“La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i
quattro vangeli sono di origine apostolica... La Santa Madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con
fermezza e costanza massima, che i quattro suindicati vangeli, di cui afferma senza alcuna
esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio,
durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro
eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo” (Costituzione Dei Verbum del
Concilio Vaticano II, nn. 18 e 19). Le dichiarazioni conciliari hanno profondamente stimolato
le ricerche sul Gesù storico. La precisione dei termini scelti descrive esattamente lo
spazio di ricerca ed, insieme, ciò che è certo e non in discussione e che il
lavoro storico e teologico può contribuire a motivare e fondare. Così il commento
di mons.Enrico Galbiati spiega l'affermazione conciliare sull'origine apostolica dei vangeli:
“Nel paragrafo 18 la Dei Verbum si preoccupa di stabilire che i quattro Vangeli a noi
giunti e garantiti dalla Chiesa come canonici sono di origine apostolica. Con ciò non si
intende che tutti i quattro Vangeli abbiano avuto per autore uno dei dodici Apostoli, ma si
vuole affermare il fatto che essi sorsero dalla predicazione apostolica e sotto il controllo,
con l'approvazione esplicita o tacita degli Apostoli, ed accettati dalla Chiesa apostolica,
cioè dalla comunità cristiana mentre ancora era governata da qualche Apostolo...
Apostolici sono dunque i Vangeli perché le cose che gli Apostoli predicarono, poi, per
ispirazione dello Spirito Santo, essi e uomini della loro cerchia (ipsi et apostolici viri) ci
tramandarono in scritti” (La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, LDC,
Torino, 1967, pp. 386-387).
Il testo che presentiamo on-line, per gentile concessione della Casa editrice Cittadella,
approfondisce lo studio di queste affermazioni conciliari. L'articolo è una sintesi
delle ricerche alle quali il gesuita prof. R.Latourelle, ha dedicato tutta la vita: la verifica
e la presentazione dei motivi di credibilità del cristianesimo. Il presente articolo
sintetizza i due grandi lavori sul Gesù storico, editi sempre da Cittadella, A
Gesù attraverso i vangeli. Storia ed ermeneutica (Assisi, 1979) e Miracoli di
Gesù e teologia del miracolo (Assisi, 2000). La riflessione sul Gesù storico,
nella riflessione di Latourelle, è parte di un discorso più ampio sulla Teologia
fondamentale, la branca della teologia che studia appunto i fondamenti del cristianesimo ed i
suoi motivi di credibilità (vedi, per questo, gli altri tre suoi ponderosi volumi
Teologia della rivelazione, Cittadella, Assisi, 1980, L'uomo e i suoi problemi alla luce di
Cristo, Cittadella, Assisi, 1982, ed, infine, Cristo e la Chiesa segni di salvezza, Cittadella,
Assisi, 1980). Per una recensione aggiornata ad oggi sulla definizione dei criteri di
storicità, vedi E.Manicardi, Criteri di storicità e storia di Gesù oggi,
in Rivista di Teologia dell'Evangelizzazione, 7 (2003), pp. 421-442. In appendice, un piccolo
glossario, da noi curato, per comprendere i termini tecnici usati nel presente
articolo.
L'Areopago
Il primo problema della credibilità cristiana riguarda la storia e l'ermeneutica. La storia innanzitutto: dal momento che Gesù fu un uomo vero, di cui non si potrebbe mettere in dubbio l'esistenza, ne segue che le sue parole e i suoi gesti, dopo essere stati, durante la sua vita, l'oggetto di una conoscenza sperimentale, sono divenuti, dopo la sua morte, oggetto di scienza storica. In teoria, la ricerca a suo riguardo si pone quindi negli stessi termini di ogni personaggio del passato. In realtà, tuttavia, si è presto capito che l'approccio storico, nel caso presente, è anche al tempo stesso un problema ermeneutico. Ora, se noi concepiamo il problema ermeneutico come quello dei livelli di realtà ai quali possiamo accedere nella lettura di un documento, possiamo dire che il problema dell'accesso alla realtà di Gesù, per mezzo dei vangeli, è il primo e il più profondo problema di ermeneutica posto dalla rivelazione cristiana.
Noi non conosciamo Gesù direttamente, dai suoi scritti, ma attraverso
il movimento che lui ha suscitato nel primo secolo della nostra era. La prima comunità
cristiana, e gli evangelisti che ne sono membri, perseguono una finalità religiosa:
testimoniano l'evento della salvezza in Gesù Cristo. Non c'è dubbio: i vangeli
non sono né cronache, né biografie, ma documenti di fede. Il solo Gesù che
noi raggiungiamo attraverso di essi è un Gesù professato, confessato come Cristo
e Signore. Un esame storico-critico, all'interno dell'intenzione di fede dei vangeli, rimane
quindi l'unico punto di partenza per conoscere il Gesù terreno. Se noi visualizziamo
l'immagine del Cristo secondo i vangeli, abbiamo l'impressione - in Giovanni soprattutto, ma
anche in Matteo e in Marco - di una ieratizzazione considerevole in rapporto a quello che
è stato il Gesù terreno. Il Cristo è così divino che la sua
carriera terrena somiglia a una specie di interludio tra la sua discesa tra gli uomini e la sua
risalita verso il mondo celeste. Se è così, si deve concludere che l'immagine
originale di Gesù ci è in un certo senso “nascosta”, o che
Gesù è stato a tal punto “trasfigurato” dal Cristo della confessione
di fede, che i contorni storici della sua vita e della sua persona sono divenuti evanescenti
sotto la luce abbagliante della Pasqua? E ancora possibile accedere alla realtà del suo
messaggio tra gli uomini?
Sappiamo inoltre che i vangeli, così come si presentano attualmente, sono il risultato
di un lungo processo dì riflessione iniziato dalla chiesa all'indomani della Pentecoste.
Per parecchi decenni, la materia dei vangeli è servita alla catechesi, al culto, alla.
polemica, alla missione, e, di conseguenza, porta l'impronta dell'attualizzazione e
dell'interpretazione della chiesa primitiva. Sappiamo infine che gli evangelisti, se hanno
accettato consapevolmente la tradizione anteriore, non l'hanno semplicemente riprodotta, ma
ripensata e riscritta secondo le prospettive teologiche proprie a ciascuno di loro.
Si pone quindi la domanda: è ancora possibile scoprire, sotto le stratificazioni
molteplici dell'attualizzazione primitiva, gesti autentici, fatti «veramente
avvenuti», e sentire il messaggio di Gesù nella sua freschezza originale? La
differenza, per esempio, tra il linguaggio di Gesù nei sinottici e quello dello stesso
Gesù nel vangelo di Giovanni è molto grande. La libertà degli evangelisti
somiglia a una specie di disinvoltura nei confronti del reale. In queste condizioni, c'è
ancora speranza di arrivare. se non agli «ipsissima verba Jesu (sogno da lungo tempo
abbandonato), almeno al contenuto essenziale del suo insegnamento, a quel nucleo che ha nutrito
la riflessione ulteriore, e al blocco granitico delle azioni più importanti? Possiamo
stabilire criteri che ci diano la certezza di conoscere il rabbi itinerante che ha turbato la
Palestina e sconvolto la storia dell'umanità? In breve, qual è il rapporto tra
storia e kêrygma. tra il testo e l'evento?
La teologia fondamentale (TF) non può esimersi dal riflettere su questo rapporto tra la
fede e la storia, perché se Gesù non è esistito, o se è stato tale
da non poter costituire la base dell'interpretazione che la fede ne ha dato, ma un'altra molto
differente, addirittura del tutto differente, il cristianesimo crolla nella sua pretesa
originaria. La fede cristiana comporta un legame di continuità tra il fenomeno
Gesù e l'interpretazione che la chiesa primitiva ne ha dato, perché Dio si
è manifestato nella vita terrena di Gesù, ed è questa che autorizza
l'interpretazione cristiana di quella vita come la sola autentica e vera. Se gli apostoli hanno
potuto confessare Gesù come Cristo e Signore, bisogna che lui abbia compiuto delle
azioni, adottato un comportamento. degli atteggiamenti, un linguaggio che autorizzano una
simile interpretazione. La TF deve quindi poter accertare, con i vangeli e nei vangeli, quello
che giustifica l'interpretazione cristiana del fenomeno Gesù nella sua condizione
terrena.
