Rassegna libraria Voci dalla Shoah |
Capitolo 10 - Le Reazioni |
Zvi
Kolitz Il testo, a lungo ritenuto il testamento autentico
di uno degli ultimi combattenti della rivolta del ghetto di
Varsavia, è, in realtà opera di un
ebreo lituano scappato all'età di 17 anni con la madre e i suoi tre fratelli,
nel 1937, prima che la Lituania
fosse stritolata dal patto fra la Germania e l'Unione Sovietica. Oggi sono in grado di assicurare che il nostro obiettivo, risolvere
in Lituania la questione ebraica, è stato pienamente raggiunto dall'Einsatzkommando
3. La Lituania è ripulita dagli ebrei. Zvi Kolitz
decise di scrivere sedici mesi dopo la fine della guerra. Ricordo perfettamente che scrissi la conclusione all'inizio e l'esordio
alla fine. Questa la conclusione: Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la
moglie e il figlio all'Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, su un
mare in tempesta, aveva raggiunto un'isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise
sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto,
nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini,
con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l'ebreo proseguì il suo
cammino sull'isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste
parole: “Dio d'Israele, sono fuggito qui per poterti servire indisturbato, per
obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai
di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire
ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri,
che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi
togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi
puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò,
sempre, sfidando la Tua stessa volontà!”. Il protagonista del racconto si trova in un bunker sotterraneo, il 28 aprile
1943, giorno in cui si spense l'ultima resistenza nel ghetto. Ricorda l'uccisione
della moglie e dei suoi sei figli, poi si rivolge a Dio: Non posso dire, dopo aver assistito a tanto, che il mio rapporto con Dio non
sia cambiato, ma posso affermare con assoluta certezza che la mia fede in lui
non è cambiata minimamente. Prima, quando vivevo nel benessere, avevo
con lui il rapporto che si ha con un instancabile benefattore, e nei suoi confronti
rimanevo sempre in debito. Ora quello che ho con lui è il rapporto con
uno che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto. E poiché sento che
anche lui è in debito con me, credo di avere il diritto di esigere ciò
che mi aspetta. Io però non dico come Giobbe che Dio deve puntare il
dito sul mio peccato per indicarmi il motivo di ciò che mi accade. Persone
più dotte e migliori di me sono fermamente convinte che ora non si tratti
più di un castigo per i peccati, ma che il mondo sia in una condizione
affatto particolare: un periodo di occultamento del volto divino. Il mondo, lasciato a sé stesso da Dio, è precipitato
nel caos. L'ultimo sopravvissuto del ghetto, in attesa dell'ultimo assalto nemico,
riflette sull'accusa di vendetta, fatta alla religione ebraica: Mai avrei immaginato che la morte di esseri umani, se pure nemici e nemici di
tale fatta, potesse rendermi tanto felice. Gli insani spiriti umanitari dicano
pure quello che vogliono, ma la vendetta è stata e rimarrà sempre
l'ultimo mezzo di lotta e la massima soddisfazione interiore per gli oppressi.
Finora non avevo mai compreso esattamente quel passo della Gemara in
cui si dice che “la vendetta è sacra, poiché è menzionata
tra due nomi di Dio, infatti è scritto: Dio delle vendette,
Signore!”. Ora lo capisco. Ora lo vivo, e ora so perché il mio cuore
esulta quando rammento che già da migliaia di anni chiamiamo il nostro
Creatore “Dio della vendetta”: Dio delle vendette, Signore! Riafferma allora la sua fierezza di essere ebreo: Sono fiero di essere ebreo, non malgrado il trattamento che il mondo ci riserva,
ma proprio a causa di questo trattamento. Mi vergognerei di appartenere ai popoli
che hanno generato e cresciuto gli scellerati responsabili dei crimini compiuti
contro di noi. Per ultimo Kolitz scrisse l'esordio: Credo nel sole, anche quando non splende, credo nell'amore anche quando
non lo sento, credo in Dio anche quando tace. (Scritta sul muro di una
cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero per tutta la durata della
guerra). Zvi Kolitz,
ebreo praticante, vive ora negli Stati Uniti, dopo aver partecipato alla costituzione
dello Stato di Israele.
Eugen
Kogon Eugen Kogon,
internato a Buchenwald
scrive questo testo nel novembre 1945. E' un libro scritto su commissione. Il
16 aprile 1945, cinque giorni dopo la liberazione del campo, un gruppo di 5
ricercatori viene incaricato di studiare la vita del campo di Buchenwald. Sono
Albert-G.Rosenberg,
Max-M.Kimental, Richard
Akselrad, Alfred-H.Sampson
e Ernest-S. Biberfield.
Il campo è il primo a cadere intatto nelle mani degli Alleati. Dopo poco
tempo gli esperti si rendono conto che è impossibile per chi non ha vissuto
all'interno del campo descriverne la vita. Affidano allora l'incarico ad
Eugen Kogon. Il suo manoscritto viene sottoposto
a numerosi altri internati, per una verifica. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l'ho
trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS)
di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di
Scienze Politiche all'Università di Monaco:
Primo
Levi Levi, sulle colonne della
Stampa, in data 23 dicembre 1960, così commentava la notizia della cattura
di R. Baer, successore di
R. Hoess, nel comando del
campo di Auschwitz, in un articolo dal titolo Il comandante
di Auschwitz: Di Richard Baer, fino a oggi, non molto si sapeva. E' citato brevemente
nelle opere di Hoess, suo predecessore, che ce lo descrive, nelle terribili settimane
del gennaio 1945, perplesso e incerto sul da farsi: è a Gross-Rosen,
un Lager di dieci-dodicimila prigionieri, e si sta diligentemente occupando di
trasferirvi i centoquarantamila di Auschwitz, che è indispensabile “recuperare”
davanti all'improvvisa avanzata russa. Si pensi a che cosa significa il rapporto
fra queste due cifre: si pensi a quell'altra soluzione, che buon senso e umanità
e prudenza insieme suggerivano, e cioè di prendere atto dell'inevitabile,
lasciare lo stuolo di semivivi al loro destino, aprire le porte e andarsene; si
pensi a tutto questo, e la figura dell'uomo ne risulterà sufficientemente
definita. Per quasi un anno Levi
è stato suddito di
Baer, con decine di migliaia
di detenuti. Ma niente ha turbato la storia successiva di
Baer. Ma molto meno pronte si sono dimostrate polizia e magistratura nel condurre a
termine l'opera di epurazione iniziata dagli alleati: così si è
giunti alla sconcertante situazione di oggi, in cui può avvenire che un
comandante di Auschwitz viva e lavori indisturbato in Germania per quindici anni,
e che il carnefice di milioni di innocenti venga rintracciato non già dalla
polizia tedesca, ma “illegalmente” da vittime sfuggite alla sua mano. In un altro articolo, datato 8 marzo 1984, intitolato
Auschwitz, città tranquilla, racconta di
esser venuto a conoscenza, da amici comuni, della storia di un chimico tedesco,
Mertens, venuto a lavorare
ad Auschwitz nello stesso periodo della sua prigionia. Era un quasi-me, un altro me stesso ribaltato. Eravamo coetanei, non dissimili
come studi, forse neppure come carattere; lui, Mertens, giovane chimico
tedesco e cattolico, e io, giovane chimico italiano ed ebreo. Potenzialmente due
colleghi: di fatto lavoravamo nella stessa fabbrica, ma io stavo dentro il filo
spinato e lui fuori. Tuttavia, eravamo quarantamila a lavorare nel cantiere dei
Buna-Werke di Auschwitz, e che noi due, lui Oberingenieur e io chimico-schiavo,
ci siamo incontrati, è improbabile, comunque non più verificabile.
Neppure dopo ci siamo mai visti. A Mertens
viene proposto, dal governo nazista, di lavorare nella fabbrica di Buna ad Auschwitz.
Mertens ci pensa su: è fidanzato, e mettere su casa in Germania, sotto
i bombardamenti, è imprudente: Chiede un permesso e va a vedere. Che cosa
abbia visto in questo primo sopralluogo, non è noto: l'uomo è tornato,
si è sposato, non ha parlato con nessuno, ed è ripartito per Auschwitz
con la moglie e i mobili per stabilirsi laggiù. Gli amici, quelli appunto
che mi hanno scritto questa storia, lo hanno invitato a parlare, ma lui non ha
parlato. Neppure ha parlato nel corso della sua seconda ricomparsa in patria,
nell'estate del 1943, in ferie (perché anche nella Germania nazista in
guerra, in agosto la gente andava in ferie). In questo secondo ritorno in Germania, viene messo alle strette
dagli amici. Mertens si sente conteso tra l'ubriachezza, la prudenza e un certo bisogno
di confessarsi. - Auschwitz è un Lager, - dice, - anzi un gruppo di Lager:
uno è proprio contiguo alla fabbrica: Ci sono uomini e donne, sporchi,
stracciati, non parlano tedesco. Fanno i lavori più faticosi. Noi non possiamo
parlare con loro. - Chi ve l'ha proibito? - La direzione. Quando siamo arrivati
ci hanno detto che sono gente pericolosa, banditi e sovversivi. - E tu non gli
hai mai parlato? - chiese il padrone di casa. - No, - rispose Mertens versandosi
un altro bicchiere. Qui intervenne la giovane signora Mertens: - Io ho incontrato
una donna che faceva le pulizie in casa del direttore. Mi ha solo detto “Frau,
Brot”: “signora, pane”, ma io... - Mertens non doveva poi essere tanto ubriaco,
perché disse seccamente alla moglie - Smettila - e rivolto agli altri:
- Non vorreste cambiare argomento? La storia è evidentemente simile a quella di migliaia di
altri lavoratori tedeschi che hanno vissuto fianco a fianco, nelle fabbriche,
con gli schiavi dei Lager. Non ho mai cercato di incontrarmi con Mertens. Provavo un ritegno complesso, di
cui l'avversione era solo una delle componenti. Anni addietro, gli ho scritto
una lettera: gli dicevo che se Hitler è salito al potere, ha devastato
l'Europa e ha condotto la Germania alla rovina, è perché molti buoni
cittadini tedeschi si sono comportati come lui, cercando di non vedere e tacendo
su quanto vedevano. Mertens non mi ha risposto, ed è morto pochi anni dopo.
