Adam Czerniakòw
Diario 1939-1942. Il dramma del ghetto di Varsavia.
Città Nuova, Roma, 1989
A. Czerniakòw diviene
nel 1939 presidente dello Judenrat,
il Consiglio ebraico di Varsavia.
Nel diario registra tutto ciò che vede. Quando, il 23 luglio 1942, viene
l'ordine della deportazione dei bambini del ghetto si suicida.
Sul tavolo lascia un breve biglietto alla moglie:
Mi ordinano di uccidere con le mie mani i figli del mio popolo. Non
mi resta altro che morire.
Presso l'Amministrazione della comunità la sua ultima annotazione dice:
Worthoff e compagni (del Comando di deportazione) sono stati
da me ed esigevano che per domani sia pronto un trasporto di bambini. Con ciò
il mio calice amaro è colmo fino all'orlo poiché non posso consegnare
alla morte dei bimbi inermi. Ho deciso di scomparire. Non si consideri ciò
un atto di viltà o una fuga. Io sono impotente, il cuore mi si spezza
per il cordoglio e la pietà, non posso sopportare più oltre. Il
mio gesto mostrerà a tutti la verità e, forse, porterà
sulla giusta via da intraprendere. Sono consapevole che vi lascio una pesante
eredità.
Alberto
Nirenstajn
Ricorda cosa ti ha fatto Amalek
Einaudi, Torino, 1958
Un gruppo di intellettuali ebrei diede vita nel ghetto di Varsavia al circolo
Oneg Shabat (Delizia del
Sabato), con la finalità di raccontare la storia della disperata volontà
di vita del ghetto e del suo sterminio, perché, se era impossibile sopravvivere
arrivasse ai posteri almeno la memoria della vita.
Emanuel Ringelblum era il responsabile e i documenti
scritti e raccolti da lui e dal suo circolo furono sotterrati nel ghetto e ritrovati
alla fine della guerra.
Sono oggi conosciuti come L'archivio di Ringelblum.
Nirenstajn li pubblica
e li studia confrontandoli con i dispacci militari delle SS sulla distruzione
del ghetto e con gli altri materiali, fatti pervenire dagli ebrei del ghetto
alla resistenza polacca e in Europa.
Nirenstajn pubblica anche gli scritti degli altri ghetti polacchi. Il testo
che segue è un brano delle Pagine
di Mordechai Tenenbaum,
più noto sotto lo pseudonimo di Tamarof,
esponente della Resistenza ebraica di Wilno e di Varsavia, da qui mandato
a dirigere la Resistenza nel ghetto di Bialystok.
Un ebreo Abramo Malmed,
aveva ucciso un tedesco e si era poi consegnato per evitare la terribile rappresaglia
che avrebbe colpito il ghetto.
Bialystok, lunedì 8 febbraio 1943
Nel ghetto sono entrati trecento tedeschi, fra gendarmeria, Gestapo, Schutzpolizei,
Kriminalpolizei. Alle otto ha avuto luogo l'esecuzione di Malmed, di
fronte alla casa di via Kupiecka 29.
Per mezz'ora è rimasto in piedi sul patibolo, perché ci si aspettava
l'arrivo del Kriminalrat. Nell'attesa c'è stato uno scambio di parole
fra lui e i tedeschi.
Gli dispiaceva di aver ucciso proprio quel tedesco; aveva sentito dire che era
un buon uomo, domandava se aveva lasciato moglie e bambini. Avrebbe pregato
per loro, se c'è un dio. Lui parlava e loro lo picchiavano. Chiedeva
acqua. - Non hai più bisogno d'acqua - lo canzonavano. E' morto con dignità,
non ha chiesto niente, non implorava, era calmo. E' restato appeso per quarantott'ore;
si è spezzata la corda, è rimasto in piedi sul marciapiede, come
se fosse vivo; dritto, slanciato, legato alla corda perché non cascasse.
Poco prima della liquidazione del ghetto di
Bialystok, con la conseguente uccisione di tutti
gli ebrei, Cypora Birman
scrive il suo testamento spirituale.
Il testamento di una giovane
Tutto è perduto.
E' nostro destino espiare i peccati delle generazioni passate. Tutti abbiamo
portato il lutto e abbiamo sofferto per la loro morte; le cose più terribili
che possono succedere nella storia, le abbiamo già passate. Abbiamo
visto e sentito, abbiamo pianto, ora tocca a noi ammutolire per sempre. Le nostre
ossa non verranno nemmeno sepolte. Pazienza, non c'è altra via d'uscita.
Dobbiamo cadere con dignità, insieme a tutte le migliaia di esseri umani
che vanno a morte; senza debolezza, senza paura. Sappiamo che il popolo ebraico
non finirà. Risusciterà, crescerà, fiorirà e vendicherà
il nostro sangue versato.
Mi rivolgo dunque a voi, compagni, dovunque vi troviate: voi siete i responsabili
della vendetta. Giorno e notte non dimenticatevi dell'ordine di vendicare il
sangue versato, così come noi non lo dimentichiamo faccia a faccia con
la morte.
Maledetto l'uomo che dopo aver letto questo, sospirerà e tornerà
alla sua occupazione quotidiana.
Maledetto l'uomo il quale verserà delle lacrime, ci compiangerà
e poi dirà: basta.
Non è questo che vi chiediamo. Noi non abbiamo lamentato ad alta voce
la morte dei nostri genitori. Silenziosi e muti vedevamo i cadaveri dei nostri
cari buttati come le carogne dei cani.
Noi vi chiediamo vendetta, vendetta senza pietà, senza sentimenti, senza
tedeschi “buoni”. Al tedesco ”buono”, una morte facile, ma la morte. Che sia
ucciso anche lui. Anche loro promettevamo agli ebrei che consideravano buoni:
tu sarai fucilato per ultimo.
Questa è la nostra richiesta, la richiesta di tutti; questo è
il desiderio ardente di uomini che domani cadranno con dignità.
Vi esortiamo a vendicarci, voi che non avete provato l'inferno di Hitler; questa
è la nostra richiesta e voi dovete farlo, anche se c'è pericolo
di vita.
Le nostre ossa, sparpagliate per tutta l'Europa, non troveranno pace; le ceneri
dei nostri corpi sparse al vento non si poseranno finché non ci avrete
vendicati. Ricordatelo e agite. Questa è la nostra preghiera e il vostro
dovere.
Cypora Birman
Kibbutz Tel-Chai, 4 aprile 1943
Marek
Edelman/Hanna Krall
Il Ghetto di Varsavia
Città Nuova, Roma, 1993
Storia di Marek Edelman,
ebreo, sopravvissuto alla rivolta del ghetto di Varsavia. Scrisse nel 1945
un memoriale dal titolo Il ghetto lotta
qui pubblicato.
Dopo aver continuato a lottare nella resistenza, divenne cardiochirurgo nel
dopoguerra.