Le risposte della critica al problema della possibilità di un accesso a Gesù attraverso i vangeli sono molteplici.
a. Risposta acritica, e di piena fiducia, che ha dominato l'esegesi fino al XVIII secolo. Per lungo tempo, infatti, il problema dell'autenticità storica dei vangeli ha coinciso con quello dell'autenticità dei loro autori. Basandosi sulla testimonianza della tradizione, l'esegeta attribuisce i vangeli a degli apostoli (Matteo e Giovanni) o a dei discepoli di apostoli (Marco e Luca). Poiché i vangeli provengono, in maniera immediata o mediata, da testimoni oculari, ne consegue che tutto ciò che essi riportano mette in presenza di Gesù stesso. I testi sono trasparenti e l'autenticità storica non rappresenta un problema.
b. Risposta dello scetticismo storico, avviata da Reimarus, elaborata da Strauss, Kähler, Wrede, e radicalizzata da Bultmann. Quest'ultimo riconosce una successione materiale o cronologica tra Gesù e la predicazione apostolica, ma dichiara che c'è rottura esistenziale tra Gesù di Nazareth, di cui non si sa praticamente niente, e il kêrygma dei vangeli. Questo scetticismo storico si accompagna a un principio dogmatico: la fede non sa che farsene dei risultati della storia. L'incontro della parola di Dio nella fede è quello di due soggettività, al di là dei dati oggettivi. Una simile situazione può addolorare lo storico, ma non il credente, né il teologo.
c. Risposta più moderata dei discepoli di Bultmann, in particolare di Käsemann, Bornkamm, e della «Nuova Ermeneutica», con Fuchs, Ebeling e Robinson. Tutti giudicano esagerato lo scetticismo del maestro, e si sforzano di ritrovare una continuità essenziale tra il Gesù della storia e il Cristo dei vangeli. La generazione attuale dei teologi protestanti, rappresentata da Pannenberg e Moltmann, afferma a sua volta, in maniera incisiva, il primato della storia. «La fede ha innanzitutto a che fare con ciò che fu Gesù. Solo partendo da qui noi riconosciamo ciò che egli è per noi oggi e come è possibile oggi annunciarlo» (Esquisse d'une christologie, Paris 1972, 22).
d. Infine risposta dell'esegesi cattolica contemporanea, convinta che
è possibile, attraverso il kêrygma dei vangeli, raggiungere Gesù di
Nazareth, ma al tempo stesso molto più critica di un tempo, perché più
consapevole delle difficoltà dell'impresa. Questa nuova posizione può essere
formulata nei termini seguenti. Si sa che, nella teologia cattolica, il Cristo pasquale
è lo stesso personaggio concreto di Gesù di Nazareth. Non potrebbe esservi
disgiunzione né opposizione tra il Gesù terreno e il Cristo dei vangeli, ma
unità e continuità. Si tratta sempre dello stesso Gesù, ma ormai
identificato come messia e Signore, in seguito alla risurrezione. Il glorificato attuale
è il crocifisso di ieri; le condizioni sono cambiate ma la persona è la stessa.
La risurrezione ha agito come da catalizzatore o, se si vuole, da scintilla che ha permesso di
capire e identificare pienamente Gesù di Nazareth. Separare Gesù dal
kêrygma significherebbe cadere nello gnosticismo; parlare solo del Gesù della
storia significherebbe rinunciare a comprenderlo, anche nella sua condizione terrena.
Il Signore che la chiesa adora, il figlio di Dio, è anche, in persona, il figlio del
falegname. Il destino di questa persona è il destino storico di un uomo del suo tempo.
Non si tratta dell'evento eterno di un mito, ma di una storia che non si ripete; non di una
idea, di una cifra, ma di un racconto; non di un gioco culturale, ma della serietà della
storia; non di una metafisica, ma di un evento. D'altra parte, rifiutare il mito di Gesù
non significa per questo chiudere gli occhi su un processo di riflessione e di presa di
coscienza progressive da parte della chiesa. Sappiamo infatti che la rilettura
dell'evento-Gesù e della sua esistenza terrena, a partire dalla risurrezione, ha messo
in moto tutto un processo di interpretazione inscritto nel tessuto stesso dei nostri vangeli.
Tra Gesù e il testo attuale ci sono quindi diversi strati e parecchie mediazioni che,
senza dubbio, arricchiscono la nostra conoscenza e la nostra comprensione di Gesù, ma al
tempo stesso aumentano la distanza ermeneutica che ci separa da lui. L'esegesi si applica a
scoprire e ad apprezzare proprio questa distanza e questo processo organico. Attraverso la
percezione del Cristo glorioso, è ancora possibile rintracciare la percezione di
Gesù di Nazareth?
Per tener conto delle ricerche sui vangeli effettuate da più di un secolo, la critica storica deve effettuare un certo numero di inevitabili verifiche:
a. L'apporto della critica esterna, anche se questo apporto è stato ridotto e “ridimensionato”.
b. Tra il gruppo di Gesù e dei suoi discepoli, prima di Pasqua, e la chiesa nascente del dopo Pasqua, una trasmissione fedele e attiva delle parole e dei gesti di Gesù, è cosa possibile, se non addirittura altamente probabile?
c. Possiamo stabilire che c'è stata, da parte della chiesa primitiva, preoccupazione di trasmissione fedele delle parole e dei gesti di Gesù? Si può individuare, nella chiesa nascente, una volontà di fedeltà continuata a Gesù?
d. Infine, è possibile stabilire la realtà, il fatto stesso di questa fedeltà a Gesù? E' il problema capitale dei criteri di autenticità storica.
Si tratta quindi di accertare che c'è stata possibilità di trasmissione fedele, preoccupazione e volontà di trasmissione fedele, realtà di trasmissione fedele. Se questi accertamenti vengono effettuati, la nostra fiducia nei vangeli è storicamente fondata.
La critica esterna prende in considerazione i vangeli “dal di fuori”, per rispondere a domande che riguardano l'autore, la data e il luogo di composizione, le fonti e l'integrità del testo. Nel caso dei vangeli, la critica, esterna si richiama agli scritti extraevangelici (Lettere di Paolo, Atti degli apostoli) e soprattutto alla testimonianza delle chiese post-apostoliche (II e III secolo) che parlano esplicitamente dei vangeli. Per lungo tempo la critica esterna ha goduto di una autorità quasi esclusiva e incontestata, mentre la critica interna era oggetto di sospetti e accusata di soggettivismo. Oggi le prospettive sono capovolte: i criteri interni sono alla ribalta della criteriologia, mentre la critica esterna è caduta in un discredito quasi totale. La verità sta probabilmente nel mezzo. Se la ricerca contemporanea ha dimostrato che la critica esterna, in ragione anche del carattere dei vangeli e della storia della loro formazione, non ha più assolutamente l'importanza che le si accordava, non è tuttavia dispensata dall'interrogarla. Anche se il suo contributo è minimo, essa ha ancora qualcosa da insegnarci: sugli autori dei vangeli, sull'autorità di questi nella chiesa di fronte alle tendenze deformatici degli apocrifi e degli scritti gnostici.
a. La nozione di autore – Fino al XIX secolo il problema si
pone in termini molto semplici. Si attribuisce il vangelo all'autore designato da una
tradizione che generalmente non risale oltre il II secolo. Questo autore, apostolo o discepolo
di apostolo, è un testimone di prima mano, gratificato inoltre dal carisma
dell'ispirazione. L'esegesi antica pone così i vangeli in una condizione privilegiata:
l'accesso alla realtà è diretto. Il lettore, quindi, può fare a meno della
critica interna.
In generale, si può dire che la tradizione ha tendenza a «individualizzare»
gli autori e a metterli in stretto rapporto con una autorità apostolica. I più
antichi testi che possediamo (Papia, il Canone di Muratori, i prologhi antimarcioniti, Ireneo
di Lione) considerano Marco e Luca autori in senso proprio. La critica contemporanea,
nel suo insieme, accetta questa testimonianza e ragiona cosi: se la tradizione del II secolo
avesse indicato falsamente Marco e Luca come evangelisti, avrebbe dovuto proporre piuttosto
(gratuità per gratuità, falsità per falsità) il nome di due
testimoni oculari, ossia due apostoli. Se le chiese del II secolo hanno mantenuto il nome di
Marco e Luca come autori, l'hanno fatto senza dubbio sotto la pressione dei fatti. Si nota
tuttavia che la tradizione ha tendenza ad accostare il più possibile Marco e Luca agli
apostoli per dare ai loro vangeli tutto il prestigio dell'autorità apostolica. E' il
caso di Papia, che presenta Marco non solo come compagno di Paolo - cosa che d'altra parte
sappiamo - ma anche come l'interprete, il portavoce di Pietro. Di più ancora, Clemente
d'Alessandria afferma che Marco scrisse il suo vangelo al tempo di Pietro. Ora, le
testimonianze precedenti di Ireneo di Lione, di Papia e dei prologhi antimarcioniti sostengono
il contrario. Abbiamo qui senza dubbio un inizio di leggenda e un esempio di quella tendenza a
rafforzare i rapporti tra apostoli ed evangelisti. Certamente, proponendo Marco come compagno
di Paolo e portavoce di Pietro, se ne fa un testimone privilegiato della vita di Gesù.
Quanto a Luca, la tradizione si limita a riconoscere in lui un compagno di Paolo. La tradizione
ha avuto ragione di proporre Marco e Luca come autori, tanto più che la critica interna
conferma la sua testimonianza. Essa ha tuttavia sopravvalutato la loro qualità di
“testimoni”. Marco è molto più un fedele “relatore” della
predicazione primitiva che un portavoce di Pietro.
La tradizione attribuisce il primo vangelo a Matteo e il quarto a Giovanni. Ma noi sappiamo
che il primo vangelo è un rimaneggiamento sostanziale dell'opera aramaica attribuita a
Matteo, con l'aggiunta di elementi provenienti da altre fonti, in particolare da Marco (in
maniera mediata o immediata). D'altra parte, sappiamo che il quarto vangelo, se ha la sua fonte
nella testimonianza di Giovanni, rappresenta anche l'influenza di una comunità dai
tratti specifici, in cui la tradizione giovannea è stata a lungo predicata e ha
raggiunto la sua maturazione.
Una cosa è certa, la chiesa antica ha tendenza a personalizzare gli autori dei vangeli
e a mettere questi sotto l'egida di un apostolo. Lì fa così beneficiare della
massima autorità. Questa nozione di autore, che ha prevalso fino al XIX secolo, comporta
una grande conseguenza. Se i nostri vangeli, infatti, hanno per autori dei testimoni oculari o
dei discepoli di testimoni oculari, ci mettono in presenza degli eventi e di Gesù
stesso. Tra Gesù e i vangeli la distanza è abolita, e la critica interna è
superflua.
b. La nozione di autore sottoposta alla critica - Questa
nozione di autore purtroppo non resiste ai dati della critica contemporanea. Se il primo e il
quarto vangelo fossero attribuibili direttamente a Matteo e a Giovanni, il carattere di
«testimonianza oculare» non mancherebbe di trasparire nella redazione in maniera
evidente e irrecusabile. Lo stesso vale per Marco e Luca. L'esegesi dubita anche che siano
testimoni di seconda mano, nel senso che avrebbero raccolto le deposizioni di testimoni oculari
(di Pietro per esempio) per consegnarle in seguito scritte. I loro testi non portano il marchio
di «ripresa diretta».
