I presupposti teologici della produzione artistica: alcuni esempi eloquenti (Raffaello, Michelangelo, Caravaggio): file audio di una relazione di Andrea Lonardo
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare la presenza sul sito di files audio una relazione tenuta da Andrea Lonardo il 23 novembre 2011 all'interno di un corso di aggiornamento per i docenti IRC del Lazio, presso la Sala Conferenze dei Musei Vaticani, organizzato dall'Ufficio scuola della diocesi di Roma. Vedi anche, su questo stesso sito Una visita guidata alle Stanze di Raffaello, Una visita guidata alla Cappella Sistina e, per Caravaggio, la sezione Roma e le sue basiliche. Alcune immagini della Stanza della Segnatura sono disponibile al link Pico della Mirandola e l'umanesimo. Per altri file audio vedi su questo stesso sito la sezione Audio e video.
Il Centro culturale Gli scritti (25/11/2011)
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I presupposti teologici della produzione artistica: alcuni esempi eloquenti (Raffaello, Michelangelo, Caravaggio). 23 novembre 2011
TRACCIA DELLA RELAZIONE E ANTOLOGIA DI TESTI DISTRIBUITA AI PARTECIPANTI AL CORSO
Andrea Lonardo
www.gliscritti.it
Indice
- LA QUESTIONE: IL PROBLEMA DEL RAPPORTO FRA ARTE E STORIA DELLA CHIESA
- LA CHIESA E’ UNA REALTA’ PUBBLICA
- MOSTRARE LA VITA DI UN EDIFICIO, DI UN’OPERA D’ARTE
- LO SPECIFICO FONDAMENTO TEOLOGICO DELL’USO DELL’IMMAGINE
- INSTAURAZIONE DI UN LEGAME CON LA CULTURA PAGANA ED, IN GENERALE, CON LE DIVERSE ESPRESSIONI DELLA CULTURA
- I 3 ESEMPI ELOQUENTI
LA QUESTIONE: IL PROBLEMA DEL RAPPORTO FRA ARTE E STORIA DELLA CHIESA
da Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi.
LA CHIESA E’ UNA REALTA’ PUBBLICA
François Boespflug [domenicano facoltà di Strasburgo] (in un’intervista rilasciata a Daniele Zappalà, su Avvenire del 4 dicembre 2008), rispondendo alla domanda da dove nascesse l’amore della chiesa per l’architettura e le immagini:
«Non ho mai creduto alla teoria del bisogno, fondata su un'opposizione fra autorità e fedeli. Ovvero, a un bisogno d'immagini rivendicato dal popolo dei fedeli e al quale le autorità ecclesiastiche dovettero cedere. Di fatto, sono numerosi gli esempi di grandi vescovi teologi che ebbero il gusto delle immagini. Credo molto più a ciò che definirei il dinamismo espressivo delle forti intuizioni. Una religione vissuta in modo intenso da una civiltà deve essere espressa. E dopo le parole, il cristianesimo ha conquistato in modo logico altri registri espressivi, dalle arti plastiche al teatro, dalla musica alla letteratura. Hanno poi influito fattori più specifici, come la riflessione su certi passaggi evangelici, in particolare di Giovanni, in cui Gesù impiega il verbo "vedere"».
-Agli inizi del III secolo – 100 anni prima di Costantino - è documentato il possesso di cimiteri e la costruzione di chiese, anche se più piccole (cfr. Callisto, allora diacono, venne incaricato da papa Zefirino – siamo negli anni 189-222 - della custodia delle catacombe oggi dette di S. Callisto, Elenchos IX, 12, 14).
-Nel cimitero di S. Callisto vennero arrestati papa Sisto II con i quattro diaconi e successivamente S. Lorenzo.
-Nel 262, dopo le persecuzioni di Decio e Valeriano, ci fu l’editto di Gallieno, chiamato dagli storici anche “editto di restituzione”, proprio perché Gallieno stabilì che fossero restituite le proprietà ai cristiani, segno che ovviamente dovevano averle.
-Abbiamo anche una famosa attestazione architettonica di queste prime chiese costruite dai cristiani prima dell’editto di Costantino nella chiesa di Dura Europos, nell’odierna Siria. La città di Dura Europos fu abbandonata nel 256, a motivo dell’arrivo dei Persi Sassanidi e, quindi, tutti i suoi monumenti superstiti sono precedenti a quella data.
-L’esistenza di chiese e non solo di domus ecclesiae è attestata letterariamente prima di Costantino.