Nel dialogo con Hanna Krall, a distanza di anni, accetta di ripercorrere la sua storia, la storia della
lotta per vivere.
Così descrive i suoi sentimenti di allora, confrontandoli con quelli
che prova oggi da medico.
Se restavo calmo, era probabilmente perché in fondo nulla ci poteva capitare.
Nulla di peggio della morte. Si trattava sempre di morire, mai di vivere. Mi
domando persino se possiamo chiamare questo un dramma. Il dramma implica una
scelta, bisogna che qualcosa dipenda da te. Ora, là, tutto era fissato
prima. Oggi all'ospedale, la vita è in gioco, e ogni volta, io devo prendere
una decisione. Oggi, sono molto meno calmo.
Hanna Krall:
Si vedeva la “parte ariana” al di sopra del muro?
Marek Edelmann:
Si. Il muro non superava il primo piano. Dal secondo, si vedeva l'altra parte,
una giostra, della gente... Sentivamo la musica e avevamo terribilmente paura
di passare inosservati, paura di sparire dietro il muro senza che nessuno notasse
la nostra esistenza, la nostra lotta, la nostra morte... Che il muro fosse così
spesso, che nulla, alcun rumore lo attraversasse...
Il suo incarico fu, a lungo, quello di controllare i malati,
nelle file di quelli che erano destinati alla morte per gas a Treblinka.
Vediamo, perché ero sempre da questa parte? Ah si, per il fatto che la
folla veniva di là e temevo che mi mettessero dentro con loro. Ero a
quel tempo inserviente all'ospedale, questo era il mio lavoro: restare sul portone
dell'Umschlagplatz e ripescare i malati tra la folla. I nostri uomini
reperivano quelli che bisognava salvare e li tiravo fuori, facendoli passare
per malati.
Ero senza pietà. Una donna mi aveva supplicato di riportare sua figlia
di quattordici anni, ma non potevo liberare che una persona sola per volta ed
ho tirato fuori Zosia, il nostro migliore agente di collegamento. L'ho
fatto uscire quattro volte e l'hanno ripreso ogni volta...
La grande retata va dal 22 luglio all'8 settembre, sei settimane. E per sei
settimane sono rimasto davanti a questo portone. Qui, proprio qui. Ho accompagnato
quattrocentomila persone su questa piazza...
In questa scuola di apprendistato era installato il nostro ospedale. L'hanno
liquidato l'8 settembre, l'ultimo giorno della retata. Di sopra si trovavano
le sale per i bambini. Quando i tedeschi sono entrati al pianterreno, la dottoressa
ha avuto il tempo di avvelenare i piccoli.
Lo vedi, non riesci a capire. Ella ha risparmiato loro la camera a gas. E' stato
magnifico. Tutti la ammiravano.
All'ospedale, i malati giacevano per terra, in attesa che qualcuno li portasse
nei vagoni, mentre infermiere ed infermieri cercavano nella folla i propri congiunti
per iniettargli il veleno. Lei, la dottoressa, aveva fatto dono del suo cianuro
ai bambini degli altri.
Oggi, quando parla della rivolta del ghetto, tende a smorzare
i toni eroici.
Forse parliamo a lungo di questo, ma è perché bisogna comprendere
la differenza tra una bella morte e una morte disgraziata. Ha la sua importanza.
Tutto quello che è successo più tardi, il 19 aprile del 1943,
non era che il desiderio nostalgico di una bella morte.
Janusz
Korczak
Quando ridiventerò bambino
e
Il diritto del bambino al rispetto
Luni Editrice, 1995
e 1994
Henryk Goldszmit,
ebreo polacco, meglio conosciuto col suo pseudonimo di
Janusz Korczak (eroe di un romanzo storico polacco),
acquista notorietà nei primi decenni del secolo, per il suo lavoro di pedagogo
e le sue pubblicazioni sull'argomento.
Giosue Perle scrisse
La distruzione di Varsavia, uno dei manoscritti conservati
nell' Archivio
Ringelblum. Così descrive Korczak.
Quando Hitler, maledetto sia il suo nome, istituì il ghetto, la casa degli
orfani di Korczak fu trasferita a via Sienna 16.
Varsavia soffriva la fame, ma Janusz Korczak riusciva sempre a trovare i viveri
per i suoi bambini. Questi ultimi erano sempre puliti, vestiti decentemente, ravviati.
Mangiavano regolarmente e dormivano in letti puliti e come tutti gli ebrei, speravano
di sopravvivere al cane arrabbiato tedesco e di vedere alla fine la sua disfatta.
Ma venne l'ordine di deportare tutti gli ebrei e le prime vittime furono i più
innocenti: i bambini...
Janusz Korczak non volle lasciare i suoi duecento bambini. Non era scappato, nè
si era nascosto, come avevano fatto invece altri dirigenti di istituti infantili.
Uno o due giorni prima che cominciasse il blocco di via Sienna, ordinò
a tutti i bimbi di fare un bagno, di mettersi i vestitini puliti, ogni bimbo ricevette
un sacchetto di pane ed una bottiglia d'acqua.
Non si sa se avesse spiegato ai bambini del suo orfanotrofio a che cosa dovessero
prepararsi e dove sarebbero stati condotti. Si sa soltanto che quando gli assassini
assalirono la casa di via Sienna 16 (...), i duecento bambini non gridavano, i
duecento innocenti condannati a morte non piangevano. Nessuno fra di loro scappò,
nessuno si nascose. Si stringevano soltanto, come tanti pulcini, al loro maestro,
al loro padre e maestro, a Janusz Korczak, perché li proteggesse.
Lui stesso si mise davanti a tutti e li nascondeva con il suo corpo magro e curvo...
Guai agli occhi che ebbero la ventura di assistere a questa scena spaventosa.
Janusz Korczak, a capo scoperto, con una cintura di cuoio alla vita, gli stivali
ai piedi tutto chino, tiene uno dei bambini per mano e cammina davanti. Camminano
insieme a lui alcune assistenti dai bianchi grembiuli e dietro di loro camminano
duecento bambini, ben puliti e lavati, che vengono condotti al macello...
Fino ad oggi non si è saputo dove sia finito Korczak con i duecento orfani.
Secondo ogni probabilità, nessuno di loro è sopravvissuto.
Questa è la cronologia degli ultimi mesi della sua vita,
nell'edizione di Il diritto del bambino al rispetto,
curata da S.Tomkiewicz.
Ottobre 1940
I nazisti ordinano la creazione del ghetto per la popolazione ebrea. Malgrado
gli sforzi disperati di Korczak, gli orfani vengono trasferiti all'antica
scuola di commercio, in via Chlodna n. 33, un edificio poco adatto ad un internato
di centocinquanta bambini. L'insegnamento scolastico viene organizzato sul posto,
i bambini si occupano di un giornale murale, e lavorano in diverse sezioni. Il
Tribunale e il sistema di autogestione continuano a funzionare.