Primo
Levi Uno dei libri più tormentati di
Primo Levi, l'opera in cui ritorna a mente fredda sulla
Shoah, cercando di indagarne le cause e i comportamenti, al di là della
sua esperienza personale. Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più
complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi fondamentale.
E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual
era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada,
le assimila a sé, e ciò tanto più quanto esse sono disponibili,
bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia
giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!)
le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito
meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica
schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai,
è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità
ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie
umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si
dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di
quello che avviene in un grande stabilimento industriale. Il fenomeno è sicuramente da classificare con fenomeni
analoghi di ricerca di potere e privilegio, in ogni struttura umana. L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane,
è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle
utopie. E' compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato,
ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste
un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce
e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che
il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però
(anche nella sua versione sovietica) può ben servire da “laboratorio”:
la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme
il lineamento più inquietante. E' una zona grigia, dai contorni mal definiti,
che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una
struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta
per confondere il nostro bisogno di giudicare. Il caso più inquietante è sicuramente quello delle
squadre degli addetti ai Crematori. Un caso libero di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos
di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di
privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!)
per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere
invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, Squadra Speciale,
veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione
dei crematoi. A loro aspettava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso
del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti
nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle
mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le
scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere
al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale
di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi...
E', forse, questo il risultato più infimo, raggiunto dalle
SS. Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più
demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia
di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono
altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare
sugli altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché,
a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti.
Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità,
eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato
possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà
coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il
viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre.
Infatti, l'esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio:
“Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori
di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo
i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le
nostre”. L'omogeneizzazione delle vittime ai carnefici può essere
simbolizzata da un episodio che ci viene riferito da
M.Nyiszli, Auschwitz.
A Doctor's Eyewitness account, che fu testimone
di un incontro di calcio che si svolse fra le SS da un lato e gli uomini del
Sonderkommando dall'altro.
Saul
Friedlaender Il testo racconta l'incredibile storia di
Kurt Gerstein, entrato nelle SS con intenti spionistici.
L. Poliakov, in
Il nazismo e lo sterminio
degli ebrei, descrive come
Gerstein fu conosciuto, alla fine della guerra: Il 5 maggio 1945, cioè alla vigilia della capitolazione tedesca, due ufficiali
del sesto gruppo d'armata americana, il maggiore Evans e il capitano Haught,
furono avvicinati nella piccola città di Rothweil nella Foresta
Nera, da un uomo che si presentò loro come il dottor Kurt Gerstein,
antico capo del servizio di disinfezione della Waffen-SS. Egli assicurò
di avere da fare loro delle gravi rivelazioni e consegnò loro un memorandum
in francese di cui riportiamo più avanti una parte essenziale.
Walter
Laqueur Il testo studia la conoscenza che si aveva all'esterno
dei fatti relativi allo sterminio, giungendo alla conclusione che almeno le grandi
linee erano conosciute dalle alte sfere (ed anche da molte persone in contatto
con il fronte di guerra), sia in Germania, sia fra gli alleati, sia in Vaticano.
Se le notizie sulla soluzione finale fossero state credute esse avrebbero
raggiunto ogni angolo della Polonia in pochi giorni. Ma non furono credute, e
quando le “deportazioni” dei ghetti polacchi cominciarono nel marzo 1942 si pensava
ancora che gli ebrei sarebbero stati trasportati in luoghi più ad est...
Dopo il luglio 1942 (le deportazioni da Varsavia) è sempre più difficile
capire che ci fosse ancora una grande confusione sui disegni nazisti nei confronti
degli ebrei polacchi e che le voci non fossero riconosciute per ciò che
erano: certezze. Ogni analisi razionale della situazione avrebbe dimostrato che
il fine dei nazisti era lo sterminio di tutti gli ebrei. Ma le pressioni psicologiche
ostacolavano l'analisi razionale e creavano un'atmosfera in cui l'illusione sembrava
offrire l'unico antidoto alla più completa disperazione. Per quel che riguarda la Germania così scrive: Milioni di tedeschi sapevano, alla fine del 1942, che gli ebrei erano scomparsi.
Voci sul loro destino raggiunsero la Germania soprattutto attraverso ufficiali
e soldati di ritorno dal fronte orientale, ma anche attraverso altri canali. C'erano
chiare indicazioni nei discorsi dei capi nazisti che era accaduto qualcosa di
più drastico di un semplice reinsediamento. Soltanto pochissime persone
sapevano esattamente in che modo gli ebrei erano stati uccisi. E' in realtà
assai probabile che molti tedeschi, mentre pensavano che gli ebrei non fossero
più vivi, non credessero necessariamente che fossero morti. Tale convinzione,
inutile dirlo, è logicamente incoerente, ma moltissime incoerenze logiche
vengono accettate in tempo di guerra. Pochissime persone erano interessate al
destino degli ebrei. La maggior parte doveva affrontare molti problemi più
importanti. Era un argomento spiacevole, pensarci non serviva a niente, e le discussioni
sul destino degli ebrei venivano lasciate cadere. Per tutta la durata della guerra
questo argomento fu evitato, cancellato. Infine queste le riflessioni sugli Alleati: A Londra e a Washington i fatti sulla soluzione finale furono conosciuti piuttosto
presto e raggiunsero i capi dei servizi segreti, i ministri degli affari esteri
e della difesa. Ma i fatti non furono considerati di grande interesse e importanza
o almeno alcuni funzionari non ci credettero o li giudicarono esagerati. Non ci
fu nessun tentativo deliberato per interrompere il flusso d'informazioni sulle
uccisioni in massa (tranne che per un certo periodo da parte di funzionari del
dipartimento di stato) ma soprattutto mancanza d'interesse e incredulità.
Questa incredulità può essere spiegata sulla base della mancanza
di conoscenza da parte degli angloamericani degli affari europei in generale e
del nazismo in particolare. Sebbene fosse generalmente accettato che i nazisti
si comportassero in maniera meno civile dell'esercito tedesco nel 1914-18, l'idea
di un genocidio sembrava tuttavia incredibile. Né la Luftwaffe, né
la marina tedesca, né l'Afrika Korps avevano commesso simili atti di atrocità,
e questi furono gli unici reparti delle forze armate tedesche che i soldati alleati
incontrarono prima del 1944. La Gestapo era conosciuta attraverso non molto credibili
film di serie B. Il fanatismo barbaro era inaccettabile per persone che pensavano
pragmaticamente, che credevano che i lavori forzati piuttosto che l'annientamento
fossero il destino degli ebrei in Europa. La maligna natura del nazismo era al
di là della loro comprensione.
Elie
Wiesel Il libro raccoglie vari articoli e interventi di
Elie Wiesel. Voci nella
notte è la prefazione scritta per presentare
il volume Des voix
dans la nuit, curato
da Ber Mark, per l'editore
Plon di Parigi, che raccoglie le voci di Zalman Gradowski,
Zalman Lewental e
Leib Langfus,
ebrei del Sonderkommando
di Auschwitz-Birkenau, che
sotterrarono i loro scritti vicino ai crematori, prima di essere uccisi. Allora io ignoravo, oggi lo so: l'inferno non è lo stesso dappertutto.
Esistono mille modi di subire il terrore e di attendere la morte. Bruciare cadaveri
è fra i più crudeli. Il Sonderkommando bruciava cadaveri.
Gli assassini tedeschi uccidevano e i becchini prendevano le vittime e le gettavano
nei forni. Poi, dopo qualche settimana, gli assassini prendevano i becchini e
li sostituivano con dei nuovi arrivati. E il cielo lassù diventava cenere.
