Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Capitolo 10 - Le Reazioni

Zvi Kolitz
Yossl Rakover si rivolge a Dio
Milano, Adelphi, 1997

Il testo, a lungo ritenuto il testamento autentico di uno degli ultimi combattenti della rivolta del ghetto di Varsavia, è, in realtà opera di un ebreo lituano scappato all'età di 17 anni con la madre e i suoi tre fratelli, nel 1937, prima che la Lituania fosse stritolata dal patto fra la Germania e l'Unione Sovietica.
Dopo il patto Hitler-Stalin, l'Armata Rossa invase la Lituania. Furono subito chiuse le scuole ebraiche, proibite le organizzazioni sionistiche, arrestati molti ebrei.
Nel 1940 Kolitz era già a Gerusalemme. Nel giugno 1941 la popolazione lituana accolse in festa i carri armati tedeschi che spezzavano il giogo bolscevico. Cominciò il bagno di sangue degli ebrei, tramite le Einsatzgruppen. Il primo dicembre del 1941 lo Standartenfuhrer delle SS Karl Jaeger spedì da Kaunas a Berlino un rapporto di 9 pagine, dove, dopo un calcolo meticoloso di 137.346 persone uccise, concludeva:

Oggi sono in grado di assicurare che il nostro obiettivo, risolvere in Lituania la questione ebraica, è stato pienamente raggiunto dall'Einsatzkommando 3. La Lituania è ripulita dagli ebrei.

Zvi Kolitz decise di scrivere sedici mesi dopo la fine della guerra.

Ricordo perfettamente che scrissi la conclusione all'inizio e l'esordio alla fine.

Questa la conclusione:

Il mio rebbe soleva raccontarmi la storia di un ebreo che era sfuggito con la moglie e il figlio all'Inquisizione spagnola, e con una piccola barca, su un mare in tempesta, aveva raggiunto un'isoletta rocciosa. Cadde un fulmine e uccise sua moglie. Venne una tempesta e gettò suo figlio in mare. Solo e derelitto, nudo e scalzo, stremato dalle tempeste e atterrito dai tuoni e dai fulmini, con i capelli arruffati e le mani tese a Dio, l'ebreo proseguì il suo cammino sull'isola rocciosa e deserta, e si rivolse al suo Creatore con queste parole: “Dio d'Israele, sono fuggito qui per poterti servire indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il Tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre Ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!”.
E queste sono anche le mie ultime parole per Te, mio Dio colmo d'ira: Non ti servirà a nulla! Hai fatto di tutto perché non avessi più fiducia in Te, perché non credessi più in Te, io invece muoio così come sono vissuto, pervaso di un'incrollabile fede in Te.
Sia lodato in eterno il Dio dei morti, il Dio della vendetta, della verità e della giustizia, che presto mostrerà di nuovo il suo volto al mondo, e ne scuoterà le fondamenta con la sua voce onnipotente.
Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Nella tua mano, Signore, affido il mio spirito.

Il protagonista del racconto si trova in un bunker sotterraneo, il 28 aprile 1943, giorno in cui si spense l'ultima resistenza nel ghetto. Ricorda l'uccisione della moglie e dei suoi sei figli, poi si rivolge a Dio:

Non posso dire, dopo aver assistito a tanto, che il mio rapporto con Dio non sia cambiato, ma posso affermare con assoluta certezza che la mia fede in lui non è cambiata minimamente. Prima, quando vivevo nel benessere, avevo con lui il rapporto che si ha con un instancabile benefattore, e nei suoi confronti rimanevo sempre in debito. Ora quello che ho con lui è il rapporto con uno che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto. E poiché sento che anche lui è in debito con me, credo di avere il diritto di esigere ciò che mi aspetta. Io però non dico come Giobbe che Dio deve puntare il dito sul mio peccato per indicarmi il motivo di ciò che mi accade. Persone più dotte e migliori di me sono fermamente convinte che ora non si tratti più di un castigo per i peccati, ma che il mondo sia in una condizione affatto particolare: un periodo di occultamento del volto divino.
Dio ha nascosto il suo volto al mondo e in questo modo ha consegnato gli uomini ai loro istinti selvaggi; ritengo quindi assai naturale, purtroppo, che quando la furia degli istinti domina il mondo, chi rappresenta la santità e la purezza debba essere la prima vittima. Questo pensiero non mi è forse di grande conforto, ma poiché il destino del nostro popolo è stabilito in base a un calcolo non terreno, materiale, fisico, ma ultraterreno, spirituale e divino, chi crede deve considerare questi avvenimenti parte di un grande disegno di Dio, davanti al quale le tragedie umane hanno poca importanza. Ciò non significa però che gli animi devoti del mio popolo debbano accogliere il verdetto, e dire che Dio e il suo operato sono giusti. Dire che meritiamo i colpi che abbiamo ricevuto è una bestemmia, una profanazione del “Nome Ineffabile” di ebreo, ed equivale in tutto e per tutto a profanare il Nome Ineffabile di Dio, perché denigrando se stessi si bestemmia Dio.
In una simile condizione, è ovvio, non aspetto miracoli e non chiedo al mio Dio di avere pietà di me. Mi tratti pure con la stessa indifferenza del suo volto nascosto che ha usato con milioni di persone del suo popolo. Non sono un'eccezione, e non mi aspetto un trattamento di favore.

Il mondo, lasciato a sé stesso da Dio, è precipitato nel caos. L'ultimo sopravvissuto del ghetto, in attesa dell'ultimo assalto nemico, riflette sull'accusa di vendetta, fatta alla religione ebraica:

Mai avrei immaginato che la morte di esseri umani, se pure nemici e nemici di tale fatta, potesse rendermi tanto felice. Gli insani spiriti umanitari dicano pure quello che vogliono, ma la vendetta è stata e rimarrà sempre l'ultimo mezzo di lotta e la massima soddisfazione interiore per gli oppressi. Finora non avevo mai compreso esattamente quel passo della Gemara in cui si dice che “la vendetta è sacra, poiché è menzionata tra due nomi di Dio, infatti è scritto: Dio delle vendette, Signore!”. Ora lo capisco. Ora lo vivo, e ora so perché il mio cuore esulta quando rammento che già da migliaia di anni chiamiamo il nostro Creatore “Dio della vendetta”: Dio delle vendette, Signore!
E ora che sono in grado di vedere la vita e il mondo da una prospettiva particolarmente chiara, concessa solo in rare occasioni a un uomo in punto di morte, mi sembra che vi sia una strana ma significativa differenza tra il nostro Dio e il Dio venerato dai popoli d'Europa: benché il nostro Dio sia il Dio della vendetta, e nella nostra Legge abbondino le minacce di morte per le più piccole colpe, tuttavia si racconta nella Gemara che era sufficiente che il Sinedrio, il più alto tribunale del nostro popolo quando era libero nella sua terra, pronunciasse una sola condanna a morte in settant'anni, perché si potesse gridare ai giudici: “Assassini!”. Il Dio dei popoli invece, che viene chiamato Dio d'amore, ha comandato di amare ogni essere creato a sua immagine; ma nel suo nome veniamo assassinati senza pietà, giorno dopo giorno, da duemila anni.

Riafferma allora la sua fierezza di essere ebreo:

Sono fiero di essere ebreo, non malgrado il trattamento che il mondo ci riserva, ma proprio a causa di questo trattamento. Mi vergognerei di appartenere ai popoli che hanno generato e cresciuto gli scellerati responsabili dei crimini compiuti contro di noi.
Sono fiero del mio essere ebreo. Perché essere ebreo è un'arte. Perché essere ebreo è difficile. Non è un'arte essere inglese, americano o francese. E' forse più facile e più comodo essere uno di loro, ma certo non è più onorevole. Si, è un onore essere ebreo!
Ritengo che essere ebreo significhi essere un combattente, uno che nuota senza tregua contro una sordida, malvagia corrente umana. L'ebreo è un eroe, un martire, un santo. Voi, nemici, dite che siamo spregevoli? Io credo che siamo migliori e più nobili di voi, ma se anche fossimo peggiori, mi sarebbe piaciuto vedervi al nostro posto.
Sono felice di appartenere al più infelice di tutti i popoli della terra, la cui Legge rappresenta il grado più alto e più bello di tutti gli statuti e le morali. Adesso questa nostra Legge è resa ancor più santa ed eterna dal fatto d'essere così violata e profanata dai nemici di Dio.
Penso che essere ebreo sia una virtù innata. Si nasce ebrei così come si nasce artisti. Non ci si può liberare dall'essere ebrei. E' stata una qualità divina insita in noi ad aver fatto di noi un popolo eletto. Chi non lo comprende, non capirà mai il significato più alto del nostro martirologio. “Non vi è cosa più intatta di un cuore spezzato” ha detto una volta un grande rabbino. E' non vi è popolo più eletto di uno sempre colpito. Anche se non credessi che un tempo Dio ci abbia destinati a diventare popolo eletto, crederei che ci abbiano resi eletti le nostre sciagure.
Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i suoi atti. Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza, ma non bacerò la verga con cui mi percuote. Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei a osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita, e quanto più moriamo in nome di quel modello di vita, tanto di più esso diventa immortale.
Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederTi ragione, per l'ultima volta nella vita.
Tu dici che abbiamo peccato? Di certo è così. Che perciò veniamo puniti? Posso capire anche questo. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una colpa che meriti un castigo come quello che ci è stato inflitto?
Tu dici che ripagherai i nostri nemici con la stessa moneta? Sono convinto che li ripagherai, e senza pietà, anche di questo non dubito. Voglio però sapere da Te: Esiste al mondo una punizione che possa far espiare il crimine commesso contro di noi?
Tu dici che ora non si tratta di colpa e punizione, ma che hai nascosto il Tuo volto, abbandonando gli uomini ai loro istinti? Ti voglio chiedere, Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: Che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?
Ti voglio dire in modo chiaro ed aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo il diritto di sapere : Dove si trovano i confini della Tua pazienza?
E qualcosa ancora Ti voglio dire: Non tendere troppo la corda, perché, non sia mai, potrebbe spezzarsi. La prova cui Tu ci hai sottoposti è così ardua, così insostenibilmente ardua, che Tu devi, Tu hai l'obbligo di perdonare quanti nel Tuo popolo si sono allontanati da Te nella loro disgrazia e nella loro indignazione.
Perdona quelli che si sono allontanati da Te nella loro disgrazia, ma anche quanti nel Tuo popolo si sono allontanati da Te nella loro fortuna. Hai trasformato la nostra esistenza in una lotta così orribile e infinita che i vigliacchi tra noi hanno per forza cercato di evitarla, di fuggirla ovunque potessero. Non li punire per questo: i vigliacchi non si puniscono, i vigliacchi si compatiscono. E di loro più che di noi abbi misericordia, Dio.
Perdona quelli che hanno bestemmiato il Tuo nome, che sono andati a servire altri dèi, che sono diventati indifferenti verso di Te. Tu li hai percossi a tal punto che non credono più che Tu sia il loro padre, che ci sia comunque un padre per loro.
Quanto a me, Ti dico queste parole perché io credo in Te, perché credo in Te più che mai, perché ora so che sei il mio Dio, poiché di certo non sei, no, non puoi essere il Dio di quanti, con le loro azioni, hanno dato la prova più atroce di empietà in armi.
Se non sei il mio Dio, di chi sei allora il Dio? Il Dio degli assassini?
Se quelli che ci odiano, che ci massacrano, sono uomini delle tenebre e malvagi, che cosa sono io allora se non colui che rappresenta una scintilla della Tua luce, della Tua bontà?
Non Ti posso lodare per le azioni che tolleri, ma Ti benedico e Ti lodo per la Tua stessa esistenza, per la Tua terribile maestà - deve essere immane se persino quanto accade ora non lascia in Te un'impressione decisiva!
Ma proprio perché Tu sei così grande e io così piccolo, Ti chiedo, Ti avverto, nel Tuo stesso nome: Cessa di esaltare la Tua grandezza lasciando colpire gli innocenti!
Non Ti chiedo neanche di annientare i colpevoli. E' nella logica inesorabile degli avvenimenti che alla fine si annientino da soli, poiché con la nostra morte è stata uccisa la coscienza del mondo, poiché un mondo è stato assassinato con l'assassinio d'Israele.
Il mondo sarà divorato dalla propria scelleratezza, sarà affogato nel suo stesso sangue.
Gli assassini si sono già condannati da sé, e a quella sentenza non potranno più sottrarsi.
Ma quanti tacciono dell'assassinio, quanti non hanno timore di Te, ma si preoccupano di ciò che dirà la gente (stolti! Non sanno che la gente non dirà nulla!), quanti esprimono la loro simpatia per chi affoga, ma non muovono un dito per salvarlo, costoro, ah, costoro, Ti scongiuro, Dio, puniscili come fossero ladri!

Per ultimo Kolitz scrisse l'esordio:

Credo nel sole, anche quando non splende, credo nell'amore anche quando non lo sento, credo in Dio anche quando tace. (Scritta sul muro di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si nascosero per tutta la durata della guerra).

Zvi Kolitz, ebreo praticante, vive ora negli Stati Uniti, dopo aver partecipato alla costituzione dello Stato di Israele.



Eugen Kogon
L'Etat SS
Editions de la Jeune Parque, Manchecourt, 1993

Eugen Kogon, internato a Buchenwald scrive questo testo nel novembre 1945. E' un libro scritto su commissione. Il 16 aprile 1945, cinque giorni dopo la liberazione del campo, un gruppo di 5 ricercatori viene incaricato di studiare la vita del campo di Buchenwald. Sono Albert-G.Rosenberg, Max-M.Kimental, Richard Akselrad, Alfred-H.Sampson e Ernest-S. Biberfield. Il campo è il primo a cadere intatto nelle mani degli Alleati. Dopo poco tempo gli esperti si rendono conto che è impossibile per chi non ha vissuto all'interno del campo descriverne la vita. Affidano allora l'incarico ad Eugen Kogon. Il suo manoscritto viene sottoposto a numerosi altri internati, per una verifica.
Primo Levi, in una appendice a Se questo è un uomo, scritta a partire dalle domande degli studenti alle conferenze da lui tenute, così scrive del testo di Kogon:

Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l'ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all'Università di Monaco:

Che cosa sapevano i tedeschi dei campi di concentramento? Oltre la loro concreta esistenza, quasi niente, ed anche oggi ne sanno poco. Indubbiamente, il metodo di mantenere rigorosamente segreti i particolari del sistema terroristico, rendendo così l'angoscia indeterminata, e quindi tanto più profonda, si è rilevato efficace. Come ho detto altrove, perfino molti funzionari della Gestapo ignoravano cosa avveniva all'interno dei Lager, in cui pure essi inviavano i loro prigionieri; la maggior parte degli stessi prigionieri avevano un'idea assai imprecisa del funzionamento del loro campo e dei metodi che vi venivano impiegati. Come avrebbe potuto conoscerli il popolo tedesco? Chi ci entrava si trovava davanti ad un universo abissale, per lui totalmente nuovo: è questa la miglior dimostrazione della potenza e dell'efficacia della segretezza.
Eppure... eppure, non c'era neanche un tedesco che non sapesse dell'esistenza dei campi, o che li ritenesse dei sanatori. Erano pochi i tedeschi che non avessero un parente o un conoscente in campo, o almeno che non sapessero che il tale o il tal altro ci era stato mandato. Tutti i tedeschi erano stati testimoni della multiforme barbarie antisemitica: milioni fra di loro avevano assistito, con indifferenza, o con curiosità, o con sdegno, o magari con gioia maligna, all'incendio delle sinagoghe o all'umiliazione di ebrei ed ebree costretti ad inginocchiarsi nel fango delle strade. Molti tedeschi avevano saputo qualcosa dalle radio straniere, e parecchi erano venuti a contatto con prigionieri che lavoravano all'esterno dei Lager. A non pochi tedeschi era accaduto di incontrare, nelle strade o nelle stazioni ferroviarie, schiere miserabili di detenuti: in una circolare datata 9 novembre 1941, e indirizzata dal capo della Polizia e dei Servizi di Sicurezza a tutti (...) gli uffici di Polizia e ai comandanti dei Lager, si legge: “in particolare, si è dovuto constatare che durante i trasferimenti a piedi, per esempio dalla stazione al campo, un numero non trascurabile di prigionieri cadono per via morti o svenuti per esaurimento... E' impossibile impedire che la popolazione prenda conoscenza di simili avvenimenti”.
Neppure un tedesco poteva ignorare che le prigioni erano strapiene, e che in tutto il paese avevano luogo di continuo esecuzioni capitali; si contavano a migliaia i magistrati e i funzionari di polizia, gli avvocati, i sacerdoti e gli assistenti sociali che sapevano genericamente che la situazione era assai grave. Erano molti gli uomini d'affari che avevano rapporti di fornitura con le SS dei Lager, gli industriali che porgevano domanda d'assunzione di lavoratori-schiavi agli uffici amministrativi ed economici delle SS, e gli impiegati degli uffici di assunzione che (...) erano al corrente del fatto che molte grandi Società sfruttavano mano d'opera schiava. Non erano pochi i lavoratori che svolgevano la loro attività in prossimità dei campi di concentramento, o addirittura entro di essi. Vari professori universitari collaboravano con i centri di ricerche mediche istituiti da Himmler, e vari medici dello Stato e di Istituti privati collaboravano con gli assassini di professione. Un buon numero di membri dell'aviazione militare erano stati trasferiti alle dipendenze delle SS, e dovevano pure essere al corrente di quanto ivi si svolgeva. Erano molti gli alti ufficiali dell'esercito che sapevano dei massacri in massa dei prigionieri di guerra russi nei Lager, e moltissimi i soldati e i membri della Polizia Militare che dovevano sapere con precisione quali spaventosi orrori venivano commessi nei campi, nei ghetti, nelle città e nelle campagne dei territori orientali occupati. E' forse falsa una sola di queste affermazioni?