Arrestato dai tedeschi e rinchiuso nella terribile prigione di Pawiak (per aver
voluto esigere la restituzione di un carico di patate destinato ai bambini), Korczak
viene liberato su cauzione pagata dai suoi amici.
Consacra intere giornate a raccogliere doni allo scopo di garantire la sopravvivenza
della Casa dell'Orfano.
1941
Il territorio del ghetto viene ridotto e l'orfanotrofio è costretto
a trasferirsi nuovamente. Gli viene attribuito l'edificio dell'antico Club dei
Commercianti in via Sliska n. 9, eccessivamente piccolo per alloggiare i bambini,
il cui numero è nel frattempo aumentato a duecento. Korczak e Stefania
Wilczynska vi organizzano la vita, l'insegnamento e i giochi dei bambini.
Korczak rifiuta le proposte dei suoi amici (Maryna Falska e Newerly)
che vogliono trovargli un nascondiglio nella parte ariana di Varsavia.
1942
Viene arrestato ancora una volta per essersi rifiutato di portare il bracciale
che contraddistingueva gli ebrei. Liberato grazie agli sforzi di un amico influente,
persiste nella sua decisione di non portare mai il bracciale.
Malato e stremato, si incarica tuttavia di un altro orfanotrofio, quello in via
Dzielna n. 39, dove circa seicento bambini sono minacciati di morte a causa di
malattie e della mancanza di cibo (lui la chiama una casa prefuneraria per
bambini). Korczak riesce a rendere l'atmosfera meno invivibile, ad attenuare
la fame e ad assicurare un pò d'igiene, mentre lotta contro la demoralizzazione
del personale. Abita sempre alla Casa dell'Orfano, in via Sliska.
A partire dal maggio 1942, scrive nella notte il suo Diario (che
sarà pubblicato dopo la guerra), documento autobiografico sconvolgente,
sobria e inconfutabile testimonianza delle atrocità naziste.
8 giugno: cerimonia di consacrazione della bandiera verde (colore della
speranza, colore della natura) della Casa dell'Orfano. I bambini fanno
voto di “coltivare l'amore per gli esseri umani, per la giustizia, la verità
e il lavoro”.
18 luglio: la Casa dell'Orfano dà uno spettacolo teatrale.
I bambini interpretano il dramma La posta di Rabindranath Tagore,
proibito dalla censura nazista. Interrogato sul perché della scelta di
questa opera (che rappresenta un bambino malato, rinchiuso nella sua camera, che
muore sognando di correre per i campi), Korczak risponde che è necessario
imparare ad accettare la morte con serenità.
22 luglio: il compleanno di Korczak coincide con la prima giornata di “liquidazione”
del ghetto. Le retate cominciano nelle strade; tre volte Korczak viene preso e
portato via dal “carro della morte”. Ogni volta, viene rispedito al suo domicilio.
4 agosto: Korczak, Stefania Wilczynska, gli educatori e duecento orfani
vengono portati alla “Piazza di trasbordo” (da cui partono i treni per i campi
della morte). Gli orfani camminano in fila per quattro, con la loro bandiera verde.
Ogni sezione è preceduta dal suo educatore: Wilczynska, Broniatowska,
Szternfeld. Li si rinchiude nei vagoni. Vengono trasportati al campo di
sterminio di Treblinka.
Rafael
F. Sharf (a cura di)
In the Warsaw ghetto. Summer 1941. Photographs
by Willy Georg
London, Robert Hale, 1993
Willy Georg, fotografo di professione,
era operatore radio nell'esercito tedesco che occupava
Varsavia. Ricevuto un lasciapassare, in un giorno non
precisato dell'estate 1941, entrò nel ghetto con la sua macchina Leica.
Fece in tempo a scattare quattro rullini di foto. Mentre scattava le foto del
quinto rullino gli fu imposto di smettere e l'ultimo rullino gli fu sequestrato.
Uscì dal ghetto, però, con gli altri quattro.
Il volume pubblica, per la prima volta, cinquant'anni dopo, le
sue foto.
La chiusura definitiva del ghetto era avvenuta il 15 novembre 1940. Le foto sono
di circa sette-otto mesi dopo. La situazione è già disperata. L'evoluzione
ulteriore è documentata dalle foto di Heinz Jost,
scattate il 19.9.41, in un altro volume del presente catalogo.
19.9.41.Une journee dans le Ghetto de
Varsovie
Yad Vashem, Jerusalem, 1988
Heinz Jost, albergatore di
Langelensheim, era soldato nell'esercito tedesco, acquartierato al campo 31, presso
Varsavia, sulla riva sinistra della Vistola. Nel mese di settembre del 1941, trascorse
il giorno del suo compleanno nel ghetto di Varsavia, e fotografò tutto
ciò che vide e tutto ciò che il suo obiettivo riuscì a catturare,
per un totale di 129 fotografie: immagini terribili e spaventose che non mostrò
a nessuno. Molti anni dopo, facendo ordine in casa, alla morte della moglie, ritrovò
queste foto.
Egli ha scritto:
Passai vari anni al campo 31. Durante i miei viaggi a Varsavia vedevo
una gran quantità di cadaveri lungo il muro che circondava il ghetto. Riuscii
ad entrare senza difficoltà, in quel giorno di settembre ed a camminare
lungo le strade interne del ghetto riprendendo tutto ciò che vedevo. Fino
a quel momento io non avevo saputo nulla di ciò che succedeva dentro quelle
mura. Per me fu una occasione per parlare con degli ebrei. Qualcuno mi domandò:
“Cosa succederà? Come potrà continuare tutto questo?”. Io rispondevo:
“Presto la guerra finirà, tutto si sistemerà e voi potrete tornare
nelle vostre case”. Era quello che allora pensavo.
C'erano anche dei negozi, ma non vi si potevano acquistare generi alimentari,
c'era solo una polvere per bucato ed ogni sorta di utensili. Lungo le strade ho
visto gente che vendeva patate, aglio, sedano. Neanche quelli che morivano di
fame mi chiedevano qualcosa da mangiare perché io indossavo l'uniforme
dei soldati tedeschi. Erano sdraiati lungo i muri delle case, in mezzo ai morti,
ai quali ormai più nessuno faceva caso. Qualche raro ebreo ancora era ben
vestito, ed era difficile pensare che anche quelli abitassero nel ghetto.
Durante il giorno i cadaveri venivano trasportati con delle carrette,
e ho fotografato anche molte fosse comuni sparse in ogni angolo del ghetto. Vi
buttavano la calce sopra.
Ogni notte c'erano ebrei che tentavano di fuggire e al mattino venivano ritrovati
i loro cadaveri.
Quella sera di settembre, per festeggiare il mio compleanno, avevo invitato a
cena alcuni miei camerati. E' inutile dire come mi sentii durante tutta la cena.
Avevo perso l'appetito.
