero dei confessori… si è fatto da tempo promotore della distribuzione di un gran numero di biglietti, scritti da lui stesso in nome di Paolo [N.d.R. Paolo è un altro dei confessori]» (Lettera 27 di Cipriano ai presbiteri e diaconi di Roma). Cipriano è chiaramente contrario a questo modo di procedere, in primo luogo perché i lapsi debbono prima compiere un itinerario penitenziale e poi perché solo il vescovo ed i presbiteri possono conferire l’assoluzione.

Nel De lapsis scrive che «il medico deve incidere la ferita», che bisogna cioè aiutare i lapsi a comprendere la gravità di ciò che hanno commesso; essi debbono confessare il peccato e fare penitenza perché questo li aiuti ad essere migliori: infatti, «è incapace quel medico che esita a toccare con mano la parte interna delle ferite gonfie e preda dell'infezione; inoltre mentre la conserva, accresce l'infezione celata nelle parti più nascoste del corpo» (De lapsis, 14).

L’amore con cui Cipriano ritiene debbano essere circondati i lapsi non significa quindi che si debba evitare di far loro richieste anche impegnative e, quindi, tali da “provocare dolore”. Bisogna toccare i punti doloranti, anche se questo fa sul momento male, bisogna toccare la ferità, altrimenti non la si guarisce. «Codesta faciloneria non dona la pace, la toglie; non concede la comunione, ma impedisce di giungere alla salvezza» (De lapsis, 16).

La proposta impegnativa della fede ai lapsi deve essere fatta «finché il rimorso e la remissione del peccato, compiuta dai sacerdoti, è gradita a Dio» (De lapsis, 29). Coloro che hanno rinnegato devono cioè camminare nella penitenza finché si arriva al perdono. I confessores non erano allora autorizzati – afferma Cipriano - a riammettere nessuno nella comunione. Alcuni di loro si credevano “migliori” per aver affrontato vittoriosamente la persecuzione, ma non erano assolutamente autorizzati ad ergersi per questo a guide dei lapsi, i quali dovevano, invece, seguire il cammino ordinario della chiesa, pur potendo guardare ai martiri ed ai confessori come veri testimoni di Cristo.

Si badi bene che, nella teologia della chiesa, la penitenza che accompagna il perdono sacramentale dei peccati non è assolutamente una punizione, bensì un aiuto offerto per riprendere la via del bene. Anche oggi dobbiamo saper annunziare che la penitenza proposta dal confessore è un gesto, meglio un itinerario, che aiuta a trasformare in bene le cadute precedenti. La penitenza, insomma, serve a sostenere il cammino di chi deve ricominciare a seguire la vita cristiana dopo aver peccato.

Ma esisteva, come si è detto, anche un secondo gruppo che viene sconfessato da Cipriano. Questo secondo “schieramento” di cristiani affermava che i lapsi erano perduti per sempre, che erano ormai irreparabilmente fuori dalla comunione della chiesa: chi era caduto nel peccato grave, rinnegando la fede, chi si era allontanato dalla Chiesa per la sua fede troppo debole che non aveva resistito alla persecuzione, non era più un vero cristiano e non era più ammesso alla comunione. Così alcuni confessores affermavano che solo chi aveva affrontato la persecuzione era un vero cristiano, mentre gli altri non lo erano più o, forse, non lo erano mai stati.

Dalle fonti sappiamo che il punto di riferimento di questa corrente si chiamava Novaziano; egli era un prete di Roma che aveva poi raggiunto Cartagine, la diocesi di Cipriano. Novaziano aveva cercato di diventare papa, senza riuscirvi perché gli era stato preferito Cornelio.

Novaziano era un rigorista ed affermava che soli cristiani sono le persone veramente convinte e forti nella fede, mentre i “deboli nella professione del nome di Gesù” non dovevano essere considerati cristiani. Dice Eusebio di lui, o meglio scrive di lui citando Dionigi, vescovo di Alessandria: «Come se non avessero più speranza di salvezza neppure compiendo ogni cosa in vista di una conversione sincera e di una confessione pura, si mise a capo di una setta particolare i cui adepti, nell’arroganza della loro mente, si dichiarano Catari» (Storia ecclesiastica, VI, 43,1-12). Cataro in greco vuol dire letteralmente puro. Questa era la posizione di Novaziano: solo i puri possono accedere alla comunione della chiesa, gli altri se ne debbono tornare alla propria casa.

Eusebio continua, sempre citando Dionigi, e trasmettendoci la dura condanna del vescovo alessandrino contro Novaziano: «Novato nella sua dottrina antifraterna e disumanissima volle che fossero considerati estranei alla Chiesa, mentre i fratelli che erano caduti nella disgrazia bisognava curarli e guarirli con le medicine della penitenza». Novaziano è definito “disumanassimo e antifraterno”: la sua fede, apparentemente pura, gli ha fatto perdere la sua umanità.

Nel prosieguo della notizia, Eusebio conserva un documento preziosissimo della disputa contro Novaziano nel quale si parla della chiesa di Roma. Si tratta di una lettera di papa Cornelio a Fabio vescovo di Antiochia, epistola che risale all’anno 251-253, nella quale si dice: «Qual vendicatore del vangelo (N.d.R. cioè difensore del vangelo) non sapeva che deve esserci un solo vescovo in una Chiesa? Eppure non ignorava (come avrebbe potuto?) che in essa vi sono quarantasei presbiteri, sette diaconi, sette suddiaconi, quarantadue accoliti, cinquantadue esorcisti, lettori e sacrestani, più di millecinquecento vedove e poveri».

Nel riferire che Novaziano aspirava all’episcopato di Roma, quando a Roma già c’era un vescovo (e non ce ne potevano essere due!), ci offre, di passaggio, uno straordinario spaccato che ci informa sulla composizione della comunità di Roma alla metà del III secolo, nel passaggio di tempo fra Decio e Valeriano. C’erano in quell’anno a Roma un vescovo della città – cioè un solo papa - quarantasei preti – oggi a Roma siamo circa novecento preti - sette diaconi, dei quali cinque saranno uccisi nella successiva persecuzione di Valeriano tra i quali Lorenzo, sette suddiaconi, quarantadue accoliti che portavano la comunione ai malati che non potevano venire all’eucarestia, cinquantadue fra esorcisti incaricati della preghiera di esorcismo per la liberazione dal maligno, lettori e sacrestani ed, infine, millecinquecento fra vedove e poveri che venivano assistiti dalla carità della chiesa. I sette diaconi e suddiaconi erano incaricati, in particolare, del loro servizio.