Non ne concludiamo tuttavia che la critica moderna sfoci soltanto in risultati negativi. Un
certo numero di dati antichi si trovano confermati, mentre altri, attraverso una nuova
spiegazione, sono compresi più chiaramente.
A proposito del primo vangelo, la critica riconosce che il suo autore, uno sconosciuto,
è un ebreo-cristiano, di lingua greca, molto profondamente iniziato nell'ambiente
ebraico e rabbinico, che ha conservato e utilizzato in sostanza l'opera aramaica attribuita a
Matteo. La critica riconosce anche che Luca è medico, compagno di Paolo (At 13-28). e
che è un cristiano venuto dal paganesimo. Si riconosce che Marco fu un compagno di Paolo
e che il suo vangelo ha influenzato l'opera di Luca e di Matteo canonico. Marco dipende molto
di più dalla tradizione primitiva, della quale è il fedele «relatore»
e «trasmettitore», che da Pietro. Al contrario, l'influenza di Paolo su Marco
è sempre più riconosciuta. La cristologia di Marco, in particolar modo, potrebbe
essere stata ispirata da Paolo e rappresenterebbe così una chiave per l'interpretazione
della cristologia dei sinottici. La personalità di Giovanni ha perduto la sua precisione
come autore immediato del quarto vangelo. In compenso, conosciamo meglio la storia della
redazione del quarto vangelo, come anche le qualità di scrittore e di teologo del suo
autore.
c. Nuovo profilo d'autore - In breve, la critica interna ci ha
rivelato che la nozione moderna di autore non potrebbe essere applicata in maniera univoca agli
autori dei nostri vangeli. I redattori si ricollegano agli avvenimenti del ministero di
Gesù attraverso una tradizione orale e scritta scaglionata in parecchi decenni. Va
quindi scartata l'idea di una redazione dei vangeli sulla base di testimonianze immediate,
provenienti da uomini che hanno partecipato agli avvenimenti, e subito consegnate dai nostri
autori. Tra Gesù e i testi attuali esistono parecchie mediazioni delle quali va
apprezzato il rispettivo contributo. Da questo fatto, Matteo e Giovanni hanno acquisito un
profilo d'autore definito dall'insieme delle tendenze e dei tratti caratteristici che soltanto
la critica interna ha permesso di scoprire. Con le dovute proporzioni, dobbiamo dire la stessa
cosa di Marco e Luca. Lo studio delle fonti orali e scritte utilizzate dai ricercatori ha
aperto la strada alla Quellenkritik e alla Formgeschichte (FG). Gli stessi
redattori non sono semplici relatori della tradizione: sono anche interpreti e teologi. Ognuno
di loro ha la sua prospettiva e il suo procedimento letterario. Lo studio di questa
attività redazionale ha dato vita alla Redaktionsgeschichte (RG).
Così, quello che gli evangelisti hanno perduto come individui, come autori personali,
lo hanno ricuperato come servitori della tradizione e come teologi. Questa scoperta del nuovo
profilo d'autore è stata imposta da un esame più attento delle testimonianze
antiche e soprattutto dall'esame del tessuto stesso dei vangeli. La critica interna ha
osservato, nei nostri testi attuali, divergenze e anche incoerenze che non potrebbero essere
attribuite a un testimone oculare, fosse anche di seconda mano. Per spiegarle, l'esegesi
è stata costretta a procedere in maniera diversa: è dovuta passare dalla critica
esterna alla critica interna, dalla critica d'autore al problema delle fonti e al problema
della loro formazione.
d. L'autorità dei vangeli - La critica esterna fornisce
un altro dato importante. Attraverso tutti i testi affiora una convinzione che si esprime con
forza, ossia l'autorità incontestata di cui godono i vangeli nella chiesa antica. Questa
autorità si manifesta in maniere diverse:
1. Nella conservazione fedele del testo stesso dei vangeli. Così la scoperta dei papiri
Bodmer (editi negli anni 1956-1958) dimostra che il vangelo di Giovanni, nella sua forma
attuale, era già in circolazione alla fine del II secolo.
2. Nel fatto che, fin dal II secolo, si legga durante alcune cerimonie liturgiche il testo dei
vangeli, e che questa lettura abbia la stessa importanza di quella dei profeti. Giustino scrive
a questo proposito: «Il giorno del sole (la domenica), si riuniscono tutti gli abitanti
della città e delle campagne, e si leggono le Memorie degli apostoli o gli scritti dei
profeti» (Apologia I, 67). In un altro brano, Giustino, che si rivolge a dei
pagani, precisa per loro che quelle «Memorie» si chiamano «Vangeli»
(Apologia I, 66).
3. Nel fatto che la chiesa, quando impegna la discussione con gli eretici, ricorre ai vangeli
come a un argomento decisivo. E il caso di lreneo di Lione quando si rivolge agli ebioniti, ai
marcioniti, ai doceti e ai valentiniani. Per giunta, osserva Ireneo, ognuna di queste sette,
quando rompe con la chiesa, conserva sempre un legame con uno dei quattro vangeli, almeno per
giustificare la sua posizione dottrinale. Così gli ebioniti, ebrei fanatici, si
appoggiano a Matteo; Marcione e i marcioniti, ostili agli ebrei, rifiutano l'AT, ma si
ricollegano a Luca. Cerinto e i suoi discepoli invocano la chiesa di Marco, mentre Valentino e
i suoi fondano le loro speculazioni sul vangelo di Giovanni. A modo loro, gli eretici
confermano quindi l'autorità dei vangeli.
4. Infine, tutte le testimonianze sono unanimi nel riconoscere che l'autorità dei
vangeli proviene dal fatto che, attraverso di essi, noi abbiamo accesso alla persona di Cristo.
Per questo motivo le chiese locali, benché diverse per la lingua, la mentalità,
la cultura, riconoscono i nostri quattro vangeli come norme di fede e di vita. E anche per
questo gli apocrifi sono respinti.
Queste testimonianze non si esprimono naturalmente in termini di scienza e non conoscono le
nostre esigenze critiche. Hanno perfino tendenza a esagerare il legame che collega i vangeli
agli apostoli. Un fatto resta, tuttavia: la convinzione molto ferma, unanime, spontanea, che
attraverso i vangeli noi conosciamo veramente Gesù e il suo messaggio, poiché i
vangeli contengono la predicazione degli apostoli su Gesù. Difficilmente si può
ricusare la portata di una tale testimonianza, anche se è acritica e ingenua nella sua
espressione, poiché proviene da generazioni molto vicine all'evento. E compito della
critica interna determinare il rapporto preciso esistente tra il messaggio di Gesù e il
testo attuale dei nostri vangeli. Ma la critica letteraria non potrà mai annullare la
convinzione massiva e incoercibile delle prime generazioni cristiane: attraverso i vangeli noi
raggiungiamo veramente Gesù di Nazareth: vita e messaggio.
Una volta completato il contributo della critica esterna, la critica
interna le dà il cambio.
La chiesa primitiva costituisce il punto. di congiunzione tra Gesù e gli evangelisti;
questi, a loro volta, assicurano la continuità tra la chiesa primitiva e noi. Ma se
c'è rottura, fin dall'origine, tra Gesù predicatore e il Cristo predicato, chi
può assicurarci che il kèrygma è ancora il vangelo di Gesù? La
prima verifica della critica interna consiste quindi nello stabilire il rapporto reale
esistente tra la comunità prepasquale, da una parte, e la comunità postpasquale
dall'altra. E possibile che, tra questi due gruppi, ci sia vera continuità, non solo di
tempo ma anche di «tradizione»?
In una dimostrazione che nessuno è riuscito a distruggere, H. Schürmann (La
Tradizione dei detti di Gesù, Brescia 1966) distingue, nella comunità
prepasquale, un doppio Sitz im Leben; uno esterno, formato dalle situazioni e dalle
attività visibili di questa comunità; l'altro, interno, formato dai rapporti
interpersonali che uniscono tra loro i membri di questa comunità, nella professione di
una stessa fede e degli stessi valori.
a. La comunità prepasquale - In un primo tempo,
Schürmann studia l'ambiente costituito dalla vita intima di Gesù e dei suoi
discepoli in una ricerca che usa le stesse tecniche della Scuola delle forme.
Anche in una prospettiva riduttiva, nessuno potrebbe negare che Gesù abbia predicato e
che abbia avuto dei discepoli. La tradizione, su questo punto, è inflessibile: a
più riprese, Gesù rivolge un appello a uomini che ha individuato e reclutato
perché siano suoi compagni. A questi uomini chiede di abbandonare tutto per unirsi a lui
e condividere il suo faticoso lavoro.
Questo gruppo di Gesù e dei suoi forma una comunità «a parte»,
distinta dall'ambiente generale, proprio perché i discepoli si sono messi al seguito del
maestro e hanno fede in lui. Questa comunità non è di tipo occasionale,
alimentata da incontri effimeri, ma presenta un carattere di stabilità. Tutta la
tradizione presenta un Gesù mai separato dai suoi discepoli. I discepoli condividono la
vita precaria di Gesù; sono sempre con lui e, di conseguenza, divengono i testimoni
della sua vita e del suo insegnamento.