Agli inizi degli anni '80, Heinz Jost consegnò le foto alla redazione della
rivista Stern, e poco dopo
morì. Nel 1987 Gunther Schwarberg
consegnava le foto agli archivi di Yad Vashem.
Yitzhak
Katzenelson
Il canto del popolo ebraico massacrato
Giuntina, Firenze, 1995
Y. Katzenelson
sopravvisse in un primo momento nel ghetto di Varsavia, dove perse la moglie ed
i due figli più piccoli.
Deportato in Francia, scrisse, nel campo di concentramento di
Vittel, questo poema. Lo sotterrò.
Fu poi deportato ad Auschwitz
dove morì.
IX Ai cieli (23-26 novembre 1943)
1/E così avvenne... e questo fu l'inizio... Cieli, ditemi
perché, perché!
Perché dobbiamo essere tanto umiliati in questo mondo?
La terra, sorda e muta, ha chiuso gli occhi.. Ma voi cieli,
voi dall'alto avete visto tutto e non siete crollati dalla vergogna!
2/Non una nuvola ha coperto il vostro vile azzurro,
che come sempre mostrava il suo falso splendore;
il sole, rosso come un carnefice feroce, ha continuato il suo corso;
la luna, come una vecchia puttana, come una peccatrice, è uscita di notte
a
passeggiare,
e le stelle ammiccavano luride come topi.
3/Basta! Non voglio più guardarvi, non voglio più vedervi...
O cieli falsi e bari, cieli infimi pur così in alto; o mio dolore!
Un tempo ho creduto in voi, vi ho confidato le mie pene e le mie gioie, le mie
lacrime e i miei sorrisi -
voi non siete migliori della terra, di questo mucchio di letame!
4/Vi lodavo, cieli, vi esaltavo in tutti i miei canti.
Vi ho amato come si ama una donna. Ma ora se ne è andata, dissolta come
schiuma.
Fin dall'infanzia il vostro sole, fiammeggiante nel tramonto,
l'ho somigliato alle mie attese: “Così svanisce la mia speranza, così
sfuma il mio
sogno!”.
5/Basta! Basta! Vi siete presi gioco di noi, del mio popolo e della mia stirpe!
Da sempre ci avete preso in giro - anche i nostri padri, anche i nostri profeti!
Verso di voi hanno alzato gli occhi, nella vostra fiamma si sono accesi;
sempre fedeli, per nostalgia di voi si sono consumati.
6/Vi hanno convocato per primi: haazinu! Ascoltate!
E solo dopo imploravano la terra. Così Mosè, e così Isaia,
il mio Isaia: shimu,
udite!
E shomu! gridava Geremia: shomu! A chi, se non a voi? Perché vi siete
allontanati?
O vasti cieli, luminosi cieli, alti cieli,ormai siete come la terra.
7/Non ci conoscete, non ci riconoscete più - perché? Siamo tanto
cambiati? Eppure siamo gli stessi di un tempo -
e anche migliori... non io! Io non voglio paragonarmi ai miei profeti, non posso,
ma tutti quegli ebrei portati a morte, quei milioni massacrati, loro sì.
8/Sono migliori, più provati, più purificati dal goles! Chi è
un grande ebreo del passato in confronto a un piccolo ebreo di oggi, un semplice
ebreo
di Polonia, di Lituania, di Volinia? In ogni ebreo
grida un Geremia, un Giobbe disperato, un re deluso con il suo Qohelet.
9/Non ci conoscete, non ci riconoscete più nessuno di noi, come se ci fossimo
mascherati.
Eppure siamo noi, gli ebrei di sempre, e come sempre pecchiamo contro noi stessi,
come sempre rinunciamo alla felicità e vogliamo salvare il mondo.
Come fate a rimanere così belli, voi cieli azzurri, mentre ci stanno massacrando?
10/Come Saul, il mio re, andrò nella mia pena dalla evocatrice di spiriti,
troverò la strada disperata e oscura per En Dor,
e chiamerò fuori dalle tombe tutti i miei profeti: alzate lo sguardo
verso i vostri cieli chiari e sputate loro in faccia: “Al diavolo maledetti!”.
11/Siete rimasti a guardare quando hanno portato a morire i figli del mio popolo,
per mare, sui treni, a piedi, al chiaro del giorno e al buio della notte.
Milioni di bambini hanno teso le mani verso di voi prima di venire massacrati,
milioni di nobili madri, di padri - nulla ha fatto tremare il vostro impassibile
azzurro.
12/Avete visto i piccoli Yòmele, unica gioia! Solo gioia e bontà|
E i Benzìon, quei piccoli geonìm così seri e studiosi...
consolazione di tutto il
creato!
Avete visto le Hanne, che li hanno partoriti e consacrati a Dio nella Sua casa,
e siete rimasti a guardare... No, non c'è Dio in voi, cieli! Cieli nulli
e vuoti!
13/Non c'è Dio in voi! Aprite le porte, cieli, spalancatele,
e lasciate entrare i figli del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato.
Aprite le porte per la grande ascensione: un intero popolo crocefisso
sta per arrivare.. ognuno dei miei figli massacrati può essere un Dio!
14/O cieli, vuoti e abbandonati, cieli senza vita come un vasto deserto,
io ho perso in voi il mio unico Dio, e a loro tre non bastano -
il Dio degli ebrei, il Suo Spirito e l'ebreo di Galilea che hanno ucciso, non
bastano:
Hanno voluto spedire tutti noi in cielo- o miserabile e malvagia idolatria!
15/Rallegratevi, cieli, rallegratevi! Eravate poveri, ma ora siete ricchi:
che raccolto benedetto, che fortuna vi è concessa: un popolo, tutto un
popolo!
Rallegratevi, cieli, lassù con i tedeschi, e i tedeschi si rallegrino quaggiù
con voi,
e un fuoco salga dalla terra fino a voi, e un fuoco scenda da voi fin sulla terra.
Calel
Perechodnik
Sono un assassino? Autodifesa di un poliziotto
ebreo
Milano, Feltrinelli, 1996
Calel Perechodnik, ebreo
nato a Varsavia nel 1916,
studia da ingegnere agronomo a Tolosa,
in Francia. Pur sentendosi orgogliosamente polacco -
ero sinceramente e disinteressatamente legato alla Polonia, conoscevo,
e amavo la poesia polacca meglio e più di qualsiasi polacco istruito
- scopre pian piano il forte antisemitismo di parte della popolazione
polacca, quando viene rifiutato come ufficiale e quando gli si vieta di aprire
un nuovo cinema ad Otwock,
perché ebreo, prima ancora dell'invasione tedesca.
Il memoriale che scrive, non è un diario quotidiano,
ma una confessione scritta,
dal 7 maggio (la rivolta del ghetto era cominciata il 18 aprile 1943 e sarebbe
stata sconfitta il 16 maggio dello stesso anno) al 23 ottobre 1943, mentre era
nascosto in un retrobottega di Varsavia, braccato dai nazisti che aveva servito.