Torniamo ai rigoristi ed alla loro guida, Novaziano. Nella lettera 55, scritta al vescovo Antoniano, Cipriano spiega che la misericordia della chiesa non deve mai mancare nemmeno verso gli apostati, perché essi sono come dei feriti che debbono essere strappati alla morte: «È ai feriti, invece, che abbiamo la responsabilità di prestare il nostro soccorso e le nostre cure. Per questo è da evitare l’equivoco di considerare come morti quelli che ci appaiono a terra feriti a fondo dalla funesta persecuzione; dobbiamo, all’opposto, vederli ancora tra la morte e la vita. Se fossero realmente morti, non sarebbe possibile tra di essi il levarsi di confessori e di martiri. È certo comunque che in costoro sussiste qualcosa che, in vista della penitenza cui sono disposti, può riprendere forza per lo sviluppo nella fede; dalla penitenza poi la crescita vigorosa s’arma per la virtù. Ma il rafforzamento non può prodursi in uno che si lascia cogliere dalla disperazione» (Lettera 55) che può sopraggiungere se la chiesa lo tratta “con estraneità” o “inflessibilmente”.

Cipriano prosegue presentando la lotta che si compie intorno a colui che ha peccato: «Ecco, giace qui riverso ai nostri piedi un fratello ferito, colpito sul campo dall’avversario: da un lato il diavolo si sforza d’uccidere l’uomo che ha già ferito; dall’altro il Cristo ci ammonisce a non voler lasciar morire chi lui stesso ha già soccorso con la sua redenzione. Tra i due, a chi vogliamo porci accanto; dalla parte di chi vogliamo stare?» (Lettera 55).

Ecco allora la scelta equilibrata e cristiana portata avanti dal vescovo di Cartagine: «il fatto che la Chiesa si presentasse chiusa per loro, avrebbe potuto alienarli al mondo e costringerli a vivere da pagani. Dall’altra parte, la rigidezza dell’evangelo non ne risultava svigorita al punto di riammettere nella comunione con leggerezza. Come effetto, si sarebbero destate invece penitenza prolungata e doloranti invocazioni alla clemenza del Padre. [...] Se noi respingiamo la disponibilità alla penitenza di quelli che in qualche modo nutrono fiducia che la loro colpa possa essere perdonata, tosto saranno trascinati all’eresia o nello scisma dalle lusinghe del diavolo, insieme a moglie e figli, che finora sono riusciti a preservare da danni. In tal caso, il giorno del giudizio, ci sarebbe addebitato il rifiuto di curare una pecorella ferita e di averne lasciato perdere molte sane, a motivo delle piaghe d’una sola» (Lettera 55).

Questa è la decisione che ne consegue: «Per scongiurare il pericolo, fratello carissimo, abbiamo così stabilito: in modo tuttavia non conclusivo, si riammettano alla Chiesa i “libellatici”, previo esame della situazione di ciascuno; nell’imminenza della morte, si provveda a soccorrere spiritualmente anche chi abbia fatto l’offerta di un sacrificio», per non correre il rischio di perdere «coloro che neppure la feroce persecuzione è riuscita a disperdere: e questo a causa della durezza e dell’insensibilità che è in noi» (Lettera 55).

Un passaggio molto bello di Cipriano mostra che bisogna sempre offrire la possibilità della salvezza al peccatore, altrimenti egli cessa di camminare nel bene: «[Se dicessimo solamente:]“Potrai compiere tutto quanto ha riferimento alla pace, ma non avrai mai la riconciliazione che vai cercando”! Chi tosto non ne morrebbe; chi addirittura non verrebbe meno di disperazione; chi non svierebbe l’impegno dal proposito della penitenza? Pensi che un contadino avrebbe l’animo di lavorare, se tu gli dicessi: “Coltiva la campagna con tutta la perizia di cui sei capace sui campi, attendi con diligenza alle varie colture: mai però metterai la falce alla messe, mai pigerai i grappoli della vendemmia, non olive trarrai dal tuo oliveto, né alcun frutto coglierai dagli alberi”? Oppure pensi tu che seguirebbe il tuo consiglio, se dicessi a uno che cerchi di persuadere a comperare delle navi, perché ne faccia uso per la mercatura: “Compra, fratello, legname delle foreste più pregiate, connetti la carena con assi tratte da querce scelte e robuste; provvedi a che la nave ti sia ultimata ed armata di tutto punto, con timone sartie vele; ma, una volta che l’allestimento sarà compiuto, non potrai arraffare i proventi dei noli e delle sue corse sui mari”? È tagliare la strada alla contrizione, è sbarrare la via al pentimento: mentre nelle Scritture il Signore Iddio accarezza chi a lui fa ritorno nel pentimento, noi, nella nostra insensibile asprezza, con l’impedirne il frutto soffochiamo quel pentimento» (Lettera 55).

La chiesa del tempo riuscì a mostrare che Novaziano, con il suo rigorismo, in fondo ergeva se stesso a regola della comunità, come testimonia un testo di papa Cornelio (pontefice dal marzo 251, succeduto a Fabiano, morto martire), riportato nella Storia ecclesiastica di Eusebio, che così denuncia “la peggiore delle assurdità di Novato” [N.d.R. qui Eusebio confonde Novato con Novaziano]: «Dopo le oblazioni, distribuendo a ciascuno la sua parte, nell’atto di consegnargliela costringe quegli infelici a giurare, invece di rendere grazie. Prende nelle sue mani quelle di colui che riceve il sacramento e non le lascia prima che questi abbia giurato dicendo (userò le sue parole): “Giurami per il sangue e il corpo del Signore nostro Gesù Cristo che non mi abbandonerai mai per seguire Cornelio”. E il poveretto non si può comunicare se prima non pronuncia l’imprecazione contro se stesso, e mentre riceve il pane, invece di dire amen, ripete: “Non tornerò a Cornelio”» (Storia ecclesiastica, VI, 43,18-22).

Cipriano, invece, da parte sua, rassicurò i credenti spiegando che gli scismi sembrano dotati di una forza enorme, che però si indebolisce nel tempo: «[Novaziano] non ha imparato che all’inizio sempre gli scismatici sono fervidi d’attività, ma che in seguito non è loro possibile né mantenere costante né accrescere la promozione delle loro illecite iniziative: anzi tosto falliscono insieme all’astio di competizione che li aizza» (Lettera 55).

4.5 L’unità della chiesa

Proprio queste tensioni all’interno della chiesa spinsero Cipriano a scrivere in favore dell’unità della chiesa un importante trattato dal titolo De catholicae ecclesiae unitate.

