Tutti cercano Dio benché non sia lontano da ciascuno di noi, di mons. Rino Fisichella

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /01 /2014 - 15:04 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di mons. Rino Fisichella pubblicato in L. Andreatta (ed.), Cristo Salvatore. “Gesù Cristo, unico salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre”, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 62-77. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (26/1/2014)

Indice

La pretesa di definitività

Quando l'autore della lettera agli Ebrei scriveva che «Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre» (Eb 13,8), aveva ben chiaro dinanzi a sé le implicanze e le conseguenze di questa sua affermazione. Egli intendeva richiamare i primi cristiani, anzitutto, ad essere consapevoli del valore della fede e indicava loro la strada che li avrebbe portati all'incontro personale con Cristo. La fede, infatti, non è una teoria astratta, alla stessa stregua di una filosofia; essa, al contrario, rappresenta l'incontro con la persona di Gesù Cristo che chiede di lasciare tutto per seguire lui. La motivazione che viene data per compiere questa scelta così radicale è il suo porsi come la parola ultima e definitiva offerta all'uomo per trovare il senso alla propria esistenza.

Gesù di Nazareth, infatti, avanza la pretesa di essere Dio. Le parole che pronuncia sono quelle che ha udito presso il Padre e le opere che lui compie sono le stesse che ha visto presso il Padre (Gv 5,19). Egli è il figlio che vive dell'intimità, nel seno del Padre (Gv 1,18) e con lui condivide tutto (Gv 17,10). Perfino ai discepoli che si dirigono a Emmaus, domandandosi il senso degli avvenimenti di quei giorni, egli «spiega a partire da Mosè e in tutte le scritture» ciò che si riferiva a lui (Lc 24,13-35). La sua consapevolezza di essere l'ultimo invito rivolto all'umanità è una costante in tutta la sua esistenza (Mt 5,17-18). La sua predicazione non lascia spazi di dubbio in proposito. Dinanzi a lui si deve permanere nello stato dell'attesa continua e della vigilanza (Mt 25,1-13). Quando egli arriva, bisogna che trovi tutti pronti per poter entrare con lui nel regno. Chi ha deciso di porsi alla sua sequela, infine, non può permettersi di attardarsi su altre cose. La sua chiamata è radicale perché obbliga a lasciare tutto (Lc 14,26); al discepolo la forza viene data perché si sente chiamato per nome come mai nessuno lo aveva fatto prima (cf. Mt 4,19; 9,9). È una chiamata di amore che coinvolge e investe l'esistenza a tal punto che si è trasformati fino a morire per lui.

Questi fatti narrati dai testi sacri non possono essere tralasciati facilmente, senza la dovuta considerazione, perché posseggono un valore universale. Quando si è troppo abituati a porsi dinanzi alla Scrittura considerandola come parola di Dio, si corre il rischio di dimenticare, a volte, che anche un non credente può porsi dinanzi ad essa cercando di scoprire qualcosa che abbia senso e valore per la vita. La figura di Cristo non può essere limitata ai soli credenti. Di fatto, si sono date di lui diverse letture nel corso dei secoli che hanno segnato la storia del pensiero. I "volti" di Cristo hanno abbracciato la storia di questi venti secoli. La letteratura, l'arte, il cinema... ogni attività creativa dell'uomo ha voluto confrontarsi con la persona di Gesù. Perché?

Il mistero dell'uomo nel mistero di Gesù Cristo

Una prima risposta può provenire da un significativo testo del Concilio Vaticano II che afferma:

«In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione... Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli d'Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato. Agnello innocente, col suo sangue sparso liberamente ci ha meritato la vita, e in lui Dio ci ha riconciliati con se stesso e tra noi e ci ha strappati dalla schiavitù del diavolo e del peccato... Soffrendo per noi non solo ci ha dato l'esempio perché seguiamo le sue orme, ma ci ha anche aperta la strada; mentre noi la percorriamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato... Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale e assimilato alla morte di Cristo, andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza. E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. Tale e così grande è il mistero dell'uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell'enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Cristo è risorto, distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita, affinché, figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abbà, Padre!»