Fece avere il testo all'amico polacco Wladyslaw Blasewski,
perché lo trasmettesse ai posteri. Dopo la guerra il testo fu consegnato
a suo fratello Pejsach Perechodnik,
che lo consegnò a sua volta alla Commissione Centrale per la storia
degli ebrei in Polonia. Il manoscritto fu dimenticato per circa 50 anni e solo
ora è stato pubblicato in forma integrale.
Perechodnik, rinchiuso
nel ghetto decise di entrare, nel gennaio 1941, nella polizia del ghetto, la
Ghetto-Polizei, alle dirette
dipendenze del Governo ebraico istituito dai tedeschi (Judenrat).
Vi entra pensando di salvare la vita a sé e ai suoi cari.
Nel memoriale descrive l'escalation di notizie e l'incredulità della
popolazione che rifiuta come impossibili le tragedie descritte.
Dapprincipio cominciano ad arrivare notizie cupe, notizie alle quali gli ebrei
credono e non credono. D'altro canto è difficile crederci, bisogna vedere
con i propri occhi per rendersi conto quali cose siano possibili, e per di più
nel ventesimo secolo.
Ecco che raccontano, per esempio, che a Slonim sono state radunate in
piazza quattordicimila persone tra donne, bambini e uomini e tutte sono state
abbattute a raffiche di mitraglia.
Vi chiedo, gente, era possibile credere a qualcosa di simile? Donne, bambini
innocenti, fucilati senza ragione? Così semplicemente? Alla luce del
sole? In fin dei conti nemmeno la peggior delinquente può esser condannata
a morte, se è incinta: e là, a quel che si diceva, dovevano aver
ucciso bambini piccoli. Dove sono gli uomini, padri di famiglia, che avrebbero
il coraggio di puntare una mitragliatrice contro bambini piccoli, inermi? Dov'è
l'opinione pubblica del mondo civile? Dove sono gli scienziati, gli scrittori,
i professori? Come può tacere il mondo? Forse non è vero niente.
Dopo questa notizia ne arriva un'altra, ancor più terribile: a Vilna
sono state uccise sessantamila persone, a Baranowicze ventimila. La gente
smette di capire. Invece crede a quel che sente, ma non può rendersi
conto come sia possibile che, un bel giorno, qualcuno arrivi e ammazzi una bambinetta
di due anni, la cui unica colpa è quella di essere nata da madre ebrea
e da padre ebreo.
Alla fine troviamo una spiegazione: quegli ebrei sono stati uccisi perché
erano cittadini sovietici e, forse, avevano combattuto contro i tedeschi. Noi
invece siamo cittadini del Governatore generale, da noi una cose del genere
non può succedere. Eppoi laggiù vige lo stato di guerra, noi invece
abbiamo un'amministrazione civile.
La polizia ebraica può solo consegnare ai tedeschi i
più deboli, quelli comunque destinati a morire lo stesso in breve tempo.
Gli ebrei di Otwock vedono ormai tutta la tragedia: duecento innocenti
sono stati portati via e ammazzati. Fortuna che la scelta è stata fatta
dalla polizia ebraica che ha spedito i più poveri. Gli uni sono soddisfatti
di essersi riscattati, gli altri, i parenti degli sfortunati, giurano vendetta
alla Ghetto-Polizei, ovviamente rimandandola a dopo la guerra. La città
è turbata.
Il sistema di privilegi, incentivato dai tedeschi, illude la
polizia ebraica sulla sua incolumità.
Dove prendere quattrocento uomini da mandare a lavoro coatto? Ciascuno si dice:
io alla fin fine non posso andare, perché sono della polizia; io sono
impiegato allo Judenrat; io invece ho un fratello nella polizia; io non
posso andare, perché ho pur sempre un'attività da mandare avanti;
io non andrò perché mi basterà allungare mille zloty
alla polizia.
Nessuno si ricorda più di Lublino. I poliziotti fanno retate giorno
e notte. Catturano, rimettono in libertà, il movimento è vantaggioso.
Infine quattrocento uomini vengono mandati a Karczew. A présent
tout le monde est content!
Il comandante della Ghetto-Polizei, Kronenberg, è soddisfatto
perché ha parlato personalmente con il Kreishauptmann; inoltre
ha salvato il ghetto dalla deportazione, ha colto l'occasione per riempirsi
le tasche e ha mandato in un campo alcune persone perbene che non gli andavano
a genio.
Anche il Kreishauptmann è molto soddisfatto: gli ebrei di Otwock
si sono tranquillizzati e pensano che ormai non li attende più sventura
alcuna. Gli ebrei sono a loro volta soddisfatti perché, grazie a coloro
che sono stati mandati al campo, i tedeschi non potranno deportarli da Otwock,
altrimenti chi fornirà i viveri agli operai e laverà la loro biancheria?
E le famiglie degli sventurati? Già così è difficile, arrangiatevi
come potete, donne, madri di bambini piccoli. Non possiamo aiutarvi.
Questi i pensieri che frullavano a ciascuno per il capo. Ora io stesso non so
se devo ridere o piangere della nostra ingenuità, ma all'epoca... Non
dico che un qualsiasi profeta di mentalità ebraica potesse prevedere
il corso degli eventi. Per questo bisognava avere dentro di sé il sangue
degli antichi Unni.
Così descrive i punti fermi che, con acutezza, gli sembra
di intuire del progetto nazista:
-
gli ebrei non devono capire d'esser stati condannati a morte;
gli ebrei non devono difendersi;
per il conseguimento dello scopo va mobilitato il minor numero
possibile di tedeschi;
gli stessi ebrei devono aiutare i tedeschi a eseguire questo
sporco lavoro;
altri ebrei devono sistemare i ghetti abbandonati;
i cadaveri degli ebrei devono esser sepolti da altri ebrei;
tutti i beni mobili, l'oro, i dollari, i gioielli devono
cadere in mano ai tedeschi;
ogni città ebraica dev'esser certa che es kommt
nicht in Betracht;
ogni ebreo influente o ricco dev'esser convinto al cento
per cento che nessuno pensa a lui, affinché non scappi, ma si limiti
ad aspettare che arrivi il suo turno;
gli ebrei deportati non devono esser messi in condizione
di capire che vanno incontro alla morte;
al momento della morte gli ebrei non possono montare su tutte
le furie, mentre coloro che restano in vita devono rimanere inconsapevoli
fino all'ultimo istante;
i corpi di tre milioni di persone vanno trattati come una
materia preziosa, ad esempio come concime naturale, oppure bisogna trarne
il grasso; al tempo stesso non vanno lasciate tracce sotto forma di cimiteri;
va impedito agli ebrei di trovare aiuto nel quartiere polacco.