Il vescovo di Cartagine presenta l’unità della chiesa con varie immagini: «Uno solo è l’episcopato, che ciascuno possiede tutto intero, partecipandone di una piccola parte. Una sola è la Chiesa, che si estende ampiamente fra le genti, con incredibile fecondità: come molti sono i raggi del sole, ma la luce è unica, molti sono i rami dell’albero, ma uno solo è il tronco piantato con solide radici; così, quando da una sola sorgente sgorgano parecchi ruscelli, anche se sembra diffondersi per l’abbondanza e la generosità delle sue acque, tuttavia nella sua origine si mantiene l’unità. Stacca un raggio di solo dal suo corpo luminoso; l’unità della luce non potrà dare germogli. Interrompi un ruscello dalla sua sorgente; il ruscello interrotto inaridisce. Così anche la Chiesa, ricoperta dalla luce del Signore, estende i suoi raggi per tutto il mondo, tuttavia è una sola luce, che si diffonde ovunque e non si spezza l’unità del corpo» (De catholicae ecclesiae unitate, 4).

Cipriano si sofferma, in particolare, a descrivere la chiesa come la madre dei credenti: «una sola l’origine, una sola la madre feconda e ricca di figli: nasciamo dal suo grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo vivificati dal suo spirito» (De catholicae ecclesiae unitate, 4). Ed ancora: «Non può più avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre. Se si fosse potuto salvare chiunque fosse fuori dall’arca di Noè, si potrebbe ugualmente salvare chi fosse stato fuori dalla Chiesa» (De catholicae ecclesiae unitate, 6).

Cipriano spiega anche che la preghiera accetta a Gesù è la preghiera concorde, cioè quella che nasce dalla comunione con i fratelli: Cristo che «attribuisce moltissimo non alla quantità, ma all’unanimità di quelli che pregano, afferma “Se due di voi si accorderanno sulla terra”. Infatti ha posto prima l’unanimità, ha premesso la concordia nella pace, ci ha insegnato con fermezza e lealtà ad andare d’accordo tra noi. Ma come può andare d’accordo con qualcuno, quello che non è d’accordo con il corpo stesso della Chiesa e con tutti i fratelli? Come possono riunirsi nel nome di Cristo due o tre che noi sappiamo essere separati da Cristo e dal suo Vangelo? Infatti non noi da loro, ma loro da noi si sono allontanati e poiché le eresie e gli scismi sono nati dopo, hanno abbandonato la guida e l’origine stessa della verità, mentre formano differenti piccole comunità loro proprie [...] possono ottenere molto di più pochi con una preghiera concorde, che molti con una preghiera discorde» (De catholicae ecclesiae unitate, 12).

Ed anche il martirio, per Cipriano, non può essere definito cristiano se non è accompagnato dall’amore che sempre ha cura dell’unità: «Non può presentarsi come martire chi non ha conservato la carità fraterna [...] Chi non possiede amore, non possiede Dio; l’affermazione del beato apostolo Giovanni è: “Dio è amore e chi rimane in Dio resta nell’amore e Dio rimane in lui”. Non possono rimanere in Dio quelli che non hanno voluto essere concordi nella Chiesa di Dio. Ardano pure tra le fiamme oppure perdano le loro vite, consegnati al fuoco o gettati in pasto alle bestie feroci; per loro non ci sarà la corona della fede, ma il castigo per l’infedeltà, non la fine gloriosa dei virtuosi sostenitori della fede, ma la morte dei disperato. Si può uccidere una persona di tal genere, non la si può coronare per la sua vittoria» (De catholicae ecclesiae unitate, 14).

4.6 La questione del battesimo

Cipriano è noto anche per aver rifiutato, contro il parere del vescovo di Roma, il battesimo di coloro che non erano in piena comunione con la chiesa; papa Stefano gli risponderà affermando che il battesimo resta vero anche se è conferito da un cristiano non cattolico.

Nel contesto di questa diatriba ci fornisce un’ulteriore testimonianza dell’antichissima pratica di battezzare i bambini: «Se il Signore assicura nell’evangelo: “Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime degli uomini, ma a salvarle” (Lc 9,56), per quanto sta in noi dobbiamo agire in modo che possibilmente nessuna anima si perda. Inoltre, che cosa potrà mai mancare a uno che è stato plasmato nel seno materno dalle mani di Dio? È vero che ai nostri sensi e soprattutto alla vista i neonati crescono manifestamente, con il crescere dei giorni; ma tutto ciò che è opera divina è già subito perfetto, in forza della potenza e dell’atto creativo di Dio» (Lettera 64).

Ed ancora: «Si tratta di conformità di fronte a Dio, nell’ambito spirituale: gli uomini sono infatti senza distinzione, di una sola grossezza e di una sola età, perché tutti creature di Dio. Solo il trascorrere del tempo può determinare un diverso accrescimento del corpo: differenza allora può esserci, sì, secondo un criterio temporale, ma non secondo Dio. A meno che non si voglia sostenere che anche la grazia, nell’atto di essere comunicata ai battezzati, possa venire elargita in maggiore e minore quantità, a seconda dell’età di chi la riceve. Al contrario: lo Spirito Santo è egualmente dato in dono a tutti, non secondo lo sviluppo di ciascuno, ma in forza della bontà e dell’amorevolezza del Padre. Non si verifica di fronte a Dio discriminazione di persone, e neppure d’età: a tutti si mostra padre, a tutti distribuendo con equilibrata suddivisione la sua grazia. [...] A nessuno si nega la grazia del battesimo: a maggior ragione non deve esserne privato un bambino, che, nato com’è da poco, non può aver commesso colpa alcuna; ha soltanto contratto, già al primo istante di vita, come discendente di Abramo, l’antico mortale contagio; può ottenere allora tanto più agevolmente il perdono, in quanto non di peccati suoi si tratta, ma di peccati d’altri. È questa la ragione, fratello carissimo, per la quale nel sinodo abbiamo deliberato che noi non si debba tener lontano alcuno dal battesimo e dalla grazia di Dio, che per tutti è misericordioso benevolo e amorevole. È stretto obbligo rispettare e praticare queste norme nei confronti di tutti; soprattutto è nei riguardi dei bambini – sì, anche dei neonati – che riteniamo si debbano osservare: essi sopra ogni altro meritano il nostro soccorso e la divina misericordia, perché, fin dal momento della nascita, attraverso vagiti e pianti altro non fanno che pregare» (Lettera 64).