Ne parla Eusebio di Cesarea che racconta come l’imperatore Aureliano (270-275), quando il vescovo scismatico Paolo di Antiochia fu dichiarato deposto, assegnò la chiesa che era sede del vescovo antiocheno a Domno, vescovo cattolico (Storia ecclesiastica, VII, 30, 19).
-Anche i documenti africani relativi alla persecuzioni di Diocleziano attestano che ad Abthugni (oggi in Tunisia) e Cirta (nell’antica Numidia, oggi in Algeria) c’erano già, prima del 303, delle basilicae cristiane.
-Nella stessa Roma - riferisce Ottato di Milevi - quando vi arrivò dall’Africa Vittore, primo vescovo scismatico donatista inviato a Roma tra il 314 ed il 320, quest’ultimo non aveva nessuna basilica nella quale riunire i fedeli, mentre la chiesa cattolica ne aveva ben quaranta (De schismate donatistarum o Contra Parmenianum Donatistam, II, 4, tradotto in italiano con il titolo La vera chiesa, Città nuova)!
-Nell’opera di Lattanzio Come muoiono i persecutori, XII, 1-5, si afferma addirittura che, al momento dello scatenarsi della persecuzione di Diocleziano nel 303, esisteva già da tempo una chiesa che era visibile dal palazzo imperiale di Nicomedia, oggi İzmit in Turchia, segno che la presenza di questi edifici cristiani era un fatto ormai normale.
Così scrive Lattanzio: I principi [Diocleziano e Galerio] intanto osservavano quello che succedeva (la chiesa infatti appariva in alto rispetto al palazzo) e non facevano altro che discutere se era meglio darle fuoco. Prevalse il parere di Diocleziano, che temeva che un grande incendio potesse bruciare pure una parte della città, dato che tutt’intorno [alla chiesa] c'erano molte case grosse. Allora arrivarono i Pretoriani in formazione da combattimento; furono mandati in tutti i punti [dell'edificio], e con asce e altri arnesi di ferro rasero al suolo in poche ore quel tempio così rinomato.
MOSTRARE LA VITA DI UN EDIFICIO, DI UN’OPERA D’ARTE
da Henri Matisse dinanzi all'oggettività del cristianesimo: la Cappella delle domenicane di Vence, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Matisse sapeva bene che quell'edificio [la Cappella di Vence] era fatto per vivere. Così racconta ancora sr. Jacques-Marie:
Una domenica, Matisse mi telefonò per domandarmi se poteva venire alla cappella alle 17.00:
- Sì, mio signore, ma ci sarà la preghiera corale, la benedizione con il Santissimo, Sacramento, seguita dall'ufficio.
- Io vi disturbo?
- Per niente, l'ho detto per voi.
- Bene, allora io vengo.
Venne. Volle assistere alla preghiera corale, alla benedizione con il Santissimo e all'ufficio recitato dalle suore. Ogni tanto gli domandavo se preferiva uscire, ma mi faceva segno di no. Quel giorno se ne andò felice; aveva visto la cappella “in servizio”, la sua opera associata alla vita tal quale doveva essere da allora in avanti.
da Le Corbusier (su Ronchamp : fra breve aeticolo su www.gliscritti.it )
Cinque giorni prima dell'inaugurazione, la croce a taglia umana fu portata. Da questo momento Ronchamp cessa di essere una costruzione, un cantiere. Spezzando il silenzio dei muri, essa proclama la più grande tragedia vissuta su di una collina, in Oriente, tempo fa.
Quando Bona mise sulle sue spalle la croce per portarla al centro della navata, proprio dietro l'altare, il momento divenne bruscamente drammatico.
Al punto che, per riprendere fiato, gli operai, l'équipe, si misero a scherzare, per spezzare il silenzio.
da La morte delle cattedrali, di Marcel Proust (traduzione di Cristina Campo) su www.gliscritti.it
Non soltanto ai canonici che seguono l’uffizio in quegli stalli, i cui braccioli, le misericordie e la ringhiera raccontano l’Antico e il Nuovo Testamento, non soltanto al popolo che riempie l’immensa nave, la cattedrale, se il progetto Briand [legge del 1904 che prevedeva la separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, ecc.] fosse votato, si troverebbe chiusa, impedita di offrire Messa e orazioni. Dicevamo poco fa che in una cattedrale quasi tutte le immagini sono simboliche. Alcune non lo sono. Sono le immagini dipinte o scolpite di coloro che avendo contribuito con i loro denari alla decorazione della cattedrale, vollero serbarvi per sempre un posto, onde potere, dalla balaustra della nicchia o dallo sguancio della vetrata, seguire silenziosamente gli uffizi e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. Si sa che, avendo i bovi di Laon cristianamente trascinato fino in cima alla collina su cui si eleva la cattedrale i materiali che servivano a costruirla, l’architetto li ricompensò drizzando le loro statue alla base dei campanili, dove potete vederli ancora oggi, nel fragore delle campane e nel ristagno del sole, levare i capi lunati al disopra dell’arca santa e colossale fino all’orizzonte delle pianure di Francia, nella loro «meditazione interiore». Per delle bestie, era tutto quel che si poteva fare: agli uomini si accordava di meglio.