A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un'altra dev'essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d'informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere. E' certamente vero che il terrorismo di Stato è un'arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l'illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta.
Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole.



Primo Levi
La stampa. Terza pagina. Racconti e saggi di Primo Levi
La stampa, Torino, 1986

Levi, sulle colonne della Stampa, in data 23 dicembre 1960, così commentava la notizia della cattura di R. Baer, successore di R. Hoess, nel comando del campo di Auschwitz, in un articolo dal titolo Il comandante di Auschwitz:

Di Richard Baer, fino a oggi, non molto si sapeva. E' citato brevemente nelle opere di Hoess, suo predecessore, che ce lo descrive, nelle terribili settimane del gennaio 1945, perplesso e incerto sul da farsi: è a Gross-Rosen, un Lager di dieci-dodicimila prigionieri, e si sta diligentemente occupando di trasferirvi i centoquarantamila di Auschwitz, che è indispensabile “recuperare” davanti all'improvvisa avanzata russa. Si pensi a che cosa significa il rapporto fra queste due cifre: si pensi a quell'altra soluzione, che buon senso e umanità e prudenza insieme suggerivano, e cioè di prendere atto dell'inevitabile, lasciare lo stuolo di semivivi al loro destino, aprire le porte e andarsene; si pensi a tutto questo, e la figura dell'uomo ne risulterà sufficientemente definita.
Appartiene al tipo umano più pericoloso di questo secolo. A chi ben guardi, senza di lui, senza gli Hoess, gli Eichmann, i Kesselring, senza i mille altri fedeli e ciechi esecutori di ordini, le grandi belve, Hitler, Himmler, Goebbels, sarebbero state impotenti e disarmate. Il loro nome non figurerebbe nella storia: sarebbero passati come fosche meteore nel cielo buio dell'Europa. E' avvenuto il contrario; il seme gettato da questi neri apostoli, la storia lo ha dimostrato, ha attecchito in Germania con sconcertante rapidità e profondità in tutti i ceti, e ha condotto a una proliferazione di odio che ancora oggi avvelena l'Europa e il mondo.

Per quasi un anno Levi è stato suddito di Baer, con decine di migliaia di detenuti. Ma niente ha turbato la storia successiva di Baer.

Ma molto meno pronte si sono dimostrate polizia e magistratura nel condurre a termine l'opera di epurazione iniziata dagli alleati: così si è giunti alla sconcertante situazione di oggi, in cui può avvenire che un comandante di Auschwitz viva e lavori indisturbato in Germania per quindici anni, e che il carnefice di milioni di innocenti venga rintracciato non già dalla polizia tedesca, ma “illegalmente” da vittime sfuggite alla sua mano.

In un altro articolo, datato 8 marzo 1984, intitolato Auschwitz, città tranquilla, racconta di esser venuto a conoscenza, da amici comuni, della storia di un chimico tedesco, Mertens, venuto a lavorare ad Auschwitz nello stesso periodo della sua prigionia.

Era un quasi-me, un altro me stesso ribaltato. Eravamo coetanei, non dissimili come studi, forse neppure come carattere; lui, Mertens, giovane chimico tedesco e cattolico, e io, giovane chimico italiano ed ebreo. Potenzialmente due colleghi: di fatto lavoravamo nella stessa fabbrica, ma io stavo dentro il filo spinato e lui fuori. Tuttavia, eravamo quarantamila a lavorare nel cantiere dei Buna-Werke di Auschwitz, e che noi due, lui Oberingenieur e io chimico-schiavo, ci siamo incontrati, è improbabile, comunque non più verificabile. Neppure dopo ci siamo mai visti.

A Mertens viene proposto, dal governo nazista, di lavorare nella fabbrica di Buna ad Auschwitz.

Mertens ci pensa su: è fidanzato, e mettere su casa in Germania, sotto i bombardamenti, è imprudente: Chiede un permesso e va a vedere. Che cosa abbia visto in questo primo sopralluogo, non è noto: l'uomo è tornato, si è sposato, non ha parlato con nessuno, ed è ripartito per Auschwitz con la moglie e i mobili per stabilirsi laggiù. Gli amici, quelli appunto che mi hanno scritto questa storia, lo hanno invitato a parlare, ma lui non ha parlato. Neppure ha parlato nel corso della sua seconda ricomparsa in patria, nell'estate del 1943, in ferie (perché anche nella Germania nazista in guerra, in agosto la gente andava in ferie).

In questo secondo ritorno in Germania, viene messo alle strette dagli amici.

Mertens si sente conteso tra l'ubriachezza, la prudenza e un certo bisogno di confessarsi. - Auschwitz è un Lager, - dice, - anzi un gruppo di Lager: uno è proprio contiguo alla fabbrica: Ci sono uomini e donne, sporchi, stracciati, non parlano tedesco. Fanno i lavori più faticosi. Noi non possiamo parlare con loro. - Chi ve l'ha proibito? - La direzione. Quando siamo arrivati ci hanno detto che sono gente pericolosa, banditi e sovversivi. - E tu non gli hai mai parlato? - chiese il padrone di casa. - No, - rispose Mertens versandosi un altro bicchiere. Qui intervenne la giovane signora Mertens: - Io ho incontrato una donna che faceva le pulizie in casa del direttore. Mi ha solo detto “Frau, Brot”: “signora, pane”, ma io... - Mertens non doveva poi essere tanto ubriaco, perché disse seccamente alla moglie - Smettila - e rivolto agli altri: - Non vorreste cambiare argomento?

La storia è evidentemente simile a quella di migliaia di altri lavoratori tedeschi che hanno vissuto fianco a fianco, nelle fabbriche, con gli schiavi dei Lager.

Non ho mai cercato di incontrarmi con Mertens. Provavo un ritegno complesso, di cui l'avversione era solo una delle componenti. Anni addietro, gli ho scritto una lettera: gli dicevo che se Hitler è salito al potere, ha devastato l'Europa e ha condotto la Germania alla rovina, è perché molti buoni cittadini tedeschi si sono comportati come lui, cercando di non vedere e tacendo su quanto vedevano. Mertens non mi ha risposto, ed è morto pochi anni dopo.



Primo Levi
I sommersi e i salvati
Torino, Einaudi, 1986

Uno dei libri più tormentati di Primo Levi, l'opera in cui ritorna a mente fredda sulla Shoah, cercando di indagarne le cause e i comportamenti, al di là della sua esperienza personale.
Il volume ha il coraggio di indagare anche su quella che Levi definisce la zona grigia, il novero di quelle persone che, per cercare di salvare la vita o per altri motivi, i più diversi, si sono piegati fino a collaborare col sistema di sterminio.

Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi fondamentale. E' ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale.
I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.

Il fenomeno è sicuramente da classificare con fenomeni analoghi di ricerca di potere e privilegio, in ogni struttura umana.

L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. E' compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da “laboratorio”: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E' una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.

Il caso più inquietante è sicuramente quello delle squadre degli addetti ai Crematori.

Un caso libero di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, Squadra Speciale, veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematoi. A loro aspettava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi...
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei. Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. D'altra parte, è attestato che non tutte le SS accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva servire (e probabilmente servì) ad alleggerire qualche coscienza.

E', forse, questo il risultato più infimo, raggiunto dalle SS.

Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare sugli altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre. Infatti, l'esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio: “Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre”.

L'omogeneizzazione delle vittime ai carnefici può essere simbolizzata da un episodio che ci viene riferito da M.Nyiszli, Auschwitz. A Doctor's Eyewitness account, che fu testimone di un incontro di calcio che si svolse fra le SS da un lato e gli uomini del Sonderkommando dall'altro.
Il problema è enorme; per indicarne la complessità segnaliamo all'opposto la scelta di 400 ebrei di Corfù che, nel luglio 1944, inseriti in massa nel Sonderkommando rifiutarono il lavoro e furono mandati subito in gas (la notizia è presa da Francesco M. Cataluccio, L'inevitabilità del male, postfazione a Calel Perechodnik, Sono un assassino?, nel presente catalogo).



Saul Friedlaender
Kurt Gerstein o l'ambiguità del bene
Feltrinelli, Milano, 1967

Il testo racconta l'incredibile storia di Kurt Gerstein, entrato nelle SS con intenti spionistici. L. Poliakov, in Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, descrive come Gerstein fu conosciuto, alla fine della guerra:

Il 5 maggio 1945, cioè alla vigilia della capitolazione tedesca, due ufficiali del sesto gruppo d'armata americana, il maggiore Evans e il capitano Haught, furono avvicinati nella piccola città di Rothweil nella Foresta Nera, da un uomo che si presentò loro come il dottor Kurt Gerstein, antico capo del servizio di disinfezione della Waffen-SS. Egli assicurò di avere da fare loro delle gravi rivelazioni e consegnò loro un memorandum in francese di cui riportiamo più avanti una parte essenziale.
Inoltre, per dare maggiore peso alla sua testimonianza, diede loro un mazzo di fatture relative all'acquisto da parte del RSHA, del Cyclon B (cioè del gas tossico che serviva per lo sterminio), fatture che risultavano a suo nome. Gerstein fu consegnato alle autorità francesi e imprigionato nel carcere militare del Cherche-Midi, a Parigi, dove nel luglio '45 si impiccò. Va rilevato che alcuni particolari della sua relazione, che reca la data certa del 5 maggio 1945, non potevano, in quel momento, essere conosciuti che da un numero ristretto di funzionari del IV b.
In più, una decina di testimoni, la maggior parte dei quali apparteneva alla Chiesa confessante protestante (tra cui il celebre pastore Niemoeller) attestarono di aver conosciuto Gerstein da molti anni e si fecero garanti della veridicità delle sue affermazioni come dell'autenticità dei suoi sentimenti antinazisti. Infine Gerstein nel seguito della sua relazione assicurava di aver riferito, nell'agosto 1942, a rischio della sua vita, a un membro dell'ambasciata svedese ciò che aveva potuto apprendere; l'esattezza di questo fatto ci è stata confermata dal Ministero degli Esteri di Svezia che, a suo tempo, aveva trasmesso a Londra le informazioni ottenute in tal modo.
Gerstein in persona affermava di essere entrato nel 1941, nelle Waffen-SS al solo scopo di sviare i suoi persecutori e di venire a conoscere la verità sul programma di eutanasia che a quest'epoca preoccupava in Germania gli ambienti della Chiesa confessante. E' così che si sarebbe trovato coinvolto nella faccenda. Secondo uno dei suoi sostenitori, il pastore Mochalski, “... sottovalutando il sistema SS, egli finì con l'esserne schiacciato e si mise al servizio dell'opera sterminatrice a cui voleva opporsi e che voleva combattere. Io ritengo verosimile che egli abbia cercato o almeno abbia avuto l'intenzione di alleviare le sofferenze degli internati e sabotare la consegna di acido prussico. Ignoro se fu in grado di farlo”.



Walter Laqueur
Il terribile segreto
Giuntina, Firenze, 1983

Il testo studia la conoscenza che si aveva all'esterno dei fatti relativi allo sterminio, giungendo alla conclusione che almeno le grandi linee erano conosciute dalle alte sfere (ed anche da molte persone in contatto con il fronte di guerra), sia in Germania, sia fra gli alleati, sia in Vaticano.
Così conclude le sue considerazioni su ciò che pensavano gli ebrei nei ghetti polacchi:

Se le notizie sulla soluzione finale fossero state credute esse avrebbero raggiunto ogni angolo della Polonia in pochi giorni. Ma non furono credute, e quando le “deportazioni” dei ghetti polacchi cominciarono nel marzo 1942 si pensava ancora che gli ebrei sarebbero stati trasportati in luoghi più ad est... Dopo il luglio 1942 (le deportazioni da Varsavia) è sempre più difficile capire che ci fosse ancora una grande confusione sui disegni nazisti nei confronti degli ebrei polacchi e che le voci non fossero riconosciute per ciò che erano: certezze. Ogni analisi razionale della situazione avrebbe dimostrato che il fine dei nazisti era lo sterminio di tutti gli ebrei. Ma le pressioni psicologiche ostacolavano l'analisi razionale e creavano un'atmosfera in cui l'illusione sembrava offrire l'unico antidoto alla più completa disperazione.

Per quel che riguarda la Germania così scrive:

Milioni di tedeschi sapevano, alla fine del 1942, che gli ebrei erano scomparsi. Voci sul loro destino raggiunsero la Germania soprattutto attraverso ufficiali e soldati di ritorno dal fronte orientale, ma anche attraverso altri canali. C'erano chiare indicazioni nei discorsi dei capi nazisti che era accaduto qualcosa di più drastico di un semplice reinsediamento. Soltanto pochissime persone sapevano esattamente in che modo gli ebrei erano stati uccisi. E' in realtà assai probabile che molti tedeschi, mentre pensavano che gli ebrei non fossero più vivi, non credessero necessariamente che fossero morti. Tale convinzione, inutile dirlo, è logicamente incoerente, ma moltissime incoerenze logiche vengono accettate in tempo di guerra. Pochissime persone erano interessate al destino degli ebrei. La maggior parte doveva affrontare molti problemi più importanti. Era un argomento spiacevole, pensarci non serviva a niente, e le discussioni sul destino degli ebrei venivano lasciate cadere. Per tutta la durata della guerra questo argomento fu evitato, cancellato.

Infine queste le riflessioni sugli Alleati:

A Londra e a Washington i fatti sulla soluzione finale furono conosciuti piuttosto presto e raggiunsero i capi dei servizi segreti, i ministri degli affari esteri e della difesa. Ma i fatti non furono considerati di grande interesse e importanza o almeno alcuni funzionari non ci credettero o li giudicarono esagerati. Non ci fu nessun tentativo deliberato per interrompere il flusso d'informazioni sulle uccisioni in massa (tranne che per un certo periodo da parte di funzionari del dipartimento di stato) ma soprattutto mancanza d'interesse e incredulità. Questa incredulità può essere spiegata sulla base della mancanza di conoscenza da parte degli angloamericani degli affari europei in generale e del nazismo in particolare. Sebbene fosse generalmente accettato che i nazisti si comportassero in maniera meno civile dell'esercito tedesco nel 1914-18, l'idea di un genocidio sembrava tuttavia incredibile. Né la Luftwaffe, né la marina tedesca, né l'Afrika Korps avevano commesso simili atti di atrocità, e questi furono gli unici reparti delle forze armate tedesche che i soldati alleati incontrarono prima del 1944. La Gestapo era conosciuta attraverso non molto credibili film di serie B. Il fanatismo barbaro era inaccettabile per persone che pensavano pragmaticamente, che credevano che i lavori forzati piuttosto che l'annientamento fossero il destino degli ebrei in Europa. La maligna natura del nazismo era al di là della loro comprensione.
Ma se anche la realtà della soluzione finale fosse stata accettata a Londra e a Washington, la questione avrebbe comunque figurato molto in basso nella scala delle priorità alleate. Il 1942 era un anno critico nel corso della guerra, strateghi e burocrati non dovevano essere distratti dalla ricerca per la vittoria da considerazioni non direttamente connesse con lo sforzo bellico. Perciò troppa pubblicità sullo sterminio sembrava indesiderabile, perché era destinata a generare richieste di aiuto per gli ebrei, e ciò era considerato dannoso allo sforzo bellico. Anche in anni successivi, quando la vittoria era già assicurata ci fu poca propensione ad aiutare gli ebrei.



Elie Wiesel
Credere o non credere
Giuntina, Firenze, 1993

Il libro raccoglie vari articoli e interventi di Elie Wiesel. Voci nella notte è la prefazione scritta per presentare il volume Des voix dans la nuit, curato da Ber Mark, per l'editore Plon di Parigi, che raccoglie le voci di Zalman Gradowski, Zalman Lewental e Leib Langfus, ebrei del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, che sotterrarono i loro scritti vicino ai crematori, prima di essere uccisi.

Allora io ignoravo, oggi lo so: l'inferno non è lo stesso dappertutto. Esistono mille modi di subire il terrore e di attendere la morte. Bruciare cadaveri è fra i più crudeli. Il Sonderkommando bruciava cadaveri. Gli assassini tedeschi uccidevano e i becchini prendevano le vittime e le gettavano nei forni. Poi, dopo qualche settimana, gli assassini prendevano i becchini e li sostituivano con dei nuovi arrivati. E il cielo lassù diventava cenere.
E in basso, in campo, noi ci domandavamo: come può un essere umano fare questo lavoro senza degradarsi, senza provare odio e disgusto verso se stesso? Nessuno poteva risponderci per la semplice ragione che un abisso separava i becchini da noialtri detenuti. Noi non potevamo capirli. Io continuo a non capirli, eppure ho letto da allora tanti diari e racconti che alcuni di loro ci hanno lasciato.
Ne ho letti degli estratti in jiddish quando furono scoperti negli anni sessanta; li rileggo adesso in traduzione francese. Finita la lettura, mi sento incapace di accostarmi a un'altra opera o di fare un'altra cosa. Mi chiudo in me stesso e ascolto i cronisti del Sonderkommando: Zalman Gradowski, Zalman Lewental e Leib Langfus. Ed è come se li vedessi davanti a me: ciascuno ha il suo stile, la sua lingua, la sua collera. Ciò che hanno in comune è un bisogno irresistibile di deporre per la Storia e anche, a volte, di giustificarsi davanti ad essa. “... tuttavia in campo ci siamo profondamente intesi sulla natura del nostro destino e meglio ancora sul nostro dovere - dice Zalman Lewental. - Ci siamo, è vero, consultati a lungo per decidere se dovevamo ancora continuare questa vita... Abbiamo deciso che ognuno di noi non doveva restare passivo e che un fine doveva essere stabilito”. Il fine? Preparare l'insurrezione, scrivere fatti e impressioni, nomi e cifre di comunità annientate; in breve: assumersi la doppia condizione di vittime e testimoni.