Questo denso testo conciliare sintetizza, per alcuni versi, l'intero kerigma e permette di cogliere la novità cristiana. Gesù ha talmente assunto l'umanità da poter parlare a ogni uomo in ogni tempo. Egli realizza in sé il desiderio rinchiuso nell'intimo di ogni creatura: poter tendere verso l'assoluto. Ogni uomo, insomma, vede in Gesù di Nazareth il compimento di quell'umanità che si vorrebbe realizzare e non si riesce. La presenza perenne di un divario tra ciò che si vorrebbe e ciò che si attua, tra ciò che si desidera e ciò che concretamente si 'realizza, fanno sperimentare all'uomo la sua contraddizione. Puntando gli occhi su Cristo, invece, egli vede un'esistenza coerente, libera e realizzata.

È qui che si pone, in qualche modo, il problema perenne che investe l'esistenza personale: il senso dell'esistenza e la ricerca di un compimento che soddisfi la ricerca di un'intera vita. In questo orizzonte, si incontrano tutti, credenti e non credenti, accomunati dal dover dare una risposta alla domanda più qualificante e significativa della vita.

Per paradossale che possa sembrare, la prima domanda che sorge, ruota intorno a noi stessi. Dinanzi a Gesù di Nazareth ci si pone inevitabilmente la domanda: «Chi sono io?». Come se il tempo non fosse mai trascorso dagli albori dell'umanità, ancora una volta, si è posti dinanzi alla domanda di sempre: «Chi è l'uomo?» e quale relazione lo lega con il mistero di Dio? Domanda perenne che, a partire dall'oracolo di Delfi: «Gnothi seauton», sostiene tutta la storia del pensiero antico. «Conosci te stesso» è la provocazione ultima che giunge all'uomo; essa, infatti, costituisce l'espressione definitiva del sapere personale sia perché tocca l'essenza e la profondità del proprio indagare, sia perché fa emergere la tensione più profonda del soggetto quando scopre di essere lui stesso oggetto di conoscenza. Tutto sarebbe facile, in questo scenario, fino a quando non ci si incontra con l'annuncio del mistero dell'incarnazione di Dio.

A partire da qui, la domanda sul «Chi è l'uomo?» trova la risposta, ma contemporaneamente, inizia la «tragedia dell'umanesimo»[1]. Il punto nodale rimane quello dell'accettazione dell'incontro con il mistero di Dio o il suo rifiuto; l'incarnazione, infatti, non ha paragoni. Essa rimane come il punto di discernimento definitivo che impone la decisione radicale. Qui la teologia vede l'apice di ogni prospettiva antropologica[2]; ma da qui, nello stesso tempo, si dipana la ragnatela che progressivamente, a partire dalla conclusione del Medio Evo si tesse intorno all'uomo.

Con una lucidità che pochi nella storia del pensiero hanno avuto il coraggio di esprimere, Pascal descrive con queste parole provocatorie la condizione umana:

«Quale chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, debole verme della terra; depositario della verità, cloaca di incertezza e di errori; gloria e rifiuto dell'universo. Chi districherà questo groviglio? Che sarà di voi, uomini che cercate con la vostra ragione naturale qual è la vostra vera condizione? Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei dinanzi a te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura inferma: sappi che l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo e apprendi dal tuo Signore la tua vera condizione, che tu ignori. Ascolta Dio»[3].