Ecco allora evidente, dal suo punto di vista, il problema dello
Judenrat:
E quale fu l'atteggiamento dello Judenrat, della polizia e del resto
della popolazione? Si tratta di una questione estremamente dolorosa. Ogni ebreo
pensava tra sé: dire no ai tedeschi, non eseguire il loro ordine è
pur sempre una rivolta. In tal caso l'esercito può entrare nel ghetto
e, Dio non voglia, fucilare un gran numero di persone. Verranno condannati a
morte per insubordinazione soprattutto i funzionari dello Judenrat e
della polizia. Nel caso invece l'ordine venga eseguito, noi poliziotti non saremo
interessati dalla deportazione, noi funzionari dello Judenrat non saremo
interessati dalla deportazione, noi medici e dentisti non saremo interessati
dalla deportazione, noi specializzati che lavoriamo nei laboratori non saremo
interessati dalla deportazione, noi tutti e le nostre famiglie non saremo interessati
dalla deportazione. La questione quindi è difficile, sia fatta la volontà
di Dio, ovviamente del Dio tedesco, con tale volontà non occorre sempre
esser d'accordo.
Alla polizia ebraica viene impartito l'ordine di adunare gli uomini in piazza.
I poliziotti, in numero di duemila, si mettono energicamente all'opera. Ciascuno
si congratula tra sé e sé per aver avuto il buon senso di entrare
nella polizia, tranquillo per sé medesimo, per la sua famiglia. Ciascuno
è certo che con un'occasione del genere è tutto grasso che
cola e si mette al lavoro. Come prima cosa devastano i negozi di alimentari
e depredano le merci, per non correre il rischio di far la fame.
Anche lui si attarda a descrivere differenti atteggiamenti presenti
nella vita del ghetto:
Quando già sono stati trasportati i detenuti, gli uomini dei punti di
raccolta, i mendicanti per strada, viene il turno dell'orfanotrofio. Ai poliziotti
risulta un po' sgradevole deportare il dottor Korczak, il quale si è
ostinato a voler essere spedito via con i suoi bambini; ma che fare, se è
lui stesso a volerlo? Se qualcuno è tormentato dalla coscienza, la fa
tacere con la vodka. La giornata passa presto.
Oh, dottor Korczak! Chino il capo di fronte al tuo nome. Non sono stati
i tuoi libri a renderti immortale, ma il tuo gesto. Anche in quell'ora fatale
non hai voluto abbandonare i poveri piccoli Giuseppe, Mosè
e Srul. Hai preferito morire insieme a loro. Onore alla tua memoria!
Ma non c'è tempo per pensare. Questo vogliono i tedeschi.
Parola d'ordine dell'azione è velocità e lavoro. Ebrei!
Lavorate in fretta, trasferitevi da un luogo all'altro, arricchitevi, scialacquate,
basta che non pensiate. Dio non voglia abbiate a pensare che tanto finirete
tutti nello stesso modo.
Perechodnik morì
poi bruciato dopo la capitolazione dell'insurrezione di Varsavia (quindi dopo
il 2 ottobre 1944) in un bunker che era stato assalito da sciacalli polacchi
che collaboravano con i nazisti.
Janina
Bauman
Inverno nel mattino
Il mulino, Bologna, 1994
PROCLAMA
Pena di morte per chi presta assistenza agli ebrei che hanno
abbandonato le aree residenziali ebraiche senza permesso.
Numerosi ebrei hanno recentemente abbandonato senza permesso le aree residenziali
a cui erano stati assegnati. Essi si trovano ancora al presente nel distretto
di Varsavia.
Con ciò dichiaro che in virtù del terzo decreto del Governatore
Generale concernente le restrizioni residenziali nel Governatorato Generale
del 15 ottobre, 1941 (UBL GS p. 595) non soltanto gli ebrei che hanno abbandonato
le aree residenziali loro assegnate saranno puniti con la pena di morte ma che
la stessa punizione verrà applicata a qualsiasi persona che consapevolmente
assiste tali ebrei. Ciò non include soltanto l'offerta di rifugio e cibo
ma anche altri tipi di assistenza, vale a dire il trasporto di ebrei in veicoli
di qualsiasi genere, l'acquisto di loro proprietà, ecc.
Con ciò ordino alla popolazione di Varsavia di informare immediatamente
la più vicina stazione o comando di polizia della presenza di qualsiasi
ebreo privo di qualsiasi autorizzazione al di fuori di un'area residenziale
ebraica...
Varsavia, 6 settembre 1942
L'Alto Comandante delle SS e della Polizia
Distretto di Varsavia
Sfidando questa
disposizione, Maria Bulat,
polacca cristiana, tata della famiglia materna dell'autrice, trova un rifugio
nella parte ariana di Varsavia a Janina
Bauman, a Sophie,
sorella minore ed alla loro madre. La fuga dal ghetto avviene
il 25 gennaio 1943. Janina ha 16 anni.
Si è da poco conclusa la prima Aktion di deportazione da Varsavia a Treblinka
(22 luglio-13 settembre 1942) con la quale sono stati uccisi 2/3 degli abitanti
del ghetto. La prima rivolta ebraica (18-22 gennaio 1943) ha appena interrotto
la seconda Aktion di deportazione.
Dal giorno della fuga al 1° di agosto (giorno in cui inizia l'insurrezione
di Varsavia), le tre donne debbono cambiare 11 diversi nascondigli. Per 3 volte
vengono scoperte da ricattatori a cui debbono dare i loro beni, per non essere
da loro denunciate ai tedeschi.
Vengono, infine salvate da uno sconosciuto quando i nazisti selezionano per
l'ultima volta i cittadini di Varsavia, dopo aver raso al suolo la città,
dopo aver soffocato nel sangue l'insurrezione. Non essendo state riconosciute
come ebree, vengono deportate a Cracovia, dove vengono liberate il 19/1/45.
Michal
Unger (ed.)
The last Ghetto. Life in the Lodz Ghetto. 1940.1944
Yad Vashem ed., Gerusalemme, 1995
Il volume è il catalogo di una mostra preparata nel 1995 per il Memoriale
di Yad Vashem a Gerusalemme. Il ghetto di Lodz
è stato l'ultimo ad essere evacuato dai tedeschi, quello dalla vita più
lunga. Solo nel 1944 è sparito, insieme a tutti i suoi abitanti.
La mostra ne ha raccolto le testimonianze fotografiche e documentarie giunte fino
a noi.
Diario del ghetto di Lòdz
Edizioni Theoria, Roma, 1989
Il ghetto di Lòdz era il più grande
di tutta la Polonia (circa 200.000 ebrei) dopo quello di Varsavia.
Il manoscritto che racconta la storia di questo ghetto fu trovato negli indumenti
di un ebreo appena giunto al campo di Auschwitz, subito selezionato e ucciso con
il gas.
Fu sotterrato da Zelman Lewental,
ebreo del Sonderkommando
del crematorio II che ne aveva capito il valore, insieme ad un suo breve scritto
anch'esso contenuto in questa edizione.