Zalman Gradowski supplica, in un frammento, perché ogni testo sia ritrovato:

Cercatore, cerca dappertutto, in ogni briciola di terra. Documenti, i miei e quelli di altre persone, vi sono sepolti, documenti che gettano una luce cruda su tutto quello che è accaduto qui...

Nel dovere di raccontare sembra assumere un senso anche la vita di questi uomini.

Conoscono l'angoscia e il dubbio, la nostalgia e il rimorso, conoscono perfino la speranza: per questo si armano, per questo scrivono. La loro ossessione: resistere al carnefice, combattendo l'oblio. “Bisogna che gli uomini sappiano e se ne ricordino; bisogna”. La crudeltà sistematica e omicida degli assassini, l'agonia lenta e lucida delle vittime, la generosità dei bambini, il coraggio delle ragazze nelle camere a gas: bisogna che le generazioni future sappiano. “Ricordatevi che siamo andati alla morte con molta fierezza e in perfetta coscienza” disse una giovane ebrea polacca ai membri del Sonderkommando: Leib Langfus l'ha udita. Così come ha udito gli ebrei e i polacchi cantare i loro inni nazionali.

Il tempo non ha conservato intatti questi documenti.

Nessun documento contiene altrettante domande; nessun volume è stato composto con maggior rigore o lucidità. Le cancellature, gli stessi spazi bianchi hanno la loro importanza; e il loro peso simbolico. Dal momento che i manoscritti sono danneggiati - dall'umidità, dalla terra e dal tempo - non sapremo mai tutto ciò che uno Zalman Lewental voleva comunicarci. Di Auschwitz non si saprà mai tutto. Certe esperienze non si comunicano, e certamente non con la parola. Solo chi ha vissuto Birkenau si ricorderà di Birkenau. Chi non ha visto i suoi amici andarsene per diventare becchini o fumo non capirà mai perché la vista di una semplice ciminiera ci fa respirare faticosamente.
Questi racconti li leggerete con affanno, e non vi lasceranno più.

In un altro piccolo saggio, dal titolo I giusti fra noi, Wiesel analizza i tentativi di soccorrere gli ebrei. L'espressione i giusti fra le nazioni è stata coniata dal memoriale Yad Vashem di Gerusalemme per indicare appunto tutte le persone accorse in aiuto del popolo ebraico.

Ci furono anche sforzi collettivi. Il caso della Danimarca resterà per sempre l'esempio più glorioso. Come pure quello della Bulgaria. Il primo è ben conosciuto. Il re di Danimarca aveva stupefatto gli occupanti annunciando la sua intenzione di portare la stella gialla in segno di solidarietà con i suoi sudditi ebrei. Nel 1943, avvisata da un ufficiale tedesco, la Resistenza danese, in un mirabile gesto di eroismo collettivo, riuscì a salvare tutti gli ebrei del paese inviandoli in Svezia. E quando rientrarono, dopo la Liberazione, trovarono le loro case in perfetto ordine e fiori sulla tavola.
Quanto al popolo bulgaro, esso protesse la popolazione ebraica. Ispirato da un intellettuale coraggioso, Dimo Kazasov, il popolo bulgaro, ad eccezione di qualche collaborazionista, fece fallire i piani tedeschi di deportazione degli ebrei verso i campi della morte.

Per l'Italia, Wiesel ricorda i fatti di Assisi:

Come spiegare il coraggio di un frate francescano, padre Rufino Niccacci, di Assisi, che in piena Italia occupata, riuscì a nascondere trecento ebrei fino alla fine della guerra? Come comprendere l'abnegazione di qualche individuo, quando la società che lo circondava era dominata e avvelenata dal terrore e dall'odio?

Anton Schmidt, caporale austriaco pagò con la vita l'aiuto portato agli ebrei del ghetto di Vilna.

“Ho visto - scrisse Anton Schmidt nella sua ultima lettera alla famiglia - ho visto come duecento, trecento ebrei sono stati fucilati; ho visto come dei bambini sono stati massacrati... Aiutando gli ebrei, ho agito semplicemente come un essere umano che non voleva far male a nessuno”.

Nonostante questo Wiesel è costretto a concludere in maniera desolante:

Yad Vashem dichiara di possedere circa quattromilacinquecento nomi di “Giusti” che hanno cercato di salvare gli ebrei durante l'Occupazione. Sono molti? Per così tanti paesi? Per sei milioni di vittime?
Siamo prudenti. Non esageriamo. Se questi Giusti giustificano la nostra fede nell'umanità, essi dovrebbero, su un altro piano, giustificare ugualmente la nostra diffidenza nei confronti della società. Per un Oscar Schindler, quanti collaborazionisti? Per un Raoul Wallenberg, quanti spettatori indifferenti? Per un Anton Schmidt, quanti volontari nelle divisioni delle SS? Per un'anima generosa e caritatevole, quanti szmalcownik, quante abiette canaglie che percorrevano le strade delle città occupate alla ricerca di ebrei muniti di documenti ariani?
Qualche scintilla basta ad illuminare le tenebre? Qualche uomo, qualche donna coraggiosa è sufficiente a riabilitare un universo omicida?
Certo, il mistero del bene vale quanto quello del male; ma si tratta dello stesso mistero?

Nel 1990 il numero dei Giusti riconosciuti in Israele era salito a 8611.



Elie Wiesel
L'ebreo errante
Giuntina, Firenze, 1994

Testo che raccoglie articoli di provenienza varia, scritti da Wiesel. Ne La nostra colpa comune viene affrontato il problema delle responsabilità dell'Olocausto:

Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto risolvere la “questione ebraica” così completamente e così rapidamente. Gli slovacchi pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano dal loro paese; gli ungheresi esercitavano pressioni su Eichmann, che non mancava certo di zelo, perché accelerasse i trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono i tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è un caso che i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove.
Dovunque la popolazione locale si opponesse alla deportazione dei propri concittadini ebrei - è un fatto stabilito, indiscutibile - il “rendimento” era basso, insoddisfacente. Lo stesso Eichmann lo ha riconosciuto e sottolineato nelle confessioni che ha dettato a Buenos Aires al giornalista olandese Wilhelm Sassen. In Danimarca, quasi tutta la popolazione ebraica venne salvata. In Francia, in Belgio, in Olanda, paesi in cui le misure antiebraiche erano male accolte, i rappresentanti di Eichmann non potevano assolvere il loro compito se non in modo assai mediocre, provocando un'indignata amarezza a Berlino. Ma là dove la popolazione stessa aspirava a diventare judenreim, i carri di bestiame con il loro carico umano correvano senza ostacoli verso la notte. Queste verità non hanno trovato a Gerusalemme l'eco che meritavano.
Ugualmente, l'accusa non ha insistito abbastanza sull'atteggiamento del mondo libero, che, colpito da una sorprendente passività, guardava e lasciava fare. Se uomini come Roosevelt, Churchill o il papa avessero fatto sentire la loro voce, la cifra delle vittime avrebbe raggiunto i sei milioni?

Non sussiste più dubbio sulla effettiva conoscenza almeno di massima della persecuzione, in Occidente.

A Washington e a Londra, e anche a Gerusalemme, erano al corrente di ciò che stava accadendo fin dal 1942. Hitler e Goebbels non lo ignoravano. Si aspettavano una valanga di proteste e di minacce. Poi capirono che l'Occidente lasciava loro ogni libertà d'azione.
Nella corrispondenza fra il Professor Chaim Weizmann e il Foreign Office, presentata in tribunale a Gerusalemme, c'è una richiesta commovente nella sua semplicità: il leader sionista implorava il governo di Sua Maestà di dare ordine alla RAF di bombardare le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. La risposta fu negativa. Si sa che una simile richiesta venne rivolta da un leader ebreo americano al Presidente Roosvelt. Ma anche Roosvelt non dette alcun seguito alla cosa.
E' comunque curioso - per non usare un altro termine - che il mondo libero non si sia indignato che dopo, quando era troppo tardi, quando non c'erano più ebrei da salvare.

Il saggio è scritto a commento del processo Eichmann a Gerusalemme.

Infine, per non togliere nulla alla verità storica, il procuratore generale avrebbe dovuto spingere fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto che, per amaro e triste che possa essere, non è meno vero: gli ebrei stessi non fecero tutto ciò che avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha usato la sua influenza politica e finanziaria, non ha smosso cielo e terra come avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue ragioni, le sue giustificazioni, ma non sono valide. Nulla giustifica né spiega la passività quando si tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia di persone. Quante manifestazioni hanno avuto luogo al Madison Square Garden? Quante dimostrazioni davanti alla Casa Bianca? Ben Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo Child of the Century. A leggerlo si gela il sangue.
In Palestina, cuore e coscienza del popolo ebraico, la situazione non era molto diversa. Fino alla fine del 1944 non hanno mai trovato il modo di andare ad avvertire ed eventualmente ad aiutare le grandi comunità ebraiche che la morte aspettava al varco. Quando quei pochi paracadutisti sono arrivati a Budapest (e dal processo Kastner sappiamo con quale risultato), non restava loro più niente da fare: metà Europa era già priva di ebrei. Perché non è stato prima mandato qualcuno? Certo, sappiamo che c'era la guerra in Palestina. E allora? I giovani membri del Palmach si sarebbero presentati tutti volontari. Fra cento scelti, dieci o cinque sarebbero arrivati a destinazione; avrebbero organizzato la resistenza, evasioni, salvataggi.

Le conseguenze del silenzio sono evidenti per lui, ebreo deportato fra gli ultimi, dalla Transilvania.

Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra riguarda gli ebrei di Ungheria e in particolar modo quelli della Transilvania. La loro deportazione in massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno 1944, qualche giorno prima dello sbarco in Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte che li attendeva. Lo stesso nome sinistro di Auschwitz era loro sconosciuto. Non sapevano cosa significasse per loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero potuto essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma la maggior parte sì. L'Armata Rossa si trovava a una distanza di circa quaranta chilometri: di notte si sentiva chiaramente il rimbombo dei cannoni. C'erano delle montagne nei dintorni, dove ci si poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche giorno; l'arrivo dei liberatori non era che una questione di ore. Ma a quei pii ebrei di Transilvania veniva detto che non avevano nulla da temere, che li trasferivano da qualche parte all'interno del paese. E loro ci hanno creduto. Ripeto: questo è accaduto nella primavera dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklyn, di Whitechapel e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro che piccole stazioni di provincia.
Tuttavia, a Joel Brand, che sollecitava un colloquio urgente per informarlo della sua missione doppiamente tragica, il professor Chaim Weizmann fa rispondere che è troppo occupato e rimanda il colloquio di qualche settimana. Eppure Brand aveva precisato in una lettera che ogni ora era importante, che ogni giorno che passava significava diecimila ebrei in meno. Come Brand sia riuscito a non perdere la ragione resterà per me uno degli enigmi della volontà capaci di sopravvivere alla propria dannazione.
L'atteggiamento di Weizmann non faceva che mettere in evidenza lo stato d'animo diffuso fra gli ebrei in Palestina, e da qui la sua gravità. La gente si comportava come se ciò che accadeva “lassù” non la riguardasse. Con un distacco stupefacente, incomprensibile. Inconsciamente dicevano a se stessi: di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro esempio; hanno mancato di coraggio, d'idealismo: tanto peggio per loro.

Tale silenzio comprende anche la Palestina di allora, luogo di rifugio di tanti ebrei già scappati.

Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un giorno la curiosità di esaminare negli archivi dei giornali di Tel Aviv le annate 1943-44. Fu un'esperienza sconvolgente. “Non capisco”, mi disse. “Se tu sapessi quali erano i problemi che allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni comunali a Hedera o altrove: titoli in prima pagina. In un angolo sperduto della pagina un piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di Lublino, o di Lodz...”.
Non è colpa del popolo, ma dei suoi dirigenti. Non erano all'altezza. Davano prova di una sorprendente mancanza d'iniziativa, di maturità politica e di coraggio. Nahum Goldmann lo ha confessato recentemente, in occasione di una riunione a Ginevra del comitato esecutivo del Congresso mondiale ebraico. Le grandi organizzazioni ebraiche erano incapaci di superare le loro piccole questioni interne per realizzare un'azione comune. Per tutto il tempo che esistè, il comitato di emergenza per salvare il popolo ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei americani. Anche in questo caso avevano le loro ragioni, i loro motivi: niente alleanze con personaggi non ortodossi come Ben Hecht o Peter Bergson, niente collaborazione con il tale o il talaltro. Ma allora avrebbero potuto creare il loro proprio comitato di salvataggio in seno al quale tutti i partiti, tutte le organizzazioni sarebbero state rappresentate. Questo non è stato fatto.
E' per questo che non possiamo fare a meno di esprimere questa riflessione: per collocare il processo al suo giusto livello morale, quello della verità assoluta, il procuratore generale Gideon Hausner (o lo stesso primo ministro David Ben Gurion in qualità di testimone) avrebbe dovuto abbassare la testa e gridare a voce alta in modo da farsi udire da tre generazioni: “Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il possibile”.

Desolante si impone la conclusione:

I grandi spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia generale aveva creato un clima propizio ai criminali che potevano agire con calma, efficacemente, senza fastidi né falsa vergogna.

Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i reduci sopravvissuti:

Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. Non si tratta di un'idea giansenista e il peccato originale li lascia freddi. L'idea che li domina è più concreta, più straziante. Fa parte del loro essere.
Perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
... vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili. Se vivere vuol dire accettare o generare l'ingiustizia, morire diverrà ben presto una promessa, una liberazione.
Il sistema del Lebensschein nei ghetti e della Selektion nei campi non mirava soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far si che ogni prigioniero dicesse a se stesso: quello avrei potuto essere io; sono la causa, forse la condizione della morte altrui.
Così il Lebensschein rappresentava una tortura morale, una prigione senza uscita. Una delle testimonianze più commoventi che abbia sentito al processo Eichmann fu quella di un uomo che era stato medico a Vilna. Sposato da poco, era riuscito a procurarsi un certificato di vita; lavorava in una fabbrica tedesca. In grado di salvare un parente stretto della sua famiglia, andò a trovare sua madre per chiederle consiglio: “Che fare, chi proteggere? Te o mia moglie?”. Obbligato a una scelta, l'uomo, divenuto strumento tangibile del destino, vivrà ormai in un cerchio infernale, soffocante; non potrà più pensare a se stesso senza rabbia, senza disgusto...
E' il numero che conta, la quota. Così, il prigioniero risparmiato, soprattutto in periodo di selezioni, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro se ne sia andato al mio posto. E' per non pensare a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezionati. Per evitare gli sguardi, pieni di biasimo, che gli scomparsi avevano loro lanciato un'ultima volta...
Citiamo ancora un caso, anch'esso presentato in tribunale a Gerusalemme: quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che dopo poco vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri. Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura.



Jorge Semprun/Elie Wiesel
Tacere è impossibile. Dialogo sull'Olocausto
Guanda, Parma, 1995

Il testo è la trascrizione di un dialogo fra Elie Wiesel e Jorge Semprun, trasmesso dalla televisione francese, nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento.
Il dialogo sottolinea come la preoccupazione per la salvezza degli ebrei non fosse una priorità, nel contesto della guerra:

Elie Wiesel: Bisogna collocare tutto nel presente, nel reale. Tu parli della Liberazione. Io anni fa a Mosca ho fatto una domanda al generale Petrenko. E' stato lui a liberare Auschwitz. Eravamo là, appunto, tutt'e due, e abbiamo confrontato le nostre impressioni su quell'ultima notte. Perché, vedi, noi all'interno del campo ci preparavamo ad uscirne, mentre lui predisponeva le sue truppe per liberarlo.
Bè, io gli ho chiesto: Se aveste sferrato un attacco solo due giorni prima, avreste salvato centomila tra uomini e donne. Ma non lo avete fatto. Mi dica perché. Chi ve lo impediva? Lui ha cominciato a parlare, a tirare in ballo questo e quello... La faccenda non è affatto chiara. Lo stesso si può dire degli Alleati. Buchenwald poteva essere liberato prima. Sono incappati in Buchenwald per caso. Insomma, non era una priorità.
Jorge Semprun: Non era una priorità strategica. Però gli Alleati, gli Occidentali, avrebbero potuto diffondere con ben altro impegno le notizie che avevano sullo sterminio, soprattutto a partire dal 1943. Potevano esercitare una minaccia diretta...
E.W.: E bombardare la linea ferroviaria che portava ad Auschwitz. Ma del resto questo vale anche per i russi. Oltretutto erano più vicini.
J.S.: In effetti avrebbero potuto intervenire. Dare la lista dei nomi che era nelle loro mani. Perché la Resistenza ebraica l'aveva già trasmessa. Mettere decine e decine di tedeschi di fronte alle loro responsabilità. Ecco chi sono i nazisti. Ecco cosa vi spetta. Annunciare Norimberga in questo modo. Non è stato fatto, invece. Non è stato fatto per le stesse ragioni per le quali il silenzio è durato anche dopo.
E.W.: Io sono stato a Babi-Yar. Nel 1956 non c'era niente. Poi hanno costruito un monumento. Eppure a Babi-Yar in dieci giorni sono stati sterminati 60.000, forse 80.000 ebrei, tra Rosh ha-Shanah e Kippur. Non una sola iscrizione in ebraico. Non c'era un solo ebreo, là, tra i comunisti, tra i russi. Era come ad Auschwitz.
J.S.: Come ad Auschwitz, sì. Era un campo dove morivano gli antifascisti. Di colpo viene cancellate, annullata, la verità profonda di Auschwitz, che è il campo di sterminio della soluzione finale.
E.W.: Gli ebrei sono stati uccisi una seconda volta.
J.S.: Esatto, una seconda volta. Nel caso di Babi-Yar, si è dovuto aspettare la poesia di Evtusenko e un certo numero di disgeli.