Zalman Gradowski
supplica, in un frammento, perché ogni testo sia ritrovato: Cercatore, cerca dappertutto, in ogni briciola di terra. Documenti, i miei e quelli
di altre persone, vi sono sepolti, documenti che gettano una luce cruda su tutto
quello che è accaduto qui... Nel dovere di raccontare sembra assumere un senso anche la vita
di questi uomini. Conoscono l'angoscia e il dubbio, la nostalgia e il rimorso, conoscono perfino
la speranza: per questo si armano, per questo scrivono. La loro ossessione: resistere
al carnefice, combattendo l'oblio. “Bisogna che gli uomini sappiano e se ne ricordino;
bisogna”. La crudeltà sistematica e omicida degli assassini, l'agonia lenta
e lucida delle vittime, la generosità dei bambini, il coraggio delle ragazze
nelle camere a gas: bisogna che le generazioni future sappiano. “Ricordatevi che
siamo andati alla morte con molta fierezza e in perfetta coscienza” disse una
giovane ebrea polacca ai membri del Sonderkommando: Leib Langfus
l'ha udita. Così come ha udito gli ebrei e i polacchi cantare i loro inni
nazionali. Il tempo non ha conservato intatti questi documenti. Nessun documento contiene altrettante domande; nessun volume è stato composto
con maggior rigore o lucidità. Le cancellature, gli stessi spazi bianchi
hanno la loro importanza; e il loro peso simbolico. Dal momento che i manoscritti
sono danneggiati - dall'umidità, dalla terra e dal tempo - non sapremo
mai tutto ciò che uno Zalman Lewental voleva comunicarci. Di Auschwitz
non si saprà mai tutto. Certe esperienze non si comunicano, e certamente
non con la parola. Solo chi ha vissuto Birkenau si ricorderà di Birkenau.
Chi non ha visto i suoi amici andarsene per diventare becchini o fumo non capirà
mai perché la vista di una semplice ciminiera ci fa respirare faticosamente.
In un altro piccolo saggio, dal titolo
I giusti fra noi, Wiesel
analizza i tentativi di soccorrere gli ebrei. L'espressione
i giusti fra le nazioni è stata coniata dal memoriale
Yad Vashem di Gerusalemme
per indicare appunto tutte le persone accorse in aiuto del popolo ebraico. Ci furono anche sforzi collettivi. Il caso della Danimarca resterà per
sempre l'esempio più glorioso. Come pure quello della Bulgaria. Il primo
è ben conosciuto. Il re di Danimarca aveva stupefatto gli occupanti
annunciando la sua intenzione di portare la stella gialla in segno di solidarietà
con i suoi sudditi ebrei. Nel 1943, avvisata da un ufficiale tedesco, la Resistenza
danese, in un mirabile gesto di eroismo collettivo, riuscì a salvare tutti
gli ebrei del paese inviandoli in Svezia. E quando rientrarono, dopo la Liberazione,
trovarono le loro case in perfetto ordine e fiori sulla tavola. Per l'Italia, Wiesel ricorda i fatti di
Assisi: Come spiegare il coraggio di un frate francescano, padre Rufino Niccacci,
di Assisi, che in piena Italia occupata, riuscì a nascondere trecento ebrei
fino alla fine della guerra? Come comprendere l'abnegazione di qualche individuo,
quando la società che lo circondava era dominata e avvelenata dal terrore
e dall'odio? Anton Schmidt,
caporale austriaco pagò con la vita l'aiuto portato agli ebrei del ghetto
di Vilna. “Ho visto - scrisse Anton Schmidt nella sua ultima lettera alla
famiglia - ho visto come duecento, trecento ebrei sono stati fucilati; ho visto
come dei bambini sono stati massacrati... Aiutando gli ebrei, ho agito semplicemente
come un essere umano che non voleva far male a nessuno”. Nonostante questo Wiesel è costretto a concludere in maniera
desolante: Yad Vashem dichiara di possedere circa quattromilacinquecento nomi di “Giusti”
che hanno cercato di salvare gli ebrei durante l'Occupazione. Sono molti? Per
così tanti paesi? Per sei milioni di vittime? Nel 1990 il numero dei Giusti
riconosciuti in Israele era salito a 8611.
Elie
Wiesel Testo che raccoglie articoli di provenienza varia, scritti da
Wiesel. Ne
La nostra colpa comune viene affrontato il problema
delle responsabilità dell'Olocausto: Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi,
dei polacchi, degli ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto risolvere la
“questione ebraica” così completamente e così rapidamente. Gli slovacchi
pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano dal loro paese;
gli ungheresi esercitavano pressioni su Eichmann, che non mancava certo
di zelo, perché accelerasse i trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono
i tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è un caso che
i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove. Non sussiste più dubbio sulla effettiva conoscenza almeno
di massima della persecuzione, in Occidente. A Washington e a Londra, e anche a Gerusalemme, erano al corrente di ciò
che stava accadendo fin dal 1942. Hitler e Goebbels non lo ignoravano. Si aspettavano
una valanga di proteste e di minacce. Poi capirono che l'Occidente lasciava loro
ogni libertà d'azione. Il saggio è scritto a commento del processo Eichmann a
Gerusalemme. Infine, per non togliere nulla alla verità storica, il procuratore generale
avrebbe dovuto spingere fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto
che, per amaro e triste che possa essere, non è meno vero: gli ebrei stessi
non fecero tutto ciò che avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare
molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha
usato la sua influenza politica e finanziaria, non ha smosso cielo e terra come
avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue ragioni, le sue giustificazioni,
ma non sono valide. Nulla giustifica né spiega la passività quando
si tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia di persone. Quante manifestazioni
hanno avuto luogo al Madison Square Garden? Quante dimostrazioni davanti alla
Casa Bianca? Ben Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo Child
of the Century. A leggerlo si gela il sangue. Le conseguenze del silenzio sono evidenti per lui, ebreo deportato
fra gli ultimi, dalla Transilvania. Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra riguarda gli ebrei di Ungheria
e in particolar modo quelli della Transilvania. La loro deportazione in
massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno 1944, qualche giorno prima dello sbarco
in Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte
che li attendeva. Lo stesso nome sinistro di Auschwitz era loro sconosciuto. Non
sapevano cosa significasse per loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero potuto
essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma la maggior parte sì. L'Armata
Rossa si trovava a una distanza di circa quaranta chilometri: di notte si sentiva
chiaramente il rimbombo dei cannoni. C'erano delle montagne nei dintorni, dove
ci si poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche giorno; l'arrivo dei liberatori
non era che una questione di ore. Ma a quei pii ebrei di Transilvania veniva detto
che non avevano nulla da temere, che li trasferivano da qualche parte all'interno
del paese. E loro ci hanno creduto. Ripeto: questo è accaduto nella primavera
dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklyn, di Whitechapel
e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro
che piccole stazioni di provincia. Tale silenzio comprende anche la Palestina di allora, luogo di
rifugio di tanti ebrei già scappati. Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un giorno la curiosità
di esaminare negli archivi dei giornali di Tel Aviv le annate 1943-44.
Fu un'esperienza sconvolgente. “Non capisco”, mi disse. “Se tu sapessi quali erano
i problemi che allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni comunali a Hedera
o altrove: titoli in prima pagina. In un angolo sperduto della pagina un piccolo
trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei
del ghetto di Lublino, o di Lodz...”. Desolante si impone la conclusione: I grandi spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini
si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia generale aveva creato un clima
propizio ai criminali che potevano agire con calma, efficacemente, senza fastidi
né falsa vergogna. Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i reduci
sopravvissuti: Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti erano, e
sono, coscienti della loro parte di responsabilità. Non si tratta di un'idea
giansenista e il peccato originale li lascia freddi. L'idea che li domina è
più concreta, più straziante. Fa parte del loro essere.
Jorge
Semprun/Elie Wiesel Il testo è la trascrizione di un dialogo fra
Elie Wiesel e Jorge Semprun,
trasmesso dalla televisione francese, nel 1995, in occasione del cinquantesimo
anniversario della liberazione dei campi di concentramento. Elie Wiesel: Bisogna collocare tutto nel presente, nel reale. Tu parli della
Liberazione. Io anni fa a Mosca ho fatto una domanda al generale Petrenko.
E' stato lui a liberare Auschwitz. Eravamo là, appunto, tutt'e due,
e abbiamo confrontato le nostre impressioni su quell'ultima notte. Perché,
vedi, noi all'interno del campo ci preparavamo ad uscirne, mentre lui predisponeva
le sue truppe per liberarlo. Il problema di Dio emerge, il mistero del suo silenzio, a partire
da due prospettive simili e insieme profondamente diverse: E.W.: Comunque per me Dio era l'ancora di salvezza. Non lo so, Jorge, io
non capisco, ma Auschwitz e Buchenwald per me sono inconcepibili,
con o senza Dio. In effetti, ogni volta mi pongo lo stesso interrogativo: Ma Dio
là dentro dov'era? E se c'era cosa faceva? Perché, vedi, io provengo
da un ambiente religioso, estremamente religioso. Tu invece hai una formazione
politica. Tu lavoravi nella Resistenza. Io non ho fatto niente. Ho lasciato fare.
Dio faceva e l'uomo disfaceva: le cose, gli eventi, le creature umane. Per me
c'era solo Dio, perché tutto sommato l'uomo ai miei occhi non contava.
Contava Dio, Lui soltanto importava. Spettava a Lui dare un senso alla mia vita.
Era Dio la motivazione di tutto quello che mi succedeva. E proprio per questo
io avvertivo un'assenza, un eclissi: già, ma Dio dove era? E allora è
avvenuto che più tardi mi sono rivoltato, ho lottato contro Dio, soprattutto
a guerra finita. E' stato quando ho cominciato a occuparmi di filosofia, quando
ormai sapevo come formulare gli interrogativi. Ma Dio c'era, Dio esisteva sempre.
Perfino al Campo Piccolo. Mi ricordo di Pasqua. Per Pasqua noi non possiamo mangiar
pane. Be', io ne ho mangiato, ma avevo dei compagni che neppure dentro il campo
ne mangiavano. Ricordo le preghiere. Nel Campo Piccolo, il giorno di Pasqua pregavamo.