Essi entravano in chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano anche dopo la morte e dal quale potevano continuare, come nel tempo della loro vita, a seguire il divino sacrificio, sia che affacciati fuor del sepolcro di marmo volgano leggermente la testa dal lato del Vangelo o dal lato dell’Epistola, in grado di percepire, come a Brou, e sentire attorno ai loro nomi lo stretto e infaticabile allacciarsi dei fiori emblematici e delle iniziali venerate, serbando a volte fin nella tomba, come a Digione, i colori splendenti della vita, sia che in fondo alla vetrata, nei loro manti di porpora o d’oltre mare o d’azzurro che imprigiona il sole infiammandosene, riempiano di colori i suoi raggi trasparenti e bruscamente li sciolgano multicolori, erranti senza meta per la navata che tingono. Nel loro splendore disorientato e pigro, nella loro palpabile irrealtà, essi rimangono i donatori, che, proprio per questo, avevano meritato la concessione di una preghiera perpetua. E tutti vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui discenderà nella Chiesa, riconosca bene i suoi. Non soltanto la regina e il principe portano le loro insegne, le loro corone o il loro collare del Toson d’Oro. I cambiavalute si sono fatti rappresentare verificando il titolo delle monete, i pellai vendendo le loro pellicce (vedi nel libro di Mâle la riproduzione di queste due vetrate), i beccai abbattendo i bovi, i cavalieri portando il loro blasone, lo scultore scalpellando capitelli.
O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermond Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata - non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi. I morti non governano più i vivi, secondo la profonda parola. E i vivi, obliosi, cessano di adempiere ai voti dei morti.
Ma lasciamo i bottai di rubino, i panierai di rosa e d’argento inscrivere sul fondo della vetrata la «muta protesta» che Jaurès saprebbe renderci con tanta eloquenza e che lo supplichiamo di far giungere alle orecchie dei deputati; e, dimenticando quel popolo innumerevole e silenzioso, avi d’elezione di cui la Camera non si preoccupa minimamente, per concludere, riassumiamo.
In primo luogo: la protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali, laddove il progetto Briand l’autorizza a fare delle cattedrali, in capo a qualche anno, i musei o le sale di conferenze (a immaginare il meglio) che gli piacerà, e persino, se il governo non prende questa iniziativa, autorizza il clero, se ne trovasse l’affitto troppo elevato (e poiché non avrà più aiuti, si può dire per forza) a non celebrarvi più uffizi.
In secondo luogo: la conservazione del più grande complesso artistico che si possa concepire, storico e pure vivo, e per la ricostruzione del quale non si indietreggerebbe dinanzi ad alcuna spesa se non esistesse più, vale a dire la Messa nelle cattedrali, impone al Governo il dovere di sovvenzionare la Chiesa cattolica per il mantenimento di un culto che importa ben altrimenti, alla conservazione della più nobile arte francese (per continuare a limitarci a questo punto di vista profano) che non tutti i conservatori, teatri di prosa o di musica, imprese di ricostruzioni di tragedie antiche al teatro di Orange, ecc. ecc., tutte queste associazioni avendo un fine d’arte contestabile, e preservando opere in gran parte trascurabili (che cosa rimane, dinanzi al coro di Beauvais o le statue di Reims, del Jour, dell’Aventurière o del Gendre de M. Poirier?), mentre l’opera che è la cattedrale del Medioevo con le sue mille figure dipinte o scolpite, i suoi canti, i suoi uffizi, è la più nobile di tutte le opere alle quali si sia mai innalzato il genio di Francia.
da Il rito ortodosso come sintesi delle arti, di Pavel Florenskij (testo del 1918-1919, su www.gliscritti.it )
Un Museo che esista autonomamente, è una cosa falsa e, in sostanza, dannosa per l'arte, poiché l'oggetto artistico, anche se viene chiamato «cosa», tuttavia non è affatto, per questo, una cosa, non è εργον, non è l'immobile, statica, morta mummia dell'attività artistica, ma dev'essere inteso come la sorgente della creazione stessa che scorre eternamente e mai si esaurisce, come viva, pulsante attività del creatore.