Il problema di Dio emerge, il mistero del suo silenzio, a partire da due prospettive simili e insieme profondamente diverse:

E.W.: Comunque per me Dio era l'ancora di salvezza. Non lo so, Jorge, io non capisco, ma Auschwitz e Buchenwald per me sono inconcepibili, con o senza Dio. In effetti, ogni volta mi pongo lo stesso interrogativo: Ma Dio là dentro dov'era? E se c'era cosa faceva? Perché, vedi, io provengo da un ambiente religioso, estremamente religioso. Tu invece hai una formazione politica. Tu lavoravi nella Resistenza. Io non ho fatto niente. Ho lasciato fare. Dio faceva e l'uomo disfaceva: le cose, gli eventi, le creature umane. Per me c'era solo Dio, perché tutto sommato l'uomo ai miei occhi non contava. Contava Dio, Lui soltanto importava. Spettava a Lui dare un senso alla mia vita. Era Dio la motivazione di tutto quello che mi succedeva. E proprio per questo io avvertivo un'assenza, un eclissi: già, ma Dio dove era? E allora è avvenuto che più tardi mi sono rivoltato, ho lottato contro Dio, soprattutto a guerra finita. E' stato quando ho cominciato a occuparmi di filosofia, quando ormai sapevo come formulare gli interrogativi. Ma Dio c'era, Dio esisteva sempre. Perfino al Campo Piccolo. Mi ricordo di Pasqua. Per Pasqua noi non possiamo mangiar pane. Be', io ne ho mangiato, ma avevo dei compagni che neppure dentro il campo ne mangiavano. Ricordo le preghiere. Nel Campo Piccolo, il giorno di Pasqua pregavamo. Io ero come assente. L'11 Aprile, la prima cosa che abbiamo fatto, noi, un gruppetto di compagni del campo piccolo, è stato recitare il Kaddish. E' per i morti il Kaddish. La prima cosa. Si, proprio questa, recitare il Kaddish. Dunque, io mi definivo attraverso Dio. E ancora oggi, non so...
J.S.: La leggenda della passività ebraica è un'ignominia. C'è quest'aggancio a una resistenza morale, a una identità morale che è molto forte, e che per noi si costruisce in modo diverso. Io appartengo ad una famiglia cattolica. E' vero che sono ateo fin dall'adolescenza; tuttavia è grazie alle discussioni fatte a Buchenwald che sono arrivato a definire il mio rapporto con Dio. A concludere che discuterne l'esistenza è un falso problema, perché fino a quando ci sarà l'uomo ci sarà Dio. Esisterà questo rapporto con la trascendenza. Dunque, non va discussa la questione dell'esistenza, sono altre le questioni da discutere. E' un'acquisizione o una conseguenza di quelle discussioni domenicali a Buchenwald. Paradossalmente, oserei dire che bisogna spingere l'ateismo fino in fondo. E l'ateismo spinto all'estremo riconosce che Dio è un bisogno umano, un desiderio, un fantasma, una necessità. Esisterà fino a quando ci sarà l'uomo.



Emmanuel Lévinas
Dall'esistenza all'esistente
Marietti, Casale Monferrato, 1986

Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo originario di Kaunas, in Lituania, non racconta esplicitamente, nelle sue opere filosofiche, la sua esperienza personale dell'Olocausto e quella del suo popolo.
Nell'opera La difficile libertà. Saggi sul giudaismo, così si esprime al riguardo:

La mia biografia è dominata dal presentimento e dal ricordo dell'orrore nazista.

Lévinas accenna quasi con pudore al suo internamento nel campo di Fallinpostel nei pressi di Magdeburgo persecuzione da lui personalmente vissuta ove fu dal 1940 al 1945 come prigioniero di guerra, perché dal 1930 naturalizzato francese, in un campo separato, ma vicino a quello degli ebrei destinati alla morte perché ebrei.

Dall'esistenza all'esistente è il primo volume pubblicato da Lévinas dopo la guerra. In esso pone le basi del suo pensiero. Il testo nasce durante la detenzione, in cui lo avevano costretto i nazisti.

Tutte queste ricerche, che sono cominciate prima della guerra, sono poi state continuate e, nella maggior parte, redatte durante la prigionia. Ma se ricordiamo lo stalag non è per una garanzia di profondità, e nemmeno per un diritto all'indulgenza, ma per spiegare l'assenza di ogni presa di posizione sulle opere filosofiche che furono pubblicate, con tanto clamore tra il 1940 e il 1945.

Una filosofia che parta dalla dimenticanza dell'esistente, di colui che concretamente esiste, viene invasa dall'anonimato dell'esistere. Non si può partire dall'anonimo il y a ( c'è) o dall'impersonale (come il pleut, piove).

L'il y a, che abbiamo descritto durante la prigionia e che abbiamo presentato in quest'opera all'indomani della Liberazione, ci riporta a una di quelle strane ossessioni dell'infanzia che conserviamo in noi e che riappaiono nell'insonnia quando il silenzio risuona e il vuoto resta pieno.

La conseguenza del primato dell'esistere impersonale sull'esistente è devastante nel pensiero filosofico.

Immaginiamo il ritorno al nulla di tutti gli esseri: cose e persone. Non è possibile situare questo ritorno al nulla al di fuori di ogni evento. Ma il nulla stesso? Qualcosa accade, non fosse altro che la notte e il silenzio del nulla... Indicheremo questa “consumazione” impersonale, anonima, ma inestinguibile dell'essere, che mormora al fondo del nulla stesso, con il termine di il y a. Nel suo rifiuto di assumere una forma personale, l'il y a è l'essere in generale.

Le parole con cui viene descritto l'esito del primato dell'essere in generale sull'esistenza concreta dell'altro e del suo volto descrivono, senza che lo si affermi esplicitamente, la realtà dei campi di concentramento.

La scomparsa di ogni cosa e la scomparsa dell'io pervengono a ciò che non può scomparire, al fatto stesso dell'essere a cui, volenti o nolenti, si partecipa senza aver preso l'iniziativa, anonimamente... Di fronte a quest'oscura invasione non è possibile raccogliersi in sé, rientrare nel proprio guscio. Siamo esposti.

Anche la durissima opposizione al pensiero heideggeriano che traspare già in queste poche frasi, è opposizione filosofica, ma anche opposizione dovuta alla comprensione dell'utilizzo del suo pensiero. Così, in La difficile libertà:

La nostra via conduce dall'esistenza all'esistente e dall'esistente ad altri... Un tale strappo non è un esser-meno, bensì il modo d'essere del soggetto. E' potere di rottura, rifiuto di principi neutri ed impersonali, rifiuto della totalità hegeliana e della politica, rifiuto dei ritmi incantatori dell'arte. Esso è poter parlare, libertà di parola...



Reinhard Lettmann/Heinrich Mussinghoff (a cura di)
Il leone di Munster e Hitler. Clemens August cardinale von Galen
Herder, Roma-Freiburg-Wien, 1996

Nel volume viene analizzata l'opera del vescovo di Munster Clemens August Graf von Galen e la sua opposizione al nazismo. In appendice vengono pubblicate le omelie con le quali, in un crescendo progressivo, attaccò il terrore hitleriano. nella prima del 13 luglio 1941 descrive ai suoi fedeli la confisca dei beni ecclesiastici della città e la detenzione immotivata di ecclesiastici rei solo di non condividere la politica del Terzo Reich:

Io non mi faccio illusioni: ciò può capitare anche oggi, o un giorno, anche a me. E poiché allora io non potrò più parlare in pubblico, lo voglio fare oggi; voglio mettere in guardia pubblicamente a non procedere per questa via, che secondo la mia convinzione, provocherà la giusta punizione di Dio sugli uomini e porterà sventura e annientamento al nostro popolo ed alla nostra Patria...
Io sono consapevole, come Vescovo, come annunciatore e difensore dell'ordine giuridico, morale e divino, che attribuisce a ogni individuo diritti e libertà, dinanzi ai quali, secondo la volontà di Dio, tutte le pretese umane devono arrestarsi, di essere chiamato, al pari del Ministro Frank, a difendere coraggiosamente l'autorità del diritto ed a denunciare una condanna di innocenti senza difesa, come una ingiustizia che grida al cielo.

Ma, ancora, la denuncia si unisce alla convinzione della missione della Germania:

Se questa voce resta inascoltata e non recepita, il dominio della regina giustizia non sarà più ripristinato, e così il nostro popolo e la nostra patria tedesca, nonostante l'eroismo dei nostri soldati e delle loro gloriose vittorie, andranno in rovina per putrefazione interna e per corruzione. Preghiamo per tutti quelli che sono nel bisogno, specialmente per i nostri religiosi, per la nostra città di Munster, affinché il Signore voglia risparmiarci altre prove, per il nostro popolo tedesco, la nostra Patria ed il suo Führer!

Nella predica del 3 agosto 1941 la denuncia è nettissima. Il vescovo, venuto a conoscenza dello sterminio degli handicappati e dei malati di mente così dichiara dal pulpito:

Già il 6 luglio dovetti aggiungere alle parole della lettera pastorale comune il seguente commento: “Da alcuni mesi noi apprendiamo che, per disposizione di Berlino, vengono portati via forzatamente dalle case di cura e dai manicomi persone già a lungo malate e che potrebbero sembrare incurabili. Regolarmente i congiunti dopo poco tempo vengono informati che la salma sarebbe stata cremata e che le ceneri dei loro defunti avrebbero potuto essere loro recapitate. Generalmente si ha il sospetto, quasi la certezza, che questi numerosi casi di inattesi decessi di malati di mente non avvengano spontaneamente, ma che siano causati intenzionalmente, che si segua qui quella dottrina che afferma di poter distruggere le cosiddette “vite inutili”, quindi uccidere esseri innocenti, se si giudica che la loro vita non abbia più alcun valore per il popolo e per lo Stato. Dottrina orribile, la quale vuole giustificare l'assassinio di innocenti e permette per principio l'uccisione violenta di invalidi inabili al lavoro, di mutilati, di malati inguaribili, di persone decrepite”.
So da fonte attendibile, che ora anche nelle case di cura e nei manicomi della provincia della Westfalia vengono compilati degli elenchi di tali malati, che cosiddetti “compatrioti improduttivi”, entro breve tempo devono essere portati via ed eliminati. Durante questa settimana è partito il primo trasporto della Casa di cura di Marienthal presso Munster.

Il vescovo descrive un caso a lui personalmente noto:

Voglio citarvi un esempio di ciò che attualmente avviene. A Marienthal vi era un uomo di 55 anni, un contadino di un comune rurale della regione di Munster- potrei dirne anche il nome - che soffriva da alcuni anni di squilibri mentali e che pertanto è stato affidato alla Casa di cura e manicomio di Marienthal. Non era veramente alienato, poteva ricevere visite ed era sempre contento quando i suoi congiunti lo andavano a trovare. Ancora due settimane fa sua moglie ed uno dei suoi figli, che come soldato sta al fronte e che era in licenza, sono andati a visitarlo. Questo figlio vuole molto bene a suo padre e così il saluto d'addio fu molto commovente; nessuno sa se questo soldato ritornerà, perché può morire al fronte per i suoi connazionali. Il figlio, questo soldato, probabilmente non rivedrà più il padre in questa vita, perché è stato incluso nel suo ricovero nella lista degli improduttivi. Un parente, che in questa settimana voleva far visita a quel padre in Marienthal, non fu fatto entrare e gli si disse che il malato per disposizione del Consiglio dei Ministri per la Difesa del Paese, era stato portato via, senza poter dire dove. I parenti furono informati entro alcuni giorni. Quale tenore avrà questa comunicazione? Come quella di altri casi? Che quell'uomo era deceduto, che la sua salma era stata cremata, che le ceneri, mediante il pagamento di una tassa, potevano essere consegnate? Allora il soldato, che è al fronte e mette la propria vita a repentaglio per i suoi connazionali, non vedrà più suo padre in questa vita, perché dei connazionali in patria gli hanno tolto la vita.
I fatti da me riferiti sono veri. Posso fare il nome di questo malato, quello di sua moglie, di suo figlio, che è soldato, e il luogo dove abitano.

L'omelia allora denuncia ciò che sta avvenendo ed intuisce gli sviluppi futuri:

“Non uccidere!” Dio ha impresso questo comandamento nella coscienza degli uomini molto prima che un codice penale minacciasse l'assassinio con la pena, molto prima che Pubblico Ministero e Tribunale perseguissero e punissero l'assassinio. E il primo comandamento: “Non avrai altro Dio all'infuori di me!”. Piuttosto dell'unico vero Dio si creano a piacere idoli per adorarli: la natura, lo Stato, il popolo, la razza. E quanti sono coloro il cui dio, in realtà, secondo la parola di S. Paolo è “il ventre”, la propria buona salute, cui sacrificano tutto, anche l'onore e la coscienza, è l'ebbrezza dei sensi, l'ebbrezza del denaro, l'ebbrezza del potere! E allora può nascere anche la tentazione di arrogare diritti divini a se stessi, di sentirsi padroni della vita e della morte dei propri simili.



Pio XI
Mit Brennender Sorge
in
Tutte le encicliche dei sommi Pontefici

Dall'Oglio, Milano, 1959

L'opposizione della chiesa tedesca al nazismo, che era stata chiara dal sorgere del movimento, si era espressa con maggior decisione dal 1930 al 1932, dopo i grandi successi elettorali nazisti.
Nel marzo 1933 si verifico' un repentino rovesciamento, che portò, il luglio 1933, al Concordato tra la chiesa cattolica ed il regime nazista, sottoscritto nonostante il fatto che, in data 14 luglio, fosse stata approvata la legge sulla sterilizzazione obbligatoria delle persone con handicap o con malattie mentali.
Negli anni seguenti, lentamente, la chiesa scoprì che era una illusione il venire a patti col nazismo.
Con l'enciclica Mit Brennender Sorge (Con viva ansia) del 14 marzo 1937 Pio XI si risolse a condannare nuovamente, in maniera dura la Germania di Hitler.
Così lo storico G.Martina presenta il contenuto dell'enciclica, nel suo libro La chiesa nell'età del totalitarismo:

La prima parte dell'enciclica, il cui primo abbozzo fu steso a Roma in tre notti dal card. Faulhaber, ma venne poi rivisto e corretto dal card. Pacelli riassumeva i rapporti fra Stato e Chiesa in Germania dal 1933, fermandosi soprattutto sulle vane speranze poste nel concordato e sulla aperta lotta contro la Chiesa. Nella seconda parte, Pio XI ribadiva le verità fondamentali del cattolicesimo, che il nazismo negava o interpretava ambiguamente, condannando le tendenze panteistiche, la divinizzazione della razza, del popolo, del capo dello Stato, l'ostilità verso l'Antico Testamento, il rifiuto di una morale oggettiva universale e di un diritto naturale: ”Chi eleva la razza, il popolo o una determinata sua forma, a rappresentanti del potere statale od altri elementi fondamentali della società umana a norma suprema di tutto, anche dei valori religiosi, perverte e falsa l'ordine delle cose create e volute da Dio”. L'enciclica proclamava poi l'indissolubile legame fra diritto e morale, fra morale e religione, sottolineava le conseguenze disastrose cui la negazione di un diritto naturale apre la via, cioè un eterno stato di guerra fra le nazioni e la totale subordinazione dell'individuo allo Stato.

Nel 1938 Pio XI così si espresse in una importante udienza ai pellegrini della Radio Cattolica Belga, riportata da don Giuseppe Dossetti, nella introduzione a Le querce di Monte Sole:

Il Papa dopo aver commentato l'espressione del Canone Romano, che, nel momento culminante della Messa, chiede a Dio Padre di gradire l'offerta della Chiesa come ha gradito il sacrificium Patriarchae nostri Abrahae, soggiungeva: “L'antisemitismo non è compatibile con il pensiero e le realtà sublimi che sono espresse in questo testo. E' un movimento antipatico, un movimento al quale noi non possiamo, noi cristiani, avere alcuna parte. Poi secondo la testimonianza di mons. Picard: ”A questo punto il Papa non riuscì a contenere più la sua emozione. E piangendo cita i passi di San Paolo che mettono in luce la nostra discendenza spirituale da Abramo: la promessa è stata fatta ad Abramo e alla sua discendenza... La promessa si realizza nel Cristo e per mezzo del Cristo in noi che siamo le membra del suo Corpo mistico. Per mezzo del Cristo e nel Cristo, noi siamo della discendenza spirituale di Abramo. No, non è possibile ai cristiani prendere parte all'antisemitismo. Noi riconosciamo a chiunque il diritto di difendersi e di proteggersi contro tutto ciò che minaccia i propri interessi legittimi. Ma l'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti”.



Renzo de Felice
Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo

Mondadori, Milano, 1977

Nelle ricerche di Renzo de Felice anche l' elenco delle istituzioni cattoliche che hanno accolto ebrei per nasconderli e per salvarli dalla deportazione.