Io ero come assente. L'11 Aprile, la prima cosa che abbiamo fatto, noi, un gruppetto
di compagni del campo piccolo, è stato recitare il Kaddish. E' per i morti
il Kaddish. La prima cosa. Si, proprio questa, recitare il Kaddish. Dunque, io
mi definivo attraverso Dio. E ancora oggi, non so...
Emmanuel
Lévinas Emmanuel Lévinas,
filosofo ebreo originario di Kaunas,
in Lituania, non racconta esplicitamente, nelle sue opere filosofiche, la sua
esperienza personale dell'Olocausto e quella del suo popolo. La mia biografia è dominata dal presentimento e dal ricordo dell'orrore
nazista. Lévinas accenna quasi con pudore al suo internamento nel
campo di Fallinpostel nei pressi di Magdeburgo persecuzione da lui personalmente
vissuta ove fu dal 1940 al 1945 come prigioniero di guerra, perché dal
1930 naturalizzato francese, in un campo separato, ma vicino a quello degli ebrei
destinati alla morte perché ebrei. Tutte queste ricerche, che sono cominciate prima della guerra, sono poi state
continuate e, nella maggior parte, redatte durante la prigionia. Ma se ricordiamo
lo stalag non è per una garanzia di profondità, e nemmeno per un
diritto all'indulgenza, ma per spiegare l'assenza di ogni presa di posizione sulle
opere filosofiche che furono pubblicate, con tanto clamore tra il 1940 e il 1945.
Una filosofia che parta dalla dimenticanza dell'esistente, di
colui che concretamente esiste, viene invasa dall'anonimato dell'esistere. Non
si può partire dall'anonimo il y a
( c'è) o dall'impersonale
(come il pleut,
piove). L'il y a, che abbiamo descritto durante la prigionia e che abbiamo presentato
in quest'opera all'indomani della Liberazione, ci riporta a una di quelle strane
ossessioni dell'infanzia che conserviamo in noi e che riappaiono nell'insonnia
quando il silenzio risuona e il vuoto resta pieno. La conseguenza del primato dell'esistere impersonale sull'esistente
è devastante nel pensiero filosofico. Immaginiamo il ritorno al nulla di tutti gli esseri: cose e persone. Non è
possibile situare questo ritorno al nulla al di fuori di ogni evento. Ma il nulla
stesso? Qualcosa accade, non fosse altro che la notte e il silenzio del nulla...
Indicheremo questa “consumazione” impersonale, anonima, ma inestinguibile dell'essere,
che mormora al fondo del nulla stesso, con il termine di il y a. Nel suo
rifiuto di assumere una forma personale, l'il y a è l'essere
in generale. Le parole con cui viene descritto l'esito del primato dell'essere
in generale sull'esistenza concreta dell'altro e del suo volto descrivono, senza
che lo si affermi esplicitamente, la realtà dei campi di concentramento.
La scomparsa di ogni cosa e la scomparsa dell'io pervengono a ciò che non
può scomparire, al fatto stesso dell'essere a cui, volenti o nolenti, si
partecipa senza aver preso l'iniziativa, anonimamente... Di fronte a quest'oscura
invasione non è possibile raccogliersi in sé, rientrare nel proprio
guscio. Siamo esposti. Anche la durissima opposizione al pensiero heideggeriano che traspare già
in queste poche frasi, è opposizione filosofica, ma anche opposizione dovuta
alla comprensione dell'utilizzo del suo pensiero. Così, in
La difficile libertà: La nostra via conduce dall'esistenza all'esistente e dall'esistente ad
altri... Un tale strappo non è un esser-meno, bensì il modo d'essere
del soggetto. E' potere di rottura, rifiuto di principi neutri ed impersonali,
rifiuto della totalità hegeliana e della politica, rifiuto dei ritmi incantatori
dell'arte. Esso è poter parlare, libertà di parola...
Reinhard
Lettmann/Heinrich Mussinghoff (a cura di)
Nel volume viene analizzata l'opera del vescovo di Munster
Clemens August Graf von Galen e la sua opposizione al
nazismo. In appendice vengono pubblicate le omelie con le quali, in un crescendo
progressivo, attaccò il terrore hitleriano. nella prima del 13 luglio 1941
descrive ai suoi fedeli la confisca dei beni ecclesiastici della città
e la detenzione immotivata di ecclesiastici rei solo di non condividere la politica
del Terzo Reich: Io non mi faccio illusioni: ciò può capitare anche oggi,
o un giorno, anche a me. E poiché allora io non potrò più
parlare in pubblico, lo voglio fare oggi; voglio mettere in guardia pubblicamente
a non procedere per questa via, che secondo la mia convinzione, provocherà
la giusta punizione di Dio sugli uomini e porterà sventura e annientamento
al nostro popolo ed alla nostra Patria... Ma, ancora, la denuncia si unisce alla convinzione della missione
della Germania: Se questa voce resta inascoltata e non recepita, il dominio della regina giustizia
non sarà più ripristinato, e così il nostro popolo e la nostra
patria tedesca, nonostante l'eroismo dei nostri soldati e delle loro gloriose
vittorie, andranno in rovina per putrefazione interna e per corruzione. Preghiamo
per tutti quelli che sono nel bisogno, specialmente per i nostri religiosi, per
la nostra città di Munster, affinché il Signore voglia risparmiarci
altre prove, per il nostro popolo tedesco, la nostra Patria ed il suo Führer!
Nella predica del 3 agosto 1941 la denuncia è nettissima. Il vescovo, venuto
a conoscenza dello sterminio degli handicappati e dei malati di mente così
dichiara dal pulpito: Già il 6 luglio dovetti aggiungere alle parole della lettera pastorale
comune il seguente commento: “Da alcuni mesi noi apprendiamo che, per disposizione
di Berlino, vengono portati via forzatamente dalle case di cura e dai manicomi
persone già a lungo malate e che potrebbero sembrare incurabili. Regolarmente
i congiunti dopo poco tempo vengono informati che la salma sarebbe stata cremata
e che le ceneri dei loro defunti avrebbero potuto essere loro recapitate. Generalmente
si ha il sospetto, quasi la certezza, che questi numerosi casi di inattesi decessi
di malati di mente non avvengano spontaneamente, ma che siano causati intenzionalmente,
che si segua qui quella dottrina che afferma di poter distruggere le cosiddette
“vite inutili”, quindi uccidere esseri innocenti, se si giudica che la loro vita
non abbia più alcun valore per il popolo e per lo Stato. Dottrina orribile,
la quale vuole giustificare l'assassinio di innocenti e permette per principio
l'uccisione violenta di invalidi inabili al lavoro, di mutilati, di malati inguaribili,
di persone decrepite”. Il vescovo descrive un caso a lui personalmente noto: Voglio citarvi un esempio di ciò che attualmente avviene. A Marienthal
vi era un uomo di 55 anni, un contadino di un comune rurale della regione di Munster-
potrei dirne anche il nome - che soffriva da alcuni anni di squilibri mentali
e che pertanto è stato affidato alla Casa di cura e manicomio di Marienthal.
Non era veramente alienato, poteva ricevere visite ed era sempre contento quando
i suoi congiunti lo andavano a trovare. Ancora due settimane fa sua moglie ed
uno dei suoi figli, che come soldato sta al fronte e che era in licenza, sono
andati a visitarlo. Questo figlio vuole molto bene a suo padre e così il
saluto d'addio fu molto commovente; nessuno sa se questo soldato ritornerà,
perché può morire al fronte per i suoi connazionali. Il figlio,
questo soldato, probabilmente non rivedrà più il padre in questa
vita, perché è stato incluso nel suo ricovero nella lista degli
improduttivi. Un parente, che in questa settimana voleva far visita a quel padre
in Marienthal, non fu fatto entrare e gli si disse che il malato per disposizione
del Consiglio dei Ministri per la Difesa del Paese, era stato portato via, senza
poter dire dove. I parenti furono informati entro alcuni giorni. Quale tenore
avrà questa comunicazione? Come quella di altri casi? Che quell'uomo era
deceduto, che la sua salma era stata cremata, che le ceneri, mediante il pagamento
di una tassa, potevano essere consegnate? Allora il soldato, che è al fronte
e mette la propria vita a repentaglio per i suoi connazionali, non vedrà
più suo padre in questa vita, perché dei connazionali in patria
gli hanno tolto la vita. L'omelia allora denuncia ciò che sta avvenendo ed intuisce
gli sviluppi futuri: “Non uccidere!” Dio ha impresso questo comandamento nella coscienza degli uomini
molto prima che un codice penale minacciasse l'assassinio con la pena, molto prima
che Pubblico Ministero e Tribunale perseguissero e punissero l'assassinio. E il
primo comandamento: “Non avrai altro Dio all'infuori di me!”. Piuttosto dell'unico
vero Dio si creano a piacere idoli per adorarli: la natura, lo Stato, il popolo,
la razza. E quanti sono coloro il cui dio, in realtà, secondo la parola
di S. Paolo è “il ventre”, la propria buona salute, cui sacrificano tutto,
anche l'onore e la coscienza, è l'ebbrezza dei sensi, l'ebbrezza del denaro,
l'ebbrezza del potere! E allora può nascere anche la tentazione di arrogare
diritti divini a se stessi, di sentirsi padroni della vita e della morte dei propri
simili.