Il testo di Lewental è mutilo, perché rovinato dall'umidità,
ma, lo stesso, chiarissimo.
Per un caso fortuito fu sotterrato in diversi luoghi. Continuate a cercare.
Troverete ancora di più... scritto da... precisamente presso... Sonderkommando
del crematorio II, il 15 Agosto 1944 da Zelman Lewental, Ciechanòw, Polonia.
Chi avrebbe creduto che oggi, nell'Agosto del 1944, avremmo ancora partecipato
a questo gioco maledetto di questo inaudito sistema di sterminio condotto da ormai
due o tre anni con crudeltà orribile contro...
... quando ancora stavamo nei nostri paesi, il ghetto di Lodz era già noto
come il più orribile dei ghetti, quello in cui a causa del suo isolamento
assoluto dominava - e si capisce - una miseria nera e orribile.
Ognuno vede come gli altri sono uccisi e che anche lui è nella fila, che
anche lui avrà una pallottola e morirà. E nessuno si difende. Perché?
Il ghetto di Lodz non può vivere...
... si è scusato tutto... così è la vita.
Perché i nostri fratelli si lasciano così tranquillamente condurre
al massacro, senza la minima resistenza? Bisogna in proposito ricordare un'eccezione,
ad onore di quelli la cui memoria dobbiamo benedire. Varsavia! Già per
la seconda volta non si sono lasciati “trasferire” o meglio assassinare. Meglio
cadere in combattimento colpiti da una pallottola o da una granata. Ed ancora,
ancor sempre Varsavia che all'epoca di quell'azione di annientamento di milioni
di ebrei - Varsavia soltanto, da sola - ha fatto dell'eroismo, non... passare
per le armi, quando ormai era a terra.
Tutto il resto lo lascio agli storici ed ai ricercatori.
Noi per parte nostra nascondiamo tutto quello che è interessante, che è
utile, parole, scritti... non è avvenuto.
... noi che adesso siamo sotto il... tedesco, che vogliamo per tutti il meglio...,
esercitiamo come... non meno... indifesi, senza fede né speranze...
Perché? Queste stesse nere zampe che danno la morte alle povere donne ed
ai poveri bambini ebrei, queste stesse zampe li condurranno nell'abisso...
Adesso che l'Armata rossa è già da tre settimane alle porte di Varsavia,
che gli altri da qualche giorno sono a quelle di Parigi, la tetra, fosca violenza
è ancora all'opera, prosegue il suo gioco infernale, fucila, impicca, asfissia,
brucia tutto ciò che non si lascia annientare. Chi avrebbe creduto che
ancora adesso avrebbero avuto tanto tempo per sterminare quel che è rimasto
degli ebrei, i piccoli gruppi che di loro qua e là sono sopravvissuti;
essi stavano finora in vari piccoli Lager situati alle spalle attorno al grande
forno fiammeggiante che ha nome Auschwitz-Birkenau...
Ma noi, il gruppetto di gente grigia che non minor fatica procurerà agli
storici di qualsiasi altra... storia...
... ogni segno di dignità umana. Domandarsi perché? E scoppiò
un tumulto, si gettarono sulle SS, e un giovane ebreo riuscì a strappare
all'Oberscharführer la pistola e ammazzo parecchie SS, tra l'altro... führer...
furono gli uomini più terribili dell'epoca dei Lager.
... benedetta sia la loro memoria.
Per il resto tutto avviene con calma agghiacciante, gli uomini arrivano e benché
essi sappiano dove li portano, entrano nel crematorio...
Sempre lo stesso gioco, e di nuovo non si sa... per dove. Dunque il mondo crederà
tutto, ma questo non lo crederà nessuno... E questo lo sentiamo da tutto
il mondo, se tu non vuoi più credere alla verità, poi nessuno vorrà
più credere a te. E sicuramente vi cercherete delle scuse. Ma il fatto
è che sono morti...
... svolti, nessuno se li può immaginare, perché è inimmaginabile
che si possa riprodurre con tale precisione le esperienze che viviamo; questo
lo potrà fare solo uno di noi... del nostro piccolo gruppo, della nostra
ristretta cerchia, se per caso qualcuno dovesse sopravvivere, eventualità
cui non crediamo nemmeno ad uno contro cento. Ritengo perciò mio dovere
nascondere questo pacchetto di carte che ho trovato, in modo che si conservi a
lungo. Già così la sua fatica non sarà stata vana. E soprattutto
affinché il mondo futuro...
Non mi posso permettere di scrivere quel che vorrei, per vari motivi: principalmente
perché già oggi sono stato purtroppo notato.
... i sentimenti di quanti si trovano sul luogo in cui i fatti accadono, e quel
che questi uomini pensano: voglio dire che non si scoprirà certamente la
verità, perché nessuno è in grado di immaginarsela.
Nessuno ha avuto la forza, nessuno ha avuto il coraggio, eppure se si conoscessero
quelli che sono usciti vivi dal ghetto - l'aspetto che hanno - si otterrebbe...
una chiara risposta...
un riflesso della verità; infatti questa non è ancora tutta la verità.
La verità intera è molto più tragica, molto più orribile...
Mendel
Grossman
Avec une caméra dans le ghetto
Beit Lohamei Haghettaot e Hakibboutz Hameouchad
Publishing House, Ramat Gan, 1970
Mendel Grossman
non era uno storico, ma un fotografo. Scattò, sempre di nascosto, nel ghetto
di Lodz, circa 10.000 foto,
perché arrivassero a noi le immagini di quei giorni. Così
Primo Levi
in I sommersi e i salvati
descrive la particolarità del ghetto di Lodz:
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann vittorioso
sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano ribattezzato la città
polacca di Lodz. Negli ultimi mesi del 1944 gli ultimi superstiti del ghetto
di Lodz erano stati deportati ad Auschwitz...
Il ghetto di Lodz, aperto già nel febbraio 1940, fu il primo in ordine
di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come consistenza numerica: giunse
a contenere più di 160.000 ebrei, e fu sciolto solo nell'autunno del 1944.
Fu dunque il più longevo dei ghetti nazisti, e ciò va attribuito
a due ragioni: la sua importanza economica e la conturbante personalità
del suo presidente.
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito, dopo
vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lodz nel 1917. Nel 1940 aveva
quasi sessant'anni ed era vedovo senza figli; godeva di una certa stima, ed era
noto come direttore di opere pie ebraiche e come uomo energico, incolto ed autoritario.
La carica di Presidente (o Decano) di un ghetto era intrinsecamente
spaventosa, ma era una carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava
di uno scalino e conferiva diritti e privilegi, cioè autorità.