Essa anche se rimossa dal proprio tempo e dal proprio spazio, è tuttavia inscindibile da questo, ugualmente rende iridescenti e gioca con i colori della vita, continuamente agitata dell'ενεργεια dell'anima.
L'opera d'arte è viva e richiede particolari condizioni di vita, soprattutto - una particolare agiatezza al di fuori della quale, se viene assunta astrattamente dalle condizioni concrete della sua propria natura artistica, - specificamente artistica essa muore, o perlomeno passa allo stato di anabiosi, cessa d'essere compresa, e a volte anche di esistere come opera d'arte. Però scopo del Museo è proprio quello di portare via l'opera d'arte intesa, erroneamente, come una certa «cosa» che si può rimuovere, e trasportare dove si vuole, e collocare come si vuole. Scopo del Museo è, al limite, l'annullamento dell'oggetto artistico come cosa viva. [...]
Nell'inventario della sagrestia del Monastero incontriamo già delle prove di questo delitto. Così, parlando del noto sudario di marmo venato di giallo, offerto in dono dal grande principe Vasilij Vasil’evič Temnyj, il compilatore dell'inventario fa una postilla: «È una certa quantità di libbre di marmo, corrispondenti a un costo di 3 rubli e 50 copeche in tutto». Non ci lasceremo ingannare dall'ingenua franchezza di questa postilla: nomine mutato de te fabula narratur. Anche se in una forma complessa e raffinata, la formula «marmo per 3 rubli e 50 copeche», è canonica, si può dire, per i fautori di un astratto collezionismo di cose che, al di fuori del complesso unitario di condizioni di vita conosciute, sono prive o quasi prive di senso. [...]L'oro, attributo convenzionale del mondo celeste, qualcosa di artificioso e allegorico in un museo, è un simbolo vivo, è «rappresentazione» in un tempio con lampade che ardono e infiniti raggi che si accendono. È proprio in questo modo che il primitivismo dell'icona, la sua colorazione, a volte chiara, quasi insopportabilmente vivace, la sua eccessiva ricchezza, la sua ostentazione, tengono sottilmente conto degli effetti dell'illuminazione della chiesa.
Qui nel tempio, tutta questa esagerazione, attenuandosi, le dà una forza non raggiungibile con gli abituali procedimenti figurativi, e nel volto dei santi noi allora vediamo, con la chiesa così illuminata, i volti, cioè i lineamenti celesti, i fenomeni vivi dell'altro mondo, i prototipi, gli Uhrphänomena, come potremmo dire con Goethe. In un tempio noi siamo faccia a faccia con il mondo platonico delle idee, mentre in un museo vediamo non le icone, ma solo le loro caricature.
Ma ora andiamo avanti, e dall'arte del fuoco, che rientra necessariamente nella sintesi del rito religioso, passiamo all'arte del fumo, senza di cui, di nuovo non esiste questa sintesi. C'è forse bisogno di dimostrare che la sottilissima cortina azzurra dell'incenso, diffuso nell'aria, introduce, nella fruizione delle icone e degli affreschi, quell'effetto di maggiore dolcezza e profondità di prospettiva aerea che un museo non conosce e non si sogna neppure?
- esempi moderni (le ordinazioni in una cattedrale, i funerali di un sacerdote, qui a San Pietro l’elezione di un papa [nella Sistina la stanza del Pianto] il colonnato del Bernini e l’annuncio al popolo), i funerali di Giovanni Paolo II, il Concilio Vaticano II (chiesa dei SS. Michele e Magno con gli scranni del Concilio)
LO SPECIFICO FONDAMENTO TEOLOGICO DELL’USO DELL’IMMAGINE
passaggio dall’aniconismo (trascendenza divina) (con eccezioni come Chagall e le sinagoghe del IV-V secolo d.C.!) all’immagine come obbligo
dal Concilio di Nicea II
«Uomini scellerati, e trascinati dalle loro passioni, hanno accusato la Santa Chiesa, sposata a Cristo Dio, e non distinguendo il sacro dal profano, hanno messo sullo stesso piano le immagini di Dio e dei suoi santi e le statue degli idoli diabolici… Se qualcuno rifiuta che i racconti evangelici siano rappresentati con disegni, sia anatema. Se qualcuno non saluta queste (immagini), (fatte) nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema. Se qualcuno rigetta ogni tradizione ecclesiastica, sia scritta che non scritta, sia anatema...
Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa essere limitato, secondo l'umanità, sia anatema».