Vale la pena citare un testo di qualche decennio prima, dello stesso ambiente cartaginese, scritto da Tertulliano. Tertulliano era cristiano, ma anche lui rigorista; egli riteneva che non si dovessero battezzare i bambini (il fatto che si occupi di questa questione è segno che ai suoi tempi il battesimo dei bambini era molto diffuso). Poiché egli riservava il battesimo alle persone dotate di una fede matura, si trovava poi nella necessità di definire quali fossero le caratteristiche di una tale persona: un tratto che non può mancare a chi è maturo, secondo Tertulliano, è la definitività delle scelte affettive, cioè del matrimonio o della verginità. Tertulliano affermava così che chi non si era ancora sposato o consacrato, doveva rimandare il battesimo!

Così Tertulliano, su questo: «Certo il Signore dice: “Lasciate che i bambini vengano a me”. Ma vengano quando sono più grandi, quando sono in grado di apprendere, quando viene mostrato Colui verso il quale vanno. Che diventino cristiani quando saranno in grado di conoscere Cristo! Perché questa età innocente si affretta a ricevere la remissione dei peccati? Agiremo con più cautela nelle questioni terrene che in quelle spirituali e a chi non vengono affidati i bene terreni affideremo quelli divini? Siano almeno in grado di chiedere la salvezza, perché sia chiaro che l’hai concessa a uno che l’ha chiesta! Per una ragione non meno importante devono essere rinviate anche le donne non sposate, perché per loro la tentazione è in agguato, per le vergini a causa della loro età matura, per le vedove a causa della loro instabilità, finché non si siano sposate o non siano divenute più forti nella pratica della continenza. Se comprendono il peso del battesimo, avranno più timore di riceverlo che di differirlo: la fede integra è sicura della salvezza!» (De baptismo, 18, 5-6, in Tertulliano, Opere catechetiche, Città nuova, Roma, 2008, pp. 191-193; il testo è di poco anteriore all’anno 213).

La posizione favorevole al battesimo dei bambini, sostenuta da Cipriano, ci mostra come la chiesa di allora si fosse orientata, rigettando posizioni come quelle di Tertulliano, che pure era stato teologo stimato ed ascoltato.

4.7 La persecuzione di Valeriano e la morte di S. Lorenzo

Ci siamo soffermati su questi documenti, perché ci descrivono il contesto nel quale è cresciuto ed è vissuto il diacono Lorenzo. Poiché di lui e della sua vita non si sono conservati scritti o notizie particolari, tranne quelle della sua testimonianza di carità e del suo martirio. I fatti che abbiamo descritto ci aiutano almeno a comprendere la situazione storica nella quale egli ha vissuto.

È lo stesso Cipriano a fornirci notizie precise sulla persecuzione di Valeriano, che porterà al martirio San Lorenzo. In una prima fase della sua persecuzione, come si è detto, Valeriano cominciò a colpire direttamente la chiesa, ma lo fece attraverso la chiusura e la confisca degli edifici di culto e la condanna all’esilio ed alle miniere.

Cipriano testimonia questa prima fase, nella lettera 76, scritta ai fratelli condannati ai lavori forzati nelle miniere: «Non ci meraviglia per niente che voi, quali vasi d’oro e d’argento, abbiate avuto la ventura d’essere assegnati alle miniere, dove cioè l’oro e l’argento sono presenti naturalmente; semmai il meraviglioso sta nel fatto che ora è mutata la caratteristica delle miniere: i luoghi, che da natura avevano prima il compito di provvedere oro e argento, hanno ora iniziato a riceverne. Ai vostri piedi anche i ceppi hanno posto; membra fortunate, fatte tempio di Dio, sono state legate con obbrobriose catene, nell’illusione che con il corpo si potesse inceppare anche lo spirito, o che l’oro che voi siete potesse corrompersi al contatto del ferro» (Lettera 76).

Cipriano ci informa poi, nel prosieguo dell’epistolario, della seconda fase della persecuzione di Valeriano che prevede la pena di morte per i cristiani. Cipriano aveva inviato una missiva a Roma per conoscere le nuove disposizioni imperiali e, avendone ricevuto notizia, ne informa il vescovo Successo: «Vi do notizia che sono tornati gli informatori che vi ho inviato a Roma perché indagassero la verità circa il rescritto che ci riguarda [...] La realtà è questa: Valeriano, nel rescritto inviato al Senato, stabilisce che i vescovi, i presbiteri e i diaconi siano giustiziati immediatamente; i senatori, i personaggi di rilievo e i cavalieri romani siano degradati della loro dignità e spogliati dei beni: se restano ostinati nel dichiararsi cristiani, siano decapitati; le matrone, oltre la perdita dei beni, siano cacciate in esilio; i cesariani infine – senza alcuna distinzione se abbiano, cioè emessa anteriormente la confessione o la emettano ora – subiscano la confisca dei beni e, ammanettati e marchiati, siano inviati in possedimenti demaniali» (Lettera 80).

La lettera prosegue, raccontando del martirio del papa Sisto II e di quattro dei suoi diaconi: «Vi informo che Sisto fu martirizzato in un cimitero il 6 agosto, insieme a quattro diaconi. Non basta: ogni giorno più, i prefetti di Roma rendono più crudele questa persecuzione: mandano a morte quanti sono loro denunciati, e i loro beni vengono confiscati a vantaggio dell’erario. Vi chiedo che vi interessiate di trasmettere queste informazioni agli altri nostri colleghi, affinché con esortazioni possano fortificare i fratelli in ogni luogo e prepararli alle lotte spirituali» (Lettera 80).

Il cimitero dove Sisto II fu catturato – e dove avvenne probabilmente anche la cattura di Lorenzo – è quello detto oggi di S. Callisto. La chiesa ne aveva la proprietà ed i diaconi erano incaricati delle sepolture, con particolare attenzione a quelle dei poveri, aiutati dai fossores che le eseguivano concretamente.

Lorenzo non era fra i primi quattro diaconi martirizzati con il papa e, saputa la notizia, dovette comprendere che anche il suo momento era giunto. Fu, infatti, martirizzato solo quattro giorni dopo, il 10 di agosto.

La leggenda si è impadronita degli ultimi giorni di vita di Lorenzo, ma, dietro le immagini che la tradizione ci riporta, sono chiaramente intuibili gli eventi stessi.

Innanzitutto, la ripetuta affermazione che Lorenzo presentò all’imperatore i poveri come la vera ricchezza che egli era tenuto a custodire. Così recita il racconto medioevale della Legenda aurea di Jacopo da Varagine, nell’ampia notizia dedicata al santo:

«Giunsero al tribunale, e lì riprese l’interrogatorio sul tesoro; Lorenzo chiese una sospensione di tre giorni, e Valeriano gliela concesse, ponendolo sotto la custodia di Ippolito. Lorenzo approfittò dei tre giorni per raccogliere poveri, zoppi e ciechi e li presentò all’imperatore al palazzo sallustiano e disse: “Ecco questi sono i nostri tesori: sono tesori eterni, non vengono mai meno, anzi crescono. Sono distribuiti a ciascuno, e tutti li hanno: sono le loro mani a portare al cielo i tesori”».