Elenco delle case religiose in Roma che ospitarono ebrei
(fra parentesi il numero degli ebrei ospitati)
 
Israeliti rifugiati nelle case religiose femminili.

l. Suore di Nostra Signora di Sion, via Garibaldi, 28 (187)
2. Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, via Pannonia, 10 (136)
3. Suore del Buono e Perpetuo Soccorso, via Merulana, 170 (133)
4. Maestre Pie Filippini, largo Santa Lucia Filippini, 20; via Caboto, 16; via Fornaci (114)
5. Oblate Agostiniane di Santa Maria dei 7 Dolori, via Garibaldi, 27 (103)
6. Suore della Presentazione, via Milazzo, 1la; via Sant'Agata dei Goti, 10 (102)
7. Suore Orsoline dell'Unione Romana, via Nomentana, 234 (103)
8. Suore Adoratrici Canadesi del Prezioso Sangue, via F.D.Guerrazzi (80)
9. Istituto Clarisse Missionarie Francescane del Santissimo Sacramento, via Vicenza, 33 (76)
10. Figlie del Sacro Cuore di Gesù (Verzeri), via Cavour (69)
11. Istituto Suore Compassioniste Suore di Maria, via Alessandro Torlonia, 14 (63)
12. Istituto delle Suore di San Giuseppe, via del Casaletto (57)
13. Istituto San Giovanni Battista (Suore Medee), via Bartolomeo Eustacchio (51)
14. Suore di Carità dell'Immacolata Concezione d'Ivrea, via Leone IV, 2 (50)
15. Oblate a Tor de' Specchi, via del Mare, 12 (48)
16. Istituto « Ravasco », via San Sebastianello, 10 (46)
17. Istituto delle Suore dell'Assunzione, corso d'Italia (46)
18. Suore Alcantarine, via Vasellari, 61 (44)
19. Suore Francescane Missionarie d'Egitto, via Cicerone, 57; piazza Santa Cecilia, 23 (43)
20. Suore Francescane della Misericordia di Lussemburgo, via Poggio Moiano, 8 (40)
21. Suore della Carità della Beata Capitanio, via Sant'Uffizio, 17 (39)
22. Suore Figlie di Maria Immacolata, via Palestro, 25 (36)
23. Figlie di Nostra Signora al Monte Calvario, Villa del Sole, Casa Santi Quattro (36)
24. Signorine Teresiane (Spagnole), via Gaeta, 8 (34)
25. Suore Figlie della Sapienza, via Toscana 13; corso d'Italia, 33 (34)
26. Istituto dell'Adorazione, via T.Salvini, 20 (33)
27. Figlie di Maria Ausiliatrice, via Marghera, 56; via Dalmazia, 18 (32)
28. Suore del Cenacolo, piazza Priscilla, 7 (28)
29. Istituto di Nazareth, via Cola di Rienzo, 140 (30)
30. Francescane Missionarie di Maria, via Appia Nuova, 522; via della Balduina, 38 (30)
31. Istituto delle Suore di Nostra Signora della Compassione, via degli Ibernesi, 20 (30)
32. Suore della Carità di Namur, via Cesare Correnti, 2 (28)
33. Suore Armene di Monteverde (2)
34. Suore Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, via Gaeta, 13 (27)
35. Suore Francescane Angeline, via Seso Celere (26)
36. Suore della Carità, via Villini (25)
37. Suore Cistercensi di Santa Susanna, via XX Settembre (26)
38. Suore della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, via Merulana, 174 (25)
39. Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, via Villa Ricotti, 4 (24)
40. Figlie di Maria Santissima dell'Orto, via di Porta Tiburtina, 14 (24)
41. Suore di Santa Elisabetta, via dell'Olmata, 9 (22)
42. Suore di Santa Dorotea, Sant'Onofrio, via Ripetta (21)
43. Suore Brigidine, piazza Farnese (20)
44. Suore Ministre degli Infermi, via Col di Lana; via Labico, 29 (20)
45. Suore del Divino Amore, via San Francesco di Sales, 27 (19)
46. Congregazione delle Suore Betlemite Figlie del Sacro Cuore di Gesù, piazza Sabazio, 1 (18)
47. Protettorato di San Giuseppe, via Nomentana, 341 (17)
48. Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, via Sette Sale, 24 (17)
49. Suore Agostine dei Santi Quattro Incoronati (17)
50. Religiose di San Carlo, via Aurelia, 159 (16)
51. Istituto Buon Pastore, via Lungara (16)
52. Religiose dei Santi Angeli Custodi, via A. Depretis, 74 (15)
53. Suore Camaldolesi, Aventino (15)
54. Suore del Buon Salvatore, via Leopardi, 17 (14)
55. Suore del Santo Bambino Gesù, viale Medaglie d'oro, 112 (13)
56. Piccole Suore dei Poveri Vecchi, piazza San Pietro in Vincoli (13)
57. Suore di Maria Consolatrice, via Etruschi, 13 (13)
58. Suore Agostiniane, San Pasquale, via Anicia, 12 (13)
59. Suore del Santissimo Crocefisso, via Piè di Marmo, 12 (12)
60. Suore Infermiere della Piccola Compagnia di Maria, via di Santo Stefano Rotondo, 6 (11)
61. Suore di Santa Marta, via Virgínio Orsini, 15 (9)
62. Suore del Divin Salvatore, viale delle Mura Gianicolensí, 77 (9)
63. Suore del Sacro Cuore del Verbo Incarnato, via Guattani, 7 (9)
64. Suore della Società del Sacro Cuore di Gesù, Casa generale, Villa Lante (9)
65. Figlie di San Giuseppe (8)
66. Suore di Sant'Anna (Barolo) (8)
67. Suore Mantellate (7)
68. Suore Agostiniane (7)
69. Suore della Carità di Nevers (6)
70. Madri Pie di Ovada (6)
71. Maestre Vererini (3)
72. Retraite d'Angers (4)
73. Suore Ospitaliere del Sacro Cuore di Gesù, via Castelfidardo, 45 (5)
74. Figlie della Carità (7)
75. Suore della Sacra Famiglia, salita Monte del Gallo, 19 (5)
76. Suore Povere Bonaerensi di San Giuseppe, via dei Fienili, 45 a (6)
77. Suore Riparatrici, via de' Lucchesi, 9 (5)
78. Suore Adoratrici Perpetue, via dei Selci (12)
79. Monastero Visitazione (2)
80. Clarisse di San Bernardino (6)
81. Clarisse di San Lorenzo (2)
82. Domenicane Annunziatine (5)
83. Suore Turchine del Corviale (3)
84. Istituto Santa Maria della Provvidenza, Opera Don Guanella (14)
85. Ospizio Femminile Pio X (44)
86. Suore Francescane Missionarie Immacolata Concezione (42)
87. Adoratrici del Santissimo Sacramento, via Torlonia (11)
88. Suore di San Tommaso di Villanova (12)
89. Suore del Rosario Perpetuo (-)
90. Suore Orsoline di Parma (2)
91. Suore della Dottrina Cristiana (5)
92. Suore Sacramentine di Bergamo (7)
93. Suore della Resurrezione (Polacche) (3)
94. Orfanatrofio Antoniano (3)
95. Suore della Divina Provvidenza (2)
96. Suore di Sant'Orsola della Beata Vergine (-)
97. Suore dell'Addolorata (1)
98. Suore San Giuseppe di Cluny (1)
99. Ancelle del Sacro Cuore (1)
100. Clarisse riformate (1)

Israeliti rifugiati nelle Case Religiose maschili

1. Fratelli delle Scuole Cristiane (96)
2. Società Salesiana di San Giovanni Bosco (83)
3. Pontificio Seminario Lombardo (63)
4. Fratelli Ospitalieri della Immacolata Concezione (52)
5. Pontificio Seminario Francese (50)
6. Pontificio Seminario Romano Maggiore (48)
7. Fate Bene Fratelli (46)
8. Reverendi Padri Barnabiti (36)
9. Reverendi Padri Bianchi (35)
10. Fratelli Maristi (Collegio San Leone Magno) (33)
11. Fratelli del Sacro Cuore (Collegio Cristo Re) (28)
12. Reverendi Padri Benedettini (19)
13. Reverendi Padri Servi di Maria V (14)
14. Reverendi Padri Terziari Regolari (14)
15. Reverendi Padri Filippini (11)
16. Reverendi Padri Domenicani (8)
17. Reverendi Padri Giuseppini (7)
18. Reverendi Padri Rosminiani (5)
19. Reverendi Padri Missionari del Sacro Cuore (6)
20. Reverendi Padri Maristi (4)
21. Reverendi Padri Camaldolesi (4)
22. Reverendi Padri Agostiniani Erem. (3)
23. Reverendi Padri Trinitari (3)
24. Reverendi Padri Dottrinari (3)
25. Reverendi Padri Canonici Lateranensi (2)
26. Reverendi Padri Oblati di San Giuseppe (3)
27. Missioni estere di Milano (1)
28. Reverendi Padri Passionisti (1)
29. Reverendi Padri Missionari dello Spirito Santo (1)
30. Santa Maria dell'Orto Monsignor De Carolis (8)
31. Sant'Onofrio Reverendo Padre De Stefani Luigi (7)
32. San Carlo al Corso Monsignor Trezzi (4)
33. Collegio Nazareno (9)
34. Collegio San Gabriele, viale Parioli, 26 (4)
35. Collegio di Santa Maria, viale Manzoni, 5 (6)
36. Ospizi Don Orione (21)
37. Parrocchia Santa Croce (80)
38. Parrocchia della Divina Provvidenza (65)
39. Parrocchia di San Filippo (24)
40. Parrocchia del Buon Pastore (5)
41. Parrocchia di Santa Maria in Trastevere (2)
42. Parrocchia di Santa Maria delle Fornaci (1)
43. Parrocchia di Ognissanti (1)
44. Parrocchia della Trasfigurazione (100)
45. Parrocchia di Santa Maria in Campitelli (38)
46. Parrocchia di Santa Maria della Pace (40)
47. Parrocchia di San Gioacchino ai Prati (13)
48. Reverendi Padri Francescani San Bartolomeo all'Isola (400)
49. Reverendi Padri Stimmatini Parrocchia Santa Croce (100)
50. Convento di San Bonaventura al Palatino (10)
51. Reverendi Padri Domenicani Irlandesi (San Clemente) (2)
52. Istituto dell'Immacolata dei Frati Bigi (10)
53. Fratelli delle Scuole Cristiane di Irlanda (3)
54. Reverendi Padri Gesuiti in case diverse (43)
55. Istituto maschile Don Luigi Guanella, via Aurelia Antica (8)



Joseph L.Lichten
Pio XII e gli ebrei
Il regno-Documenti 3/88

Joseph L. Lichten, ebreo di origine polacca, laureato in legge all'Università di Varsavia, scrisse nel 1963 un breve saggio dal titolo Un problema di valutazione: Pio XII e gli ebrei.
Così si esprimeva su di sé:

Un solo commento personale: molte volte, mentre portavo avanti le mie ricerche... ero anche alla ricerca della mia anima. In considerazione della mia tragedia personale, io mi sento obbligato in modo tutto speciale a vagliare ogni particolare relativo alla tragedia ebraica dell'ultima guerra...

Queste le sue conclusioni di allora:

Una nutrita documentazione conferma il timore di papa Pio XII che un pronunciamento ufficiale avrebbe aggravato e non migliorato le condizioni dei perseguitati. Ernst von Weizsaecker, ambasciatore tedesco presso il Vaticano, durante la II guerra mondiale, lasciò scritto nelle sue memorie: “Neppure istituzioni di importanza mondiale, come la Croce Rossa Internazionale o la chiesa cattolica romana, ritennero opportuno fare appelli a Hitler in termini generali a difesa degli ebrei, o rivolgersi apertamente alla solidarietà del mondo. Fu precisamente per il loro desiderio di aiutare gli ebrei che queste organizzazioni si trattennero dal pronunciare qualsiasi appello pubblico generale; temevano infatti di compromettere ulteriormente, piuttosto che aiutare, la posizione degli ebrei”.

Con queste parole l'ambasciatore correggeva le dichiarazioni che aveva espresso a caldo nei giorni della deportazione degli ebrei di Roma, con due telegrammi inviati a Berlino, pubblicati da L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei:

Telegramma al segretario di Stato Keppler.

Roma (Vaticano), 17 ottobre 1943

Sono in grado di confermare la reazione del Vaticano in seguito all'evacuazione degli Ebrei di Roma... La Curia è particolarmente costernata, visto che tutto è avvenuto, per così dire, sotto le finestre del Papa. La reazione sarebbe probabilmente attenuata se Ebrei venissero addetti al lavoro qui in Italia.
Gli ambienti a noi ostili di Roma traggono profitto da questo avvenimento per forzare il Vaticano a uscire dal suo riserbo. Si dice che i vescovi delle città francesi dove si erano verificati incidenti analoghi, abbiano preso nettamente posizione.
Il Papa nella sua qualità di capo supremo della Chiesa e vescovo di Roma, non potrà mostrarsi più riservato di loro. Si fa nondimeno un parallelo tra il temperamento più spiccato di Pio XI e quello del Papa attuale.
La propaganda dei nostri nemici all'estero senza dubbio s'impadronirà di questo incidente per turbare le relazioni pacifiche che intercorrono con la Curia.

Fto WEIZSACKER



Ambasciata tedesca presso la Santa Sede

Roma 24 ottobre 1943

Benché premuto da ogni parte, il Papa non si è lasciato trascinare ad alcuna riprovazione dimostrativa a proposito della deportazione degli Ebrei di Roma. Sebbene egli debba aspettarsi che un tale atteggiamento gli sia rinfacciato dai nostri nemici e che venga sfruttato dagli ambienti protestanti dei paesi anglosassoni nella loro propaganda contro il cattolicesimo, egli ha nondimeno fatto il possibile in questo delicato problema per non mettere alla prova le relazioni con il governo tedesco e gli ambienti tedeschi di Roma. Siccome senza dubbio, non vi sarà più motivo di aspettarci ulteriori azioni tedesche a Roma contro gli Ebrei, si può ritenere che tale questione, spiacevole per le relazioni tra la Germania ed il Vaticano, sia liquidata.
Comunque, un sintomo di questo stato di cose traspare nell'atteggiamento del Vaticano. L'“Osservatore Romano” ha infatti messo in rilievo nel numero del 25-26 ottobre, un comunicato ufficioso sull'attività caritatevole del Papa. Questo comunicato che fa uso dello stile tipico del Vaticano, ossia uno stile assai contorto e nebuloso, dichiara che il Papa fa beneficiare tutti, senza distinzione di nazionalità, di razza o di religione, della sua paterna sollecitudine. La molteplice e continua attività di Pio XII sarebbe ancora aumentata in questi ultimi tempi, perché maggiori sono le sofferenze di tanti infelici.
Si può tanto meno sollevare obiezioni contro i termini di questo messaggio, in quanto solo un numero ristretto di persone vi riconoscono un'allusione speciale al problema ebraico.

Fto WEIZSACKER


Pio XII condannò pubblicamente gli attentati all'incolumità di persone e razze. Mai, però, pronunziò la parola ebreo, nei 6 anni del conflitto, nemmeno durante i giorni della razzia nel ghetto di Roma.
Giustamente Lichten fa notare che il silenzio del papa non può essere attribuito ad un disinteresse verso gli ebrei, né tantomeno ad un preteso antisemitismo, perché, anzi fu ampio lo sforzo per venire in aiuto degli ebrei.
Pio XII spinse i cattolici ad azioni caritatevoli, verso i perseguitati, ottenendo, di fatto, l'apertura di molte chiese, conventi e case private alla protezione degli ebrei. Gli stessi palazzi del Vaticano e del Laterano accolsero, nel 1944, numerosi profughi ebrei, oltre ad uomini perseguitati dal nazismo e dal fascismo.

Ma ci sia consentito ricordare che il “silenzio” di Pio XII si estese pure alle persecuzioni dei cattolici. Malgrado il suo intervento 3000 sacerdoti cattolici vennero uccisi dai nazisti in Germania, Austria, Polonia, Francia e in altri paesi; le scuole cattoliche vennero chiuse, la stampa cattolica fu costretta al silenzio o sottoposta a stretta censura, le chiese cattoliche furono chiuse.

I toni della sua condanna erano perciò più generali:

Nel messaggio natalizio del 1942 e in termini analoghi il 2 giugno 1943, egli deplorò il trattamento riservato a “... centinaia di migliaia di persone che, senza essere responsabili di colpa alcuna e unicamente a causa della loro nazionalità o razza, sono state condannate a morte o graduale estinzione... è consolante per noi il fatto che, attraverso l'assistenza morale e spirituale fornita dai nostri rappresentanti e tramite il nostro aiuto finanziario, siamo riusciti a confortare un gran numero di profughi, senzatetto, emigranti, fra cui anche dei non ariani”.

Lichten ha poi ripubblicato il suo lavoro, nel 1987, con una Nota introduttiva in cui aggiunge fra l'altro:

La sorte di Edith Stein ultimamente ha acquistato risonanza in relazione con la sua beatificazione. Fu una suora, ma anche una vittima ebraica della vendetta nazista, precisamente per una lettera pastorale dei vescovi olandesi in difesa degli ebrei.
Proprio a quella lettera pastorale si riferiva Pio XII quando scriveva - il 30 aprile del 1943 - al vescovo di Berlino Von Preysing: “Per quanto riguarda le dichiarazioni episcopali, lasciamo ai vescovi del luogo la responsabilità di decidere che cosa pubblicare dei nostri documenti. Il pericolo di rappresaglie e di repressioni - come forse anche di altre misure dovute al protrarsi e alla psicologia della guerra - consigliano riserbo. Nonostante le buone ragioni a favore di un nostro aperto intervento ve ne sono altre di pari peso per evitare mali maggiori, non interferendo.
La nostra esperienza del 1942, quando abbiamo permesso la libera pubblicazione di certi documenti pontifici rivolti ai fedeli giustifica un tale atteggiamento”...
Dall'altro lato, Hitler nella sua arroganza non teneva affatto conto del punto di vista della Santa Sede, e aspettava solo l'occasione per ulteriori repressioni verso chiunque e ovunque, inclusa la persona del papa. Il giorno dopo l'occupazione di Roma (9 settembre 1943) mentre si parlava del destino del Vaticano - e dei diplomatici alleati ivi nascosti - così esplose: “Entrerò in Vaticano quando vorrò. Pensate che il Vaticano mi preoccupi? Noi lo prenderemo. Si, là dentro vi è tutto il corpo diplomatico. Non me ne importa niente. Quel mucchio là dentro lo trascineremo fuori, quel branco di porci. Che cosa importa? Potremo in seguito scusarci, non c'è da preoccuparsi per questo. Dopo la guerra non ci saranno più dei tentativi da parte della chiesa di interferire nei problemi dello stato... Dopo la guerra, non ci saranno più Concordati. Sta per giungere il tempo in cui salderò i miei conti col papa”.