Pio
XI L'opposizione della chiesa tedesca al nazismo, che
era stata chiara dal sorgere del movimento, si era espressa con maggior decisione
dal 1930 al 1932, dopo i grandi successi elettorali nazisti. La prima parte dell'enciclica, il cui primo abbozzo fu steso a Roma in
tre notti dal card. Faulhaber, ma venne poi rivisto e corretto dal card.
Pacelli riassumeva i rapporti fra Stato e Chiesa in Germania dal 1933,
fermandosi soprattutto sulle vane speranze poste nel concordato e sulla aperta
lotta contro la Chiesa. Nella seconda parte, Pio XI ribadiva le verità
fondamentali del cattolicesimo, che il nazismo negava o interpretava ambiguamente,
condannando le tendenze panteistiche, la divinizzazione della razza, del popolo,
del capo dello Stato, l'ostilità verso l'Antico Testamento, il rifiuto
di una morale oggettiva universale e di un diritto naturale: ”Chi eleva la razza,
il popolo o una determinata sua forma, a rappresentanti del potere statale od
altri elementi fondamentali della società umana a norma suprema di tutto,
anche dei valori religiosi, perverte e falsa l'ordine delle cose create e volute
da Dio”. L'enciclica proclamava poi l'indissolubile legame fra diritto e morale,
fra morale e religione, sottolineava le conseguenze disastrose cui la negazione
di un diritto naturale apre la via, cioè un eterno stato di guerra fra
le nazioni e la totale subordinazione dell'individuo allo Stato. Nel 1938 Pio XI così
si espresse in una importante udienza ai pellegrini della
Radio Cattolica Belga, riportata da
don Giuseppe Dossetti, nella introduzione a
Le querce di Monte Sole: Il Papa dopo aver commentato l'espressione del Canone Romano, che, nel
momento culminante della Messa, chiede a Dio Padre di gradire l'offerta della
Chiesa come ha gradito il sacrificium Patriarchae nostri Abrahae, soggiungeva:
“L'antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi
che sono espresse in questo testo. E' un movimento antipatico, un movimento al
quale noi non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte. Poi secondo la testimonianza
di mons. Picard: ”A questo punto il Papa non riuscì a contenere
più la sua emozione. E piangendo cita i passi di San Paolo che mettono
in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo: la promessa è stata
fatta ad Abramo e alla sua discendenza... La promessa si realizza nel Cristo e per
mezzo del Cristo in noi che siamo le membra del suo Corpo mistico. Per mezzo del
Cristo e nel Cristo, noi siamo della discendenza spirituale di Abramo. No, non
è possibile ai cristiani prendere parte all'antisemitismo. Noi riconosciamo
a chiunque il diritto di difendersi e di proteggersi contro tutto ciò che
minaccia i propri interessi legittimi. Ma l'antisemitismo è inammissibile.
Noi siamo spiritualmente dei semiti”.
Renzo
de Felice Nelle ricerche di Renzo de Felice anche l' elenco delle istituzioni cattoliche che hanno accolto ebrei per nasconderli e per salvarli dalla deportazione. Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei
Joseph
L.Lichten Joseph L. Lichten, ebreo
di origine polacca, laureato in legge all'Università di Varsavia, scrisse
nel 1963 un breve saggio dal titolo Un problema di valutazione:
Pio XII e gli ebrei. Un solo commento personale: molte volte, mentre portavo avanti le mie ricerche...
ero anche alla ricerca della mia anima. In considerazione della mia tragedia personale,
io mi sento obbligato in modo tutto speciale a vagliare ogni particolare relativo
alla tragedia ebraica dell'ultima guerra... Queste le sue conclusioni di allora: Una nutrita documentazione conferma il timore di papa Pio XII che un pronunciamento
ufficiale avrebbe aggravato e non migliorato le condizioni dei perseguitati. Ernst
von Weizsaecker, ambasciatore tedesco presso il Vaticano, durante la II guerra
mondiale, lasciò scritto nelle sue memorie: “Neppure istituzioni di importanza
mondiale, come la Croce Rossa Internazionale o la chiesa cattolica romana, ritennero
opportuno fare appelli a Hitler in termini generali a difesa degli ebrei, o rivolgersi
apertamente alla solidarietà del mondo. Fu precisamente per il loro desiderio
di aiutare gli ebrei che queste organizzazioni si trattennero dal pronunciare
qualsiasi appello pubblico generale; temevano infatti di compromettere ulteriormente,
piuttosto che aiutare, la posizione degli ebrei”. Con queste parole l'ambasciatore correggeva le dichiarazioni che
aveva espresso a caldo nei giorni della deportazione degli ebrei di Roma, con
due telegrammi inviati a Berlino, pubblicati da L. Poliakov,
Il nazismo
e lo sterminio degli ebrei: Telegramma al segretario di Stato Keppler. Roma (Vaticano), 17 ottobre 1943 Sono in grado di confermare la reazione del Vaticano
in seguito all'evacuazione degli Ebrei di Roma... La Curia è particolarmente
costernata, visto che tutto è avvenuto, per così dire, sotto le
finestre del Papa. La reazione sarebbe probabilmente attenuata se Ebrei venissero
addetti al lavoro qui in Italia.
Fto WEIZSACKER Roma 24 ottobre 1943 Benché premuto da ogni parte, il Papa non si è
lasciato trascinare ad alcuna riprovazione dimostrativa a proposito della deportazione
degli Ebrei di Roma. Sebbene egli debba aspettarsi che un tale atteggiamento
gli sia rinfacciato dai nostri nemici e che venga sfruttato dagli ambienti protestanti
dei paesi anglosassoni nella loro propaganda contro il cattolicesimo, egli ha
nondimeno fatto il possibile in questo delicato problema per non mettere alla
prova le relazioni con il governo tedesco e gli ambienti tedeschi di Roma. Siccome
senza dubbio, non vi sarà più motivo di aspettarci ulteriori azioni
tedesche a Roma contro gli Ebrei, si può ritenere che tale questione,
spiacevole per le relazioni tra la Germania ed il Vaticano, sia liquidata. Fto WEIZSACKER Pio XII
condannò pubblicamente gli attentati all'incolumità di persone
e razze. Mai, però, pronunziò la parola ebreo, nei 6 anni del
conflitto, nemmeno durante i giorni della razzia nel ghetto di Roma. Ma ci sia consentito ricordare che il “silenzio” di Pio XII si estese pure alle
persecuzioni dei cattolici. Malgrado il suo intervento 3000 sacerdoti cattolici
vennero uccisi dai nazisti in Germania, Austria, Polonia, Francia e in altri
paesi; le scuole cattoliche vennero chiuse, la stampa cattolica fu costretta
al silenzio o sottoposta a stretta censura, le chiese cattoliche furono chiuse.
I toni della sua condanna erano perciò più generali:
Nel messaggio natalizio del 1942 e in termini analoghi il 2 giugno 1943, egli
deplorò il trattamento riservato a “... centinaia di migliaia di persone
che, senza essere responsabili di colpa alcuna e unicamente a causa della loro
nazionalità o razza, sono state condannate a morte o graduale estinzione...
è consolante per noi il fatto che, attraverso l'assistenza morale e spirituale
fornita dai nostri rappresentanti e tramite il nostro aiuto finanziario, siamo
riusciti a confortare un gran numero di profughi, senzatetto, emigranti, fra
cui anche dei non ariani”.
Gian
Franco Svidercoschi La storia dell'amicizia fra
Karol Wojtyla e Jerzy Kluger,
suo compagno di classe ebreo a Wadowice. Provo una profonda venerazione per tutto ciò e per tutti coloro
la cui memoria volete venerare il 9 maggio a Wadowice... Dalla lettera del Papa a Jerzy Kluger in occasione dell'inaugurazione
di una lapide commemorativa degli ebrei di Wadowice, vittime della persecuzione
nazista.
Romano
Guardini Hans
e Sophie Scholl,
Alexander Schmorell, Christoph
Probst, cinque
studenti, con il loro professore Kurt Huber,
fondatori del gruppo della Rosa Bianca, furono ghigliottinati nel 1943, per
aver steso e diffuso, soprattutto per posta, sei volantini che denunciavano i
crimini della dittatura. Nella sua apologia davanti al tribunale del popolo, Huber scriverà
che il suo obiettivo era: ”Il risveglio degli ambienti studenteschi, servendomi
non di un'organizzazione, ma di semplici parole, per provocare non atti di violenza,
ma un giudizio morale sui gravi mali presenti della vita politica. Il ritorno
ai princìpi chiari, morali, allo stato di diritto, alla fiducia reciproca,
non è un atto illegale, ma, al contrario, il ripristino della legalità”.
Così scrive Paolo Ghezzi, nel breve articolo
La Rosa Bianca ed i suoi maestri, all'interno del libro.
Dietrich
Bonhoeffer D. Bonhoeffer, pastore e
teologo luterano tedesco, scrive nel Natale del '42 queste righe, pensando alla
situazione della Germania. Della stupidità Il 5 aprile '43 è rinchiuso nel carcere di
Berlino-Tegel. Il 20 luglio '44 fallisce l'attentato
ad Hitler. Il cognato di Bonhoeffer, Hans von Dohnanyi
è la figura chiave della cospirazione.