Lorenzo come diacono – la tradizione gli conferisce il titolo di “arcidiacono” – era sì il responsabile della cassa della comunità di Roma, ma lo era non per altro scopo che per quello del bene di tutti i fratelli ed, in particolare, dei più poveri. Il vero tesoro era, insomma, costituito non dai beni in sé, ma da coloro ai quali erano destinati. Si manifesta qui una caratterizzazione peculiare del diaconato che è quella dell’animazione della carità, come si evidenzia già negli Atti degli Apostoli: i diaconi sono sì ministri dell’annunzio della Parola e della liturgia, ma loro peculiare è il servizio dei poveri ed il conseguente coinvolgimento nelle questioni economiche ed amministrative dei beni della chiesa [1].

Un secondo particolare che contraddistingue la tradizione della morte di Lorenzo è quella del modo del suo martirio: egli sarebbe stato arso vivo dopo essere stato disteso su di una graticola, che è il suo attributo iconografico più famoso. Sappiamo che questo tipo di tortura e di morte era conosciuto a quel tempo, poiché lo ritroviamo un secolo prima, nel martirio dei cristiani di Lione, al tempo di Ireneo. La lettera consegnata da Ireneo alla comunità romana per dare notizia degli eventi di Lione afferma che fra i vari supplizi patiti prima di morire dai santi Blandina, Attalo, Maturo e Santo, c’era proprio quello del fuoco: «Alla fine subirono il supplizio della sedia di ferro rovente, friggendo sulla quale i loro copri esalavano odore di grasso» (Lettera dei martiri di Lione, 1,37).

4.8 Il martirio di S. Cipriano

Proprio Cipriano può aiutarci ancora una volta ad intuire quali dovettero essere i sentimenti di Lorenzo all’avvicinarsi del martirio. Cipriano, infatti, fu martirizzato un mese dopo Lorenzo e, come il diacono romano, comprese dall’aggravarsi della persecuzione che stava per giungere l’ora della prova. Decise, questa volta, di non rifugiarsi nelle campagne, ma di attendere i carnefici.

Nella lettera 81 Cipriano dichiara di essere ormai pronto: «Di qui, da questo luogo ritirato e nascosto, aspetto che il proconsole torni a Cartagine: sono pronto ad ascoltare le prescrizioni imperiali circa i cristiani, siano laici o vescovi; preparato a dire le parole che in quel momento il Signore vorrà che io dica» (Lettera 81).

Si sono conservati gli Atti del martirio di Cipriano; essi sono autentici come quelli di Giustino che abbiamo visto nel precedente incontro (cfr. San Giustino filosofo e martire), come si può evincere dalla loro essenzialità che rifugge dal leggendario. Lorenzo dovette subire un analogo processo e sostenere domande simili, poiché le prescrizioni imperiali prevedevano lo stesso genere di procedimento.

«Il proconsole Galerio Massimo disse al vescovo Cipriano: “Tu sei Tascio Cipriano?”.
Il vescovo Cipriano rispose: “Sì, sono io”.
Il proconsole Galerio Massimo disse: “Sei tu che ti sei presentato come capo di una setta sacrilega?”.
Il vescovo Cipriano rispose: “Sono io”.
Galerio Massimo disse: “I santissimi imperatori ti ordinano di sacrificare”.
Il vescovo Cipriano disse: “Non lo faccio”.
Il proconsole Galerio Massimo disse: “Rifletti bene”.
Il vescovo Cipriano disse: “Fà ciò che ti é stato ordinato. In una cosa così giusta non c’é da riflettere”.
Galerio Massimo, dopo aver conferito con il collegio dei magistrati, a stento e a malincuore pronunziò questa sentenza: “Tu sei vissuto a lungo sacrilegamente e ti sei aggregato moltissimi della tua setta criminale, e ti sei costituito nemico degli déi romani e dei loro sacri riti. I pii e santissimi imperatori Valeriano e Gallieno Augusti e Valeriano nobilissimo Cesare non riuscirono a ricondurti all’osservanza delle loro cerimonie religiose. E perciò, poiché sei risultato autore e istigatore dei peggiori reati, sarai tu stesso di esempio a coloro che hai associato alle tue scellerate azioni. Col tuo sangue sarà sancito il rispetto delle leggi”.
E dette queste parole, lesse ad alta voce da una tavoletta il decreto: “Ordino che Tascio Cipriano sia punito con la decapitazione”.
Il vescovo Cipriano disse: “Rendiamo grazie a Dio”
» (Atti, 3-6; CSEL 3, 112-114).

Il testo continua con il racconto del martirio, avvenuto nelle campagne intorno Cartagine, e la successiva sepoltura ad opera della comunità cristiana, così come dovette avvenire per Lorenzo, il cui corpo fu portato qui, dove ora sorge la sua basilica:

«Cipriano fu condotto nella campagna di Sesti e qui si spogliò del mantello e del cappuccio, si inginocchiò a terra e si prostrò in orazione al Signore. Si tolse poi la dalmatica e la consegnò ai diaconi, restando con la sola veste di lino, e così rimase in attesa del carnefice. Quando poi questo giunse, il vescovo diede ordine ai suoi di dargli venticinque monete d’oro. Frattanto i fratelli stendevano davanti a lui pannolini e fazzoletti. Quindi il grande Cipriano con le sue stesse mani si bendò gli occhi, ma siccome non riusciva a legarsi le cocche del fazzoletto, intervennero ad aiutarlo il presbitero Giuliano e il suddiacono Giuliano.
Così il vescovo Cipriano subì il martirio e il suo corpo, a causa della curiosità dei pagani, fu deposto in un luogo vicino dove potesse essere sottratto allo sguardo indiscreto dei pagani. Di là, durante la notte, fu portato via con fiaccole e torce accese e accompagnato fino al cimitero del procuratore Macrobio Candidiano che é nella via delle Capanne presso le piscine. Dopo pochi giorni il proconsole Galerio Massimo morì. Il santo vescovo Cipriano subì il martirio il 14 settembre sotto gli imperatori Valeriano e Gallieno, regnando però il nostro Signore Gesù Cristo a cui é onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen
» (Atti, 3-6; CSEL 3, 112-114).