Gian Franco Svidercoschi
Lettera a un amico ebreo
Mondadori, Milano, 1994

La storia dell'amicizia fra Karol Wojtyla e Jerzy Kluger, suo compagno di classe ebreo a Wadowice.

Provo una profonda venerazione per tutto ciò e per tutti coloro la cui memoria volete venerare il 9 maggio a Wadowice...
Consentimi, alla fine, di riportare, ancora una volta, le parole che ho pronunciato nell'incontro con i rappresentanti della comunità ebraica a Varsavia durante il mio terzo pellegrinaggio in Patria:
“La Chiesa, e in questa Chiesa tutti i popoli e le nazioni si sentono uniti a Voi... Certamente, essi pongono in primo piano la Vostra nazione, le sue sofferenze, il suo olocausto quando desiderano parlare agli uomini, alle nazioni e all'umanità con un monito; a nome Vostro anche il Papa leva questa voce di monito. Il Papa venuto dalla Polonia ha un particolare rapporto con tutto questo, perché insieme con Voi ha vissuto in un certo senso tutto ciò qui, su questa terra (14 giugno 1987)”.

Dalla lettera del Papa a Jerzy Kluger in occasione dell'inaugurazione di una lapide commemorativa degli ebrei di Wadowice, vittime della persecuzione nazista.



Romano Guardini
La rosa bianca
Morcelliana, Brescia, 1994

Hans e Sophie Scholl, Alexander Schmorell, Christoph Probst, cinque studenti, con il loro professore Kurt Huber, fondatori del gruppo della Rosa Bianca, furono ghigliottinati nel 1943, per aver steso e diffuso, soprattutto per posta, sei volantini che denunciavano i crimini della dittatura.

Nella sua apologia davanti al tribunale del popolo, Huber scriverà che il suo obiettivo era: ”Il risveglio degli ambienti studenteschi, servendomi non di un'organizzazione, ma di semplici parole, per provocare non atti di violenza, ma un giudizio morale sui gravi mali presenti della vita politica. Il ritorno ai princìpi chiari, morali, allo stato di diritto, alla fiducia reciproca, non è un atto illegale, ma, al contrario, il ripristino della legalità”.
Sophie Scholl disse appunto ai giudici: ”Quello che abbiamo detto e scritto, lo pensano in molti. Solo che non osano dichiararlo”.

Così scrive Paolo Ghezzi, nel breve articolo La Rosa Bianca ed i suoi maestri, all'interno del libro.



Dietrich Bonhoeffer
Resistenza e resa
e Lettere alla fidanzata. Cella 92
Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988 e Queriniana, Brescia, 1994

D. Bonhoeffer, pastore e teologo luterano tedesco, scrive nel Natale del '42 queste righe, pensando alla situazione della Germania.

Della stupidità
Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell'autodissoluzione, perché dietro di sé nell'uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese.
... osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l'istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica.
La potenza dell'uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell'atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane - ad esempio quelle intellettuali- ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall'ostentazione di potenza, l'uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano.
Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. E' ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno essere rovinati per sempre.

Il 5 aprile '43 è rinchiuso nel carcere di Berlino-Tegel. Il 20 luglio '44 fallisce l'attentato ad Hitler. Il cognato di Bonhoeffer, Hans von Dohnanyi è la figura chiave della cospirazione.
Bonhoeffer è deportato a Buchenwald, Schoeberg ed infine a Flossenburg dove viene impiccato il 9 aprile 1945.

Resistenza e resa, raccoglie le sue lettere ed i suoi scritti dalla prigionia.



Christoph U. Schminck-Gustavus
Il processo contro Bonhoeffer e altri a Flossenburg e l'assoluzione dei magistrati-assassini nel dopoguerra
in
Giuseppe Ruggieri (a cura di)
Dietrich Bonhoeffer. La fede concreta
Bologna, Il Mulino, 1996

Il racconto del medico dell'esecuzione, scritto a distanza di pochi anni, viene citato spesso perché è l'ultima notizia autentica sulla fine di Bonhoeffer. Il medico scrisse:

La mattina di quel giorno (9 aprile 1945), tra le ore 5 o 6, i prigionieri - l'ammiraglio Canaris, il generale Oster, il giudice Sack, il capitano Gehre e il pastore Bonhoeffer - furono condotti fuori delle loro celle. A voce alto vennero lette le sentenze della corte marziale. Attraverso una porta socchiusa in una cella nella baracca dei prigionieri ho visto il pastore Bonhoeffer in ginocchio. Stava pregando, prima che si togliesse i vestiti da prigioniero. Era immerso in un'ultima preghiera a Iddio. La completa dedizione nella preghiera di quest'uomo, particolarmente simpatico, il suo assorbimento totale nella certezza di essere esaudito mi hanno profondamente colpito. Anche dopo, al luogo del supplizio, Bonhoeffer disse ancora una breve preghiera. Poi salì calmo, con coraggio e fermezza d'animo sulla scaletta sotto la forca. La morte avvenne dopo pochi secondi. Nei quasi cinquant'anni della mia prassi di medico non ho mai visto morire un uomo in maniera così rassegnata alla volontà di Dio.

Christoph U.Schminck-Gustavus ha imparato, nei suoi precedenti studi sulla Shoah (vedi il fondamentale Mal di casa, storia di Walerjan Wrobel) a leggere dietro i resoconti ufficiali, dietro le righe dei resoconti volutamente allettanti dei magistrati e dei medici tedeschi.

Fischer era un Lagerarzt, cioè il medico di un campo di concentramento, e come tale deve aver visto tutto, specialmente perché Flossenburg era un campo di sterminio. Il medico del campo poteva circolare liberamente nel Lager, poteva visitare le baracche, poteva vedere la fame e gli stenti, le malattie e la morte. Il medico vedeva anche i cosiddetti musulmani, cioè i moribondi nel Revier, nella baracca sanitaria del campo.
Ma un medico nel Lager non solo vede, ha anche delle funzioni specifiche. Sono funzioni che non hanno tanto a che fare coi compiti di un medico: cioè di guarire o di assistere i malati.

Fischer, il medico che ci descrive la morte di Bonhoeffer, è presente al momento della morte perché suo compito è redigere il certificato di morte. E' uno delle autorità del campo, uno dei tanti carnefici.

La maggior parte di questi certificati, però, falsificano i motivi del decesso per ingannare i parenti delle vittime. Il dottor Fischer non ha firmato solo il certificato di morte per Dietrich Bonhoeffer e per gli altri quattro assassinati quella mattina, ma la sua firma si troverà probabilmente anche sotto il certificato di morte per il fratello di Sandro Pertini e di tanti altri morti a Flossenburg. Un'altra funzione del medico era l'accertamento di morte avvenuta, dopo le esecuzioni nel campo. Per l'ordinamento nel mondo concentrazionario, è un dato essenziale che il numero dei prigionieri sia sempre esatto: nessuno dei vivi e dei morti deve mancare all'appello. Si viene cancellati dai registri del Lager solo quando arriva il certificato di morte, firmato dal medico. Il dottor Fischer dunque non era un testimone casuale delle ultime preghiere di Dietrich Bonhoeffer, ma era un funzionario del campo che partecipava d'ufficio all'esecuzione. Questo fatto spiega perché Fischer avvolge il suo racconto in una luce mite, nascondendo le atrocità che accompagnano l'assassinio. Fischer scrive : “prima che si togliesse i vestiti da prigioniero” - ma non dice perché Bonhoeffer avesse tolto i suoi vestiti. Lo leggiamo invece in una sentenza della corte d'assise di Augsburg del 15 ottobre 1955:

Le esecuzioni avvennero l'una dopo l'altra e durarono circa un'ora. Tutti e cinque gli uomini furono costretti a spogliarsi completamente nudi ; poi dovettero salire su una specie di scaletta. Prima fu sistemato una fune al loro collo e poi venne tirata via la scaletta. Subito dopo avvenne la morte.

Ma sappiamo ancora di più del dottor Fischer. Lui non era solo medico condotto a Flossenburg, ma ricopriva un rango elevato nelle SS. Era Obersturmbannfuhrer, cioè colonnello delle SS. Pochi giorni dopo l'assassinio dei cinque prigionieri Fischer partecipò all'evacuazione del campo, accompagnando la famigerata “marcia della morte” verso Dachau.

Dopo il processo di Augsburg

il dottor Fischer tornò a casa a piede libero. Nessuno gli ha potuto impedire di dichiararsi profondamente colpito dalla morte del martire.

Un processo svoltosi successivamente svela ancora più chiaramente la sua identità:

Un anno dopo Fischer fu condannato, in un altro processo della corte d'assise di Weiden, a tre anni di reclusione per concorso in omicidio doloso; aveva partecipato all'uccisione di almeno 40 prigionieri di Flossenburg tramite iniezioni. Eseguendo un ordine clandestino di Himmler di eliminare tutti i moribondi nei campi, le vittime erano state scelte per il loro grave stato di salute. Considerati non guaribili erano stati ritenuti ormai di peso per la produttività del campo.

In carcere Bonhoeffer aveva scritto anche poesie come La morte di Mosè:

Tu mi hai concesso la morte sulle aspre montagne,
e non quella tra le genti delle valli.
Dietro gli orizzonti della morte
son già apparsi i fuochi dei nuovi tempi.
Mirabile la grazia, che tu mi hai concesso,
l'amaro che tu mi hai scelto in dolcezza.
Oltre i veli della morte mi fai vedere tu
il popolo che s'incammina per la grande festa.
Cadendo, Iddio, nei Tuoi eterni spazi,
io lo vedo che s'avvia alla libertà.
Tu, Iddio, punisci e perdoni!
Ma io, questo mio popolo, quanto l'ho amato.

La fede di Bonhoeffer era andata contro corrente da sempre, ma non bisogna dimenticare quello che in quei tempi succedeva nella chiesa ufficiale. L'unica rivista religiosa autorizzata dal regime, la rivista Pfarramt und Theologie aveva scritto nei giorni dopo il 20 luglio 1944, cioè dopo l'attentato ad Hitler:

Il giorno tremendo

Mentre le nostre coraggiose armate, sfidando la morte, si battono in battaglie tremende per la salvezza della patria e per la vittoria finale, un branco di ufficiali scellerati, eccitati in un'ambizione malata, ha osato commettere un crimine tremendo: un attentato per assassinare il Fuhrer. Il Fuhrer fu salvato e con ciò per il nostro popolo fu sventato un male indicibile. Per questo noi siamo grati di cuore a Dio e preghiamo in tutte le nostre chiese che Iddio voglia aiutare il Fuhrer a risolvere i problemi difficilissimi che gli pesano e lo gravano in questi tempi durissimi.

Il processo di von Dohnanyi, cognato di Bonhoeffer, ispiratore principale dell'attentato ad Hitler, si svolse al di fuori di ogni legalità:

Il medico, nell'estremo tentativo di impedire che von Dohnanyi fosse portato via dall'ospedale, gli fece due forti iniezioni di Luminal, un pesante sonnifero, per renderlo non trasportabile.
Ma il tentativo non valse a niente. Il 6 aprile 1945 von Dohnanyi fu portato via dall'ospedale di Berlino e trasferito di nuovo a Sachsenhausen, luogo del suo imminente supplizio. Per il processo non ci vollero grandi preparativi: Huppenkothen fungeva da pubblico ministero e pronunciò l'accusa. Il comandante del campo faceva il “giudice”. Per sbrigare meglio la vicenda, Huppenkothen si era fatto accompagnare anche dalla sua segretaria, una tale signorina von Ti. che aveva portato con sé gli atti necessari.
Von Dohnanyi, ancora sotto gli effetti del sonnifero, fu portato in barella davanti alla corte marziale, cioè probabilmente davanti alla scrivania del comandante del campo. La precisa composizione della corte non è accertata. Davanti alla corte d'assise di Augsburg Huppenkothen si rifiutò di fare dei nomi. Un difensore per von Dohnanyi non fu chiamato. Non esistette neanche un segretario giudiziario per verbalizzare il procedimento. Se von Dohnanyi, sulla sua barella, ha potuto capire qualcosa di quello che gli succedeva, non ci è dato sapere. Huppenkothen chiese la pena di morte che, dopo una breve deliberazione, fu anche pronunciata dalla corte.
Nella sua autodifesa di Augsburg Huppenkothen afferma che il processo si sarebbe svolto in forma regolare e che l'imputato si sarebbe anche difeso.

Bonheffer celebrò nella sua ultima domenica il servizio religioso. Dopo la funzione fu aperta la porta e il pastore fu chiamato.

Disse a uno dei co-prigionieri: “Questa è la fine... ma per me l'inizio della vita”. Dopo queste parole fu portato a Flossenburg.

Il processo fu, di nuovo, assolutamente irregolare:

Neanche a Flossenburg fu chiamato un difensore per i cinque accusati. Non esistette neppure una verbalizzazione nel processo per la redazione di un protocollo. Ma per quella corte non erano questi difetti di procedura. Quello che contava era il risultato. Per provare la diligenza del dibattimento, Thorbeck volle far credere alla corte che il processo sarebbe durato due giorni. Ma dalla deposizione di altri testimoni risulta che il processo ebbe inizio verso mezzogiorno di domenica, 8 aprile 1945, e si concluse verso mezzanotte con la condanna a morte di tutti i cinque congiurati. L'indomani Huppenkothen tornò a Berlino per il rendiconto al RSHA.

Il processo di Bonhoeffer e degli altri quattro fu presieduto dal giudice Thorbeck, di 33 anni. Dichiarò che

per quanto riguarda il procedimento marziale, egli avrebbe - come sempre - condotto il processo in piena conformità alla legge e in maniera completamente serena e diligente. La chiamata di un difensore gli apparve superflua; a parte questo, sarebbe stata anche praticamente impossibile. Lui stesso scrisse il verbale del procedimento.

La corte d'assise di Augsburg, chiamata a pronunciarsi dopo la guerra sul procedimento, concluse incredibilmente:

Un giudice, il quale allora doveva processare un resistente per la sua attività sovversiva e il quale, in un procedimento corretto, l'ha condannato, perché colpevole, oggi, dal punto di vista penale, non può essere biasimato. Questa neanche se il giudice non ha esaminato la questione se il resistente di allora fosse giustificato da uno stato di necessità sopralegale o addirittura da un diritto alla resistenza. Il giudice che allora, per la sua soggezione alle leggi vigenti, ha pensato di dover condannare un resistente alla morte per alto tradimento, dal punto di vista penale, oggi non può essere colpevole.



Paul Celan
Poesie
Mondadori, Milano, 1976
in
Primo Levi
La ricerca delle radici
Einaudi, Torino, 1997

Nel 1980 l'editore Einaudi, su suggerimento di Giulio Bollati, propose ad alcuni scrittori italiani di redarre una antologia di scritti significativa della loro formazione. Primo Levi fu l'unico a realizzare tale selezione. Fra i testi figura Fuga di morte, una delle poesie di Paul Celan, poeta ebreo tedesco, sopravvissuto ai campi di concentramento, ma morto suicida nel 1970.

Nero latte dell'alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell'aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza

Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba
nell'aria là non si giace stretti

Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare la danza

Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti

Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell'aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti

Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d'oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell'aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d'oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith



Georges Perec
Ellis Island. Storie di erranza e di speranza
Milano, Archinto, 1996

Tra il 1978 e il 1980 G.Perec e Robert Bober lavorarono ad un film su Ellis Island, l'isolotto alla foce dell'Hudson, dove oltre 16 milioni di persone giunsero e attesero il visto per poter entrare negli Stati Uniti, come “americani”.

perché raccontiamo queste storie?
che siamo venuti a cercare qui?
che siamo venuti a chiedere?
lontano da noi nel tempo e nello spazio
questo luogo per noi fa parte
di una memoria potenziale,
di una autobiografia probabile.
i nostri genitori o i nostri nonni
avrebbero potuto trovarcisi
il caso, il più delle volte, li ha fatti restare
o no in Polonia, o li ha fatti fermare,
lungo il cammino in Germania,
in Austria, in Inghilterra o in Francia

Perec morirà nel 1982. Questa è la sua ultima opera. Ebreo, figlio di ebrei polacchi, perse il padre in guerra all'età di quattro anni, la madre due anni dopo, ad Auschwitz. Per lui Ellis Island diviene il luogo simbolico in cui interrogare l'erranza e la speranza.

non so con precisione in che consista
l'essere ebreo
che cosa mi comporti l'essere ebreo

è un'evidenza, se si vuole, ma un'evidenza
mediocre, che non mi ricollega a niente
non è un segno di appartenenza,
non è legato a una credenza, a una religione,
a una pratica, a un folklore, a una lingua;
si tratta piuttosto di un silenzio, di un'assenza,
una domanda, una messa in questione,
un'incertezza, un'inquietudine:

una certezza inquieta,
dietro la quale si profila un'altra certezza,
astratta, pesante, insopportabile:
quella di essere stato designato come ebreo,
e poiché ebreo vittima,
e di dovere la vita soltanto al caso e all'esilio

sarei potuto nascere, come i cugini vicini o
lontani, a Haifa, a Baltimora, a Vancouver
sarei potuto essere argentino, australiano,
inglese o svedese
ma nel ventaglio pressocché illimitato
di queste possibilità,
una sola cosa mi era espressamente vietata:
quella di nascere nel paese dei miei antenati,
a Lubartow o a Varsavia,
e di crescervi nella continuità
d'una tradizione, d'una lingua,
d'una comunità.