Parole tanto dure quanto vere che riportano di nuovo alla domanda iniziale: Chi è l'uomo e questa umanità che egli sintetizza? Nessuna risposta parziale può essere data senza cadere nel pericolo di in un riduzionismo che umilia. La domanda sul «Chi è l'uomo?», infatti, non può prescindere da un'altra più qualificante: «Chi è Dio?». Solo a partire da questa è pensabile una risposta che sappia essere veramente globale e definitiva[4]. E qui che ci si incontra con la necessità di saper relazionare i due soggetti e indicare una via di soluzione che sia il più possibile coerente; senza, tuttavia, privare nessuno dei due delle peculiarità proprie.

La domanda di senso

Perché il cammino che parte dall'uomo per raggiungere Dio possa avere uno spiraglio di successo è necessario, dunque, immettersi su una strada che non dimentichi il desiderio di trascendenza che opera nell'uomo. L'uomo cerca Dio. Lo stesso apostolo ribadisce questa idea presso i filosofi di Atene quando dice: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,26-27). Eppure, questo cammino deve incontrarsi con Cristo; lui, infatti, è Dio che viene in cerca dell'uomo.

Il desiderio intimo dell'uomo si riconosce, però, nella ricerca di senso. Tutto, dunque, sembra ruotare intorno al problema del senso e a ciò che è ad esso sotteso. Sia le scienze della natura che le scienze dello spirito, evidentemente, si pongono il problema del senso. Ci si domanda, ad esempio, il senso del volo di una rondine, o il senso del susseguirsi dei numeri nella tavola pitagorica; in altro modo, si può questionare il senso dei versi di Dante quando fa dire ad Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza» o, dall'altra parte, il senso del passaggio del Rubicone ad opera di Cesare. In un caso come nell'altro, rincorrere il senso è cercare di capire e di comprendere il frutto dell'osservazione e della scoperta personale: o se si preferisce, la logica interna dei fatti, le spiegazioni che ne derivano e la loro intelligibilità.

Ci si incontra, in una parola, con una realtà che ha senso e a cui si dà senso[5]. Già questo fatto permette di osservare che il senso possiede un duplice movimento: esso indica l'intelligibilità interna della realtà e, insieme, il giudizio che viene espresso sulla realtà; come dire: il senso non risiede solo in ciò che ha senso, ma anche in chi gli senso! Si scopre, allora, che esiste un passaggio inevitabile da ciò che ha senso a chi dà senso; eppure, la dinamica che si crea non può essere pensata come conclusiva né definitiva, ma rappresenta solo una tappa.

Dalla sensatezza della realtà ci si apre progressivamente al senso dell'esistenza personale e da qui, quando si toglie ogni precomprensione, a chi può donare senso definitivo. In una parola, dal problema del senso, attraverso una catena interminabile «nasce l'esigenza di un qualcosa che sia assolutamente onnicomprensivo»[6] e assolutamente sensato.

Con una nota di profonda attualità, tornano di nuovo alla mente le parole di Pascal:

«lo non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa è il mondo, né che cosa sono io stesso: io sono in una ignoranza terribile circa tutte le cose; non so cosa sono il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su tutto e su se stessa e non conosce sé più di quanto conosca il resto. Vedo questi spaventevoli spazi dell'universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato a un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato piuttosto in questo luogo che in un altro, né perché questo poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato a questo punto piuttosto che a un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e che mi seguirà... tutto quello che io conosco è che debbo morire, ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare. Come non so da dove vengo, così non so dove vado e soltanto so che uscendo da questo mondo, io cado per sempre o nel nulla o nelle mani di un Dio irritato senza sapere quali di queste due condizioni mi deve toccare eternamente in sorte»[7].

Porre la domanda circa il senso, pertanto, permette di verificare una delle esperienze più straordinarie dell'esistenza personale; la domanda, infatti, non è più riferibile al solo spazio individuale, ma condensa in sé le note dell'universalità.