Si noti la straordinaria finale che menziona il regno di Valeriano, ma, soprattutto, quello di Cristo Signore: «Il santo vescovo Cipriano subì il martirio il 14 settembre sotto gli imperatori Valeriano e Gallieno, regnando però il nostro Signore Gesù Cristo a cui é onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen». 

5/ Sant'Agostino

5.1/ La dignità dell’uomo

da Sant’Agostino, Confessioni libro X 8. 15

Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch'io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l'Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.

8. 15. Magna ista vis est memoriae, magna nimis, Deus meus, penetrale amplum et infinitum. Quis ad fundum eius pervenit? Et vis est haec animi mei atque ad meam naturam pertinet, nec ego ipse capio totum, quod sum. Ergo animus ad habendum se ipsum angustus est, ut ubi sit quod sui non capit? Numquid extra ipsum ac non in ipso? Quomodo ergo non capit? Multa mihi super hoc oboritur admiratio, stupor apprehendit me. Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et Oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt se ipsos nec mirantur, quod haec omnia cum dicerem, non ea videbam oculis, nec tamen dicerem, nisi montes et fluctus et flumina et sidera, quae vidi, et Oceanum, quem credidi, intus in memoria mea viderem spatiis tam ingentibus, quasi foris viderem. Nec ea tamen videndo absorbui, quando vidi oculis, nec ipsa sunt apud me, sed imagines eorum, et novi, quid ex quo sensu corporis impressum sit mihi.

5.2/ Il desiderio 

Spe salvi: «Che cosa è, in realtà, la “vita”? E che cosa significa veramente “eternità”? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe propriamente questo - la “vita” vera - così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo “vita”, in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – “la vita beata”, la vita che è semplicemente vita, semplicemente “felicità”. Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. “Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare”, egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. “C'è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza” (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti (Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL 44, 68-73)».

La lettera a Proba
2. 3. Per amore della vita vera devi quindi considerarti anche desolata nella vita di quaggiù per quanto grande possa essere la felicità in cui ti trovi. Come infatti la vera vita è quella, al cui confronto questa nostra, da noi tanto amata, per quanto piacevole e lunga, non merita d'esser chiamata vita, così anche la vera consolazione è quella che promette Dio parlando per bocca del profeta: Gli darò il vero conforto, la pace superiore ad ogni altra pace. Senza questo conforto, in tutte le altre gioie terrene si trova più desolazione che consolazione. Quale consolazione infatti possono arrecare le ricchezze, le più alte dignità e gli altri beni di tal fatta per i quali i mortali, prima della vera felicità, si credono felici, quando è meglio non averne bisogno che segnalarsene, dal momento che ci tormenta più il timore di perderli, una volta che si sono acquistati, che non l'ardore di acquistarli? Gli uomini non diventano buoni per mezzo di tali beni, ma coloro che lo sono diventati con altri mezzi fanno sì che quei beni siano buoni usandone bene. I veri conforti non sono dunque in tali beni, ma piuttosto là dov'è la vera vita, poiché l'uomo deve diventar beato mediante ciò stesso con cui diventa buono.
- 4. Ma anche in questa vita i buoni arrecano, a quanto pare, non piccoli conforti. Se infatti ci angustiasse la povertà, se ci addolorasse il lutto, ci rendesse inquieti un malanno fisico, ci rattristasse l'esilio, ci tormentasse qualche altra calamità, ma ci fossero vicine delle persone buone che sapessero non solo godere con quelli che godono, ma anche piangere con quelli che piangono, che sapessero rivolgere parole di sollievo e conversare amabilmente, allora verrebbero lenite in grandissima parte le amarezze, alleviati gli affanni, superate le avversità. Ma questo effetto è prodotto in essi e per mezzo di essi da Colui che li rese buoni col suo Spirito. Nel caso invece che sovrabbondassero le ricchezze, che non ci capitasse nessuna perdita di figli o del coniuge, che fossimo sempre sani di corpo, che abitassimo nella patria preservata da sciagure, ma convivessero con noi individui perversi fra i quali non ci fosse nessuno di cui fidarci e da cui non dovessimo temere e sopportare inganni, frodi, ire, discordie, insidie, non è forse vero che tutti questi beni diventerebbero amari e insopportabili e che nessuna gioia o dolcezza proveremmo in essi? Così in tutte le cose umane nulla è caro all'uomo senza un amico. Ma quanti se ne trovano di casi fedeli, da poterci fidare con sicurezza riguardo all'animo e alla condotta in questa vita? Nessuno conosce un altro come conosce sé stesso: eppure nessuno è tanto noto nemmeno a sé stesso da poter essere sicuro della propria condotta del giorno dopo. Perciò, benché molti si facciano conoscere dai loro frutti e alcuni arrechino veramente letizia al prossimo col vivere bene, altri afflizione col vivere male, tuttavia, a causa dell'ignoranza e dell'incertezza degli animi umani, molto giustamente l'Apostolo ci ammonisce a non condannare alcuno prima del tempo, finché non venga il Signore e illumini i segreti delle tenebre e sveli i pensieri del cuore e allora ognuno riceverà lode da Dio.
- 5. Ordunque, nelle tenebre di questa vita nella quale siamo come esuli lontani da Dio, durante tutto il tempo che camminiamo nella fede senza avere la visione (di Dio), l'anima del cristiano deve considerarsi come abbandonata al fine di evitare che cessi di pregare e d'imparare a tenere l'occhio della fede rivolto alle parole delle sante e divine Scritture, come a una lucerna posta in un luogo oscuro, fino a tanto che non splenderà il giorno e la stella del mattino sorga nei nostri cuori. La sorgente ineffabile, per cosi dire, di questa lucerna è la luce che splende nelle tenebre ma in modo tale da non essere accolta dalle tenebre. Per vederla, i nostri cuori devono essere purificati dalla fede: Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio; e: Sappiamo che, quando egli apparirà, saremo simili a lui, poiché lo vedremo com'è. Allora, solo dopo la morte, ci sarà la vera vita, e dopo la desolazione la vera consolazione. Sarà quella vita a liberare l'anima nostra dalla morte, sarà quella consolazione a liberare gli occhi nostri dalle lacrime e, poiché allora non vi sarà alcuna tentazione, lo stesso salmo segue dicendo: Hai preservato i miei piedi da caduta. Se non vi sarà poi tentazione, non vi sarà più neppure orazione, in quanto non vi sarà più aspettazione di un bene promesso, ma la contemplazione d'un bene concesso. Perciò dice: Sarò accetto al Signore nella regione dei vivi dove saremo allora, non nel deserto dei morti, dove siamo ora. Siete morti, dice infatti l'Apostolo, e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio; quando si manifesterà Cristo, vita vostra, allora anche voi vi manifesterete con lui nella gloria. Questa in realtà è la vera vita che i ricchi devono conquistare con le opere buone: in essa risiede la vera consolazione. Ora una vedova, poiché è priva d'una tal consolazione anche se ha figli e nipoti e governa piamente la propria casa procurando che tutti i familiari ripongano in Dio la loro speranza, dice tuttavia nella sua preghiera: L'anima mia ha sete di Te e la mia carne è assetata di Te, qui sulla terra deserta senza strade e senz'acqua, cioè in questa vita destinata a finire con la morte, quali che siano i conforti umani che l'arricchiscono, quali che siano i nostri compagni di viaggio, qualunque sia l'abbondanza di beni che la ricolmano. Tu ben sai quanto siano incerti tutti questi beni mondani; e anche se non fossero incerti, che cosa sarebbero a paragone della felicità che ci è stata promessa?
- 6. Poiché tu, vedova ricca e nobile e madre di sì numerosa famiglia, mi hai posto dei quesiti sulla preghiera, io ti ho dette queste cose affinché, anche se in questa vita restino con te fedeli e pieni di premure i tuoi familiari, tu abbia a considerarti desolata in quanto non hai ancora conseguita la vita in cui risiede il vero e sicuro conforto, in cui si compierà ciò che è detto nella profezia: Fin dal mattino siamo stati saziati della Tua misericordia, abbiamo esultato e gioito in tutti i giorni nostri. Ci hai colmati di gioia in compenso dei giorni nei quali ci hai afflitti, degli anni nei quali abbiamo visto sventure.

