Padre McNabb, il maestro di Chesterton, di Alessandro Zaccuri

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /04 /2013 - 00:36 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 18/9/2010 una recensione scritta da Alessandro Zaccuri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/4/2013)

Zaino in spalla e saio indosso, anche oggi padre Vincent si avvia verso Hyde Park. È un giorno qualsiasi degli anni Venti o Trenta e la presenza del domenicano allo Speakers’ Corner è ormai un fatto abituale. Si fa ascoltare volentieri, perfino da chi non è d’accordo con lui, perché è brillante nell’argomentazione quanto incrollabile nella dottrina. Un vero irlandese, un discepolo di san Patrizio che da anni vive nella Londra sovraffollata e sgargiante, vitalissima e impura d’inizio Novecento. Una metropoli che pare una moderna Babilonia, tanto che proprio lui, padre McNabb, ha coniato il neologismo «Babylondon», crasi di «Babylon» e «London».

E Babylondon (Edizioni Studio Domenicano) è il titolo della prima biografia italiana dedicata a quello che nel sottotitolo viene definito «maestro di Chesterton». L’autore è Paolo Gulisano, uno studioso che negli ultimi ha dedicato molta attenzione alla declinazione anglosassone del rapporto tra letteratura e spiritualità. In questa linea di ricerca, la riscoperta di padre McNabb è forse una delle acquisizioni più importanti. Perché ci restituisce in modo intenso una personalità forte e piena di fascino, anzitutto, ma anche perché traccia con precisione una mappa di scambi e di amicizie che coinvolge, oltre al già ricordato Chesterton, l’inseparabile Hilaire Belloc e, sul fronte opposto, il sempre polemico George Bernard Shaw, per il quale padre Vincent costituiva tuttavia un interlocutore degno e, per certi aspetti, temibile.

Un irlandese, dunque. Nato nel 1868 a Portaferry, decimo di undici figli, per tutta la vita Joseph (questo il nome di battesimo: nel 1889, al momento di proferire i voti solenni, scelse di chiamarsi Vincent, in onore di san Vincenzo Ferrer) continuò a considerare la famiglia come il riferimento obbligato di ogni seria riflessione sulla convivenza civile.

La «misura di Nazareth» per lui non era un concetto astratto, da relegare nel segreto della coscienza. Al contrario, era il motore di una possibile rivoluzione sociale, di cui il giovane domenicano aveva colto l’intuizione già nel 1891, quando era rimasto folgorato dalla Rerum Novarum. L’idea era poi maturata nei decenni successivi, a contatto con il gruppo composto dai fratelli Chesterton (Gilbert e Cecil, il cui ruolo andrebbe opportunamente rivalutato) e da Belloc, che nel saggio Lo stato servile aveva messo in discussione i presupposti stessi del capitalismo incontrollato.

Da lì si era sviluppato il movimento distributista, coraggioso tentativo di superamento del comunismo attraverso una più ampia «distribuzione» della proprietà. «Troppo capitalismo – aveva sintetizzato con la solita verve Gilbert Keith Chesterton – non significa troppi capitalisti, ma troppo pochi capitalisti». Padre Vincent aveva aderito con entusiasmo al progetto, riconoscendo in esso quella centralità e attualità della famiglia che gli stava così a cuore.

Il distributismo, infatti, proponeva che si creassero le condizioni per cui ciascun nucleo familiare divenisse proprietario della casa in cui viveva e dei mezzi di produzione necessari al sostentamento. Un’economia «alternativa» che, da un lato, aggiornava l’utopia tolstojana e il medievalismo alla William Morris, e dall’altro anticipava la battaglia contro l’usura di cui in seguito si sarebbe fatto carico, senza fortuna, il poeta Ezra Pound.

Pur continuando a svolgere un’infaticabile attività sociale, di conferenziere (non solo in Hyde Park…) e di pubblicista, con una bibliografia di oltre quaranta titoli, padre McNabb rimase sempre e anzitutto un credente appassionato, un domenicano intransigente nella difesa dell’ortodossia, un pastore capace di straordinaria delicatezza. Quando gli fu diagnosticato un cancro alla laringe, ne parlò con naturalezza durante l’omelia del Giovedì Santo, riferendosi a una «buona notizia» e spiegando di essere stato «richiamato» dal «Re dei Re, e non per un periodo di durata limitata, ma per la vita eterna». Morì il 17 giugno 1943, poche settimane prima di compiere 75 anni. «Colui che tu ami è malato», recita una delle preghiere da lui composte: «Cercami. Trovami».

Paolo Gulisano BABYLONDON Edizioni Studio Domenicano - pp. 170