Christoph
U. Schminck-Gustavus Il racconto del medico dell'esecuzione, scritto a distanza
di pochi anni, viene citato spesso perché è l'ultima notizia autentica
sulla fine di Bonhoeffer. Il medico scrisse: La mattina di quel giorno (9 aprile 1945), tra le ore 5 o 6, i prigionieri - l'ammiraglio
Canaris, il generale
Oster, il giudice Sack,
il capitano Gehre e il pastore
Bonhoeffer - furono condotti
fuori delle loro celle. A voce alto vennero lette le sentenze della corte marziale.
Attraverso una porta socchiusa in una cella nella baracca dei prigionieri ho visto
il pastore Bonhoeffer in ginocchio. Stava pregando, prima che si togliesse i vestiti
da prigioniero. Era immerso in un'ultima preghiera a Iddio. La completa dedizione
nella preghiera di quest'uomo, particolarmente simpatico, il suo assorbimento
totale nella certezza di essere esaudito mi hanno profondamente colpito. Anche
dopo, al luogo del supplizio, Bonhoeffer disse ancora una breve preghiera. Poi
salì calmo, con coraggio e fermezza d'animo sulla scaletta sotto la forca.
La morte avvenne dopo pochi secondi. Nei quasi cinquant'anni della mia prassi
di medico non ho mai visto morire un uomo in maniera così rassegnata alla
volontà di Dio. Christoph U.Schminck-Gustavus
ha imparato, nei suoi precedenti studi sulla Shoah (vedi il fondamentale
Mal di casa, storia di
Walerjan Wrobel) a leggere dietro i resoconti ufficiali,
dietro le righe dei resoconti volutamente allettanti dei magistrati e dei medici
tedeschi. Fischer era un Lagerarzt, cioè il medico di un campo
di concentramento, e come tale deve aver visto tutto, specialmente perché
Flossenburg era un campo di sterminio. Il medico del campo poteva circolare
liberamente nel Lager, poteva visitare le baracche, poteva vedere la fame
e gli stenti, le malattie e la morte. Il medico vedeva anche i cosiddetti musulmani,
cioè i moribondi nel Revier, nella baracca sanitaria del campo.
Fischer, il medico che ci
descrive la morte di Bonhoeffer,
è presente al momento della morte perché suo compito è
redigere il certificato di morte. E' uno delle autorità del campo, uno
dei tanti carnefici. La maggior parte di questi certificati, però, falsificano i motivi del
decesso per ingannare i parenti delle vittime. Il dottor Fischer non ha
firmato solo il certificato di morte per Dietrich Bonhoeffer e per gli altri quattro
assassinati quella mattina, ma la sua firma si troverà probabilmente anche
sotto il certificato di morte per il fratello di Sandro Pertini e di tanti
altri morti a Flossenburg. Un'altra funzione del medico era l'accertamento
di morte avvenuta, dopo le esecuzioni nel campo. Per l'ordinamento nel mondo concentrazionario,
è un dato essenziale che il numero dei prigionieri sia sempre esatto: nessuno
dei vivi e dei morti deve mancare all'appello. Si viene cancellati dai registri
del Lager solo quando arriva il certificato di morte, firmato dal medico.
Il dottor Fischer dunque non era un testimone casuale delle ultime preghiere di
Dietrich Bonhoeffer, ma era un funzionario del campo che partecipava d'ufficio
all'esecuzione. Questo fatto spiega perché Fischer avvolge il suo racconto
in una luce mite, nascondendo le atrocità che accompagnano l'assassinio.
Fischer scrive : “prima che si togliesse i vestiti da prigioniero” - ma non
dice perché Bonhoeffer avesse tolto i suoi vestiti. Lo leggiamo invece
in una sentenza della corte d'assise di Augsburg del 15 ottobre 1955: Le esecuzioni avvennero l'una dopo l'altra e durarono circa un'ora.
Tutti e cinque gli uomini furono costretti a spogliarsi completamente nudi ;
poi dovettero salire su una specie di scaletta. Prima fu sistemato una fune al
loro collo e poi venne tirata via la scaletta. Subito dopo avvenne la morte. Ma sappiamo ancora di più del dottor Fischer. Lui non era solo medico
condotto a Flossenburg, ma ricopriva un rango elevato nelle SS. Era Obersturmbannfuhrer,
cioè colonnello delle SS. Pochi giorni dopo l'assassinio dei cinque prigionieri
Fischer partecipò all'evacuazione del campo, accompagnando la famigerata
“marcia della morte” verso Dachau. Dopo il processo di Augsburg
il dottor Fischer tornò a casa a piede libero. Nessuno gli ha potuto
impedire di dichiararsi profondamente colpito dalla morte del martire.
Un processo svoltosi successivamente svela ancora più chiaramente
la sua identità: Un anno dopo Fischer fu condannato, in un altro processo della corte d'assise
di Weiden, a tre anni di reclusione per concorso in omicidio doloso; aveva
partecipato all'uccisione di almeno 40 prigionieri di Flossenburg tramite
iniezioni. Eseguendo un ordine clandestino di Himmler di eliminare tutti
i moribondi nei campi, le vittime erano state scelte per il loro grave stato di
salute. Considerati non guaribili erano stati ritenuti ormai di peso per la produttività
del campo. In carcere Bonhoeffer
aveva scritto anche poesie come La morte di Mosè:
Tu mi hai concesso la morte sulle aspre montagne, La fede di Bonhoeffer era andata contro corrente da sempre, ma non bisogna dimenticare
quello che in quei tempi succedeva nella chiesa ufficiale. L'unica rivista religiosa
autorizzata dal regime, la rivista Pfarramt und Theologie
aveva scritto nei giorni dopo il 20 luglio 1944, cioè dopo l'attentato
ad Hitler: Il giorno tremendo Il processo di von Dohnanyi,
cognato di Bonhoeffer, ispiratore principale dell'attentato ad Hitler, si svolse
al di fuori di ogni legalità: Il medico, nell'estremo tentativo di impedire che von Dohnanyi fosse portato via
dall'ospedale, gli fece due forti iniezioni di Luminal, un pesante sonnifero,
per renderlo non trasportabile. Bonheffer
celebrò nella sua ultima domenica il servizio religioso. Dopo la funzione
fu aperta la porta e il pastore fu chiamato. Disse a uno dei co-prigionieri: “Questa è la fine... ma per me l'inizio
della vita”. Dopo queste parole fu portato a Flossenburg. Il processo fu, di nuovo, assolutamente irregolare: Neanche a Flossenburg fu chiamato un difensore per i cinque accusati. Non
esistette neppure una verbalizzazione nel processo per la redazione di
un protocollo. Ma per quella corte non erano questi difetti di procedura.
Quello che contava era il risultato. Per provare la diligenza del dibattimento,
Thorbeck volle far credere alla corte che il processo sarebbe durato
due giorni. Ma dalla deposizione di altri testimoni risulta che il processo
ebbe inizio verso mezzogiorno di domenica, 8 aprile 1945, e si concluse verso
mezzanotte con la condanna a morte di tutti i cinque congiurati. L'indomani Huppenkothen
tornò a Berlino per il rendiconto al RSHA. Il processo di Bonhoeffer e degli altri quattro fu presieduto
dal giudice Thorbeck, di
33 anni. Dichiarò che per quanto riguarda il procedimento marziale, egli avrebbe - come sempre - condotto
il processo in piena conformità alla legge e in maniera completamente serena
e diligente. La chiamata di un difensore gli apparve superflua; a parte questo,
sarebbe stata anche praticamente impossibile. Lui stesso scrisse il verbale del
procedimento. La corte d'assise di Augsburg,
chiamata a pronunciarsi dopo la guerra sul procedimento, concluse incredibilmente:
Un giudice, il quale allora doveva processare un resistente per la sua attività
sovversiva e il quale, in un procedimento corretto, l'ha condannato, perché
colpevole, oggi, dal punto di vista penale, non può essere biasimato. Questa
neanche se il giudice non ha esaminato la questione se il resistente di allora
fosse giustificato da uno stato di necessità sopralegale o addirittura
da un diritto alla resistenza. Il giudice che allora, per la sua soggezione alle
leggi vigenti, ha pensato di dover condannare un resistente alla morte per alto
tradimento, dal punto di vista penale, oggi non può essere colpevole.
Paul
Celan Nel 1980 l'editore Einaudi,
su suggerimento di Giulio Bollati,
propose ad alcuni scrittori italiani di redarre una antologia di scritti significativa
della loro formazione. Primo Levi
fu l'unico a realizzare tale selezione. Fra i testi figura
Fuga di morte, una delle poesie di
Paul Celan, poeta ebreo tedesco, sopravvissuto ai campi
di concentramento, ma morto suicida nel 1970. Nero latte dell'alba lo beviamo la sera
Georges
Perec Tra il 1978 e il 1980 G.Perec
e Robert Bober lavorarono
ad un film su Ellis Island,
l'isolotto alla foce dell'Hudson,
dove oltre 16 milioni di persone giunsero e attesero il visto per poter entrare
negli Stati Uniti, come “americani”. perché raccontiamo queste storie? Perec morirà
nel 1982. Questa è la sua ultima opera. Ebreo, figlio di ebrei polacchi,
perse il padre in guerra all'età di quattro anni, la madre due anni dopo,
ad Auschwitz. Per lui
Ellis Island diviene il luogo simbolico in cui interrogare
l'erranza e la speranza. non so con precisione in che consista Evocare allora storie di emigrazione è importante. Forse gli ebrei, popolo senza terra,
Jochanan
Elichaj Il piccolo volume, scritto da uno dei sacerdoti della
comunità cattolica ebraica d'Israele, analizza il rapporto esistente nelle
varie nazioni d'Europa fra antisemitismo e genocidio nazista, mettendo in luce
le responsabilità dei cristiani. Discepoli di un rabbino gli dicevano sovente che l'amavano. Un giorno
chiese loro: Sapete ciò che mi fa soffrire? Essi si stupirono e risposero:
Come possiamo saperlo? Egli disse allora: Come potete dunque dire che mi amate,
se non sapete ciò che mi fa soffrire?
Irene
Kajon Il volume espone e analizza gli itinerari dei filosofi
di matrice ebraica dinanzi alla presenza del male evidenziata dalla Shoah. Il primo gruppo - nel quale comprendiamo Richard L.Rubenstein,
André Neher, Emil L.Fackenheim - è rappresentato da
coloro i quali si oppongono alla dottrina, da loro considerata centrale nella
religione ebraica, secondo la quale vi è un equilibrio nell'essere tra
la sofferenza e la redenzione, un equilibrio che l'uomo sarebbe in grado di comprendere
mediante la propria ragione.
Antoine de Saint-Exupéry Il piccolo principe,
pubblicato il 6 aprile 1943, è dedicato a Léon
Werth, ebreo francese, carissimo amico dell'autore,
che non aveva potuto scappare dalla Francia. Colui che questa notte ossessiona la mia memoria ha cinquant'anni. E'
malato. Ed è ebreo. Come potrà sopravvivere al terrore tedesco?
Per immaginare che respira ancora ho bisogno di crederlo ignorato dall'invasore,
riparato in segreto dal bel baluardo di silenzio dei contadini del villaggio.
Allora soltanto credo che viva ancora. La situazione senza scampo è descritta, pur da lontano,
con incredibile precisione. Se combatto ancora combatterò un po' per te. Ho bisogno di te per credere
meglio nell'avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo
così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant'anni
sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sussistere
un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto
logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché
francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che
non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e
io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia. Saint-Exupéry scrisse
Pilota di guerra, come una difesa della Francia,
descrivendo i voli senza speranza di una squadriglia, la sua, di aerei da ricognizione
dinanzi all'avanzata nazista in terra francese. Il libro fu ritenuto da molti
la sola propaganda capace di riscattare l'immagine del paese. In America, dove
fu pubblicato nel febbraio 1942, fu una testimonianza che i francesi avevano cercato
di resistere ai tedeschi. L'edizione francese uscì, il 27 novembre 1942,
con una riga censurata, in cui Saint-Exupéry
dichiarava che erano tutti degli idioti, l'attendente che aveva perso i suoi guanti
come Hitler che aveva scatenato la guerra. Il libro suscitò moltissimi
plausi e moltissimo scalpore anche perché presentava, volutamente, in maniera
estremamente positiva, la figura di un aviatore francese ebreo così descritto:
Israel, quando lo scorsi dalla finestra, camminava rapidamente. Aveva il
naso rosso. Un grande naso molto ebraico e molto rosso. Il naso rosso di Israel
mi colpì in modo singolare. L'editore Gallimard
ritirò il libro, pur senza una esplicita proibizione dell'occupante tedesco.
Nel dicembre 1942 fu proibito dalle autorità di Vichy, insieme a tutte
le altre opere di Saint-Exupéry.
Bruno
Hussar Lasciate che mi presenti: sono un prete cattolico, sono ebreo. Cittadino israeliano,
sono nato in Egitto, dove ho vissuto 18 anni. Porto quindi in me quattro identità:
sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano, e mi
sento pure, se non proprio egiziano, almeno assai vicino agli arabi, che conosco
e che amo. Cosi p.Bruno Hussar
iniziò il suo intervento in una riunione presieduta dal noto rabbino scrittore
Abraham Heschel, a New York,
nel 1967. Durante l'occupazione tedesca presi molto più profondamente coscienza di
appartenere al popolo ebraico. Subito la banca bloccò definitivamente il conto
e Hussar capì che doveva
tagliare la corda per sfuggire all'arresto. Quel ragazzo non era battezzato. Ma se non è in cielo lui, mi domando
chi potrà andarci! Divenne domenicano nel 1945 e fu ordinato sacerdote
nel 1950. perché anche la pace è un'arte,
che non si improvvisa, ma deve essere insegnata.
Emmanuel
Lévinas E.Lévinas nasce il 30 Dicembre
1905 a Kaunas in
Lituania, soggetta alla dominazione della Russia
zarista. ci spogliavano della nostra pelle umana. Noi
non eravamo che una quasi-umanità. In questa totale deriva dell'umano, con una
sottile e delicata ironia, Lévinas ricorda che un giorno un cane si congiunse alla folla di prigionieri che, sotto
buona scorta, rientrava dal lavoro. Esso vivacchiava in qualche angolo sperduto,
nei dintorni del campo. Così noi lo chiamavamo Bobby, un nome esotico
(exotique), come conviene ad un cane così carino. Compariva agli appelli
mattutini e ci attendeva al ritorno, saltellando e abbaiando con allegria. Per
lui - questo era incontestabile - noi eravamo degli uomini. Afferma ancora Lévinas: Quel cane era l'ultimo kantiano della Germania nazista.
Questo aneddoto che richiama alla mente l'aforisma di
Ionesco “dove non c'è umorismo non c'è
umanità, dove non c'è umorismo c'è il campo di concentramento”,
ci apre uno spiraglio nell'esperienza di Lévinas di quegli anni, che
descriviamo in controluce con un testo filosofico che il nostro autore ha scritto
in quegli anni, ma pubblicato nel 1947, Dall'esistenza
all'esistente: Allorché le forme delle cose sono dissolte nella notte, l'oscurità
della notte, che non è né un oggetto né la qualità
di un oggetto, invade come una presenza. Nella notte in cui siamo inchiodati
alla notte stessa, non abbiamo a che fare con nulla. Un nulla però che
non è quello del puro niente. Non c'è più né questo
né quello, non c'è “qualcosa” ma questa assenza universale è,
a sua volta, una presenza inevitabile. Questa oscurità, che Lévinas chiama
il y a, è senza vie d'uscita e, al tempo stesso
è l'impossibilità di morire: è una paura di essere in preda, un essere consegnati a qualcosa
che non è qualcosa. Questa sospensione della vita, oscurità
della notte, trova radici nell'esperienza unica di quell'interregno dell'umano
che fu il periodo tra il 1940 e il 1945: come se perfino l'essere umano fosse rimasto in sospeso. Così, in Nomi propri. il per l'altro (o il senso) arriva fino all'attraverso l'altro, fino
a soffrire per una scheggia che brucia la carne, ma per niente. Così in Altrimenti che l'essere. vivere in maniera umana, gli uomini hanno bisogno di molto, ma molto
meno, rispetto a ciò che offrono le magnifiche civiltà in cui
vivono. E' sufficiente lo scodinzolare di un cane perché,
nelle ore decisive,
quando la fragilità di tanti valori si svela, l'uomo, ogni uomo, nella
solitudine di un pericolo resti in ascolto di un sussurro umano, flebile e solitario
suono senza significato che però apre e rivela la grandezza della dignità
contenuta nella fragile coscienza umana. è necessario per noi - ricordando la memoria di coloro che, ebrei e non-ebrei, seppero senza neppure conoscersi né vedersi, comportarsi in pieno caos come se il mondo non si fosse disintegrato, ricordando la Resistenza delle organizzazioni partigiane, cioè proprio quella che non aveva altra sorgente che le proprie intime certezze - è necessario, attraverso tali ricordi, aprire un nuovo accesso ai testi ebraici e restituire alla vita interiore un nuovo privilegio. La vita interiore: si ha quasi vergogna a pronunciare, davanti a tanti realismi ed oggettivismi, quest'espressione insignificante. La testimonianza che Lévinas, morto nel dicembre del
1995, ci affida come il messaggio di un naufrago in una bottiglia, fragile cristallo
di fiato, non ci indica forse che ogni gesto insignificante, ogni esperienza
inutile e gratuita, paradossalmente, ogni violenza subita, ogni scandalosa ed
incommensurabile sofferenza dell'altro, urtando il guscio dell'Io permette lo
schiudersi della possibilità di incontrare il
Volto dell'altro uomo?