5.3/ Il piacere spirituale

da Sant’Agostino, Discorso 150,3.7
Tutti i filosofi, senza distinzione, attraverso lo studio, la ricerca, la discussione, l'esperienza della vita cercarono di assicurarsi una vita felice. Questo fu l'unico motivo della ricerca filosofica; ma penso che i filosofi hanno in comune con noi anche questo. Infatti, se voglio sapere da voi per quale ragione avete creduto in Cristo, perché siete divenuti Cristiani, ognuno sinceramente mi risponde: Per la vita felice. Ebbene, l'aspirazione alla vita felice è comune ai filosofi e ai Cristiani... Poiché ritengo per certo che è proprio di tutti gli uomini aspirare alla vita felice, volere la vita felice, bramare, desiderare, ricercare assiduamente la vita felice, riconosco che è assai inadeguato aver detto comune ai filosofi e ai Cristiani l'aspirazione alla vita felice; dovevo infatti attribuirla a tutti gli uomini, proprio a tutti, buoni e cattivi…
Pertanto l'Epicureo, ammettendo presente nel corpo il sommo bene dell'uomo, ripone in sé la speranza. Ma veramente lo Stoico, facendo dipendere dall'anima il sommo bene dell'uomo, almeno lo ha fatto inerente alla realtà migliore dell'uomo; anch'egli, però, ha fondato in sé la speranza. Ma non è che uomo, sia l'Epicureo, sia lo Stoico. Maledetto dunque chi ripone la sua speranza nell'uomo. Che dire allora? Posti ora i tre: l'Epicureo, lo Stoico, il Cristiano davanti ai nostri occhi, interroghiamoli ad uno ad uno. Di', Epicureo, che cosa rende felice l'uomo. Risponde: Il piacere della carne. Di', Stoico. La virtù dell'animo. Di', Cristiano. Il dono di Dio.

“Desiderium sinus cordis” E' il desiderio che rende il cuore profondo (Tract in Joh 40.10)

“Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l'anima è attirata anche dall'amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione.
Che significa essere attratti dal piacere? “Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4). Esiste dunque una certa delizia del cuore, per cui esso gode di quel pane celeste. Il poeta Virgilio poté affermare: Ciascuno è attratto dal proprio piacere. Non dunque dalla necessità, ma dal piacere, non dalla costrizione, ma dal diletto. Tanto più noi possiamo dire che viene attirato a Cristo l'uomo che trova la sua delizia nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, dal momento che proprio Cristo è tutto questo. Forse che i sensi del corpo hanno i loro piaceri e l'anima non dovrebbe averli?...
Dammi uno che ami, e capirà quello che sto dicendo. Dammi uno che arda di desiderio, uno che abbia fame, che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, uno che sospiri alla fonte della patria eterna, dammi uno che sperimenti dentro di sé tutto questo ed egli capirà la mia affermazione. Se, invece, parlo ad un cuore freddo e insensibile, non potrà capire ciò che dico.
Tu mostri ad una pecora un ramoscello verde e tela tiri dietro. Mostri ad un fanciullo delle noci, ed egli viene attratto e là corre dove si sente attratto: è attirato dall'amore, è attirato senza subire costrizione fisica; è attirato dal vincolo che lega il cuore. Se, dunque, queste delizie e piaceri terreni, presentati ai loro amatori, esercitano su di loro una forte attrattiva - perché rimane sempre vero che ciascuno è attratto dal proprio piacere - come non sarà capace di attrarci Cristo, che ci viene rivelato dal Padre Che altro desidera più ardentemente l'anima, se non la verità? Di che cosa dovrà essere avido l'uomo, a qual fine dovrà desiderare che il suo interno palato sia sano nel giudicare il vero, se non per saziarsi della sapienza, della giustizia, della verità, della vita immortale?” (Trattati su Giovanni 26,4-6)

5.4/ Il peccato originale e l’origine del male

da Sant’Agostino, Commenti ai Salmi, 54,19
In molti punti gli eretici sono con me, e in qualche altro no; ma a causa di questi pochi punti in cui si separano da me, non serve loro a nulla l'essere d'accordo con me in tutto il resto.

dalle Confessioni, libro VII, capp. XI-XVI (Agostino sta narrando come uscì dall'inganno dei manichei che affermavano l'esistenza di due principi, di due dèi, uno del bene ed uno del male)
Diressi il mio sguardo alle cose sotto di Te, e vidi che né sono in modo assoluto né in modo assoluto non sono: per un verso sono, perché sono da Te, per un altro non sono, perché non sono ciò che Tu sei. Infatti è veramente solo ciò che immutabilmente permane. (...)
E mi fu chiaro che le cose soggette a corruzione sono buone; in quanto non potrebbero corrompersi né se fossero il sommo bene, né se non avessero nulla di buono. Perché, se fossero il sommo bene, sarebbero incorruttibili; se non avessero nulla di buono, mancherebbe l'oggetto della corruzione.
La corruzione implica infatti danno, e se non diminuisce il bene, non c'è danno. Dunque, o la corruzione non reca alcun danno, il che non è possibile, o, il che è certissimo, tutto ciò che si corrompe subisce una diminuzione di bene. Se poi saranno private di ogni bene, assolutamente non saranno. Se infatti esistessero, e non potessero più subire alcuna corruzione, sarebbero migliori, perché permarrebbero incorruttibili. Ora, che cosa si potrebbe dire di più mostruoso, che private di ogni bene sarebbero migliori?
Dunque, se venissero private di ogni bene, non sarebbero nulla; dunque, finché sussistono, sono buone. Ma allora, tutto ciò che esiste è buono, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché se fosse una sostanza, sarebbe un bene: o una sostanza incorruttibile, e dunque un grande bene, o una sostanza corruttibile, che, non essendo buona, non può essere soggetta a corruzione.
Così vidi e mi fu chiaro che Tu hai fatto tutte le cose buone, e che inoltre non esistono sostanze che non siano state fatte da Te. Ma non le facesti tutte uguali; però, in quanto esistono sono tutte buone, e, nel loro complesso, ottime, perché il nostro Dio «ha creato tutto in perfezione». (...)
Del resto, per Te il male non esiste, e non solo per Te, ma anche per tutto ciò che hai creato, poiché nulla dal di fuori può irrompervi e turbare l'ordine che Tu hai stabilito. È vero che alcuni elementi, siccome non si armonizzano con certi altri, sono giudicati non buoni; ma quegli stessi invece s'accordano poi con altri e per questo sono buoni; anzi sono buoni in se stessi. E tutte le cose che non si armonizzano tra loro, sono però in accordo con la parte inferiore del mondo, quella che chiamiamo terra, a cui si confà un cielo velato di nubi e spazzato dai venti.
Lungi da me ormai il pensiero: «O se tutte codeste cose non esistessero!». Se vedessi codeste sole, potrei certo desiderarne di migliori, ma pur di quelle dovrei darti lode. (...) Non potevo ormai desiderare cose migliori; passandole tutte in rassegna, certo trovavo che quelle che stanno in alto sono più perfette di quelle che stanno in basso; ma ad un giudizio più equilibrato vedevo che il tutto era anche più eccellente che non le parti superiori. (...)
Mi rivolsi poi a considerare le altre cose e vidi che da Te hanno il loro essere e in Te la loro limitazione, non come in un luogo, ma molto diversamente, poiché Tu le racchiudi tutte nella verità, come in una mano, e, in quanto esistono, sono tutte vere; né si ha falsità se non quando si crede che esista ciò che non esiste.
E vidi pure che le cose non solo s'accordano ciascuna con il proprio luogo, ma anche con il proprio tempo, e che Tu, il solo Eterno, non hai incominciato ad operare dopo incalcolabili periodi di tempo, perché i periodi di tutti i tempi, i passati ed i futuri, non andrebbero e non verrebbero, se Tu non operassi, eternamente stabile.
L'esperienza insegna che non c'è da meravigliarsi che il pane, così gradito ad un palato sano, riesca disgustoso ad un palato malato e che la luce sia penosa per gli occhi sofferenti, mentre è piacevole per gli occhi normali. Così anche la tua giustizia è odiosa ai malvagi; e non meno la vipera o il verme, che tu creasti come beni convenienti alle parti inferiori della tua creazione: alle quali sono convenienti i malvagi stessi, e tanto più quanto più sono dissimili da Te, mentre diventano tanto più armonizzanti con gli elementi superiori quanto più si fanno simili a Te.
Mi domandai che cosa fosse la malvagità: e trovai non una sostanza, ma il traviamento della volontà dalla somma sostanza, da Te, o Dio, volontà ripiegantesi su ciò che vi è di più basso, gonfiata al di fuori sotto la spinta delle sue interiora.

“Nessuno in questa carne, nessuno in questo corruttibile corpo, nessuno sulla faccia di tutta la terra, in questa esistenza malevola, in questa vita piena di tentazioni, nessuno può vivere senza peccato”

“Che essi (pelagiani e celestiani) e la loro purezza restino fuori”

nel conflitto con Giuliano: “L'antico peccato: nulla fa parte in maniera più ovvia della nostra predicazione del cristianesimo. Tuttavia nulla è più impenetrabile al nostro intelletto”

5.5/ La Chiesa

“Colui che entra (in chiesa) è soggetto a vedere ubriachi, avari, marioli, giocatori, adulteri, fornicatori, gente che porta amuleti, assidui clienti di stregoni e astrologi... Egli deve essere avvertito che le stesse folle che si pigiano nelle chiese in occasione delle festività pagane riempiono i teatri nelle feste pagane”

“Le nuvole tuonano che la casa del Signore sarà edificata su tutta la terra e queste rane se ne stanno sedute ai bordi dei loro stagni e gracidano: Noi siamo i soli cristiani”

Agostino additava un triplice compito al cristiano:

-divenire santo

-coesistere con i peccatori

-correggerli e istruirli

5.6/ Nutre l’anima solo ciò che la rallegra

«In verità nutre l'anima solo ciò che la rallegra» (Confessioni XIII,27.42).

 «Di fatto la collera è designata con un termine in latino, con un altro termine in greco e con altri termini ancora in altre lingue. Ma l’espressione del viso di un uomo adirato non è né greca né latina. Pertanto se uno dice: Iratus sum (Sono adirato), non tutti lo capiscono, ma solo i latini; al contrario, se la passione di un animo in collera si manifesta sul volto e ne cambia l’espressione, tutti si accorgono di trovarsi di fronte ad un uomo adirato» (De catechizandis rudibus 2.3).

«Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro discorso vibra della gioia stessa (hilaritas) che proviamo e riesce più facile e più gradito. Per ciò non è cosa difficile raccomandare da dove e fino a dove si debba narrare ciò che è insegnato come materia di fede; o come si debba variare la narrazione di modo che sia ora più breve, ora più lunga, ma sempre risulti compiuta e perfetta; e quando occorra valersi di quella più breve e quando di quella più lunga. In quali modi piuttosto ciò debba essere fatto perché il catechista insegni con gioia (infatti, quanto più sarà pieno di gioia tanto più riuscirà accetto presso chi lo ascolta): è questo il massimo impegno a cui occorre dedicarsi. Ed in proposito la regola è evidente e nota. Se Dio, infatti, ama chi dispensa con gioia i beni materiali, quanto più amerà chi dispensa in egual modo i beni spirituali?» (De catechizandis rudibus 2.4).

dalle risposte del cardinal Carlo Maria Martini sul Corriere della sera del 27 dicembre 2009
Sant’Agostino diceva: «gaudens catechizet», cioè si faccia la catechesi con gioia.