Volenti o no, in modo conscio o inconscio, davanti alla domanda sul senso si è inseriti in un universo che spezza le barriere dell'individualismo. Essa appartiene all'uomo e, contemporaneamente, l'uomo le appartiene. Qui si scoprono le dimensioni peculiari dell'esistenza umana e si pone il confine tra ciò che segna progresso e cultura, quindi spazi reali di umanità e ciò che, invece, costituisce la frammentarietà. Senza dimenticare che un ricatto sottile e infido è costantemente teso alla ragione: presentare l'effimero come valore e attenuare, fino a far scomparire, la passione per la ricerca della verità.

Senso, pertanto, è condizione vitale per motivare il proprio essere "radicati" in una tradizione e in una storia, come elementi costitutivi per la stessa comprensione di sé, sapendo che si appartiene ad una "genealogia" e non si è individui isolati in un mondo che non ci appartiene. Senso è capacità a saper guardare al presente ricevendone le sfide e riproponendo un orizzonte in cui la dimensione creativa del soggetto è forma di ogni autentico progresso, perché fatto ad immagine del primario atto creativo di Dio. Senso è apertura alla trascendenza come spazio entro cui la forza di infinito che è in ognuno di noi trova finalmente compimento. Anche in questo caso, ritornano alla mente le parole del filosofo M. Blondel ne L'Action:

«C'è un infinito presente a tutti i nostri atti volontari; e questo infinito non possiamo da noi stessi contenerlo nella nostra riflessione, né riprodurlo con il nostro sforzo umano»[8].

In una parola, la categoria di senso permette di recuperare a pieno titolo l'indicazione emersa precedentemente con Gaudium et spes, 22. L'enigmaticità dell'esistenza; il «da dove vengo?» e «dove vado?», «perché devo soffrire e morire?» sono domande che conducono a scoprire la propria vita come appartenente al mistero. Qui, tuttavia, il senso si presenta come la soluzione ultima per poter imprimere intelligibilità globale all'esistenza.

Lo spazio di libertà

Alla luce di Cristo, l'«enigma uomo» si trasforma in mistero e provoca l'esistenza alla libertà. Questa, infatti, è la condizione peculiare dell'esistenza personale che trova in Gesù di Nazareth l'espressività culminante e definitiva. Per comprendere meglio questa condizione, può venire in aiuto un brano del Vangelo di Giovanni: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la do da me stesso perché ho il potere di darla e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18). L'evangelista pone il credente dinanzi a due idee centrali, ma correlative tra loro: tutta la vita del Figlio è un'obbedienza alla volontà del Padre e al suo progetto salvifico, per questo egli offre la sua vita. Nello stesso tempo, però, questa dimensione esprime la sua "exousia": egli, infatti, ha piena libertà di disporre di sé, per questo riprende la vita che ha dato.

Offerta della propria vita e potere di darla e riprenderla possono acquisire senso solo alla luce della volontà salvifica del Padre, del suo amore e della comunione che lega i due nel vincolo della Trinità. È interessante osservare dal punto di vista esegetico l'insistenza su "io" che crea maggior antitesi con "nessuno"; la decisione di Gesù è propriamente sua, libera e, voluta perché finalizzata alla sua relazione con il Padre. Ciò che diventa evidente, in questo contesto, è il superamento della barriera della morte attraverso il potere di riprendere la vita. Se. si toglie l'orizzonte espressivo di questo testo - dato appunto, dal finalizzare tutta l'esistenza da parte del Figlio alla volontà del Padre - si perde la possibilità di comprensione del valore salvifico della morte del Signore. La libertà che viene qui espressa è piena e totale, ma è posta nell'orizzonte obbedienziale alla volontà del Padre.

Anche ogni persona è posta nel dramma di dover operare liberamente una "rinuncia creativa". Nessun uomo, infatti, sceglie liberamente se non compiendo, contemporaneamente, un atto di rinuncia (cf. Mc 8,3-35). La libertà si qualifica proprio per la capacità a dover esprimere una scelta e decidersi per una realtà. L'atto della decisione rende visibile il concretizzarsi della possibilità della libertà e manifesta il potere personale di saper cogliere il senso e la direzione del proprio atto. La rinuncia che si attua, tuttavia, non è fine a se stessa, ma prodromo per la capacità di ognuno a poter costruire se stesso finalizzando l'esistenza. È certamente rinuncia, ma creativa; perché focalizza il senso da raggiungere e, nello stesso tempo, è compiuta in forza del senso che si è posto dinanzi come ideale di vita. Davanti alla domanda sul senso, pertanto, diventa immediato il vedersi relazionati a un inizio e a una fine, unica condizione perché la libertà personale possa esprimersi decidendosi per una libertà più grande[9].

Come risulta da tutte queste considerazioni, presto o tardi, ogni persona è indotta a interrogarsi su Gesù Cristo o, se si vuole, a interrogare Gesù Cristo. Lo dovrà fare «o perché vi è condotto dal corso dei suoi pensieri, incapaci di concludere, o perché, in ogni caso, il Cristo è nella storia un enigma irritante e affascinante»[10].

La domanda di Cristo: «Chi dice la gente che io sia?», «ma voi chi dite che io sia?» è rivolta a tutti e, fino ad oggi, disturba quanti vorrebbero sonni tranquilli prescindendo da lui. Impossibile evitare la domanda. Ne andrebbe della nostra vita.

Risuonano dense di significato, in questo contesto, le parole di M. Blondel:

«Metterò in pace la mia coscienza. Se c'è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederla... Il problema è inevitabile; l'uomo lo risolve inevitabilmente; e questa soluzione, giusta o sbagliata, ma volontaria e nello stesso tempo necessaria ognuno la porta nelle sue azioni... E bene proporre all'uomo tutte le esigenze della vita; tutta la pienezza nascosta delle sue opere per rinfrancare in lui, unitamente alla forza di affermare e credere, il coraggio di agire»[11].

Detto in altre parole, non si può sfuggire neppure dalla prospettiva filosofica il dover porsi dinanzi a Gesù di Nazareth.

Dinanzi a Gesù di Nazareth

Prendere coscienza dell'evento che la fede cristiana annuncia è, anzitutto, un obbligo da cui non ci si può esimere, almeno dal punto di visto della storia. Eliminarlo dalla storia significherebbe non solo non comprendere la stessa cultura in cui si è inseriti, ma neppure ci si potrebbe collocare nel tempo di cui l'Occidente vive, che fissa il suo inizio con la nascita di Cristo.

La formula ante et post Christum natum, solo per fare l'esempio più banale, non è riconducile alla sola convenzione; essa, infatti, indica primariamente il senso che la storia ha assunto a partire da Gesù. È necessario, quindi, trovare la chiave interpretativa perché il presente di ognuno non sia compreso come un assoluto che non potrebbe pretendere di avere significato.

Questo deve inserirsi, piuttosto, in un movimento che permette di verificare il passato, presente e futuro come una dinamica progressiva tesa verso una pienezza definitiva. La storia di Gesù Cristo costituisce per la fede la tappa iniziale e finale di questa dinamica e consente di comprendere la propria esistenza personale carica di senso se inserita in essa. In una parola, la storia dell'umanità e la storia personale di ognuno nella rispettiva richiesta di senso, possono trovare risposta se si pongono alla luce del mistero di Gesù Cristo. In lui l'offerta di senso è talmente abbondante che il doversi allontanare equivarrebbe a errare invano verso soluzioni che non potranno mai appagare pienamente.

Il cristianesimo, che lo si voglia o no, ha segnato la storia della filosofia occidentale e la cultura di intere nazioni. Impossibile camminare per le strade delle nostre città senza andare, intuitivamente, alla figura di Cristo. Da ogni parte lo sguardo si posi è obbligato a riconoscere i segni indelebili della fede cristiana. E, in ogni caso, anche se la filosofia non volesse - o potesse - questionarsi su Gesù Cristo, dovrebbe comunque interrogarsi sul fenomeno religioso e sulla condizione che fa ogni persona un homo religiosus. Gesù Cristo, dunque, non può essere evitato.

Questa pretesa della fede di dare senso alla vita non può lasciare nessuno indifferente. È peculiare della filosofia ricercare le strade che possano permettere alla ragione di raggiungere il senso; così come è tipico della ragione dover porre delle domande per poter accedere a una conoscenza sempre nuova che apre spazi di infinito.

Bisogna, dunque, porsi la domanda: «Chi è Gesù di Nazareth?». A un primo livello, soprattutto nel nostro contesto culturale, la domanda potrebbe apparire ovvia; eppure, obbliga a una riflessione che ponga in primo piano la reale conoscenza che si ha di lui. La risposta, comunque, potrebbe articolarsi intorno a un triplice livello. Il primo cerca di raggiungere i dati storici che sono acquisibili mediante la ricerca scientifica. Il secondo, esprime quanto Gesù ha detto di se stesso e quanto ha rivelato della sua identità. Il terzo, segna la comprensione che la Chiesaha avuto nel corso dei secoli, dell'evento che sta all'origine della sua fede e della sua stessa esistenza. Solo l'insieme di questi tre orizzonti permette di avere una visione globale della persona di Gesù Cristo. Separare questi dati o, ancora peggio, eliminarne anche uno solo, equivarrebbe a distruggere l'evento e a impedire l'accesso verso una sua comprensione coerente e totale.

Nessuno, comunque, potrebbe pensare Gesù Cristo fuori dall'orizzonte del mistero. Se questa categoria è valida per ogni uomo nel momento in cui è portato a riflettere sulla propria esistenza, essa è a fortiori necessaria quando la ragione indaga la vita divina che, per sua natura, è avvolta nel mistero. È utile sottolineare, tuttavia, che parlare di mistero non equivale ad esprimere un contenuto di cui si rinuncia a comprendere; al contrario, dire che un contenuto è "mistero" significa affermare che la sua conoscenza è possibile solo per via di rivelazione.

In una parola, dinanzi al mistero la mente è chiamata a compiere in pienezza il suo peculiare percorso; essa, infatti, deve costantemente indagare il mistero e cercare di coglierne gli aspetti più profondi e spesso nascosti. Nello stesso tempo, però, la ragione dovrà raggiungere lo stadio dell'abbandonarsi ad esso - «Surrender of reason», per dirla con J.H. Newman - in modo da comprendere razionalmente che il mistero è incomprensibile (S. Anselmo).

L'incomprensibilità del mistero non umilia la ragione; al contrario, la innalza in quanto le consente di percorrere l'intero cammino a sua disposizione. Solo, le viene chiesto di accogliere in sé la fede che consente il raggiungimento di una conoscenza più ampia e di un sapere più globale, in quanto questa è portatrice di un contenuto che viene dalla rivelazione. Le parole dell'apostolo Paolo sono quanto mai significative per tentare di entrare nella logica di questa condizione: «Sta scritto: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1 Cor 1,19-21).

Dall'enigma al mistero

Si ritorna, come conclusione, alle parole iniziali di Gaudium et spes con cui si è iniziato: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo». Questo, dalla prospettiva teologica, è il punto cruciale. L'uomo costituirà per sempre un mistero a se stesso; le vicende della vita - particolarmente la sofferenza e la morte - lo porteranno sempre a dover verificare l"'enigma" della sua condizione personale.

Se egli vuole trovare la soluzione che permetta una via d'uscita dall'enigmaticità dell'esistenza, deve inserirsi nel percorso che conduce a Gesù Cristo. Questa rimane, dalla prospettiva teologica, l'unica condizione che consente ad ognuno di rimanere veramente libero davanti a se stesso, al mondo e a Dio. Dinanzi a Cristo, infatti, si può superare realmente la contraddizione personale e scegliere per uno spazio autentico di libertà, perché la scelta viene compiuta in forza dell'amore. L'uomo, in Cristo, non viene privato del dolore e della sofferenza né la morte gli viene risparmiata; in Gesù, però, egli trova il senso del dover soffrire e morire.