Questa presenza stabile di «discepoli» intorno a Gesù non è un fatto
spontaneo o il frutto del caso: essa postula una causa. Questa causa, oltre all'appello di
Gesù, è la fede nella sua parola, proposta da lui come l'ultima parola di Dio
prima della fine dei tempi. Sul piano dell'azione, il suo prestigio è senza precedenti:
mai abbiamo visto niente di simile. Le attestazioni sull'impatto prodotto dall'apparizione di
Gesù sono di una storicità incontestata.
Questo è l'ambiente nel quale riecheggia l'insegnamento di Gesù. Degli uomini,
chiamati da lui, gli si sono stretti intorno e vivono in intimità con lui. Sono sedotti
da lui, affascinati dalla sua parola. Come concepire, allora, che abbiano lasciato che questa
si volatilizzasse o cadesse nell'oblio? La confidenza con un simile maestro ci autorizza
piuttosto a pensare che essi hanno conservato il tesoro della sua parola con un sovrano
rispetto e che hanno fatto di tutto per conservarlo inalterato.
Se ammettiamo la fede (nel senso di un attaccamento profondo) dei discepoli nella parola di
Gesù, siamo in possesso di un principio metodologico importante; cioè che la
parola di Gesù, in quanto tale, era ritenuta degna di essere conservata e trasmessa e,
di fatto, poteva esserlo. In ragione dell'intimità di vita di Gesù e dei suoi.
Per giunta, il fatto stesso che alcuni lóghia di Gesù ci siano stati
trasmessi, è già un segno di questa stima e di questo interesse. L'attaccamento a
Gesù spiega in particolare la conservazione di lóghia che potevano
difficilmente essere compresi mentre Gesù era in vita, perché deliberatamente
oscuri e profetici, completamente orientati verso l'avvenire. Pensiamo in particolare ai
lóghia che riguardano il destino tragico di Gesù. Creati dopo la Pasqua,
discorsi simili non avrebbero potuto conservare il loro carattere enigmatico. La fede dei
discepoli nella parola di Gesù spiega non solo la “possibilità” di
una tradizione, ma anche la fisionomia propria di questa tradizione. Che dei discepoli,
infatti, si radunino intorno a un maestro, o a un saggio, o a un capo, o a un profeta, o a una
figura messianica, non è assolutamente un fenomeno identico. La figura che diviene il
centro di attrazione di questa comunità determina subito il tipo di adesione alla
persona e la consistenza della tradizione che essa genera. Ora è chiaro che Gesù,
per i suoi discepoli, è stato più di un rabbi o di un saggio, e che la cerchia
dei suoi discepoli non potrebbe essere assimilata, senza niente di più, a quello dei
maestri d'Israele. La comunità prepasquale è molto più affine, piuttosto,
a quella dei profeti e dei loro discepoli. L'analogia va cercata in questa direzione. La parola
di Gesù, in effetti, riecheggia come la parola decisiva, che annuncia l'ora suprema
della venuta imminente del regno di Dio. E, d'altra parte, la personalità di Gesù
s'impone come quella di un profeta, anzi come quella del più grande tra i profeti.
Gesù si comporta come un radunatore di uomini, come il pastore che guida il suo
gregge.
Si capisce allora l'importanza, per i suoi discepoli, di conservare, ancor più della
forma letteraria, il messaggio stesso di Gesù nel suo contenuto originale. Il carattere
di urgenza e di unicità di questo messaggio rappresenta una garanzia di fedeltà
ben superiore a quella di tutte le tecniche rabbiniche, senza negare tuttavia che Gesù
abbia fatto ricorso ai mezzi mnemotecnici in uso in un'epoca di tradizione orale.
L'influenza del Sitz im Leben interno non rende superfluo lo studio del Sitz
Im Leben esterno. La comprensione della vita intima della comunità ci apre al senso
della sua attività esterna; e questa, a sua volta, ci rivela dei fattori che assicurano
al processo di tradizione una consistenza nuova. Due di questi fattori sono l'attività
missionaria dei discepoli e le esigenze della vita comunitaria prepasquale. Schürmann
sottolinea che Gesù ha predicato e proposto il suo messaggio con l'intenzione di fornire
ai suoi discepoli uno strumento adatto, in vista dell'attività missionaria che avrebbero
dovuto esercitare, non soltanto dopo Pasqua, ma anche mentre egli era in vita, in
qualità di ambasciatori e di predicatori del regno. Se, infatti, Gesù ha rivolto
un appello particolare a uomini che egli ha scelto come suoi compagni di vita, questo appello
significa, senza alcun dubbio, che essi parteciperanno alla sua missione religiosa. Una buona
parte dei lóghia che ci sono stati trasmessi deriva, sembra, da questa intenzione
di fornire ai discepoli uno strumento di evangelizzazione. A questo riguardo, la
missione degli apostoli prima di Pasqua rappresenta un Sitz im Leben
particolarmente importante per comprendere l'origine e il processo di trasmissione della
tradizione evangelica. Sembra infatti probabile che Gesù abbia dato alle sue parole una
«forza d'urto» particolare, proprio allo scopo di imprimerle nella memoria dei suoi
discepoli. Il fatto stesso di una o verosimilmente di parecchie «missioni» dei
discepoli prima di Pasqua, ci autorizza a pensare che Gesù abbia veramente avuto questa
preoccupazione. Se quindi Gesù si propone di affidare ai suoi discepoli una
«missione», fin da prima di Pasqua, egli deve prepararli, tanto più che si
tratta di uomini privi di cultura e di istruzione, o piuttosto di uomini che appartengono a un
ambiente di cultura orale, in cui si memorizza: i salmi, la legge, i profeti. In questo
contesto, l'unico mezzo, per Gesù, di evitare che il suo messaggio di salvezza e le sue
esigenze morali non si degradino e non si «analizzino», era di proporle in una
forma più o meno stereotipata. Matteo, Marco e Luca riferiscono che Gesù, dopo un
tempo notevole di ministero esercitato in mezzo ai suoi discepoli, manda questi in missione (Mc
6,7). Su questo punto, autori come Dibelius e Bornkamm sono d'accordo con gli esegeti cattolici
nel riconoscere che i discepoli hanno partecipato all'attività di Gesù,
già prima di Pasqua. L'intenzione di Gesù di mandare i suoi in missione è
attestata in Marco 3,14-15; 6,7, come anche nel discorso di missione, la cui parte centrale (Mt
l0,5b-6; Lc 10,8-12) rappresenta un punto nodale molto antico. Il contesto, il vocabolario, lo
stile di pensiero di questo discorso, riflettono infatti una situazione prepasquale. La
collaborazione dei discepoli all'attività di Gesù si esprime con il potere che
viene loro conferito, da una parte di predicare, e dall'altra di cacciare i demoni e di operare
guarigioni: due poteri e due attività ugualmente congiunte neI ministero di Gesù.
Al ritorno dalla loro missione, gli apostoli, riuniti intorno a Gesù, gli riferiscono
tutto quello che hanno fatto e tutto quello che hanno insegnato (Mc 6,30). Questa prima
predicazione dei discepoli ha come temi essenziali l'annuncio del regno (Mc 1,15; Mt 10,7) e
l'invito alla penitenza (Mc 6,12).
Un secondo fattore adatto a spiegare la formazione e la trasmissione di una tradizione
è il fatto innegabile di una vita in comune. Senza dubbio, il gruppo dei primi
discepoli non ha una regola ben definita, come la setta di Qumrân, ma ha norme di vita
destinate a rafforzare i legami tra i membri. I discepoli devono abbandonare beni, famiglia e
professione per unirsi a un predicatore itinerante e seguirlo ovunque. Questo radicalismo di
Gesù si spiega con il fatto che il suo appello è rivolto a uomini che debbono
dedicarsi completamente al regno. A questa esigenza di vita comunitaria e a questo radicalismo
si ricollegano i lóghia sulla vocazione e sulla sequela Jesu.
La ricerca di Schürmann ha così dimostrato che l'origine e la tradizione dei
lóghia di Gesù sono cominciate prima di Pasqua, nella cerchia stessa dei
discepoli di Gesù. L'iniziatore della tradizione è Gesù stesso, come
attestano lGv 1,lss; Lc 1,2; 1,21-22. Una vera continuità, non solo temporale e
sociologica, ma anche di tradizione , cioè di adesione, di attività e di
messaggio, è possibile e altamente probabile tra la comunità prepasquale e la
comunità postpasquale.
b. La comunità postpasquale - Dopo Pasqua, Gesù
è identificato meglio, compreso meglio. La sua autorità, lungi dal diminuire,
aumenta ancora. L'adesione alla sua parola guadagna in profondità. La predicazione del
regno continua, ma diviene più precisa. Tra la comunità prepasquale e la
comunità postpasquale non esiste rottura, ma continuità e approfondimento. La
discontinuità dei momenti non polverizza i ricordi e non infrange la continuità
del processo di tradizione e di fedeltà a Gesù. Pasqua non è una bomba
atomica che ha annientato tutto, ma una fiamma che ha illuminato tutto. Gli apostoli, testimoni
di Gesù, sono sempre presenti. La comunità prepasquale non vive in un vacuum,
isolata dai suoi fondatori e immersa nell'ignoranza. Gli Atti degli Apostoli, al contrario,
descrivono una comunità unita intorno a testimoni di Gesù, che sono anche i capi
di questa comunità, cioè gli apostoli, Pietro in testa. Questi ha l'iniziativa
dell'elezione di Mattia (At 1,15-26). Il giorno della Pentecoste, è il primo a prendere
la parola (At 2,14). Quando Pietro e Giovanni vengono arrestati, è Pietro a rivolgersi
al sinedrio (At 6,5-6). Gli apostoli mandano Pietro e Giacomo in Samaria a
“confermare” i battezzati (At 8,14-17). Gli apostoli protestano contro quelli che
gettano lo scompiglio senza aver ricevuto il mandato da parte loro (At 15,24). Gli apostoli
promulgano e diffondono il decreto di Gerusalemme (At 15,27-28). Di Pietro si diceva «che
andava a far visita a tutti» (At 9,32). Predica a Lidda, Giaffa e Cesarea. Dei cristiani,
al contrario, viene detto che «erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli
apostoli» (At 2,42). E quando questi devono scegliere tra due ministeri, si riservano
quello della parola (At 6,4).
Aggiungiamo che la comunità postpasquale non ha niente di una società anonima.
Al contrario, essa è perfettamente identificata in un buon numero dei suoi
personaggi di primo piano. Oltre agli apostoli, conosciuti da tutti, annovera parenti di
Gesù (Giacomo), discepoli come Mattia, Barnaba, Barsabba, Sila, Marco, Cleofa, Nicodemo,
Giuseppe d'Arimatea, alcuni diaconi (tra cui Stefano), Paolo, la madre di Gesù e il suo
ambiente circostante.
La comunità postpasquale non è quindi una società amorfa, senza una
struttura. Non è nella linea dei molluschi, ma dei vertebrati. In questa
comunità, quelli che hanno autorità per dirigerla sono proprio gli intimi e i
commensali di Gesù: i testimoni della sua vita e del suo ministero. Questo è
l'ambiente che.dà nutrimento alla tradizione evangelica: un ambiente di fedeltà a
Gesù.
Diversificandosi e allontanandosi dall'evento, la tradizione si è
evoluta e si è mantenuta sotto il segno della fedeltà a Gesù? E' la
seconda verifica che la critica storica deve effettuare.
Per effettuare questa verifica che verte sugli anni precedenti la redazione dei vangeli,
cercheremo di penetrare la mentalità che ispira la chiesa primitiva.
Si tratta, con una specie di psicoanalisi, di cogliere quali sono i riflessi spontanei, e per
così dire viscerali, della comunità primitiva nei confronti di Gesù e
della sua parola e, di conseguenza, la struttura psicologica e mentale di questa
comunità. Pensiamo che sia possibile intraprendere una simile ricerca attraverso le vie
della semantica, partendo dai vocaboli la cui frequenza è tale, nella chiesa
nascente, da riempire in un certo senso tutto l'orizzonte della coscienza cristiana
esprimendone l'orientamento profondo. Facciamo appello ai testi che descrivono direttamente
l'ambiente ecclesiale primitivo, in particolare le lettere di Paolo e gli Atti degli apostoli.
Il riferimento a Gesù, in questa letteratura, essendo meno diretto che nei vangeli,
è più significativo. Sappiamo infatti che una comunità, proprio come un
individuo, si tradisce con il suo linguaggio, nell'impiego di certi termini privilegiati.
Precisiamo che, per essere veramente rivelatori, questi vocaboli non solo devono raggiungere un
tasso elevato di ricorrenze, ma apparire in contesti importanti. Nel caso presente, si tratta
di sapere se la mentalità rivelata dal vocabolario di base delle lettere di Paolo e
degli Atti degli apostoli va nel senso della fedeltà a Gesù o della fabulazione
creatrice.
Se con lo studio di questi vocaboli privilegiati riusciamo a scoprire la mentalità
profonda della chiesa primitiva, siamo in possesso di un criterio importante per apprezzare la
qualità dell'ambiente ecclesiale nel quale si è formata e sviluppata la
tradizione evangelica. Avremo dimostrato che esiste continuità non solo da Gesù
alla chiesa, ma anche dalla chiesa a Gesù, perché l'atteggiamento della giovane
chiesa, negli anni in cui si forma la tradizione, resta radicalmente quello della
fedeltà.
Tra i vocaboli che manifestano l'atteggiamento della chiesa primitiva nei confronti di
Gesù, possiamo distinguere tre gruppi che disegnano intorno a Gesù tre zone
concentriche. Il primo, generico, ma molto antico, si ricollega all'idea di tradizione:
ricevere (paralambánein) e trasmettere (paradidômai). Il secondo
riguarda i collaboratori immediati di Gesù: testimone (mártys),
apostolo (apóstolos) e servizio (diakonía) della parola. Il terzo
riguarda l'attività più vasta che ingloba tutti i predicatori del vangelo:
insegnare (didáskein), proclamare (kerýssein), evangelizzare
(euagghelizesthai), Vangelo. Nell'esame di questi vocaboli, più che di perseguire
un'inchiesta semantica esaustiva, si tratta di comprendere come queste parole-chiave e questo
vocabolario di base della chiesa primitiva ci danno accesso alla coscienza e alla subcoscienza
cristiana nei confronti di Gesù.
a. La parádosis: ricevere e trasmettere nelle lettere di
Paolo - Le lettere di Paolo, che risalgono agli anni 50-60, cioè prima della
redazione dei vangeli, attestano tutta l'importanza di questa categoria nella coscienza
cristiana. Il sostantivo t radizione ritorna nel NT e indica il contenuto della
trasmissione. Il verbo trasmettere (paradidômai) ricorre 120 volte, con
significati diversi. In relazione con la tradizione, indica l'atto di trasmettere: istituzioni
(Mc 7,3.4.5.9) ricevute verbalmente, o un insegnamento (1 Cor 15,3) comunicato anch'esso da
altre persone.
Paolo è stato innanzitutto un fariseo e, come tale, un accanito osservatore della
tradizione consegnata nella Tôr âh scritta o orale (Gal 1,13-14). Egli ha poi
abbandonato queste tradizioni per adottare quella di Ges ù. Tuttavia, quando indica
questa nuova tradizione, conserva la terminologia che ha ricevuto dai giudaismo:
ricevere (paralambánein) e trasmettere (paradidômai). Tutto quello
che ha ricevuto deve trasmetterlo. Nella lettera ai Galati, lui, il più indipendente
degli apostoli, dichiara di aver sottomesso il suo vangelo alla chiesa di Gerusalemme per
confermarne l'autenticità: «per non trovarmi neI rischio di correre o di aver
corso invano» (Gal 2,1-6). Paolo stabilisce una stretta concordanza tra ricevere e
trasmettere, in particolare in due passi importanti che riguardano la risurrezione (1 Cor 15,3)
e l'ultima cena (1 Cor 11,23). L'identità tra il ricevuto e il trasmesso sottolinea la
fedeltà di Paolo nel compiere la sua missione. Il contenuto della tradizione nei testi
menzionati è costituito dai misteri essenziali della salvezza e dal loro senso profondo:
cena, passione, morte, risurrezione. L'autorità della parádosis viene dal fatto
che Paolo trasmette fedelmente quello che ha ricevuto come missione di trasmettere: “Noi
fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro” (2
Cor 5,20). In molti passi si ritrova lo stesso atteggiamento, se non gli stessi termini.
Così, invita i Tessalonicesi alla fedeltà: “Perciò, fratelli, state
saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso così dalla nostra parola come dalla
nostra lettera” (2Ts 2,15; 3,6). Ai Filippesi scrive: “Ciò che avete
imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare”. (Fil
4,9). Loda la fedeltà dei Colossesi: “Camminate dunque nel Signore Gesù
Cristo, come l'avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è
stato insegnato” (Col 2,6-7). Al contrario, biasima quelli che hanno abbandonato il
vangelo che lui ha predicato: “Se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che
avete ricevuto, sia anatema” (Gal 1,9). Abbandonare la tradizione del vangelo di Paolo
è come abbandonare il vangelo di Gesù. Non è affatto per caso che Paolo
riprende la terminologia della parádosis ebraica: significa che l'azione di ricevere e
di trasmettere, in ambiente cristiano, somiglia al modo di trasmissione in uso nel giudaismo.
La seconda lettera a Timoteo contiene un altro esempio dell'influenza ebraica e rabbinica sul
concetto paolino della parádosis. Ogni tradizione, che pretende di essere autentica,
deve citare la lista ininterrotta di quelli che l'hanno trasmessa. La lettera a Timoteo enumera
cinque anelli della tradizione: Cristo (2Tm 1,10), Paolo, apostolo e dottore (2Tm 1,11),
Timoteo, discepolo di Paolo (2Tm 1,6). poi i fedeli e gli altri uomini (2Tm 2,2). Enumerando
così i testimoni della tradizione, senza discontinuità, Paolo ne manifesta la
fedeltà e, di conseguenza, l'autorità. Se raggruppiamo i dati raccolti sulla
parádosis nelle lettere di Paolo, costatiamo che il termine indica a volte quei compendi
di fede cristiana che sono i primi “credo” (1Cor 15,3ss.). Paolo ha ricevuto queste
formule come il nocciolo del suo vangelo: lui le trasmette come le ha ricevute, dimostrando
così di essere il servitore della parola. Nel concetto ebraico e rabbinico, la categoria
del paralambánein-paradidômai implica un atteggiamento di fedeltà nei
confronti di ciò che è ricevuto e trasmesso. Non si tratta di creare, di
innovare, di trasformare, ma di trasmettere. Il termine rivela una mentalità e un
ambiente dominati dalla preoccupazione di conservare la parola ricevuta, quasi fosse un
deposito, un'eredità. L'autenticità della tradizione è assicurata dalla
catena qualificata dei “trasmettitori”, che va da Cristo agli apostoli, dagli
apostoli ai loro discepoli, e da questi ai fedeli. Va sottolineato che la tradizione di Paolo,
come quella di Gesù (At 1,1), è costituita da gesti, da esempi come anche da
istruzioni (Fil 4,9). Una comunità che vive così sotto il segno della
parádosis, vive sotto il segno della fedeltà, e non dell'innovazione avventurosa.
La scuola di Uppsala, con H. Riesenfeld e B.Gerhardsson, ha studiato i modi di trasmissione
degli ambienti ebraici e rabbinici. Due principi ispirano la pedagogia rabbinica: memorizzare e
conservare inalterato il testo memorizzato, con l'aiuto di tecniche che troviamo tutte nei
nostri vangeli: uso di riassunti o sommari, sequenze ritmate, parallelismi, antitesi,
parole-chiave, inclusioni. Dopo la morte di Gesù, gli apostoli sono rimasti a
Gerusalemme quindici o venti anni, cioè durante il periodo di formazione della
tradizione evangelica. In questo ambiente di cultura orale, dominato dalla presenza e
dall'influenza dei Dodici, si è fissata la tradizione su Gesù. I
lóghia di Gesù sono stati riuniti seguendo tipi diversi di raggruppamenti.
Il più delle volte li sì è uniti intorno a un argomento (parabole del
regno, consigli ai missionari, racconti di miracoli) o semplicemente con l'impiego dei mezzi
mnemotecnici in uso in un ambiente di cultura orale. I lóghia di Gesù
hanno circolato di bocca in bocca, secondo una pedagogia della quale Gesù stesso
è stato l'iniziatore. La tradizione cristiana, comunque, ha un tratto specifico:
possiede un dinamismo di fedeltà a Gesù, ma al tempo stesso un dinamismo di
attualizzazione e di approfondimento legato al fatto che i lóghia di Gesù
devono chiarire problemi di vita sempre nuovi. La chiesa, infatti, ha ricevuto la parola di
Gesù, non come un tesoro inerte, ma come una parola viva, capace di chiarire situazioni
inedite. L'azione di questo dinamismo è visibile e controllabile, in particolare nelle
parabole, dove il messaggio è conservato, ma al tempo stesso attualizzato secondo le
nuove condizioni della chiesa. Questo doppio dinamismo di fedeltà e di attualizzazione
è già inscritto nell'atteggiamento e nella mentalità della chiesa
primitiva.
b. Testimone, apostolo, servizio della Parola
1. Testimoniare e testimone appartengono prima di tutto alla terminologia degli
Atti e alla teologia di Luca. Il titolo di «testimone» indica essenzialmente gli
apostoli. Come i profeti, essi sono stati scelti da Dio (At 1,26; 10,41). Hanno visto e udito
Cristo (At 4,20; 1 Gv 1,1-3), hanno vissuto in intimità con lui e, di conseguenza, hanno
un'esperienza diretta della sua persona, del suo insegnamento, delle sue opere. Hanno mangiato
e bevuto con lui, prima e dopo la sua risurrezione (At 10,41). Gli altri possono predicare; in
senso stretto, soltanto gli apostoli possono testimoniare. Hanno ricevuto da Cristo la missione
di testimoniare (At 10,41). Nella testimonianza apostolica descritta dagli Atti, esiste una
unione indissolubile tra l'evento storico e la sua portata religiosa. Lo stesso vale nel
kêrigma di Paolo. Per lui, Gesù, perseguitato, crocifisso, morto, risorto,
è Cristo. Così, lungi dal negare o dal ridurre la realtà storica,
la testimonianza apostolica la riafferma e la conferma, per scoprirne la dimensione interiore.
Non conferisce la storicità a un evento non accaduto, ma scopre la portata salvifica di
ciò che è avvenuto. La categoria della testimonianza esprime non soltanto
riferimento a Gesù, ma volontà di riferimento a Gesù. Se Gesù non
ha compiuto le opere che ha fatto, la testimonianza apostolica non vale più e il vangelo
non esiste più.
2. Benché il termine apostolo non abbia un significato assolutamente univoco,
ricorre in tutti gli scritti del NT, ad eccezione della seconda lettera ai Tessalonicesi, della
lettera di Giacomo e delle lettere di Giovanni. Nelle lettere di Paolo, apostolo
è un termine privilegiato. Paolo è un ambasciatore dì Cristo, incaricato
da lui, per rappresentarlo come suo delegato. In Luca, la nozione di apostolo è
strettamente legata a quella di testimone. Gli apostoli sono non solo gli ambasciatori
dì Cristo, ma soprattutto uomini che assumono funzioni riservate ai Dodici, in
particolare quelle di testimoni qualificati della vita e della risurrezione di Cristo.
L'essenziale è che, nel linguaggio e nella mentalità della chiesa primitiva,
l'apostolo, che sia rappresentato come ambasciatore e rappresentante di Cristo (concetto di
Paolo), o come testimone della vita di Gesù (concetto di Luca), mantenga un rapporto di
fedeltà nei confronti di colui che lo delega per rappresentarlo, e di cui e
testimone.
3. In Paolo, diákonos non è un termine tecnico. E' stato dapprima
applicato a tutti i missionari itineranti, compresi gli apostoli (Rm 16,1; 1Cor 3,5; 2 Cor 3,6;
Ef 3,7; Col 1,23-25), poi ha designato i collaboratori degli apostoli, di Paolo in particolare.
come Crescenzio, Tito, Luca e Marco che si spostano con lui a seconda delle esigenze
dell'evangelizzazione (2Tm). Nella lettera ai Colossesi, Paolo si presenta come
diákonos del vangelo, diákonos della chiesa per realizzare la
parola di Dio (Col 1,25). In quanto servitore del vangelo, l'apostolo è
diákonos di Cristo (2Col 11,23); ancora di più doúlos,
schiavo di Cristo (Tt 1,1; Rm 1,1), termine che esprime con forma ancora maggiore la sua
appartenenza a Cristo. Negli Atti degli apostoli, il più elevato dei servizi cristiani,
cioè la proclamazione della buona notizia della salvezza in Gesù Cristo, è
indicato dal “servizio della parola” (At 6,4). Questa diakonía toú
lógou identifica con quella che Luca chiama la didachê degli apostoli (At 2,42).
Negli apostoli, questo servizio della parola, concretamente s'identifica con la testimonianza
che essi devono rendere a Gesù (At 1,1). Nel prologo del suo vangelo, Luca dichiara che
i “testimoni oculari” sono divenuti i “servitori della parola” (Lc
1,2). Questa parola è riconosciuta non solo come parola su Dio, ma come parola di Dio
allo stesso titolo della parola dell'AT. Lo stesso atteggiamento di rispetto e di servizio
dovuto alla Tôr âh, diventa, nel NT, rispetto della parola di Ges ù, che
riguarda Gesù. La tradizione di Gesù è tradizione su Gesù. Ecco
perché Paolo si definisce sia diákonos del vangelo, sia
diákonos ser di Cristo (2 Col 11,23). Un simile atteggiamento, naturalmente,
è l'espressione di una fedeltà.
c. Insegnare, predicare, evangelizzare - Questi termini, che
appartengono al vocabolario dell'evangelizzazione, non sono riservati soltanto agli apostoli;
qualificano anche i loro collaboratori nella diffusione della buona notizia. Questi, secondo
gli Atti, diffondono la testimonianza degli apostoli con la loro predicazione o
kêrigma.
Se questi termini si sovrappongono nell'attività concreta degli apostoli, resta che
testimoniare è un'attività propriamente apostolica, mentre annunciare,
proclamare, predicare mettono l'accento sul carattere dinamico, pubblico di questa
testimonianza e si applicano sia agli altri predicatori sia agli apostoli (At 15,35; 18,25):
Paolo, Barnaba, Sila, Filippo, Timoteo. Nel senso di proclamare, si trova anche
evangelizzare. Così Pietro e Giovanni «evangelizzano» molti villaggi
samaritani (At 8,25). Paolo e Barnaba «evangelizzano» la città di Derbe (At
14,21). Evangelizzare e insegnare sono spesso uniti. Paolo e Barnaba, ad
Antiochia, «insegnano e annunciano la Buona Notizia» (At 15,35; 5,42; 18,25;
28,31).
Quello che gli apostoli annunciano, predicano, proclamano, insegnano, è ciò che
gli uditori sono invitati ad ascoltare e a ricevere, è «il lieto annuncio che
Gesù è il Cristo» (At 5 42), «la buona notizia di Gesù»
(At 8,35), «la buona notizia del Signore Gesù» (At 11,20), «ciò
che si riferiva a Gesù» (At 18,25), «le cose riguardanti il Signore
Gesù Cristo» (At 28,31). Il termine comune a tutti questi testi, e l'elemento
unificante, è Gesù, identificato come Cristo e Signore.
In alcuni testi, Paolo riassume in una parola l'essenziale della sua missione. «Noi
infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Signore» (2 Cor 4,5). Allo stesso modo, la
vita nuova è in Cristo: «se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati
istruiti, secondo la verità che è in Gesù» (Ef 4,21).
Correlativamente, la fede che risponde a questa predicazione, è «la fede in
Gesù» (Rm 3,26), quella che confessa che «Gesù è il
Signore» (Rm 10,9; 1Co 12,3).
L'oggetto della predicazione di Paolo, come della testimonianza degli apostoli e di tutti
quelli che evangelizzano, insegnano, è sempre Gesù di Nazareth, pienamente
identificato dalla sua risurrezione, come Cristo, Signore e figlio di Dio.
Benché le esigenze del Dizionario impediscano dì spingere oltre questa indagine,
essa autorizza tuttavia una conclusione. Una comunità, i cui atteggiamenti fondamentali
sono quelli della missione, della testimonianza, della tradizione, del servizio, è
completamente diversa da una comunità che si volge ad ogni vento, senza asse e senza
punti di riferimento, inconsapevole del proprio passato e noncurante del proprio avvenire. Un
gruppo umano, il cui volere esplicito è di trasmettere integralmente ciò che ha
ricevuto, di attestare quello che ha visto ed udito, dì.agire come rappresentante e
delegato di colui che lo ha incaricato, e di privilegiare questo servizio rispetto a tutti gli
altri, questo gruppo vive decisamente sotto il segno della fedeltà. L'anima della chiesa
primitiva è stata come forgiata e plasmata da questi vocaboli di base. Eliminarli o
ridurli sarebbe come privare una lingua del suo vocabolario fondamentale. Enumerarli, significa
descrivere le reazioni primarie, gli atteggiamenti essenziali della chiesa primitiva: significa
definire il suo linguaggio e la sua mentalità. Quello che qui interessa è che
questo vocabolario di base, nel suo uso originale, miri soltanto ad una cosa, manifesti
soltanto un'intenzione: Gesù e la fedeltà a Gesù. Se
è così, abbiamo il diritto di affermare che esiste, nell'ambiente ecclesiale
primitivo, non solo continuità di tradizione tra Gesù e la chiesa (come ha
stabilito H. Schürmann), ma anche preoccupazione e volontà di fedeltà
continuata e mantenuta della chiesa a Gesù. Per completare la dimostrazione,
rimane da verificare il fatto, la realtà di questa fedeltà
ricorrendo ai criteri di autenticità storica.
Per stabilire infatti l'autenticità storica del contenuto dei
vangeli, non basta dimostrare che, fin dalle origini, è esistita la possibilità
di trasmissione attiva e fedele delle parole e delle azioni di Gesù: ancora di
più, che c'è stata durante la formazione della tradizione fino alla trasposizione
per iscritto di questa tradizione, preoccupazione e volontà mantenuta di fedeltà
a Gesù; va anche stabilito che questa fedeltà appartiene all'ordine dei
fatti e che è verificabile; in altre parole, che gli scritti e la realtà
corrispondono. Quest'ultima verifica si effettua facendo appello ai criteri di
autenticità storica,. poiché la critica letteraria a questo punto cede il passo
alla critica storica. La critica letteraria, infatti, anche se raggiunge le forme più
antiche della tradizione, grazie alle tecniche messe a punto dalla FG e dalla RG, non è
autorizzata, in quanto tale, a pronunciarsi sulla storicità di un racconto o di un
lóghion.
Lo studio dei criteri di storicità, applicato ai vangeli, è un'impresa recente
che risale a Käsemann, nel 1954. Da allora, l'interesse per i problemi di criteriologia
non ha smesso, di aumentare. A partire dal 1964, cominciano i primi saggi di sistematizzazione:
ci si sforza di definire, di raggruppare, addirittura di gerarchizzare i criteri. A questa fase
della ricerca appartengono i lavori di H.K. McArthur, N. Perrin, I. de la Potterie, L.Cerfaux,
M. Lehmann, J. Jeremias, R.S. Barbour, D.G.A. Calvert, J. Caba, N. J. McEleney, D.
Lührmann, E. Schillebeeckx, R. Latourelle, F. Lambiasi, F. Lentzen-Deis.
a. Indizi, criteri e prova - Prima di passare allo studio dei
criteri propriamente detti, è necessario fare un certo numero di distinzioni:
1. Distinguiamo innanzitutto indizi e criteri. Un indizio può portare ad
una verosimiglianza, ad una probabilità, ma non ad un giudizio certo di
autenticità storica. Cosi, il fatto che gli evangelisti abbiano conservato un certo
numero di dettagli assolutamente «neutri», cioè non tradendo alcuna
intenzione teologica visibile (per esempio: Gesù che dorme su un cuscino durante
la tempesta; Mc 4,38), costituisce un indizio favorevole, ma non un criterio in senso proprio.
Allo stesso modo, il colorito e la vivacità di certi racconti in Marco, non potrebbero
meritare il nome di criterio. Simili fatti possono certo manifestare la fedeltà della
tradizione all'evento reale, ma possono anche dipendere dall'attività redazionale. La
stessa cosa va detta per «l'impressione di verità» che i vangeli producono.
E ben conosciuta la riserva, e anche la diffidenza degli storici nei confronti di questo tipo
di argomenti.
2. E' necessario anche non confondere l'arcaicità delle forme con
l'autenticità storica del loro contenuto. La FG può arrivare a scoprire le
forme più primitive della tradizione, ma si situa ancora nei limiti della critica
letteraria. Più esatto e più valido è l'approccio della RG che si applica
a scoprire gli elementi attribuibili all'evangelista. Quando l'esegesi, infatti, è
arrivata a scoprire, in un lóghion o in un racconto, gli elementi propri
dell'evangelista o della chiesa primitiva, e quando sì trova dì fronte alla forma
più antica, noi possiamo presumere di avere un serio indizio di storicità,
perché abbiamo ridotto al massimo le mediazioni che ci separano da Gesù.
Procedere in questo modo, significa praticamente risalire fino al Sitz im Leben Jesu.
Tuttavia, a rigor di termini, non si tratta ancora di critica storica, ma di critica
letteraria. Rimane da dimostrare la realtà storica che sottende il lóghion o il
racconto. E' allora che intervengono i criteri propriamente detti di autenticità
storica. Tuttavia, i risultati della critica letteraria, in certi casi, sono così
potenti, così impegnativi che si avvicinano al criterio di storicità. È la
prova che la frontiera tra indizio e criterio, tra critica letteraria e critica storica,
è a volte difficile da stabilire e il passaggio dall'uno all'altro è
impercettibile.
3. Infine, si deve evitare di confondere criterio e prova. I criteri sono
norme che, applicate al materiale evangelico, permettono di provare la consistenza
storica dei racconti e di dare un giudizio sull'autenticità o l'inautenticità del
loro contenuto. La loro applicazione convergente permette di stabilire la prova o la
dimostrazione di autenticità storica.
b. Criteri primari o fondamentali - Per criteri
fondamentali, intendiamo criteri che hanno un valore proprio, intrinseco, e di
conseguenza autorizzano un giudizio certo di autenticità storica. Non diciamo che questi
criteri devono essere impiegati in maniera esclusiva, ma che possiedono un valore intrinseco
sufficiente per condurre a risultati certi e fruttuosi. Questi criteri, conosciuti dalla storia
universale, e riconosciuti dalla maggior parte degli esegeti, sono i seguenti: criterio di
attestazione molteplice, criterio di discontinuità, criterio di continuità,
criterio di spiegazione necessaria o di ragione sufficiente.
1. Criterio di attestazione molteplice. Viene enunciato così: «Si
può considerare autentico un dato evangelico solidamente attestato in tutte le fonti (o
nella maggior parte) dei vangeli»: Marco, fonte di Matteo e di Luca; la Quelle,
fonte di Luca e di Matteo; le fonti speciali di Matteo e di Luca ed, eventualmente, di Marco;
gli altri scritti del NT, in particolare gli Atti, il vangelo di Giovanni, le lettere di Paolo,
di Pietro, di Giovanni, la lettera agli Ebrei. Il criterio ha maggior peso se il fatto è
reperibile in forme letterarie diverse, attestate anch'esse in fonti molteplici. Così,
il tema della simpatia e della misericordia di Gesù nei confronti dei peccatori, appare
in tutte le fonti dei vangeli e nelle forme letterarie più diverse: parabole (Lc
15,11-32), controversie (Mt 21,28-32), racconti di miracoli (Mc 2,1-2), racconto di vocazioni
(Mc 2,13-17). Questo criterio è di uso corrente nella storia universale. Una
testimonianza concordante, proveniente da fonti diverse e non sospette di essere
intenzionalmente collegate tra loro, merita di essere riconosciuta da tutti. Al limite, la
critica storica dirà: testis unus, testis nullus. La certezza poggia sulla
convergenza e sull'indipendenza delle fonti.
La difficoltà maggiore che lo storico incontra nell'applicazione di questo criterio ai
vangeli, riguarda naturalmente 1'indipendenza delle fonti. In quale misura questa indipendenza
può essere garantita, dal momento che dietro le fonti scritte c'è la
tradizione orale nel corso della quale il materiale studiato ha potuto essere introdotto
nelle diverse fonti, in ragione del ruolo che aveva nella chiesa primitiva? Questa
difficoltà non andrebbe né sottovalutata né minimizzata. Per questo le
condizioni di validità di questo criterio hanno bisogno di essere definite.
E' vero che la tradizione orale e la chiesa primitiva sono la fonte comune da cui ha preso
vita la tradizione evangelica nelle sue diverse formulazioni scritte. Quest'affermazione,
tuttavia, deve essere sfumata e spiegata. Osserviamo innanzitutto che fonte unica non
deve essere confusa con attestazione unica. Una fonte può rappresentare un numero
virtualmente elevato di testimoni: è il caso di 1Cor 15,3-9 che attesta la risurrezione
e le apparizioni di Gesù. Ma quello che interessa maggiormente, nel caso dei vangeli,
è la qualità dell'ambiente ecclesiale. Per questo la seconda verifica critica
della nostra dimostrazione aveva per oggetto proprio lo studio di questo ambiente. Da questa
verifica risulta che l'atteggiamento fondamentale della chiesa primitiva nei confronti di
Gesù è quello della fedeltà. Sappiamo anche che le chiese del II secolo
sono convinte di ricevere veramente dai vangeli l'accesso a Gesù, al punto che i vangeli
costituiscono una norma di fede e di vita fino all'impegno del martirio. Conosciamo anche le
leggi della trasmissione orale nel giudaismo dell'epoca. Sappiamo inoltre che la
diversità ed il regionalismo delle comunità ecclesiali (diversità di
lingua di mentalità, di cultura) rappresentano un fattore di indipendenza che fa da
contrappeso al pericolo di uniformità. Attraverso la storia della redazione possiamo
infine verificare il grado di fedeltà della tradizione scritta in rapporto alla
tradizione orale. La fedeltà della prima ci permette di pronunciarci ragionevolmente
sulla fedeltà della seconda.