INSTAURAZIONE DI UN LEGAME CON LA CULTURA PAGANA ED, IN GENERALE, CON LE DIVERSE ESPRESSIONI DELLA CULTURA
Per R. Brague il tratto culturale essenziale dell’Europa è dato dalla capacità, ereditata dalla civiltà romana, di far proprio il portato positivo delle culture precedenti. "Significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da se stessi, e che lo si possiede solo a stento, in modo fragile e provvisorio", scrive Brague, aggiungendo "Dire che noi siamo romani... significa riconoscere che in fondo non si è inventato niente, ma che si è saputo trasmettere, senza interromperla, ma ricollocandosi al suo interno, una corrente venuta da più in alto".
Così afferma nel volume del 1992, Europe, la voie romaine, successivamente tradotto in Italia da Rusconi, con il titolo Il futuro dell'Occidente. Nel modello romano la salvezza dell'Europa. Creatore di linguaggio, amante dell’invenzione di nuovi termini, Brague chiama questo atteggiamento “spirito di secondarietà”.
I 3 ESEMPI ELOQUENTI
da Trittico romano, di Karol Wojtyla
Mi trovo sul limine della Sistina -
Forse tutto ciò era più facile interpretare nel linguaggio della "Genesi" -
Ma il Libro aspetta l'immagine.- E' giusto. Aspettava
un suo Michelangelo.
Perché Colui che creava, "vedeva" - vide, che "ciò era buono".
"Vedeva", ed allora il Libro aspettava il frutto della "visione".
O uomo che vedi anche tu, vieni -
Sto invocandovi "vedenti" di tutti i tempi.
Sto invocandoti, Michelangelo!
Nel Vaticano è posta una cappella, che aspetta il frutto della tua visione!
La visione aspetta l'immagine.
Da quando il Verbo si fece carne, la visione, da allora, aspetta.
Stiamo sulla soglia del Libro.
Questo è il Libro delle Origini - Genesis.
Qui, in questa cappella lo ha descritto Michelangelo,
non con le parole, ma con una ricchezza
affluente dei colori.
Entriamo, per rileggerlo,
passando dallo stupore allo stupore.
"Dio foggiò l'uomo a Sua immagine e somiglianza,
lo creò maschio e femmina -
e Dio vide, che ciò era buono assai,
l'uno e l'altra erano ignudi e non ne avevano vergogna".
Questo è possibile?
Non chiederlo ai contemporanei, ma chiedi a Michelangelo,
(o forse anche ai presenti!?).
Chiedi alla Sistina.
Così tanto raccontano queste mura! [...]
Perché proprio di quell'unico giorno si è detto:
"Dio vide che ciò che aveva fatto era buono assai"?
Perché, allora, sembra che la storia contraddica tutto questo?
Pure il nostro ventesimo secolo! E non solo il ventesimo!
Però, nessun secolo riuscirà ad offuscare la verità
su immagine e somiglianza. […]
Anche loro, sulla soglia degli eventi,
vedono se stessi in assoluta autenticità:
erano ignudi tutti e due...
Anche loro sono divenuti i partecipanti di questa visione
che il Creatore ha trasmesso su di loro.
Non vogliono forse rimanere tali?
Non vogliono forse riacquistare questa visione di nuovo?
Non vogliono forse, per se stessi, essere autentici e trasparenti -
come già lo sono per Lui?
Se è così, cantano l'inno del ringraziamento,
un Magnificat dell'intimo umano
ed è allora che sentono profondamente
che proprio "in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" -
Proprio in Lui!
E' Lui che gli permette di partecipare a questa bellezza
che aveva ispirato in loro!
E' Lui che gli schiude gli occhi.
[…]
E quando divengono "un corpo solo"
- la più stupenda unione -
dietro il suo orizzonte si schiude
la paternità e la maternità.
E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina,
si riuniscono i cardinali -
una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno.
Giunge proprio qui.
E Michelangelo li avvolge, tuttora, della sua visione.
"In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo..."
La policromia sistina allora propagherà la Parola del Signore:
Tu es Petrus - udì Simone, il figlio di Giona.
"A te consegnerò le chiavi del Regno".
La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi,
si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina,
da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato -
Era così nell'agosto e poi nell'ottobre, del memorabile
anno dei due conclavi,
e così sarà ancora, quando se ne presenterà l'esigenza
dopo la mia morte.
All'uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo.
"Con-clave": una compartecipata premura del lascito delle chiavi,
delle chiavi del Regno.
Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,
tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio.
E' dato all'uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio!
Una finale trasparenza e luce.
La trasparenza degli eventi -
La trasparenza delle coscienze -
Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni
al popolo -
Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius.