Shlomo Venezia, ex-deportato di Auschwitz

Testimonianza tenuta a S.Melania il 18 gennaio 2001 in occasione della prima Giornata della memoria

I resti delle rotaie dei carrelli dei forni crematori del Crematorio II



N.B. Il testo trascritto dalla viva voce non è stato rivisto dall'autore.

Indice:



PREMESSA

La "rampa", dove avveniva la "selezione" all'ingresso ad Auschwitz-Birkenau

Io vorrei ringraziarvi per l'invito fattomi. E' sempre un piacere per me, ma purtroppo gli anni ci sono e per me è un po' difficile muovermi da solo, andare in giro. Specialmente di sera è la prima volta. Di solito vado la mattina. Vado per le scuole e quando sono le due ho finito. Dalle nove alle due con tanti ragazzi arrivo a raccontare delle cose abbastanza profonde di tutto quello che ho passato io. Comunque il mio caso è un caso un po' particolare, come ha già accennato prima don Andrea. Io mi trovavo in Grecia esattamente nella città di Salonicco. Lì c'erano quasi 70.000 ebrei ed era una comunità abbastanza grande. 70.000 persone è una città - si può dire - tanto è vero che lì l'80% erano ebrei. Comunque adesso Salonicco conta quasi 800.000 persone e gli ebrei saranno sì e no 1.500, la maggior parte non sono tornati. Sono pochissimi quelli che sono tornati e sono quasi tutti anziani. Io mi sono trovato qui in Italia appunto quando è finita la guerra perché sono stato malato e ho fatto quasi sette anni di sanatorio. In realtà tre anni dentro il sanatorio, gli altri quattro li ho fatto dentro e fuori. Ero completamente solo, non avevo nessuno. Lì c'era un'associazione americana che raccoglieva tutti i sopravvissuti a questi campi di sterminio.
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LE MISURE ANTIEBRAICHE IN GRECIA

Mia madre ed io, quando sono arrivati prima gli italiani, in un certo senso eravamo contenti perché se non altro gli italiani avevano già allora una nomea molto, molto buona, mentre dei tedeschi si sapeva che erano delle persone abbastanza cattive, tanto è vero che tutti preferivano gli italiani ai tedeschi. Però gli italiani non riuscivano a sfondare il fronte. Alla fine i tedeschi sono venuti in aiuto degli italiani e la Grecia ha ceduto. Purtroppo i tedeschi sono entrati dalla parte dove c'è Salonicco, che sta al Nord. Questa è stato veramente la nostra sfortuna. I tedeschi entrando come tutti gli occupanti hanno tentato di accaparrare il meglio che hanno potuto trovare, dopodiché ci hanno lasciato tranquilli per due anni. All'improvviso nel 1943 hanno cominciato a fare le retate. All'improvviso bloccavano un quartiere, prendevano le persone di cui avevano bisogno per mandarli a lavorare. Chi aveva fortuna lavorava per quel giorno e la sera tornava a casa, invece c'erano molti giovani che venivano portati via lontano. A quel tempo fare 40 o 50 chilometri - non c'erano i mezzi che ci sono adesso - era tantissimo. Li tenevano magari un mese a lavorare nelle paludi o in altri posti. Quando questi poveri ragazzi tornavano erano proprio denutriti, avevano la malaria, insomma stavano malissimo. Dopo un po' naturalmente venivano messi in un ghetto che sarebbe un quartiere ebraico, dove avevano recintato con un filo spinato. Lì hanno cominciato a rastrellare le persone e a farle passare in questo ghetto. Vicino a questo ghetto, c'era la stazione, distante 200 o 300 metri e lì già preparavano la tradotta con questi vagoni bestiame. La gente, la mattina molto presto, verso le 4 o 5, veniva avviata direttamente, messa in questi vagoni in gruppi di 70/80 e poi veniva spedita via nei vagoni piombati. Nessuno sapeva nulla di dove veniva mandata questa gente. L'unica cosa che si sapeva allora è che questa gente aveva promesso - siccome gli ebrei non avevano una patria - che li portavano in un posto dove in base al numero dei familiari avrebbero loro dato degli appartamenti e chi era valido per il lavoro, l'uomo per esempio, sarebbe andato a lavorare, mentre la mamma o le sorelline ecc. li avrebbero accuditi, la casa era pronta ecc... Tutti quanti stavano male a Salonicco, perché era gente, come la mia famiglia, poverissima. C'erano volte addirittura che non sapevano se la sera avrebbero potuto comprare il pane per dar da mangiare ai bambini e quindi erano anche contenti perché pensavano: “Noi lavoriamo qua e non riusciamo a sfamare i nostri figli, se andiamo là sarà meglio”. I tedeschi erano precisi, erano puntuali e allora tutti quanti dicevano: “Se dicono così è così”. Difatti, in tutto quel periodo, loro hanno rastrellato e portato via tutti quegli ebrei e non si è mai saputo niente. Poi quando hanno finito tutti gli ebrei greci, volevano portare via gli ebrei italiani. Il consolato, sapendo quanti cittadini ebrei erano italiani, hanno chiamato i capofamiglia. Per noi è andato il mio fratello maggiore, perché mio papà era già morto quattro cinque anni prima. Andando dal console ci hanno detto che dovevamo andare via perché i tedeschi non volevano gli ebrei. Allora le possibilità erano due. O ci mandavano in Sicilia o ci mandavano ad Atene. Per non lasciare il posto, la maggior parte ha preferito andare ad Atene. Lì stavano tranquilli, tanto è vero che l'Ambasciata italiana di Atene ci dava il rancio. Noi andavamo ogni giorno lì con la pentola e ci davano qualcosa. Abbiamo perso parecchie cose - io mi ricordo, avevo 18 anni - e c'erano delle persone anziane che erano povere, non sapevano cosa impegnare per comprare da mangiare, vendevano lenzuola nuove, qualsiasi cosa come oggi a Porta Portese, fino a quando l'Italia non ha rotto con la Germania ed è finito tutto. Non si poteva avere più il rancio e naturalmente i tedeschi hanno cominciato a dare la caccia all'ebreo e andavano di qua e di là. Alla fine è venuto fuori l'ordine secondo il quale tutti gli ebrei dovevano andare ogni venerdì dove c'era la Sinagoga - lì c'erano anche gli uffici della comunità di Atene - per firmare un libro. Abbiamo pensato: “Si va a firmare una volta la settimana e stiamo tranquilli” e sapevamo anche che la guerra stava per finire.
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LA DEPORTAZIONE

Un bel giorno ci bloccano dentro la sinagoga e, mano a mano che arrivava la gente per firmare, la facevano entrare nella sinagoga. Alla fine eravamo 300, 400 persone ed eravamo ormai tutti spazientiti. Continuavamo a dire: “Perché ci fermano, perché stiamo qui?” Ci rispondevano che doveva arrivare un ufficiale, una storia così. All'improvviso ho deciso, dato che avevo già sentito di quello che era successo a Salonicco, di fare qualcosa. D'accordo con 4/5 ragazzi, benché le finestre fossero ad una certa altezza, abbiamo fatto all'interno della Sinagoga una scala umana, uno sull'altro, ed io per ultimo sopra. Ho guardato fuori e tutt'intorno era già pieno di SS con i camion militari ricoperti di tela con la croce uncinata, con i mitra in mano. Ho capito che non c'era più niente da fare. Infatti, verso le due e mezza ci prendono e ci hanno portato su questi camion in un posto fuori città in una grandissima prigione. Non c'era neanche più il posto dove mettere le persone, perché non c'erano solo gli ebrei, ma tantissimi partigiani, poi c'erano gli intellettuali, le persone che erano contro il regime fascista. Non c'era più posto e ci hanno messo in una camerata dove c'erano le docce e lì siamo stati quasi una settimana. Poi una mattina ci dicono di uscire e che, se incontriamo i nostri familiari, dobbiamo unirci a loro. Noi sapevamo che mia madre e le tre sorelle erano già state prese dalla polizia. Uscendo ci hanno raccomandato di andare tutti insieme - e sempre con uno scopo facevano queste promesse. Infatti, uscendo, eravamo tutti incuriositi di vedere se incontravamo i familiari e c'erano mia madre e le sorelle e ho detto: “Adesso veramente tutta la famiglia è qui e siamo tutti insieme”. Ad una certa ora la mattina, verso le 5,30, con questi camion ci hanno portato direttamente allo scalo merci dove erano già pronti questi vagoni bestiame. Noi prima di arrivare in quel posto volevamo scappare e non era possibile perché c'erano tutti questi camion uno dietro l'altro e non era possibile perché c'erano anche le sentinelle. Insomma ci hanno messo dentro questo vagone e subito hanno chiuso il portellone e lo hanno piombato. Come saprete, c'erano quattro finestrelle, due da una parte e due dall'altra. Entrando abbiamo notato che c'era in mezzo al vagone un bidone grande di quelli che si usano per la benzina e un altro più piccolo con dell'acqua. In un angolino c'erano quattro cassette di uva passa e una ventina di chili di carote e questo era tutto quello che dovevamo avere. Allora, arrivato il momento, sentiamo il treno che comincia ad avviarsi, senza sapere dove si andava. Abbiamo passato esattamente dodici giorni in questo vagone. Potete immaginare come si doveva stare, visto che non c'era nemmeno l'aria, con tutte quelle persone. C'erano anche bambini piccoli, donne sposate da poco incinte, malati. Noi dovevamo stare lì. Però siamo stati fortunati, in un certo senso, perché qualcuno della Croce Rossa prima di partire ci ha dato qualche pacco viveri. Questo ci ha salvato. Questo treno doveva passare per Salonicco. Allora io, curioso, - era la mia città, abitavo vicino a questa stazione – dico: “Può darsi che trovi qualcuno che conosco”. Infatti c'era un giovanotto il quale stava controllando le ruote del vagone con un martello lungo. All'improvviso lo vedo e lo chiamo: “Ghiorghios” - io parlo il greco - e lui mi dice: “Cercate di scappare, perché dove vi portano vi uccidono tutti”. Quando mi ha detto questo è stata una doccia fredda. Allora ho detto a mio fratello: “Guarda che c'è Ghiorgios giù che mi ha detto questo”. Da quel momento noi volevamo scappare. La finestrella nel nostro vagone non aveva il filo spinato. Abbiamo pensato verso mezzanotte di uscire, io, mio fratello e i miei cugini e di scappare da questa finestrella con il rischio magari di ammazzarci, perché il treno non stava fermo. Finalmente il secondo giorno decidiamo di fare così a mezzanotte. Eravamo pronti. Ma all'improvviso il papà di questo mio cugino il quale non poteva dormire e stava lì seduto, ha visto questo movimento e ha cominciato a urlare: “Che cosa fate, ci hanno contato. Se voi scappate quando arriviamo sul posto ci uccidono tutti” Allora si sono svegliati tutti. Loro avevano detto che le famiglie dovevano stare tutte insieme e la mamma e le sorelline hanno cominciato a piangere perché noi scappavamo e rimanevano da sole e questo ci ha dissuaso dallo scappare. Abbiamo detto: “Non è neanche giusto scappare e lasciare metà della famiglia”. Così siamo tornati e abbiamo deciso di proseguire e siamo arrivati dopo 12 giorni sul posto.
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AUSCHWITZ

Arriviamo in quel posto. C'era buio, il freddo la nebbia. Era il mese di aprile. Arriviamo sulla rampa, la Judenrampe (così si chiamava) che era lontano dalla stazione su dei binari morti. Non era neanche lo scalo merci, perché lì, se non altro, potevi almeno scendere comodamente. In questo posto bisognava saltare - era alto circa un metro - e la mia preoccupazione era la mamma. E vi dico che la mamma non era anziana, aveva 43 anni. Però mamma è mamma. Allora io sono sceso con un salto e aspettavo che la mamma venisse vicino per darle una mano, ma questo non è stato possibile, perché appena scendevi queste SS che avevano in mano le fruste, avevano i cani, ecc. a forza di frustate ti facevano allontanare per forza. Io mi sono messo le mani in testa e sono stato costretto ad allontanarmi e da quel momento in poi non ho più visto la mamma, non ho visto più nessuno, né mia sorella. Gli unici che erano con me erano mio fratello e questi due cugini. Questi cugini non hanno più visto i loro che aveva lì. Comunque la prima cosa che facevano era dividere: donne da una parte, uomini dall'altra. C'era un ufficiale delle SS e con un dito diceva morte o vita, a destra o a sinistra. Questo dopo avveniva dopo che avevano già diviso uomini e donne. Con le donne andavano anche i bambini piccoli. Dopo facevano la selezione completa e lì estraevano dalla massa quelli che servivano. Avevano bisogno di trecento persone e tiravano fuori i più giovani. Tutti gli altri venivano avviati direttamente al campo di Birkenau che sarebbe un campo più lontano da Auschwitz e questo era il vero campo di sterminio. In questo campo c'erano quattro crematori. Due di questi crematori avevano la capienza di 1450 persone. Noi, quando ci hanno diviso dagli altri, siamo rimasti in 120 ragazzi. La prima cosa che facevano era portarci in un posto che si chiamava Zauna dove venivamo disinfettati, rasati a zero, depilati completamente. Tolta la tua roba, rimanevi nudo come appena nato. Dopodiché passavi per la doccia. Alla doccia c'era una SS che mi faceva una rabbia, non perché era una SS, ma perché era così giovane e così crudele che io dicevo tra me e me: “Possibile che una persona così giovane - fosse stato un anziano avrei detto avrà avuto una vita, dei dispiaceri per diventare cattivo - come questo che era un ragazzo giovanissimo possa fare queste cose!”.

La "sauna", dove avveniva la spogliazione e la prima doccia di coloro che avevano superato la prima "selezione"

Stava vicino alle manopole dell'acqua, una fredda e una calda. Lui, all'improvviso, ti apriva l'acqua calda, bollente e istintivamente dovevi tirarti indietro. C'erano un sacco di docce, non era una alla volta, eravamo in cento. Allora lui coglieva l'occasione, veniva vicino e con gli stivaloni che loro portavano cominciava a dare calci agli stinchi ed eri costretto ad andare sotto la doccia. Ma non bastava questo. Lui tornava indietro, chiudeva l'acqua calda ed apriva quella più fredda. Insomma rideva e si divertiva perché lui era il padrone di tutte quelle pecorelle che stavano là dentro e dovevano obbedire. Intanto era venuto il momento di tatuarci il braccio con il numero di matricola. Da quel momento tu non eri più un uomo ma un “pezzo” (stuck), un prigioniero. Quando mi hanno tatuato questo numero, io ci ho passato la mano sopra, perché sentivo dolore, e ho visto tutta una poltiglia di sangue e inchiostro e ho detto: “Oddio! Qua ho cancellato tutto e chissà adesso cosa succederà”. Allora ho inumidito le dita con la saliva e ce le ho passate e ho visto che il numero era iniettato e allora mi sono tranquillizzato. Poi ti davano il vestiario – a quel tempo non ti davano più le divise a strisce perché non avevano più i soldi - ti davano il vestiario di altri prigionieri che erano arrivati prima di noi. Allora uno aveva le scarpe tutte e due sinistre, o troppo grandi, o troppo piccole, così come il vestito. Quando ci hanno detto che dovevamo mettere questo, non avevamo neanche la possibilità di chiedere se te lo cambiavano e ci siamo arrangiati l'uno con l'altro. C'era chi era più grande o più piccolo, allora si faceva in qualche modo. L'indumento più pesante che avevamo era la giacca, non c'era nient'altro. Io adesso quando vado ad Auschwitz, quando vado in quei posti, dico tra me: “Come abbiamo fatto a resistere a questo freddo?”. Adesso abbiamo questi abiti imbottiti e scarpe buone. Eppure in quel periodo avevamo una mano che ci proteggeva, qualche cosa, non so. Dopo, tutti sono usciti malati o ai polmoni o altro. Finito quello, ci hanno parcheggiati in una baracca completamente vuota, senza niente dentro, e abbiamo dormito così per terra. Non abbiamo neanche dormito perché eravamo talmente scossi, a pensare che cosa ci faranno, che cosa sta succedendo. Alla fine, la mattina verso le 9 ci prendono, ci mettono in fila e ci portano alla sezione A. La sezione A era la quarantena, dove si doveva stare appunto 40 giorni per vedere se qualcuno era malato, per eliminarlo subito e non infettare gli altri. Ad un certo punto non sapevamo più cosa mangiare, ci davano una minestra dove non c'era neanche una buccia di patata dentro, una cosa da bere. Siamo stati solo 20 giorni e poi è venuto un ufficiale delle SS con due attendenti, ha chiamato il blockfuhrer che sarebbe il capo-baracca - era un prigioniero - e gli ha detto di tirare fuori 70 “pezzi” di cui aveva bisogno per mandarli a lavorare. Naturalmente siamo usciti pensando: “Si va a lavorare, se non altro qualcosa da mangiare ci daranno”. Allora siamo andati io, mio fratello, i miei cugini (eravamo sempre vicini). Ci portano in un'altra sezione, la sezione B, che era per quelli che andavano a lavorare. Lì c'erano 16 baracche dispari e 16 pari. A un certo punto ci portano in una baracca al centro del campo. Chi entrava là non poteva entrare in contatto con gli altri prigionieri. Siamo entrati e uno che stava lì ci racconta un po'. Premetto che a quel tempo parlavo già un po' di tedesco e questo mi ha salvato. Questo che ci parlò era un ebreo polacco e i polacchi ebrei parlano tutti lo yiddish. Io non parlo yiddish, ma spagnolo, ma avendo parlato con i tedeschi, io capisco bene il tedesco. E infatti a quelle poche parole che gli ho rivolto: “Ho fame”, subito mi ha dato un pezzo di pane. Quel pane non era del campo, ma era una fetta di pane bianco. Mi dice se volevo della marmellata. Magari! Per me era come caviale. Io lo ho distribuito a mio fratello e ai cugini. Poi ho cominciato a fare delle domande, a chiedere: “Cosa fai?”, perché non sapevamo che lavoro ci avrebbero fatto fare. Ho detto: “A me non interessa che lavora si va a fare, mi interessa se ci daranno da mangiare”, perché 12 giorni di viaggio più gli altri 20 giorni passati, incominciavamo a sentire che ci mancava qualche cosa. Lui ha detto: “Sta tranquillo perché da mangiare ci sarà abbastanza per quelli che stanno in questo block”. E poi dice: “Ma sai che lavoro si va a fare?”. Io dico che non lo so e allora lui mi dice che tutti quelli che stanno in quella baracca fanno parte di una squadra speciale che si chiama “Sonderkommando”, e “sonder” in tedesco significa speciale. Erano tutti quelli che lavoravano nei crematori. Lì per lì mi è venuto un colpo, poi ho detto: “Hanno detto che si mangia bene, che mi avrebbero dato da mangiare, vediamo un po'”. Infatti, il giorno dopo ci portano a lavorare. Siamo arrivati in questo posto. C'erano come delle fabbriche una di fronte all'altra, costruite come allo specchio. Il capo ci dice che non dobbiamo entrare, perché non c'è bisogno della nostra manodopera e ci ha fatto fare pulizia all'esterno, togliere l'erbetta. Io ero una persona molto vivace - adesso sono anziano, ho perso la fantasia ma allora ero curioso delle cose - e facendo finta di estirpare mi sono avvicinato piano piano a questo stabilimento dove c'era una finestra ad altezza d'uomo. Ho guardato dentro ed era una cameretta di circa 5x5 metri, piena di cadaveri. Non riuscivo a immaginare! Non erano come quei poveracci che vedevo, ma persone che ancora potevano vivere, ed erano buttati lì! Torno indietro e dico ai miei amici quello che ho visto. “Ah!” hanno fatto tutti quanti: “Chi poteva pensare una cosa del genere?”. Però sono stati curiosi anche loro e pian piano sono tornati indietro e non vi dico le facce - l'avrò avuta anch'io. “Cosa si fa, che sarà di noi?”.

Resti della camera a gas del
Crematorio II

Ad un certo punto, saranno state le due, il capo ci ha chiamato all'adunata. Ci fa andare dietro questo posto e c'erano degli scalini da scendere. Il capo che era lì ci ha spiegato quello che dovevamo fare. Scendendo giù c'era una sala piena di capi di vestiario - una cosa incredibile! Ci ha fatto vedere che dovevamo fare dei pacchi di questa roba, prendere un cappotto, legare le maniche, insomma fare un fagotto. Poi si portavano sopra. Sono arrivati dei camion e questa roba veniva mandata in un altro posto che si chiamava “Kanada kommando”, dove lavoravano per la maggior parte donne che facevano la cernita di questo vestiario di queste persone. Naturalmente in questo vestiario c'erano cose buonissime e questa roba veniva in parte spedita in Germania e in parte veniva data ai prigionieri che arrivavano. Qui a Roma c'è una signora, che si chiama Ida Margherita, la quale lavorava in questo posto e io la vedo quasi tutti i giorni. Abita vicino casa mia e così ci incontriamo.

Comunque abbiamo finito questo lavoro, caricato tutto, ma ancora non avevamo visto nulla. Ci chiamano di nuovo perché alle sei dovevamo andare a lavorare. Si usciva da questo cancello e bisognava girare a destra, invece quella volta ci hanno fatto girare a sinistra. Entriamo in un boschetto e cammina cammina finalmente vedo una piccola casupola di ex contadini del luogo, dato che loro avevano mandato via tutte quelle persone che erano lì. Quella casetta era la camera a gas dove venivano eliminate le persone. Noi siamo stati messi in un angolo. Guai a chi si muoveva. Non potevamo neanche parlare, non dovevamo fare niente. All'improvviso sentiamo delle voci in lontananza. Non erano altro che famiglie complete, con bambini piccoli, insomma di tutti i tipi. Li vediamo arrivare fino a questa casetta, farli svestire al freddo, dopodiché farli entrare con la scusa che dovevano fare la doccia. La gente entrava, loro chiudevano la porta, veniva una macchina con la croce rossa ai lati, scendeva l'autista, apriva il portello prendeva una scatola di due chili circa - lui aveva un attrezzo per aprirla - prendeva uno sgabello per arrivare a una finestrella e buttava il contenuto dentro, chiudeva e andava via. Dopo dieci minuti, non di più, aprivano la porta dalla parte opposta. E' allora che è venuto il capo a chiamarci. Dovevamo prendere tutte le persone che erano appena entrate, tutte già morte e portarle fuori e da lì portarle a quindici metri. Questa era la prima sera. A quindici metri c'era un fossato tipo piscina, dove c'era il fuoco e c'erano già altri che lavoravano. Noi non dovevamo fare altro che prendere i cadaveri e portarli vicino a questo fossato, dove altri li buttavano dentro il fuoco e ogni volta che buttavano le persone dentro, vedevi questo fuoco andare all'inferno. Anche io che lo racconto molte volte dico “Ma sto raccontando quello che è successo o sto sognando?”. Comunque all'improvviso sentiamo un side-car che arriva con a bordo un sottufficiale - unterscharfuhrer si chiamava, adesso so che si chiamava Boll - e quando arrivava metteva zizzania, faceva delle cose e la gente non capiva più niente, era terribile. Questo vede che due di noi portano un cadavere, urla che ognuno di noi deve portare un cadavere. Già era pesante perché si scivolava e poi bisognava camminare veloci. All'improvviso noto un mio amico che avrà avuto dieci anni più di me, che aveva tra le mani un cadavere. Era rimasto impietrito e guardava avanti. Passo vicino e dico: “Muoviti, cammina che c'è Malahamove”, una parola yiddish che significa l'angelo della morte, quello ti picchia. Lui non rispondeva a nessuno, era in piedi, ma per me era già morto. Facciamo su e giù fino a che questo tedesco se ne accorge e urla, ma questo non si scomponeva per niente. Allora questo ha iniziato a picchiarlo - avevano sempre una frusta - ma questo niente, neanche cercava di parare i colpi. Allora il tedesco ha estratto la pistola pensando di spaventarlo, ma a quello non interessava. Spara un colpo e quello rimane in piedi. Abbiamo pensato a un miracolo, non c'era altro a cui pensare, oppure che non era stato colpito nel punto giusto. Il tedesco spara un altro colpo e questo niente. Alla fine quello si è talmente innervosito che ha rimesso l'arma in tasca ed estratta la grande pistola a tamburo che loro di solito avevano al fianco. Ha tirato un colpo e a quel punto si è accasciato e, infatti, era morto. In quel momento io con un mio amico tornavamo indietro e il tedesco ci ha chiamato e ci ha ordinato di trasportare questa persona fino al fossato e buttarla nel fuoco. Abbiamo pensato: “Sarà ancora vivo, come fai a buttarlo nel fuoco?”. Abbiamo cominciato a prenderlo. Avremo fatto tre, quattro metri, quando il tedesco ha iniziato ad urlare che dovevamo svestirlo. Diceva: “Quella roba che lui indossa non si può buttare, questa è roba che appartiene al terzo Reich, e va usata per altre persone che arriveranno dopo di voi”. Abbiamo trascinato il corpo fino a dove gli altri lo hanno buttato dentro. Io ho pensato: “E' morto, ma è più fortunato di noi, perché se non altro non subirà ancora tante angherie, tante cose che noi poi abbiamo visto”.

Resti della camera a gas del
Crematorio IV


Dalla mattina che eravamo usciti dalla baracca, siamo ritornati 24 ore dopo ed eravamo talmente distrutti più che dal lavoro, dal venire a contatto con tanti morti. Entrando nella baracca abbiamo detto: “Come sarà stanotte? Torniamo di nuovo domani in questo posto, come faremo?”. Nel pomeriggio qualcuno ci ha annunciato che non c'era più bisogno di andare la sera a lavorare, il gruppo che era andato dopo di noi aveva messo tutto in ordine. In un certo senso noi eravamo contenti perché avevamo evitato questa cosa terribile. La mattina hanno assegnato il posto ad ognuno di noi. L'assegnazione del posto è avvenuta nel seguente modo: quando ci hanno preso dalla quarantena, il tedesco diceva ad un altro: “Chi sa fare il barbiere, chi sa fare il dentista, chi sa fare il falegname?”. Io ho detto subito: “Il barbiere”, perché avevo visto quelli che mi avevano depilato. Era facile. C'erano dei ragazzi prigionieri che non avevano mai fatto appunto questo lavoro, però stavano sotto un tetto, stavano al caldo. Ho pensato: “Se mi prendono a fare questo lavoro, anche se non sono un barbiere qualcosa saprò fare”. Quando ci hanno portato in questo posto ho pensato: “Mascalzoni, ci chiedono che lavoro sappiamo fare e poi ci portano a cremare la gente”. Intanto ci hanno assegnato il lavoro. E' venuto il capo che era una brava persona, mi da in mano una forbice grande da sarto e mi dice: “Tu dovrai tagliare i capelli alle donne” e le donne erano tutte quelle che uscivano morte, non quelle ancora in vita, quelle venivano rapate diversamente. Un mio amico ha detto che faceva il dentista pensando che l'avrebbero messo in uno studio dentistico, avrebbe pulito, lavato o cose del genere - lui era in realtà un impiegato di banca.



Lo "stagno delle ceneri", vicino al Crematorio IV, in cui venivano disperse le ceneri del crematorio

Dopo che ci hanno assegnato i compiti, quando hanno aperto la porta di una camera a gas, non era come la prima sera, allora era il sotterraneo, la sala dove la gente si svestiva. Quando veniva la gente, la prima cosa che diceva il tedesco era: “Achtung, achtung”, con quella voce che ti entrava dentro le ossa. C'erano in quella stanza degli attaccapanni e ognuno di questi aveva un numero. Il tedesco diceva a tutti di appendere la loro roba e di ricordarsi il numero del proprio attaccapanni così da ritrovarla quando sarebbero usciti dalla doccia e da non creare confusione. La gente così era convinta di andare a fare la doccia e, infatti, c'era una grande stanza con tante docce finte. Alcuni cercavano di andare per primi in modo da finire prima, per esempio le donne con i bambini piccoli. Questi andavano e si mettevano sotto la doccia e cominciavano a strofinarsi. Non c'erano finestre, ma l'acqua non veniva mai. La gente continuava ad entrare completamente nuda. Alla fine, quando erano entrati tutti fino all'ultimo e c'erano circa 1.500 persone, queste cominciavano a sospettare. Dicevano: “Dobbiamo fare la doccia, l'acqua non arriva, le persone sono tutte pigiate”. I primi ad arrivare ormai avevano capito che qualcosa stava per succedere e volevano uscire, ma appena si avvicinavano venivano presi a frustate dal tedesco. Infine chiudevano la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai, una doppia porta con al centro lo spioncino per vedere l'interno. Il tedesco che stava fuori aveva la possibilità di accendere la luce e per lui questo interruttore era come un gioco, perché poteva vedere la reazione delle persone che restavano all'improvviso al buio e per loro era come essere già morte. Quando riaccendeva la luce, quelli tiravano un sospiro di sollievo e così andava su e giù, finché arrivava il solito furgoncino con la croce rossa ai lati e veniva il tedesco che, dal retro della costruzione, apriva la botola che era camuffata dall'erba quando non c'era la neve e metteva dentro questo gas velenoso che si chiama Ziklon B. Dopo dieci minuti tutti quelli che stavano dentro erano asfissiati e si mettevano all'opera quelli che erano addetti. Io dovevo tagliare i capelli. Il mio amico che faceva il dentista aveva avuto una pinza e uno specchietto come i dentisti, però doveva aprire le bocche ed estrarre i denti d'oro. Ora vorrei che qualcuno facesse qualche domanda, so che è difficile. Altre volte mi hanno chiesto, per esempio, se qualcuno sia mai rimasto vivo nella camera a gas. Era difficilissimo, eppure una volta è rimasta una persona viva. Era un bambino di circa due mesi. All'improvviso, dopo che hanno aperto la porta e messo in funzione i ventilatori per togliere l'odore tremendo del gas e di tutte quelle persone - perché quella morte era molto sofferta - uno di quelli che estraeva i cadaveri ha detto: “Ho sentito un rumore”. Normalmente quando uno muore, dopo un po' finché non si assesta, il corpo ha dentro dell'aria e fa qualche rumore. Abbiamo detto: “Questo poverino, in mezzo a tutti questi morti, comincia a perdere il lume della ragione”. Dopo una decina di minuti ha sentito di nuovo. Abbiamo detto: “Tutti fermi, non vi muovete”, ma non abbiamo sentito niente e abbiamo continuato a lavorare. Quando ha sentito di nuovo, ho detto: “Possibile che senta solo lui? Allora fermiamoci un po' di più e vediamo cosa succede”. Infatti, abbiamo sentito quasi tutti un vagito da lontano. Allora uno di noi sale sui corpi per arrivare laddove veniva il rumore e si ferma dove si sente più forte. Va vicino e, insomma, là c'era la mamma che stava allattando questo bambino. La mamma era morta e il bambino era attaccato al seno della mamma. Finché riusciva a succhiare stava tranquillo. Quando non è arrivato più niente si è messo a piangere - si sa che i bambini piangono quando hanno fame. Il bambino era quindi vivo e noi l'abbiamo preso e portato fuori, ma ormai era condannato. C'era l'SS tutto contento: “Portatelo, portatelo”. Come un cacciatore, era contento di poter prendere il suo fucile ad aria compressa, uno sparo alla bocca e il bambino ha fatto la fine della mamma. Questo è successo una volta in quella camera a gas. Ci sono tanti racconti, ma io non racconto mai cose che hanno visto gli altri e non io.



La "sauna", dove avveniva la spogliazione e la prima doccia di coloro che avevano superato la prima "selezione"

Resti della Camera a gas del Crematorio III

Una volta, nella camera di vestizione, avvenne questo. Eravamo quasi alla fine - si può dire. Stavano per liquidare questo campo ed erano arrivati dei prigionieri che erano tutti dei “musulman”, cioè degli scheletri. Tutti questi erano chiamati musulman. Il perché io non lo sapevo, ma ho saputo in seguito che questi prigionieri non avevano la forza di stare in piedi, ma non potevano accasciarsi in terra, per non essere selezionati, e cercavano perciò di tenersi dritti. All'improvviso non ce la facevano più e si piegavano appunto come i musulmani quando pregano. Ormai era ottobre. Era venuto ordine da Berlino di non fare più le eliminazioni, perché la faccenda era stata scoperta. Si doveva distruggere tutto, cancellare ogni segno. Allora hanno fatto una selezione al campo per l'ultima volta e quelli che erano ridotti malissimo li hanno portati lì alla camera a gas. Questa era la cosa peggiore per noi che lavoravamo là, in quanto queste persone sapevano che venendo lì sarebbero morte, mentre le altre persone non sapevano di venire a morire. Un giorno mi sento chiamare nella sala di vestizione. Dico: “Chi sarà?”. Non l'avevo riconosciuto, era un cugino di mio padre. Si chiamava Leone Venezia. Mi dice: “Cerca di salvarmi, fai qualche cosa”. Gli ho spiegato che noi siamo dei numeri. Se qui in questo gruppo siamo in 70, non possono restarne 69. Dobbiamo restare in 70, perché loro si accorgono subito se siamo in 69 e lo cercano finché non lo trovano. Allora gli ho fatto capire che non si poteva fare nulla. Lui ha tanto insistito: “Parla con un ufficiale”. C'era uno al quale si poteva dire qualche parola, allora gli ho detto in tedesco che c'era un cugino di mio papà e se era possibile salvarlo. Lui mi guarda e mi dice che è tutta una scusa, non è una cosa concreta. Vado dal mio parente e gli dico: “Leone, te l'avevo detto non si può fare nulla, piuttosto vuoi mangiare qualcosa?”. In quel momento mi era venuta in mente la sedia elettrica in America. Anche se ero giovane qualcosa l'avevo sentito. Dico: “Almeno l'ultimo pasto lo fa come si deve”. Noi che lavoravamo là, quando facevamo questi pacchi, trovavamo nelle tasche dei pezzi di pane, scatole di sardine, zucchero ecc. Noi prendevamo queste cose di nascosto dai tedeschi e le mettevamo di sopra dove dormivamo, negli abbaini, e le tenevamo sotto i materassi. Sono andato di volata e gli ho preso tutto quello che avevo. Vi dico che non ha masticato per niente. Come se bevesse dell'acqua, ingoiava tutto quello che gli davo. Alla fine siamo rimasti solo io e lui. Il tedesco ha cominciato ad urlare - e meno male che era quello lì, perché l'altro sparava a vista. Comunque Leone chiedeva. “Ma quanto dura? Fa male?”. Io gli dicevo: “Vedrai, è questione di poco tempo”. Cercavo di incoraggiarlo per andare a morire. Alla fine siamo arrivati all'ingresso e lì l'ho lasciato. Hanno chiuso la porta e dopo dieci, dodici minuti è stato portato fuori. I miei amici non me lo hanno lasciato vedere. Lo hanno preso, lo hanno mandato su, perché c'era un montacarichi da sotto al pianterreno. Di sopra c'erano altre persone e da noi ebrei, come per i cattolici e altre religioni, quando uno muore si dice una preghiera. Così hanno detto una preghiera per lui con la speranza che vada in Paradiso, visto che è morto senza colpa, solo perché era di religione ebraica. E' successo anche questo, ci sono tanti racconti che potrei fare, ma, se adesso mi fate qualche domanda voi, mi riposo un po' e vi rispondo con tutta franchezza.
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DOMANDE DEL PUBBLICO E RISPOSTE

Domanda: Io ho letto dei superstiti dello sterminio. A proposito di Primo Levi, si dice che si sia suicidato in conseguenza dell'esperienza vissuta ad Auschwitz. Io vorrei sapere, anche alla luce di quello che lei ha raccontato, dei vari episodi, quale forza vi ha portati a sopravvivere ad Auschwitz. Lei potrebbe dire lo spirito di sopravvivenza, ma io non credo. Lei ha parlato anche di quel suo amico che è rimasto impietrito nel trascinare quel cadavere. E' stato colpito due volte inutilmente e alla fine ucciso da un nazista. Levi disse che se Dio esiste, non poteva esistere Auschwitz. Secondo lei, Dio c'era ad Auschwitz?

Risposta: Io ho già detto a don Andrea che io non sono praticante. Dio lì l'abbiamo cercato, però non abbiamo avuto una risposta. Questo mi fa pensare, mi fa dire pure che questo fatto di Dio, se c'era o non c'era ad Auschwitz, sta in noi stessi. Si dice: “Aiutati che Dio ti aiuterà”. Se tu ti aiuti, Dio ti aiuta. Dio da solo non ti aiuterà. Io penso che chi ha l'idea che Dio esista, è bene per lui, perché è un bene per l'umanità, perché pensa che c'è un Dio che poi magari ti manda all'Inferno o in Paradiso. Io non posso sapere se ci sono il Paradiso o l'Inferno. Io posso dire che c'è stato l'Inferno lì. Più inferno di così: vedere la gente bruciare in quel modo...

Domanda: Però lei è passato in quell'inferno, è sopravvissuto a quell'inferno e il fatto che lei ci sia passato comunque non le ha fatto maturare...

Risposta: L'idea che non c'è? Io ho detto, pure a don Andrea, che per me non c'è Dio, non perché non ci sia. C'è qualcosa di più forte, che però non si vede. Io non affronto mai problemi di religione. Non essendo praticante, cerco di evitare. Comunque me lo hanno chiesto anche ragazzi ebrei che ho accompagnato sul posto. Ma siccome c'era mio figlio vicino, io non voglio che lui senta che io dico che Dio non c'è, perché ognuno si deve fare da solo l'idea che Dio c'è o non c'è. Io penso che se tu sei bravo e fai del bene agli altri, c'è pure Dio, ma se tu sei cattivo, allora Dio non c'è. Levi ha parlato della sua esperienza in qualità di ingegnere, di persona colta. Io se fossi colto avrei potuto scrivere con la mia esperienza, almeno dieci libri, perché io parlo sempre e solo di quest'inizio. Ma ci sono tante altre cose. Abbiamo fatto la marcia della morte quando hanno evacuato il campo di Birkenau dove io sono stato, che era il campo di sterminio - invece Auschwitz era uno specchio per le allodole, per far vedere che i prigionieri erano di tutte le razze, polacchi, russi, italiani, parecchie persone anche colte. Hanno iniziato con quello e poi hanno ingrandito perché hanno votato per l'eliminazione totale del popolo ebraico. Allora hanno allargato fino ad una capienza di 100.000 persone, di prigionieri e non bastava. Stavano già allargando lateralmente. Dovevano ottenere 30.000 posti per altre persone e i posti dovevano diventare 200.000, ma non ce la hanno fatta perché sono arrivati i russi. E questa è stata una fortuna, non solo per i pochi sopravvissuti, ma per tutta l'umanità, per l'Europa intera. I ragazzi anche oggi - io capisco che uno frequenti la sezione di un partito - ma perché devono tirare in ballo la croce uncinata, usare frasi come “Juden Raus”? Cercate di essere italiani e di non seguire la mentalità di altri popoli. L'italiano non è una persona cattiva. Quelli avevano già preparato le cose da prima e tutti quelli - le SS ecc. - già da piccoli sono cresciuti così cattivi, perché avevano una certa scuola, fatta appositamente per questi che addirittura ammazzavano il padre e la madre. Ci sono casi in cui è successo che questi lo hanno fatto. Le SS non guardavano in faccia nessuno. Loro avevano questa scuola per cui dovevano per forza maggiore fare così.

La torretta per l'appello nel piazzale di Auschwitz I

Domanda: La situazione in Italia è stata quindi leggermente migliore proprio per questa cultura diversa?

Risposta: La popolazione italiana ha una cultura diversa, l'italiano è fatto in modo diverso. Quando sono stato in quella prigione ad Atene in cui c'erano parecchi prigionieri, partigiani, dopo l'8 settembre, i tedeschi avevano preso tutte e quattro le torrette intorno a questa prigione che era immensa e c'era una vallata infinita per cui anche se uno avesse voluto non sarebbe riuscito a fuggire. Loro erano i padroni e sotto c'erano gli italiani. Io ricordo allora che avevano il fez e io ho visto all'improvviso da dove stavo, da dietro il vetro, questo ragazzo giovanissimo e stupidamente gli ho chiesto: “Senti, io sono italiano. Come pensi che si possa riuscire a scappare?”. Subito ha fatto un gesto con il fucile e non ha detto niente. In seguito ho pensato che, in qualche modo mi ha salvato la vita, perché se mi avesse fatto fuggire sarebbe stato peggio. Da sopra, quelli che avevano la mitragliatrice pesante mi avrebbero ucciso subito. Vorrei anche ricordare il fatto di Cefalonia. Avrete letto qualcosa su questo episodio in cui migliaia di soldati italiani lasciati allo sbaraglio sono stati uccisi dai tedeschi. Anche ad Atene, dove ero io, ho cercato di pensare a parecchi militari giovani, a farli nascondere in famiglie greche per due mesi. E infatti dopo due mesi Atene è stata liberata. Questo l'ho fatto per questi ragazzi. Ma questi qua sono rimasti proprio come delle pecorelle, non sapevano cosa fare. I tedeschi hanno detto che chi voleva andare a casa doveva recarsi presso un certo ufficio a registrarsi, mentre quelli che vogliono restare con loro dovevano andare in un altro ufficio. Il 98% si è iscritto per tornare a casa. I tedeschi li hanno spediti tutti in Germania e non c'è stato ufficiale italiano che abbia potuto prendere in mano la situazione. Anche con l'aiuto dei partigiani, avrebbero potuto anche far fuori tutti questi tedeschi.

Intervento: Uno degli episodi più gloriosi della Resistenza italiana secondo me è proprio quello che riguarda i 600.000 militari italiani che sono stati portati in Germania dopo l'8 settembre, tra l'altro c'era anche un nonno di uno dei nostri ragazzi, De Falco. A loro è stato detto “Se volete essere nell'esercito tedesco entrate, vi daremo del cibo ecc.” In massa tutti i soldati e gli ufficiali dell'esercito italiano hanno detto che preferivano restare nei campi di concentramento. Molti di questi sono morti, forse 30.000. Tutti i 600.000 soldati italiani hanno detto: “No, per noi la guerra è finita, noi non combattiamo”. E' uno dei momenti più gloriosi della storia della Resistenza italiana.

Domanda: Secondo lei si fa abbastanza oggi per ricordare quello che è successo. Che cosa si potrebbe fare di più?

Risposta: Oggi hanno iniziato a fare qualcosa, perché all'inizio nessuno parlava, nessuno faceva niente. Io ho già accennato che fino al 1992, 47 anni dopo la Liberazione, non avevo parlato mai con nessuno. Mi incontravo con qualche amico. Mi ricordavo - perché il suo papà aveva lavorato dove avevo lavorato io ed era stato eliminato lì - e io ho portato la notizia. Non sapevo neanche come si chiamava e rientrando in Italia, mi hanno chiesto se lo conoscevo e io ho detto che per nome non ci conoscevamo. Ho chiesto se sapevano il numero. Ho detto: “Magari portami una fotografia”. E infatti quando ero ricoverato ad Udine mi hanno portato la fotografia e subito - era una persona alta due metri - ho detto che lo avevo conosciuto e aveva lavorato dove avevo lavorato io. Noi avevamo fatto una rivolta, che poi non è riuscita - ed hanno eliminato 700 persone di quelli che hanno lavorato dove ho lavorato io.



I resti della camera a gas del Crematorio IV, quello in cui avvenne la rivolta del Sonderkommando

Per tornare alla domanda, adesso hanno istituito questa giornata della memoria il 27 gennaio. Molti non sono d'accordo con questa data e nemmeno io, perché il 27 è sono stati liberati Auschwitz e Birkenau, ma secondo me dovevano ricordare l'ultimo giorno in cui hanno liberato l'ultimo campo e tutta l'Europa. Sarebbe stato più logico. Comunque hanno fissato questa data e il 27 io sarò a Carpi dove gli operai si azzardarono a fare uno sciopero durante il fascismo e furono spediti nei campi.

Nessuno mi ha chiesto come mai il prigioniero colpito due volte non è caduto immediatamente. La pistola con cui il tedesco ha sparato le prime due volte era a salve e lui voleva spaventarlo. Alla fine ha sparato con la pistola vera e allora è caduto.

Domanda: Io innanzi tutto volevo ringraziarla per la sua testimonianza che trovo sconvolgente e immagino quanto le costa, quindi grazie. Le volevo chiedere una cosa. Lei ha detto di non essere praticante, ma quanto era possibile al campo una qualche forma di culto, di mantenimento di una vita religiosa normale, che serviva anche per mantenere la vostra identità.

Risposta: Noi al campo pensavamo soltanto a mangiare, ad avere un boccone, un pezzetto di pane in più, per sopravvivere. La mattina ci davano soltanto un'acqua nera con un cattivo sapore che però era calda ed eravamo già contenti. Dove lavoravo io non c'era questo problema del cibo. Potevo andare di sopra dove dormivo e prendere qualcosa. Quando sono andato negli altri campi non avevo più questa possibilità. Io lavoravo dentro le gallerie e andavo sempre in profondità con un martello pneumatico. Si cercava di sfondare la montagna, di andare sempre avanti. Poi c'era un altro gruppo che faceva le gettate di cemento, le arcate.

Verso le 11.30 suonava una specie di gong e tutti questi gruppi si riunivano in un punto e arrivava il cibo, che poi se ci trovavi dentro una buccia di patata eri già felice. Quello che distribuiva questa zuppa la prendeva da sopra, non la mescolava. E allora tutti cercavano di non essere tra i primi per prendere una zuppa più densa. C'erano i meno furbi e i più furbi. Un giorno è capitato a me di essere tra i primi. Quando mi hanno dato un mestolo di questa “acquetta” mi sono detto: “Dio Santo, devo aspettare domani fino a quest'ora per avere ancora della minestra!” Ho cercato di tornare in fila e di farla franca, ma quando ero già quasi passato, gli altri hanno cominciato (e avevano ragione, perché la zuppa sarebbe venuta a mancare per qualcun altro) a gridare. Uno dei capi se ne è accorto e mi ha rincorso cercando qualcosa con cui picchiarmi. Io cercavo di scappare. Lui ha preso una pala e me la ha sbattuta sulla schiena. Io ho solo cercato di proteggermi la testa con le mani e mi sono chinato. Ho preso un tale colpo sulla schiena che non riuscivo a respirare. Ho visto che alzava di nuovo la pala e sono fuggito via e per fortuna non mi ha ritrovato. Questo ci ha rimesso la vita quando ci hanno liberati. Questo episodio non sarebbe da raccontare, ma noi eravamo ormai come gli animali. Siamo arrivati al giorno della liberazione, abbiamo visto due carri armati, come nel film “La vita è bella”. La gente non aveva nemmeno la forza di camminare. Vedo questo tizio che mi aveva dato la botta sulla schiena e ho visto tutto nero: volevo vendicarmi. C'erano parecchie persone con le caviglie gonfie, che non potevano camminare. Una di queste aveva un bastone. Io ho preso il bastone. Lui aveva già il tascapane pronto, perché era un capo e i capi si organizzavano bene. Appena lo ho visto passare gli ho dato il bastone in testa con tutta la forza. In quel momento lui si è chinato così come io mi ero chinato quando lui mi aveva colpito. I russi che hanno visto la scena hanno chiesto: “Cosa è?”. Io ho detto solo: “E' un capo”. E loro si sono buttati addosso a questo, all'inizio per rubargli il tascapane. Io mi sono ritirato e un mio amico mi ha detto: “Tu sei matto, se lui dice che tu eri un capo ti ammazzano”. Comunque lo hanno ucciso. Nelle 24 ore successive alla liberazione si poteva fare qualsiasi cosa, senza che ci fosse alcuna condanna. Infatti in quel momento ci sono state vendette. I capo baracca - che spesso, invece di un mestolo di zuppa, te ne davano mezzo e tenevano il resto per sé - erano circa 23 e sono stati tutti uccisi dai prigionieri.

Vi racconto un altro episodio dell'ultimo campo in cui sono stato. I capo baracca erano sempre vestiti bene, avevano una cameretta e noi stavamo nei lettini tutti insieme. Verso la fine non davano più il pane a fette ma davano un pane per 6 persone già mezzo tagliato. Ma dovevamo dividerlo noi. Siccome si guardava anche la briciola, la prima volta sono capitato con cinque russi. Normalmente si faceva una piccola bilancia con un pezzetto di legno e si vedeva quale pezzo pesava di più. Di solito eravamo tutti amici e non c'erano problemi, ma questi russi volevano fregarmi. Si erano impuntati. Allora abbiamo deciso che a turno ci saremmo girati e scelto il numero del pezzo di pane senza vederlo. Quando è stato il mio turno - erano rimasti due pezzi di pane - mi hanno fatto girare e hanno preso tutti e due i pezzi di pane. Mi sono buttato addosso a un russo e ho preso un boccone di pane e l'ho mangiato in fretta. Così non me lo hanno potuto togliere. Quello ha cominciato a urlare e il capo baracca ha iniziato a picchiarmi e prendermi a calci. Ma io non sentivo nulla, perché pensavo al pane che era dentro di me e pensavo: “Puoi picchiarmi quanto vuoi perché il pane ormai sta qui”. Quando ha finito di picchiarmi, mi sono alzato e naturalmente potete immaginare la tristezza di questo ragazzo. E' andato dai suoi amici per avere la sua porzione di pane che ormai era sparita. Il capo sapeva che dopo poco tempo ci avrebbero liberato e voleva tenersi buoni i russi e i francesi (nel campo c'erano appartenenti a 20 nazioni). Alla liberazione, però, i francesi lo hanno prima picchiato e poi ucciso. Poi siamo andati in giro a cercare uno che aveva il soprannome di tigre per quanto era cattivo. Quello a cui ho dato la botta in testa, al momento dell'appello, quando si contavano i prigionieri, massacrava le persone per mantenere i suoi privilegi. Alla fine ha pagato anche lui le sue colpe.

Il prato vicino allo "stagno delle ceneri"

Domanda: C'è stato un momento in cui lei ha pensato veramente di morire?

Risposta: Senz'altro. Noi preferivamo morire e dicevamo sempre: “Perché non vengono gli alleati a bombardare?”. Sapevano quello che ci stava succedendo, sin dall'inizio, però hanno preferito dare la precedenza ad altri obiettivi. All'ultimo bombardavano. E anche se noi sapevamo che era ormai la fine, pregavamo che le bombe cadessero su di noi per finirla, perché non era veramente più possibile vivere in quelle condizioni. Qualcuno ha tentato il suicidio buttandosi sul filo spinato percorso dalla corrente elettrica a 6.000 volt e restava attaccato. Se qualcuno va ad Auschwitz vedrà che c'è una seconda recinzione di filo spinato per impedire che le persone si lanciassero contro il filo elettrico. Siccome ad ogni angolo c'erano i tedeschi con i mitra, era impossibile scavalcare il primo filo per arrivare a quello con la corrente. Chiaramente i tedeschi non volevano salvare le nostre vite, ma piuttosto impedire che, approfittando del corto circuito causato dai suicidi, altri potessero fuggire dal campo. Molti russi hanno provato a fuggire in questo modo, ma non più di tre o quattro ci sono riusciti.

Domanda: Un'ultima cosa. Lei è stato consulente del film di Benigni “La vita è bella”. Ci dice qualcosa di questa esperienza? Come la ha vissuta? Se lei ritiene importante, per comprendere lo sterminio, la scelta del regista di parlare in modo diverso di tutto questo?

Risposta: Loro stavano per finire questo film e dovevano girare la vita nel campo: come vivevano i prigionieri. Io non ero mai stato su un set e sono andato per curiosità. Un giorno un mio amico mi ha invitato ad andare a Terni. E' arrivata una macchina e mi hanno portato sul set. Avevano costruito una specie di ciminiera, come nei crematori, e l'avevano camuffata con dei mattoni - cose fatte molto bene. Avevano preso molti ternani, famiglie complete, per far fare loro come comparse la scena delle persone che arrivavano per andare a fare la doccia e poi venivano uccise. Benigni ha avuto il buon senso di non fare le camere a gas, ma ha lasciato una porta semiaperta. Però si vede, nel film, la stanza in cui si svestiva la gente. Queste persone che prendevano cinquantamila lire per la partecipazione come comparse entravano tutte allegre. Allora io sono andato dal regista e gli ho detto che le persone che entravano veramente nel campo non avevano alcuna voglia di ridere, perché avevano già fatto minimo 5 giorni di viaggio in vagoni chiusi e senza sapere dove sarebbero state portate. Lui ha detto: “Va bene” e ha impartito delle istruzioni. Alla fine sono riusciti, dopo varie prove.


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