Michele
Manzo Il volume è la biografia del sacerdote romano d.Pirro Scavizzi di cui è in corso il processo di beatificazione. Durante la seconda guerra mondiale fu cappellano militare. L'esperienza che modificò radicalmente la sua percezione delle ragioni della guerra sono dovute ai quattro viaggi che fece sul treno organizzato dall'Ordine dei Cavalieri di Malta, per venire in aiuto ai soldati itali ani impegnati sul fronte russo. Il primo viaggio si svolge tra il 17 ottobre ed il 15 novembre del 1941, fino a Dnepropetrovsk, in Ucraina, ove si trovano le truppe italiane. Il secondo, per Jassiowataja, va dal 12 gennaio al 20 febbraio del 1942. Il terzo viaggio fino a Cracovia, si svolge dall'8 aprile al 3 maggio del '42. Il quarto, sempre per Dnepropetrowsk, va dal 29 giugno al 23 luglio. Il quinto per Nipropetrowsk, dal 16 settembre all'11 ottobre. Il sesto ed ultimo, per Debalzewo, dal 4 al 28 novembre del 1942. Con l'inizio della disfatta italo-tedesca sul fronte russo terminano anche i viaggi di don Pirro lungo tutto l'asse orientale europeo. Nei suoi diari si passa da una concezione favorevole alle forze dell'Asse, dovuta a ciò che la propaganda rendeva noto in Italia, ad un totale sconcerto. Prima di tale esperienza, durante il primo anno di servizio sul treno, egli manifesta una visione ancora idealistica della guerra, considerata come “la lotta fra il bene e il male; fra le ideologie di fede e di giustizia e quelle di apostasia e di oppressione”. A combattere sono i “nostri prodi” che “danno il proprio sangue”, mentre gli avversari non sono altro che “le forze dell'inferno”. La “vittoria delle armi” deve coincidere con la “vittoria di Cristo”. Al termine del primo viaggio redasse per Pio XII una memoria per informarlo sulla spaventosa situazione. Divenne subito cosciente che non era possibile alcuna comunicazione ufficiale fra la Santa Sede ed i paesi occupati dai nazisti. L'arcivescovo Sapieha, di Cracovia... asserisce che gli è impossibile comunicare liberamente con Roma ché tutto è minutamente controllato e non gli è possibile comunicare liberamente nemmeno col Nunzio di Berlino. Il regime nazista è ferocemente antipolacco ed impedisce il rapporto con il clero polacco. Ai soldati del Reich è severamente proibito andare con Sacerdoti per le vie, o accedere a sacerdoti polacchi per le confessioni. Soprattutto le SS testimoniano l'avversione programmatica alla Chiesa Cattolica e a qualsiasi rispetto della vita. I membri delle formazioni “SS”, secondo quanto mi è stato riferito da ufficiali tedeschi, debbono fare dichiarazione di non praticare nessun culto per essere fedeli esclusivamente alla religione dello Stato. A costoro sono riservate le esecuzioni individuali o in massa contro gli ebrei, contro i polacchi o contro chiunque essi giudichino pericoloso all'integrità del Reich... I loro atti (anche le “eliminazioni”) sono incontrollati e incontrollabili e incensurabili da chiunque. Gli appare subito evidente che la decisione nazista è quella di concludere in breve tempo lo sterminio della popolazione ebraica. In particolare viene ripetutamente a conoscenza delle fucilazioni di massa operate dagli “EinsatzKommando”. Oltre i confini dell'Italia, nei Paesi del Reich o alleati del Reich od occupati, la questione ebraica è di una gravità eccezionale... A Cracovia, a Leopoli e nelle principali città della Polonia sono stati relegato in un ghetto dove evidentemente regna il sudiciume e lo squallore... La mancanza del bracciale o della tessera di riconoscimento, o il trovarli in giro fuori orario, può determinare l'immediata uccisione... E' evidente, nell'intenzione del Governo occupante, di eliminare il più che sia possibile gli ebrei uccidendoli secondo i vari sistemi di cui il più frequente e il più conosciuto è quello del mitragliamento di massa. Per queste esecuzioni gruppi di famiglie ebraiche (uomini, donne e bambini anche lattanti) sono deportati a qualche chilometro dalla città, vicino a trinceroni della guerra oppure in luoghi dove precedentemente sono state fatte scavare delle enormi fosse costringendo a questo lavoro gli uomini stessi ebraici... Il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione. Non vi è alcun dubbio sullo stato delle cose. Il volto di questa guerra è immensamente più spaventoso che quello della cosiddetta guerra mondiale 1915-1918 alla quale anch'io presi parte come Cappellano Militare. Al ritorno viene segretamente ricevuto dal Santo Padre. Scavizzi... viene ricevuto riservatamente da Pio XII. Non esiste alcun riscontro ufficiale dell'incontro... Lo stesso don Pirro dichiara, in un articolo scritto nel maggio 1964: ... “Mi recai dal Santo Padre Pio XII senza alcun preliminare di udienza, ma segretamente per riferirgli tutto. Lo vidi piangere come un fanciullo, e pregare come un santo”. Nella memoria a conclusione del secondo viaggio precisa la descrizione dello stato miserevole del clero polacco. Si accentua la consapevolezza che è decisione dei nazisti di distruggere la presenza cattolica in Polonia, perché fonte di ostacolo alla germanizzazione del paese e alle orrende iniziative di sterminio. Mi disse l'Arcivescovo di Cracovia che il numero dei sacerdoti e Religiosi finora imprigionati o uccisi in Polonia, ascende circa a 3000, sempre con pretesti di carattere politico e antinazista. E' sempre più chiara la “soluzione finale”. Le condizioni degli ebrei nella Germania, nella Polonia e
nell'Ucraina, è sempre più tragica. La parola d'ordine è:
“Sterminarli senza pietà”. Gli eccidi in massa si moltiplicano ovunque.
I diritti all'esistenza sono ormai ridotti ai minimi termini per loro... Al ritorno a Roma ha un secondo colloquio col Papa. Lo descrive molti anni dopo. Scavizzi... a distanza di poco più di vent'anni... descrive uno dei due colloqui avuti con Pio XII, probabilmente il secondo, avvenuto durante il mese di marzo del 1942, nella sosta tra il secondo e il terzo viaggio. Al racconto delle atrocità commesse dai nazisti il papa confessa di aver più volte pensato ad un atto ufficiale di scomunica ma di essersi dovuto ricredere di fronte all'argomentazione che “una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli Ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà”. La descrizione del terzo viaggio si precisa di particolari che mostrano come il nazismo proceda nell'opera di distruzione delle forze di resistenza della Chiesa Cattolica in Austria. Il clero è sospettato e molti sono deportati e imprigionati per pretesti politici. Le relazioni col Nunzio sono praticamente impossibili. A proposito dell'attuale Nunzio, il cardinale (di Vienna) ne deplorava il silenzio ed esprimeva il giudizio che Egli fosse troppo timoroso e non si interessava di tanto gravi cose... Ma è soprattutto in Polonia che è evidente la decisione di annientare qualsiasi punto di riferimento, anche attraverso al distruzione della gerarchia cattolica. Scavizzi elenca la situazione di alcune congregazioni religiose: Gesuiti-A Dachau ne sono imprigionato sessantaquattro dei quali sono morti certanmente nove. Il 27 marzo a Wilna ne furono incarcerati altri ventinove, cioè tutto il collegio... Salesiani-Oltre cinquanta ne sono in prigione ad Auschwitz. Di Cracovia sono quindici e sembra che siano morti e cremati eccetto due. Addirittura tutti i monasteri di clausura sono pian piano evacuati e le suore portate nei campi di concentramento. Suore-A Wilna nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1942 sono state arrestate tutte le Visitandine, le Carmelitane, le Orsoline del P.Ladochovski, le Figlie della Carità, le quaranta di Nazareth La presenza dei sacerdoti è stata già quasi completamente distrutta in alcuni luoghi e negli altri lo sarà tra breve. Altri Sacerdoti-In Posnania, dove erano una quarantina di preti ne è rimasto soltanto uno. Nel campo di Dachau vi sono circa un migliaio di preti di cui oltre settecento polacchi. Nella Slesia Pomerania quasi tutti i sacerdoti sono stati arrestati. La maggioranza dei preti polacchi è stata deportata. Sono stati concentrati insieme senza poter essere vicini nemmeno a i connazionali deportati. Fatti edificanti-Nel campo di Dachau ove sono circa mille sacerdoti e religiosi, è concesso ad uno solo di celebrare la Messa. Tutti gli altri tengono in mano una particola ed il celebrante intende di consacrarle tutte; così ciascuno si comunica da sé. Nelle città in cui manca una presenza episcopale la situazione è ancora più deplorevole, Il padre domenicano Bornieski, già Rettore Magnifico della Università di Lublino... dice che fu errore che durante la Nunziatura Cortese si lasciassero quattro diocesi senza vescovo, finché è scoppiata la guerra e le diocesi sono orfane ancora. La memoria del quarto viaggio viene redatta in ritardo. Veniamo a conoscenza che le notizie arrivano in Vaticano attraverso i pochi cappellani militari, compagni di d.Pirro. Dichiaro che non avevo osato presentare alla santità Vostra questa nuova relazione, perché credevo che lo avessero fatto meglio di me gli altri cappellani Militari, specialmente quelli die cavalieri di Malta. Il ritorno dei polacchi nelle case dei ghetti creati dai nazisti indica che il numero degli ebrei è ormai ridotto al lumicino. Si consente ai polacchi di rifugiarsi nelle case del Ghetto, che giornalmente si vanno spopolando per gli eccidi sistematici degli ebrei. Molti nobili e molti altri delle categorie più abbienti sono stati deportati o uccisi per sospetti politici... La eliminazione degli ebrei, con le uccisioni di massa, è quasi totalitaria, senza riguardo ai bambini nemmeno se lattanti... I pochi ebrei rimasti appaiono sereni, quasi ostentando orgoglio. Si dice che altre due milioni di ebrei siano stati uccisi. Non solo gli ebrei sono sterminati, non solo la classe dirigente polacca è annientata, ma anche i soldati russi prigionieri sono sistematicamente uccisi. La teoria razzista nazista non conosce sosta. L'arianizzazione va avanti attraverso l'eliminazione fisica dei cosiddetti “non ariani”, slavi ed ebrei. Mi ha sorpreso il fatto che fra i feriti tedeschi e italiani non ho quasi mai trovato dei russi feriti; né mi consta che per loro vi siano ospedaletti speciali! [Indice] |