Come si era pervenuto all'investitura, non è noto: forse si trattò
di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski era, o sembrava, uno sciocco
dall'aria per bene, insomma uno zimbello ideale); forse intrigò egli stesso
per essere scelto, tanto doveva essere forte in lui la voglia del potere. E' provato
che i quattro anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono
un sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e
di reale capacità diplomatica ed organizzativa.
Egli giunse presto a vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato,
e certo fu sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì
con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e d'uomo d'ordine.
Da loro ottenne l'autorizzazione a battere moneta, sia metallica sia cartacea,
su carta a filigrana che gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano
pagati gli operai estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi
le loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie giornaliere
(ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2000 per sopravvivere in stato di
assoluto riposo).
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere non solo obbedienza
e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature moderne differiscono dalle
antiche...
Ebbe un manto regale, e si attorniò di una corte di adulatori e di sicari;
dai suoi poeti-cortigiani fece comporre inni in cui si celebrava la sua “mano
ferma e potente”, e la pace e l'ordine che per virtù sua regnava nel ghetto;
ordinò che ai bambini delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle
epidemie, dalla denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in
lode “del nostro amato e provvido Presidente”...
Pronunciò molti discorsi, di cui alcuni sono stati conservati, ed il cui
stile è inconfondibile: aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini
e di Hitler, quella della recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la
folla, della creazione del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa
sua imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione inconscia
col modello dell'”eroe necessario” che allora dominava l'Europa ed era stato cantato
da D'Annunzio; ma è più probabile che il suo atteggiamento scaturisse
dalla sua condizione di piccolo tiranno, impotente verso l'alto ed onnipotente
verso il basso. Chi ha trono e scettro, chi non teme di essere contraddetto né
irriso, parla così.
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto non appaia fin qui. Rumkowski
non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche misura, oltre a farlo
credere, deve essersi progressivamente convinto egli stesso di essere un messia,
un salvatore del suo popolo, il cui bene, almeno ad intervalli, egli deve avere
pur desiderato.
Occorre beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante
anche per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con gli
oppressori si alterna o si affianca un'identificazione con gli oppressi, poiché
l'uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e tanto più confusa
diventa, possiamo aggiungere, quanto più è sottoposta a tensioni:
allora sfugge al nostro giudizio, così come impazzisce una bussola al polo
magnetico.
Mendel Grossman seleziona i suoi
negativi, li chiude in una scatola di metallo e li occulta nella muratura della
sua casa. Quando i tedeschi liquidano il ghetto, viene trasferito in un campo
di concentramento in Germania, dove morirà all'età di trentadue
anni. Riesce a portare fino al nuovo campo il suo apparecchio fotografico. A guerra
finita sua sorella torna a recuperare i negativi fotografici e li spedisce, in
Palestina, al Kibbutz Nitzanim.
Nel corso della guerra d'Indipendenza, nel 1948, il kibbutz cade in mano all'esercito
egiziano. Il tesoro documentario, così faticosamente raccolto e difeso
da Grossman, va perduto. Il libro pubblica tutte le foto che si sono salvate;
sono solo quelle che Grossman
aveva a suo tempo distribuito ai suoi amici e conoscenti. Riescono lo stesso a
darci un quadro di quei giorni.
Stanislaw
Markowski
Krakowski Kazimierz
Ed. Wydawnictwo Arka, Krakow, 1992
Immagini fotografiche dal 1870 al 1933 della vita
nel quartiere Kazimierz di
Cracovia, il quartiere ebraico.
Il censimento fatto dai tedeschi nel novembre 1939 registra 68482 ebrei abitanti
a Cracovia. Oggi il quartiere é deserto. Vi sopravvivono meno di 1000 ebrei.
Thomas
Keneally
La lista di Schindler
Frassinelli, Piacenza, 1985
La ricerca storica di
T.Keneally, divenuto romanzo, da cuiS. Spielberg
ha tratto il suo film.
... stavano facendo quel massacro a poche decine di metri da lei: non
avevano neppure aspettato che la sua colonna svoltasse nella via Jòzefinska.
In un primo momento Schindler non sarebbe riuscito a spiegare come una
cosa simile si conciliasse con gli assassinii che si compivano sul marciapiede.
Eppure dimostrava, in una maniera che non si poteva ignorare, che i loro intenti
erano seri. Proprio quando la bambina tutta in rosso si fermò e
si volse a guardare, spararono alla donna in pieno collo; e uno di loro, quando
il bambino si lasciò scivolare piagnucolando lungo il muro, gli premette
uno stivale sulla testa, come a tenerla ferma, gli appoggiò la canna della
pistola alla nuca, secondo una posizione tipica delle SS, e fece fuoco.
Oskar cercò ancora con gli occhi la ragazzina in rosso. Si era fermata
e voltata giusto in tempo per vedere calare lo stivale. Si era già aperto
un varco fra lei ed il penultimo della colonna. Di nuovo la guardia delle SS le
corresse fraternamente la direzione e la ricondusse in fila. Herr Schlinder non
riusciva a capire perché non l'avesse percossa con la canna del fucile,
visto che all'altra estremità di via Krakusa la misericordia era stata
soppressa. Più tardi, dopo aver ingurgitato e assorbito una buona dose
di brandy, Oskar chiarì il problema in termini inequivocabili. Permettevano
che vi fossero dei testimoni, perfino una bambina vestita tutta di rosso, perché
sapevano che anche i testimoni sarebbero stati eliminati.
Ancora vivo Schlinder era nata l'idea che la sua storia divenisse
un film. Nel 1983 Jon Blair
ne aveva fatto un film documentario dal titolo Schlinder
.
Nel documentario Ruth Kalder, amante di Amon Goeth, afferma ancora:
Non era un assassino brutale, non più degli altri, non era un killer
brutale. La sua opinione sugli ebrei era uguale a quella delle altre SS... erano
lì per lavorare... Un campo come quello non è divertente, non era
per nulla divertente... non li odiava... eravamo buoni nazisti, non potevamo essere
nient'altro, non potevamo fare nient'altro.
Hanna
Krall
Ipnosi e altre storie
Firenze, Giuntina,1993
I polacchi, come mostra il libro di Perechodnik, si comportarono spesso
eroicamente, talvolta da complici dei criminali; la maggioranza rimase però
indifferente davanti al massacro dei propri compatrioti ebrei.
Questo il commento di Francesco M. Cataluccio,
nella postfazione al libro Sono un assassino?
Un vecchio ebreo polacco, che oggi risiede in Israele,
ha fatto questa considerazione alla scrittrice Hanna
Krall, che la ha pubblicata in
Ipnosi e altre storie:
Gli ebrei non sono venuti ancora a capo della questione polacca. Di quella tedesca
sì, era più facile. Si perdona più facilmente chi ci ha dato
la morte di chi ci ha umiliato. La questione aperta con i polacchi è una
questione di umiliazione e di sentimenti respinti. Niente genera una maggiore
aggressività e un rancore più tenace di un amore respinto, inutile.
[Indice]
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