Da qualche parte, io sono straniero a
qualcosa di me stesso;
da qualche parte, io sono “diverso”, ma non
diverso dagli altri, diverso dai “miei”:
non parlo la lingua parlata dai miei genitori,
non condivido nessuno dei ricordi che erano
i loro, qualcosa che apparteneva a loro,
che faceva sì che proprio loro,
la loro storia, la loro cultura, la loro speranza,
non mi è stata trasmessa.

Il mio sentimento non è quello
di aver dimenticato,
ma quello di non aver mai potuto apprendere...

Evocare allora storie di emigrazione è importante.

Forse gli ebrei, popolo senza terra,
da quasi sempre votati all'esodo, alla
sopravvivenza
in mezzo a culture diverse dalla loro, erano
più sensibili di altri a ciò che era, per
loro, in gioco qui,

ma Ellis Island non è un luogo riservato agli ebrei

appartiene a tutti coloro che
dall'intolleranza e dalla miseria
sono stati cacciati via
e ancora vengono cacciati
via dalla terra
dove sono cresciuti

nel momento in cui i Boat People
continuano a vagare d'isola
in isola in cerca di rifugi sempre più
improbabili, potrebbe sembrare derisorio,
futile, o sentimentalmente compiacente
voler ancora una volta
evocare queste storie ormai vecchie

ma abbiamo avuto, nel farlo,
la certezza d'aver fatto risuonare
le due parole che furono il cuore stesso
di questa lunga avventura:
queste due parole molli,
irreperibili, instabili e sfuggenti,
che si rinviano
senza tregua le loro luci tremule, e che
si chiamano l'erranza e la speranza.



Jochanan Elichaj
Ebrei e cristiani
Bose, Qiqajon, 1995

Il piccolo volume, scritto da uno dei sacerdoti della comunità cattolica ebraica d'Israele, analizza il rapporto esistente nelle varie nazioni d'Europa fra antisemitismo e genocidio nazista, mettendo in luce le responsabilità dei cristiani.
La chiarezza su tale rapporto diviene fondante per una corretta relazione odierna fra la Chiesa e gli ebrei.

Discepoli di un rabbino gli dicevano sovente che l'amavano. Un giorno chiese loro: Sapete ciò che mi fa soffrire? Essi si stupirono e risposero: Come possiamo saperlo? Egli disse allora: Come potete dunque dire che mi amate, se non sapete ciò che mi fa soffrire?



Irene Kajon
Fede ebraica e ateismo dopo Auschwitz
Perugia, Benucci, 1993

Il volume espone e analizza gli itinerari dei filosofi di matrice ebraica dinanzi alla presenza del male evidenziata dalla Shoah.
Gli autori vengono suddivisi in tre tendenze:

Il primo gruppo - nel quale comprendiamo Richard L.Rubenstein, André Neher, Emil L.Fackenheim - è rappresentato da coloro i quali si oppongono alla dottrina, da loro considerata centrale nella religione ebraica, secondo la quale vi è un equilibrio nell'essere tra la sofferenza e la redenzione, un equilibrio che l'uomo sarebbe in grado di comprendere mediante la propria ragione.
Questi autori ritengono che il pensiero umano possa sì contrastare l'assurdità dell'esistenza, non tanto però negandola nel concetto, quanto nell'attiva resistenza e nella lotta contro di essa.
Il secondo gruppo di filosofi - di questo fanno parte Eliezer Berkovits, Arthur A.Cohen, Hans Jonas - è costituito da coloro che ritengono possibile...conciliare gli aspetti irrazionali della realtà con l'ordine significativo affermato dal pensiero.
Il terzo gruppo è costituito da quegli autori - essi sono Martin Buber, Irving Greenberg, Emmanuel Levinas - che... uniscono ciò che è assurdo o privo di ogni fine nell'esistenza proprio alla possibilità del significato dell'esistenza.



Antoine de Saint-Exupéry
Pilota di guerra, Lettera ad un ostaggio
e Il piccolo principe
Milano, Bompiani, 1995

Il piccolo principe, pubblicato il 6 aprile 1943, è dedicato a Léon Werth, ebreo francese, carissimo amico dell'autore, che non aveva potuto scappare dalla Francia.
Di lui, in maniera esplicita, doveva parlare la prima versione di Lettera ad un ostaggio. Nella versione definitiva, del giugno 1943, il riferimento è meno personale. Lo scritto è un invito a tutti i francesi a trovare la forza di liberare la Francia, con i suoi cittadini, tenuti in “ostaggio” dall'occupante tedesco.

Colui che questa notte ossessiona la mia memoria ha cinquant'anni. E' malato. Ed è ebreo. Come potrà sopravvivere al terrore tedesco? Per immaginare che respira ancora ho bisogno di crederlo ignorato dall'invasore, riparato in segreto dal bel baluardo di silenzio dei contadini del villaggio. Allora soltanto credo che viva ancora.

La situazione senza scampo è descritta, pur da lontano, con incredibile precisione.
Dinanzi ad essa emerge il tema della responsabilità così centrale nell'opera dello scrittore francese.

Se combatto ancora combatterò un po' per te. Ho bisogno di te per credere meglio nell'avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere. Ti vedo così debole, così minacciato, che trascini i tuoi cinquant'anni sul marciapiede davanti a qualche povera salumeria, ore e ore, per sussistere un giorno di più tremando di freddo, nel precario riparo di un cappotto logoro. Tu così francese, ti sento due volte in pericolo di morte, perché francese e perché ebreo. Sento tutto il valore di una comunità che non autorizza più diverbi. Siamo tutti di Francia come di un albero, e io servirò la tua verità come tu avresti servito la mia.

Saint-Exupéry scrisse Pilota di guerra, come una difesa della Francia, descrivendo i voli senza speranza di una squadriglia, la sua, di aerei da ricognizione dinanzi all'avanzata nazista in terra francese. Il libro fu ritenuto da molti la sola propaganda capace di riscattare l'immagine del paese. In America, dove fu pubblicato nel febbraio 1942, fu una testimonianza che i francesi avevano cercato di resistere ai tedeschi. L'edizione francese uscì, il 27 novembre 1942, con una riga censurata, in cui Saint-Exupéry dichiarava che erano tutti degli idioti, l'attendente che aveva perso i suoi guanti come Hitler che aveva scatenato la guerra. Il libro suscitò moltissimi plausi e moltissimo scalpore anche perché presentava, volutamente, in maniera estremamente positiva, la figura di un aviatore francese ebreo così descritto:

Israel, quando lo scorsi dalla finestra, camminava rapidamente. Aveva il naso rosso. Un grande naso molto ebraico e molto rosso. Il naso rosso di Israel mi colpì in modo singolare.
Per Israel di cui consideravo il naso, avevo un'amicizia profonda. Era uno dei piloti più coraggiosi del Gruppo. Uno dei più coraggiosi e dei più modesti. Gli avevano talmente parlato della prudenza ebraica che lui il suo coraggio doveva scambiarlo per prudenza...
E sì, certo, m'è tornato in mente la sera, quando abbiamo smesso di aspettare il ritorno di Israel.

L'editore Gallimard ritirò il libro, pur senza una esplicita proibizione dell'occupante tedesco. Nel dicembre 1942 fu proibito dalle autorità di Vichy, insieme a tutte le altre opere di Saint-Exupéry.
Nel campo di prigionia in cui era internato Jean Israel riuscì a procurarsi una copia clandestina di Pilota di guerra. Fu orgoglioso di essere grande amico dell'unico scrittore francese pronto, in quegli anni, a compromettersi per un aviatore di nome Israel (in realtà il solo nome era ebraico. Il naso di Jean Israel era del tutto normale. Saint-Exupéry citò il naso 14 volte, in due pagine, in modo chiaramente provocatorio, andando a stuzzicare l'immaginario somatico usato dalla propaganda antisemita).



Bruno Hussar
Quando la nube si alzava... L'uomo dalle quattro identità
Casale Monferrato, Marietti, 1983

Lasciate che mi presenti: sono un prete cattolico, sono ebreo. Cittadino israeliano, sono nato in Egitto, dove ho vissuto 18 anni. Porto quindi in me quattro identità: sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano, e mi sento pure, se non proprio egiziano, almeno assai vicino agli arabi, che conosco e che amo.

Cosi p.Bruno Hussar iniziò il suo intervento in una riunione presieduta dal noto rabbino scrittore Abraham Heschel, a New York, nel 1967.
Questa la sua singolare storia. Nato in Egitto, ebreo da genitori ebrei, non ricevette da loro un'educazione religiosa. Per questo la scoperta del cristianesimo coincise, per lui, con l'adesione alla fede. Fu battezzato e pensava di farsi certosino, quando sopraggiunse la guerra.
Durante l'occupazione nazista della Francia prese coscienza della sua identità di ebreo (come avvenne per molti altri ebrei).

Durante l'occupazione tedesca presi molto più profondamente coscienza di appartenere al popolo ebraico.
Quando, entrati a Parigi, i tedeschi imposero a tutti gli ebrei di farsi registrare e far apporre un timbro sulla loro carta d'identità, riflettei chiedendomi che cosa dovessi fare. Secondo il regolamento nazista ero un ebreo.
Sapevo che gli ebrei rischiavano di essere mandati in campo di concentramento, ma nessuno immaginava allora di cosa in realtà si trattasse. Pensavo ingenuamente (e dopo tutti gli orrori scoperti in seguito oso appena dirlo) che un campo di concentramento fosse una verde prateria recintata da filo spinato, in cui gli ebrei venivano parcheggiati dormendo sotto le tende. L'idea di essere arrestato anch'io e messo in uno di quei campi - dimostrando così ai miei fratelli ebrei che la mia fede cristiana non mi dispensava dal dividere la loro sorte - non mi dispiaceva.
Decisi allora di adottare la seguente linea di condotta: non sarei andato a farmi registrare e non avrei fatto nulla per espormi all'arresto, ma, se fossi stato interrogato, avrei detto sempre la verità.
Un giorno, trovandomi in una banca per ritirare il denaro che volevo mandare a mia madre, l'impiegato mi disse: “Ci sarebbe da compiere una piccola formalità: deve firmare questo modulo, dichiarando di non essere ebreo”. Chiesi di parlare al direttore al quale spiegai che non potevo farlo.
Mi domandò di mostrargli la carta d'identità, che non portava il timbro “J” (“Juif”). “Allora firmi, disse, e potrà ritirare il suo denaro”. “Non posso, - replicai - non sarebbe vero”. Il direttore mi guardò come si guarda un mentecatto. E, visto che non riusciva a convincermi, concluse: “In tal caso, sappia che potrà riscuotere solo importi relativi a saldo di fatture mediche, fino a 500 franchi. Nulla di più”.

Subito la banca bloccò definitivamente il conto e Hussar capì che doveva tagliare la corda per sfuggire all'arresto.
Si rifugiò allora nella Francia libera. Verso la fine del 1944 ricevette la notizia della morte in guerra del fratello, con il commento che ne aveva fatto il suo cappellano militare:

Quel ragazzo non era battezzato. Ma se non è in cielo lui, mi domando chi potrà andarci!

Divenne domenicano nel 1945 e fu ordinato sacerdote nel 1950.
Nello stesso anno il suo provinciale, p.Avril, propose a lui, perché ebreo di nascita, di partire per Israele, per sondare la possibilità di aprire, a Gerusalemme, un centro di studi sull'ebraismo analogo al Centro di Studi Islamici dei domenicani del Cairo.
Dopo alcuni anni di grandi difficoltà arrivarono i frutti. L'Ordine decise la fondazione della Casa Sant'Isaia.
L'evento più importante a cui p.Hussar dette il suo contributo fu certamente la rinascita di una chiesa di lingua e di cultura ebraica. Sulla parete di fondo della basilica di S. Sabina in Roma un mosaico del V secolo reca l'immagine di due donne. Sono, come dice l'iscrizione latina, l'Ecclesia ex gentibus e l'Ecclesia ex circumcisione, l'unica chiesa formata dai cristiani provenienti dal paganesimo e dai cristiani provenienti dall'ebraismo. Da allora non era più esistita una chiesa ebraica.
P.Hussar fu il primo a celebrare messa in lingua ebraica (inizialmente con l'eccezione del canone in latino), quando, nel febbraio 1957, ricevette l'autorizzazione del card.Tisserant.

La comunità porta ora il nome di Opera di S.Giacomo apostolo.
Divenne evidente che, da un punto di vista cristiano, un ebreo che riconosceva in Gesù il messia, non era un “convertito” che doveva lasciare l'ebraismo, ma piuttosto un ebreo che trovava compimento all'attesa d'Israele.
P.Hussar partecipò, come esperto, ai lavori del Concilio Vaticano II, invitato dal card.Bea. Il suo contributo alla stesura del paragrafo della Nostra Aetate sull'ebraismo fu tale che, sette giorni dopo, ricevette la cittadinanza d'Israele, che aveva atteso per anni.
Venne poi il 1967, con l'occupazione dei territori, e si aggravarono, negli anni, le tensioni e le violenze. P.Bruno si sentì chiamato a sognare ancora. Bisognava creare un luogo di convivenza dei due popoli, ebrei ed arabi, e delle tre religioni, ebraismo, cristianesimo ed islamismo. Solo questa condivisione fraterna avrebbe permesso di superare le immense distanze. Nacque, anche questa volta dopo anni di attesa e di lavoro, il villaggio Nevè Shalom Wahat as-Salam, vicino al monastero di Latroun, a fianco dell'autostrada che porta a Gerusalemme. L'espressione in ebraico ed arabo significa "oasi di pace", l'oasi che il Signore promette in Isaia 32,18. Il villaggio è costituito da famiglie arabe ed ebree che vivono ed educano i figli insieme. Negli anni è divenuto un punto di riferimento, in Israele, tramite le sessioni della "scuola della pace", un programma educativo che viene proposto soprattutto alle classi scolastiche,

perché anche la pace è un'arte, che non si improvvisa, ma deve essere insegnata.



Emmanuel Lévinas
Difficile libertà
La scuola editrice, Brescia, 1986
e
Alcune riflessioni sulla filosofia dell'hitlerismo
Quodlibet Edizioni, Macerata, 1996

E.Lévinas nasce il 30 Dicembre 1905 a Kaunas in Lituania, soggetta alla dominazione della Russia zarista.
Questa terra di confine, attraversata da innumerevoli appartenenze è un paese formato, dopo 3 secoli di dominazioni straniere, da un coacervo di popoli e religioni: Lituani, Polacchi, Russi, Giudei, Cattolici, Luterani e Ortodossi. All'interno di questo caleidoscopio di culture e di fede gli ebrei rappresentano una parte dinamica e vivace, difatti in Lituania si trova all'epoca una delle più importanti comunità yiddish con una delle sue capitali culturali: Vilna, che Napoleone, soggiornandovi al tempo della campagna di Russia, definì la Gerusalemme del Nord. E' in questo fermento culturale, in cui si sviluppa tra l'altro il fenomeno religioso e culturale del chassidismo che Buber farà conoscere al mondo intero, che Lévinas muove i suoi primi passi in un'atmosfera già densa di rancore contro gli ebrei. Essere ebrei in Russia ad inizio secolo, quando Lévinas nasce, era una condizione dolorosa e pericolosa; persino quel mondo illuminato della letteratura e della cultura russa, come testimoniano gli scritti di Dostoijeski, non è estraneo alla religione di stato che va sotto il nome di antisemitismo.
Tuttavia Lévinas in questa situazione, grazie soprattutto all'apporto della tradizione talmudica che apprende sin da giovane, riesce a vivere le contraddizioni di una doppia appartenenza culturale senza cadere nella tentazione del reciproco annullamento: egli, fin dall'epoca giovanile, si pone sul labile confine di una duplice, e per certi versi equivoca, identità culturale. Questa cifra segnerà tutta l'esistenza e tutto il pensiero lévinasiano; quando poi, appena conseguita la maturità liceale, sotto l'impulso materno, Lévinas abbandonerà la Lituania per frequentare l'università a Strasburgo, questa sensibilità a riconoscersi in più tradizioni culturali si intensificherà: il confronto ora è tra Oriente ed Occidente.
Nel frattempo, con il passare degli anni il clima antisemita in Europa comincia sempre più a diffondersi: intorno al 1933 possiamo dire che solo la Francia resta un'isola serena per gli ebrei, che vi si rifugiano come fosse la nuova terra promessa. Inizia ormai a delinearsi con chiarezza quel presentimento dell'orrore nazista di cui Lévinas parla in uno dei pochi scritti autobiografici che ci ha lasciato ( Difficile Libertè, Paris, 1976). Questo presentimento prende sempre più corpo tanto che nel novembre del 1934 appare, su un numero monografico della rivista francese Esprit dedicato allo sviluppo del fascismo in Germania, un articolo di Lévinas dal titolo Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlerisme. Questa analisi, condotta su un piano puramente filosofico, mette in evidenza come il nazismo, legando l'uomo alle idee più primitive che gli provengono dall'esistenza materiale, in realtà spogli lo stesso uomo della propria libertà di scelta, di pensiero e della dignità umana. Queste intuizioni da qui a pochi anni si riveleranno tragicamente vere ed il nostro autore le sperimenterà in parte sulla propria pelle ed in parte, ben più drammatica, nei propri affetti familiari.
La posizione anagrafica di Lévinas, allo scoppio delle ostilità del 1939, è quella del naturalizzato francese. Data la sua conoscenza di ben tre lingue (francese, tedesco e russo) egli viene utilizzato come sottufficiale interprete e inquadrato nella decima armata di stanza a Rennes, ad ovest di Parigi, nella Bretagna. Nel 1940, all'apertura delle ostilità sul fronte occidentale, sono sufficienti all'esercito tedesco solo poche ore per sconfiggere i francesi: il 16 Giugno 1940 i sopravvissuti della decima armata sono fatti prigionieri; tra questi c'è anche il sottufficiale Lévinas che dopo una lunga detenzione a Rennes, viene deportato in Germania ed internato nello Stalag 11 B a Fallinpostel nei pressi di Magdeburgo, nel cuore del Reich.
Non c'è da stupirsi se l'ebreo naturalizzato francese Lévinas è condotto in un campo che non prevede lo sterminio della razza semita; difatti i prigionieri di guerra ebrei delle armate occidentali godono di una certa immunità: non sono né marcati, né tantomeno sommariamente fucilati come quelli dell'Armata Russa, sono semplicemente separati dagli altri commilitoni ed assegnati a dei lavori speciali.
Lo stesso Lévinas dà voce a quel terribile tumore della memoria che è stata la prigionia tedesca, esprimendo l'incomunicabile emozione che gli anni 1940-1945 hanno lasciato nella vita del nostro autore. Tuttavia, per quella sorta di uomini sommersi e salvati, il pudore e la reticenza a ricordare e narrare sono grandi: solo in modo indiretto, obliquo, possiamo riconoscere tra le righe degli scritti lévinasiani la traccia di questo orrore. In un testo, apparso nel 1975, dal titolo Nom d'un chien ou le droit naturel (ora in Difficile Libertè) egli scrive che nel periodo di prigionia, incontrandosi con gli uomini liberi, questi,

ci spogliavano della nostra pelle umana. Noi non eravamo che una quasi-umanità.