La risposta che la persona dà a questo enigma è, insieme, frutto della sua scelta libera e dello Spirito di Cristo che, con la sua grazia, lo permea e trasforma rendendolo capace di scelte umanamente impossibili. Il senso, in ultima istanza, si riflette nella risurrezione di Cristo, dove ognuno si incontra con la promessa di Dio Padre che solennemente attesta il dono della vita eterna a quanti crederanno.

Dinanzi a questa sfida, si è chiamati a porre lo sguardo su ciò che l'uomo ricerca da sempre e verifica, da sempre, il proprio fallimento: l'amore. È l'amore l'ultima parola che viene pronunciata da quanti hanno incontrato in maniera definitiva il senso della vita. Un amore, si noti bene, che non è concepito come una conquista che parte da sé per raggiungere vittoriosamente la persona amata in attesa di essere da questa ricambiata nell'amore. L'amore di cui la rivelazione di Cristo ci rende manifesto il volto è irrepetibile, dato a ciascuno e a tutti in maniera unica, donato senza alcuno scopo e ricevuto sapendo di non essere in grado di poter contraccambiare. Un amore gratuito che trasforma perché dato per primo da Dio mentre l'umanità era ancora sotto la condizione del peccato e del rifiuto (Rm 5,8).

Il senso della vita alla luce di questo amore, lontano dall'essere un richiamo sentimentale è l'impegno che coinvolge l'esistenza, permettendo a ognuno di scoprirsi libero proprio nel momento in cui decide di abbandonarsi per sempre nelle mani di un Dio che ama. L'identità personale non viene né rinnegata né dissolta in uno spazio di infinito amorfo, che supera ognuno relegandolo nell'anonimato; la vita che ci ha chiamati a partecipare, piuttosto, inserisce nello spazio della comunione in cui ognuno è amato con il metro stabilito da Dio non dall'uomo.

Questa, alla fine è la vera sfida: accettare che nella storia di un uomo e soprattutto nella sua morte, vi possa essere il senso della mia esistenza personale. Lontano da lui, la morte non potrebbe aprirsi alla risurrezione e le tenebre avvolgerebbero l'esistenza. Ma noi siamo chiamati alla luce che non conosce il tramonto della risurrezione.

Note al testo

[1] Cf. J. Maritain, Umanesimo integrale, Roma 1947, 17-36.

[2] Cf. K. Rahner, «Teologia dell'incarnazione» in Saggi di cristologia e di mariologia, Roma 1967, 94-121; si pensi solo ad un'espressione come questa: «La cristologia è l'inizio e la fine di ogni antropologia e questa antropologia nella sua più radicale realizzazione, cioè la cristologia, è in eterno teologia», 115.

[3] Pascal, Pensieri, 434.

[4] Cf. H.U. von Balthasar, «Chi è l'uomo?» in Lo Spirito e l’Istituzione, Saggi teologici IV, Brescia 1979, 21.

[5] Per spiegarmi: se prendo, ad esempio, il passaggio del Rubicone, devo domandarmi: dove sta il senso, in questo caso? Certo, non nell'attraversare un fiumiciattolo, ma in ciò che ha dato senso a questo evento: l'intenzione di Cesare di conquistare Roma.

[6] W. Weischedel, Credere e comprendere, Genova 1982, 299.

[7] B. Pascal, Pensieri, 149.

[8] M. Blondel, L'Action, 418.

[9] Cf. H.U. von Balthasar, Teodrammatica, vol. II. Le persone del dramma: l'uomo di fronte a Dio, Milano 1982, 183-316.

[10] X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo, Brescia 1989, 19.

[11] M. Blondel, L’Action, 1893, VII-VIII.