In questa totale deriva dell'umano, con una sottile e delicata ironia, Lévinas ricorda che

un giorno un cane si congiunse alla folla di prigionieri che, sotto buona scorta, rientrava dal lavoro. Esso vivacchiava in qualche angolo sperduto, nei dintorni del campo. Così noi lo chiamavamo Bobby, un nome esotico (exotique), come conviene ad un cane così carino. Compariva agli appelli mattutini e ci attendeva al ritorno, saltellando e abbaiando con allegria. Per lui - questo era incontestabile - noi eravamo degli uomini.

Afferma ancora Lévinas:

Quel cane era l'ultimo kantiano della Germania nazista.

Questo aneddoto che richiama alla mente l'aforisma di Ionesco “dove non c'è umorismo non c'è umanità, dove non c'è umorismo c'è il campo di concentramento”, ci apre uno spiraglio nell'esperienza di Lévinas di quegli anni, che descriviamo in controluce con un testo filosofico che il nostro autore ha scritto in quegli anni, ma pubblicato nel 1947, Dall'esistenza all'esistente:

Allorché le forme delle cose sono dissolte nella notte, l'oscurità della notte, che non è né un oggetto né la qualità di un oggetto, invade come una presenza. Nella notte in cui siamo inchiodati alla notte stessa, non abbiamo a che fare con nulla. Un nulla però che non è quello del puro niente. Non c'è più né questo né quello, non c'è “qualcosa” ma questa assenza universale è, a sua volta, una presenza inevitabile.

Questa oscurità, che Lévinas chiama il y a, è senza vie d'uscita e, al tempo stesso è l'impossibilità di morire:

è una paura di essere in preda, un essere consegnati a qualcosa che non è qualcosa.

Questa sospensione della vita, oscurità della notte, trova radici nell'esperienza unica di quell'interregno dell'umano che fu il periodo tra il 1940 e il 1945:

come se perfino l'essere umano fosse rimasto in sospeso.

Così, in Nomi propri.
In questo scorrere del tempo, senza un punto di partenza né uno di fuga prospettica, in questa interruzione della vita e della storia, che va sotto il nome di Shoah, basta un segno che arrivi dall'esterno, come quel cane dal nome esotico, alterità di fronte alla dimensione disumana dei campi di prigionia, perché al fondo di essa si apra un orizzonte di speranza. Grazie a quel cane Lévinas fa esperienza del risveglio dall'insonnia dell'anonimato della cattività tedesca alla prossimità dell'uno di fronte all'altro. Forse è proprio in nome di questo evento della Passione ebraica, metafora assurda e tragica di quella passività più passiva di ogni passività, che fonda la soggettività lévinasiana, in cui

il per l'altro (o il senso) arriva fino all'attraverso l'altro, fino a soffrire per una scheggia che brucia la carne, ma per niente.

Così in Altrimenti che l'essere.
In nome di questo sopportare senza compenso, di questa sofferenza inutile, gli scritti di Lévinas testimoniano alle nuove generazioni che per

vivere in maniera umana, gli uomini hanno bisogno di molto, ma molto meno, rispetto a ciò che offrono le magnifiche civiltà in cui vivono.

E' sufficiente lo scodinzolare di un cane perché, nelle ore decisive, quando la fragilità di tanti valori si svela, l'uomo, ogni uomo, nella solitudine di un pericolo resti in ascolto di un sussurro umano, flebile e solitario suono senza significato che però apre e rivela la grandezza della dignità contenuta nella fragile coscienza umana.
Così, scrive ancora Lévinas:

è necessario per noi - ricordando la memoria di coloro che, ebrei e non-ebrei, seppero senza neppure conoscersi né vedersi, comportarsi in pieno caos come se il mondo non si fosse disintegrato, ricordando la Resistenza delle organizzazioni partigiane, cioè proprio quella che non aveva altra sorgente che le proprie intime certezze - è necessario, attraverso tali ricordi, aprire un nuovo accesso ai testi ebraici e restituire alla vita interiore un nuovo privilegio. La vita interiore: si ha quasi vergogna a pronunciare, davanti a tanti realismi ed oggettivismi, quest'espressione insignificante.

La testimonianza che Lévinas, morto nel dicembre del 1995, ci affida come il messaggio di un naufrago in una bottiglia, fragile cristallo di fiato, non ci indica forse che ogni gesto insignificante, ogni esperienza inutile e gratuita, paradossalmente, ogni violenza subita, ogni scandalosa ed incommensurabile sofferenza dell'altro, urtando il guscio dell'Io permette lo schiudersi della possibilità di incontrare il Volto dell'altro uomo?



Michele Manzo
Don Pirro Scavizzi. Prete romano
Piemme, Casale Monferrato 1997

Il volume è la biografia del sacerdote romano d.Pirro Scavizzi di cui è in corso il processo di beatificazione. Durante la seconda guerra mondiale fu cappellano militare. L'esperienza che modificò radicalmente la sua percezione delle ragioni della guerra sono dovute ai quattro viaggi che fece sul treno organizzato dall'Ordine dei Cavalieri di Malta, per venire in aiuto ai soldati itali ani impegnati sul fronte russo.

Il primo viaggio si svolge tra il 17 ottobre ed il 15 novembre del 1941, fino a Dnepropetrovsk, in Ucraina, ove si trovano le truppe italiane. Il secondo, per Jassiowataja, va dal 12 gennaio al 20 febbraio del 1942. Il terzo viaggio fino a Cracovia, si svolge dall'8 aprile al 3 maggio del '42. Il quarto, sempre per Dnepropetrowsk, va dal 29 giugno al 23 luglio. Il quinto per Nipropetrowsk, dal 16 settembre all'11 ottobre. Il sesto ed ultimo, per Debalzewo, dal 4 al 28 novembre del 1942. Con l'inizio della disfatta italo-tedesca sul fronte russo terminano anche i viaggi di don Pirro lungo tutto l'asse orientale europeo.

Nei suoi diari si passa da una concezione favorevole alle forze dell'Asse, dovuta a ciò che la propaganda rendeva noto in Italia, ad un totale sconcerto.

Prima di tale esperienza, durante il primo anno di servizio sul treno, egli manifesta una visione ancora idealistica della guerra, considerata come “la lotta fra il bene e il male; fra le ideologie di fede e di giustizia e quelle di apostasia e di oppressione”. A combattere sono i “nostri prodi” che “danno il proprio sangue”, mentre gli avversari non sono altro che “le forze dell'inferno”. La “vittoria delle armi” deve coincidere con la “vittoria di Cristo”.

Al termine del primo viaggio redasse per Pio XII una memoria per informarlo sulla spaventosa situazione. Divenne subito cosciente che non era possibile alcuna comunicazione ufficiale fra la Santa Sede ed i paesi occupati dai nazisti.

L'arcivescovo Sapieha, di Cracovia... asserisce che gli è impossibile comunicare liberamente con Roma ché tutto è minutamente controllato e non gli è possibile comunicare liberamente nemmeno col Nunzio di Berlino.

Il regime nazista è ferocemente antipolacco ed impedisce il rapporto con il clero polacco.

Ai soldati del Reich è severamente proibito andare con Sacerdoti per le vie, o accedere a sacerdoti polacchi per le confessioni.

Soprattutto le SS testimoniano l'avversione programmatica alla Chiesa Cattolica e a qualsiasi rispetto della vita.

I membri delle formazioni “SS”, secondo quanto mi è stato riferito da ufficiali tedeschi, debbono fare dichiarazione di non praticare nessun culto per essere fedeli esclusivamente alla religione dello Stato. A costoro sono riservate le esecuzioni individuali o in massa contro gli ebrei, contro i polacchi o contro chiunque essi giudichino pericoloso all'integrità del Reich... I loro atti (anche le “eliminazioni”) sono incontrollati e incontrollabili e incensurabili da chiunque.

Gli appare subito evidente che la decisione nazista è quella di concludere in breve tempo lo sterminio della popolazione ebraica. In particolare viene ripetutamente a conoscenza delle fucilazioni di massa operate dagli “EinsatzKommando”.

Oltre i confini dell'Italia, nei Paesi del Reich o alleati del Reich od occupati, la questione ebraica è di una gravità eccezionale... A Cracovia, a Leopoli e nelle principali città della Polonia sono stati relegato in un ghetto dove evidentemente regna il sudiciume e lo squallore... La mancanza del bracciale o della tessera di riconoscimento, o il trovarli in giro fuori orario, può determinare l'immediata uccisione... E' evidente, nell'intenzione del Governo occupante, di eliminare il più che sia possibile gli ebrei uccidendoli secondo i vari sistemi di cui il più frequente e il più conosciuto è quello del mitragliamento di massa. Per queste esecuzioni gruppi di famiglie ebraiche (uomini, donne e bambini anche lattanti) sono deportati a qualche chilometro dalla città, vicino a trinceroni della guerra oppure in luoghi dove precedentemente sono state fatte scavare delle enormi fosse costringendo a questo lavoro gli uomini stessi ebraici... Il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione.

Non vi è alcun dubbio sullo stato delle cose.

Il volto di questa guerra è immensamente più spaventoso che quello della cosiddetta guerra mondiale 1915-1918 alla quale anch'io presi parte come Cappellano Militare.

Al ritorno viene segretamente ricevuto dal Santo Padre.

Scavizzi... viene ricevuto riservatamente da Pio XII. Non esiste alcun riscontro ufficiale dell'incontro... Lo stesso don Pirro dichiara, in un articolo scritto nel maggio 1964: ... “Mi recai dal Santo Padre Pio XII senza alcun preliminare di udienza, ma segretamente per riferirgli tutto. Lo vidi piangere come un fanciullo, e pregare come un santo”.

Nella memoria a conclusione del secondo viaggio precisa la descrizione dello stato miserevole del clero polacco. Si accentua la consapevolezza che è decisione dei nazisti di distruggere la presenza cattolica in Polonia, perché fonte di ostacolo alla germanizzazione del paese e alle orrende iniziative di sterminio.

Mi disse l'Arcivescovo di Cracovia che il numero dei sacerdoti e Religiosi finora imprigionati o uccisi in Polonia, ascende circa a 3000, sempre con pretesti di carattere politico e antinazista.

E' sempre più chiara la “soluzione finale”.

Le condizioni degli ebrei nella Germania, nella Polonia e nell'Ucraina, è sempre più tragica. La parola d'ordine è: “Sterminarli senza pietà”. Gli eccidi in massa si moltiplicano ovunque. I diritti all'esistenza sono ormai ridotti ai minimi termini per loro...
In Ucraina lo sterminio degli ebrei è ormai quasi terminato. Ho potuto notare che questi disgraziati ebrei, anche di condizione civile, anche ragazzi e fanciulli, hanno un aspetto quasi di alterezza quando sono costretti ai lavori più gravi o sospinti verso al morte.

Al ritorno a Roma ha un secondo colloquio col Papa. Lo descrive molti anni dopo.

Scavizzi... a distanza di poco più di vent'anni... descrive uno dei due colloqui avuti con Pio XII, probabilmente il secondo, avvenuto durante il mese di marzo del 1942, nella sosta tra il secondo e il terzo viaggio. Al racconto delle atrocità commesse dai nazisti il papa confessa di aver più volte pensato ad un atto ufficiale di scomunica ma di essersi dovuto ricredere di fronte all'argomentazione che “una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli Ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà”.

La descrizione del terzo viaggio si precisa di particolari che mostrano come il nazismo proceda nell'opera di distruzione delle forze di resistenza della Chiesa Cattolica in Austria.

Il clero è sospettato e molti sono deportati e imprigionati per pretesti politici. Le relazioni col Nunzio sono praticamente impossibili. A proposito dell'attuale Nunzio, il cardinale (di Vienna) ne deplorava il silenzio ed esprimeva il giudizio che Egli fosse troppo timoroso e non si interessava di tanto gravi cose...

Ma è soprattutto in Polonia che è evidente la decisione di annientare qualsiasi punto di riferimento, anche attraverso al distruzione della gerarchia cattolica. Scavizzi elenca la situazione di alcune congregazioni religiose:

Gesuiti-A Dachau ne sono imprigionato sessantaquattro dei quali sono morti certanmente nove. Il 27 marzo a Wilna ne furono incarcerati altri ventinove, cioè tutto il collegio...

Salesiani-Oltre cinquanta ne sono in prigione ad Auschwitz. Di Cracovia sono quindici e sembra che siano morti e cremati eccetto due.

Addirittura tutti i monasteri di clausura sono pian piano evacuati e le suore portate nei campi di concentramento.

Suore-A Wilna nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1942 sono state arrestate tutte le Visitandine, le Carmelitane, le Orsoline del P.Ladochovski, le Figlie della Carità, le quaranta di Nazareth

La presenza dei sacerdoti è stata già quasi completamente distrutta in alcuni luoghi e negli altri lo sarà tra breve.

Altri Sacerdoti-In Posnania, dove erano una quarantina di preti ne è rimasto soltanto uno. Nel campo di Dachau vi sono circa un migliaio di preti di cui oltre settecento polacchi. Nella Slesia Pomerania quasi tutti i sacerdoti sono stati arrestati.

La maggioranza dei preti polacchi è stata deportata. Sono stati concentrati insieme senza poter essere vicini nemmeno a i connazionali deportati.

Fatti edificanti-Nel campo di Dachau ove sono circa mille sacerdoti e religiosi, è concesso ad uno solo di celebrare la Messa. Tutti gli altri tengono in mano una particola ed il celebrante intende di consacrarle tutte; così ciascuno si comunica da sé.

Nelle città in cui manca una presenza episcopale la situazione è ancora più deplorevole,

Il padre domenicano Bornieski, già Rettore Magnifico della Università di Lublino... dice che fu errore che durante la Nunziatura Cortese si lasciassero quattro diocesi senza vescovo, finché è scoppiata la guerra e le diocesi sono orfane ancora.

La memoria del quarto viaggio viene redatta in ritardo. Veniamo a conoscenza che le notizie arrivano in Vaticano attraverso i pochi cappellani militari, compagni di d.Pirro.

Dichiaro che non avevo osato presentare alla santità Vostra questa nuova relazione, perché credevo che lo avessero fatto meglio di me gli altri cappellani Militari, specialmente quelli die cavalieri di Malta.

Il ritorno dei polacchi nelle case dei ghetti creati dai nazisti indica che il numero degli ebrei è ormai ridotto al lumicino.

Si consente ai polacchi di rifugiarsi nelle case del Ghetto, che giornalmente si vanno spopolando per gli eccidi sistematici degli ebrei. Molti nobili e molti altri delle categorie più abbienti sono stati deportati o uccisi per sospetti politici...

La eliminazione degli ebrei, con le uccisioni di massa, è quasi totalitaria, senza riguardo ai bambini nemmeno se lattanti... I pochi ebrei rimasti appaiono sereni, quasi ostentando orgoglio. Si dice che altre due milioni di ebrei siano stati uccisi.

Non solo gli ebrei sono sterminati, non solo la classe dirigente polacca è annientata, ma anche i soldati russi prigionieri sono sistematicamente uccisi. La teoria razzista nazista non conosce sosta. L'arianizzazione va avanti attraverso l'eliminazione fisica dei cosiddetti “non ariani”, slavi ed ebrei.

Mi ha sorpreso il fatto che fra i feriti tedeschi e italiani non ho quasi mai trovato dei russi feriti; né mi consta che per loro vi siano ospedaletti speciali!



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