Su questo sfondo di fedeltà nella libertà, e di unità nella
diversità, possiamo dare fiducia al criterio di attestazione molteplice e ritenerlo un
criterio fondamentale, soprattutto quando si tratta di riconoscere i tratti essenziali della
figura, della predicazione e dell'attività di Gesù: per esempio la sua presa di
posizione nei confronti della legge, dei poveri, dei peccatori; la sua resistenza al
messianismo regale e politico; la sua attività di taumaturgo e la sua predicazione con
parabole. Quando si tratta di lóghia o di fatti particolari, il criterio dovrà
generalmente essere chiarito da altri criteri. Può accadere, infatti, che del materiale
evangelico sia stato introdotto prima della formazione delle fonti. Così, Mc 8,34, sulla
necessità. per il discepolo di Gesù, di portare la sua croce, si spiega meglio
nel contesto della predicazione postpasquale che in quello della predicazione di Gesù.
Tuttavia, la conformità di questo lóghion con l'insieme del messaggio di
Gesù sulla necessità di morire a se stessi per entrare nel regno, come anche con
l'esempio della sua vita e della sua morte, permette di stabilire che esso rappresenta un'
interpretazione fedele di Gesù. In altri casi il criterio basta da solo a fondare un
giudizio di autenticità. Così, il fatto della morte di Gesù per la
salvezza degli uomini è attestato in tutte le fonti e si diffonde su tutte le pericopi.
In breve, possiamo concludere che il criterio di attestazione molteplice è valido, e
riconosciuto come tale, quando si tratta di stabilire tratti essenziali della figura, della
predicazione e dell'attività di Gesù. Quando si tratta di pericopi particolari,
il criterio è valido quando è sostenuto da altri criteri o quando non esiste
alcun motivo serio di mettere in dubbio l'autenticità del materiale attestato.
2. Il criterio di discontinuità . Il consenso su questo criterio è
praticamente unanime. Viene formulato cosi: «Si può considerare autentico un dato
evangelico (soprattutto quando si tratta delle parole e degli atteggiamenti di Gesù)
irriducibile sia ai concetti del giudaismo sia ai concetti della chiesa primitiva».
Prima di prendere in considerazione il caso dei racconti particolari, si può dire che i
vangeli, nel loro insieme, si presentano come un caso di discontinuità, nel senso che
costituiscono qualcosa di unico e dì originale in rapporto ad ogni altra letteratura. Il
genere letterario «vangelo» è in discontinuità con la letteratura
giudaica antica come anche con la letteratura cristiana successiva. I vangeli non sono
né biografie, né apologie, né speculazioni dottrinali, ma
testimonianze sull'evento unico della venuta di Dio nella storia. Il loro contenuto
è la persona di Cristo, che non è classificata né secondo le categorie
della storia profana, né secondo quelle della storia delle religioni. Gesù si
scopre allo storico come un essere assolutamente unico. Gli esempi di questa
discontinuità, al livello delle pericopi, sono innumerevoli e riguardano sia la forma
sia il contenuto. Jeremias ha studiato con particolare attenzione i casi di
discontinuità che riguardano la forma. Così, nell'uso molto frequente che
egli fa del parallelismo antitetico, Gesù, a differenza dell'AT, mette l'accento sulla
seconda parte del parallelismo, più che sul primo (Mt 7,3-5). Allo stesso modo, a
differenza dell'AT che si serve dell'espressione Amen per esprimere un assenso ad una
parola già detta, Gesù ricorre all'espressione Amen (in verità, nei
sinottici) o Amen, Amen (in S.Giovanni, seguita da: «Io vi dico», «Io
ve lo dico») per introdurre le sue stesse parole. Analogo a quello dei profeti, questo
modo di parlare manifesta l'autorità unica di colui che dice anche: «io
sono». La discontinuità è ancora più significativa a livello degli
atteggiamenti e del contenuto. Così, l'espressione Abba, usata da Gesù per
rivolgersi a Dio, dimostra un'intimità di rapporto che è qualcosa di inaudito
rispetto al giudaismo antico. Solo Gesù ha il potere di rivolgersi a Dio come ad un
padre, e soltanto lui può autorizzare i suoi a ripetere con lui: «Padre
nostro». Di fronte alla legge, Gesù non ha l'atteggiamento dei farisei ostinati
sui dettagli dell'osservanza esteriore; la sua attenzione verte immediatamente sullo spirito
della legge. Il suo atteggiamento, per esempio, nei confronti del sabato e delle purificazioni
legali, rappresenta un caso di rottura con il mondo rabbinico. Allo stesso modo, la sua visione
del Regno differisce radicalmente da quella dell'ebreo medio. Quest'immagine unisce la
grandezza del regno davidico all'umiltà della predicazione ai poveri, e la
glorificazione finale del figlio dell'uomo alla sofferenza redentrice del Servo di Jhwh.
Vediamo adesso alcuni casi di discontinuità con i concetti della chiesa primitiva:
- Il battesimo di Gesù lo annovera tra i peccatori: la chiesa primitiva, che proclama
Gesù «Signore», come ha potuto inventare una scena in contrasto così
violento con la sua fede? Lo stesso va detto della triplice tentazione, dell'agonia, della
morte in croce.
- L'ordine dato agli apostoli di non predicare ai Samaritani ed ai Gentili non corrisponde
più alla situazione di una chiesa che si apre a tutte le nazioni.
- Tutti i passi del vangelo in cui, malgrado la venerazione della chiesa primitiva per gli
apostoli, si sottolinea la loro incomprensione, i loro difetti e perfino la loro defezione
(tradimento di Giuda, rinnegamento di Pietro), contrastano con la situazione postpasquale.
- I vangeli hanno conservato gli enigmi del linguaggio di Gesù, mentre la chiesa, ormai
in grado di comprenderli, poteva essere tentata di eliminarli (Mt 11,11-12; Mc 9,31; 14,58; Lc
13,32; Mc 4,11).
- Il mantenimento, da parte dei vangeli, di espressioni come «regno»,
«figlio dell'uomo», rappresenta una situazione già anacronistica rispetto
alla teologia più elaborata di Paolo. Per la maggior parte degli autori, questo criterio
fondamentale è valido, ma deve essere usato in collegamento con altri, in particolare
con il criterio di conformità. Un uso troppo esclusivo di questo criterio tenderebbe a
scartare come inautentico tutto ciò che si situasse nella linea del giudaismo o della
chiesa primitiva. Ragionare così significherebbe fare di Cristo un essere atemporale,
tagliato fuori dal suo ambiente e dalla sua epoca. Significherebbe porlo in un vacuum,
senza influenza ricevuta dal giudaismo, e senza influenza esercitata sulla chiesa; oppure,
significherebbe accettare il presupposto che la chiesa non fa che deformare o inventare tutto
quanto riguarda Gesù. La verità è che Cristo è del suo tempo e che
ha dovuto assumere l'ambiente e la storia del suo popolo, con le sue tradizioni linguistiche,
sociali e religiose. D'altra parte, gli Atti ci mostrano come la chiesa sia rimasta
legata al giudaismo e con quale fatica essa sia riuscita a liberarsene per non sprofondare con
esso. Il criterio di discontinuità è particolarmente valido per conoscere ed
identificare certe parole di Gesù, certi avvenimenti della sua esistenza, certi temi
essenziali della sua predicazione. Ma sarebbe illegittimo, sulla base di questo unico criterio,
eliminare tutto quello che è conforme alla tradizione giudaica o alla tradizione
ecclesiale.
3. Il criterio di conformità. Questo criterio non è inteso da tutti allo
stesso modo. Così, B. Rigaux (RB 68, 1958, 518-520) sottolinea spesso la
conformità dei racconti evangelici con l'ambiente palestinese ed ebraico del tempo di
Gesù, come noi lo conosciamo attraverso la storia, l'archeologia, la letteratura. Di
fatto, la descrizione evangelica dell'ambiente umano (lavoro, abitazione, mestieri),
dell'ambiente linguistico e culturale (schemi di pensiero, substrato aramaico), dell'ambiente
sociale, economico, politico e giuridico, dell'ambiente religioso soprattutto (con le sue
rivalità tra farisei e sadducei, le sue preoccupazioni religiose riguardanti il puro e
l'impuro, la legge ed il sabato, i demoni e gli angeli, i poveri e i ricchi, il regno di Dio e
la fine dei tempi) è notevolmente fedele all'immagine complessa della Palestina
ai tempi di Gesù. Questa conformità con il momento unico rappresentato
dall'apparizione di Gesù in Israele, costituisce, agli occhi di Rigaux, un segno
indubitabile di autenticità. Non si potrebbe infatti inventare di sana pianta un insieme
di dati così importanti e così complessi, che i vangeli presentano fin nelle loro
minime particolarità, come un tessuto dalla trama stretta: la ragione sufficiente di
questa fedeltà è nella realtà stessa. Bultmann e Perrin considerano
autentico soltanto il materiale riconosciuto conforme al materiale ottenuto con il
criterio della discontinuità. In altri termini, una volta ottenuto, tramite il criterio
di discontinuità il nucleo autentico delle parole e dei gesti dì Gesù (in
particolare la sua morte in croce e la sua predicazione sul regno), tutto ciò che
è conforme a questi elementi e all'immagine che ne deriva, appartiene al Gesù
della storia. Così, l'applicazione di questo criterio consente di riconoscere come
autentiche le parabole del regno.
Ampliando e approfondendo questo criterio, de la Potterie riconosce come autentico tutto
ciò che è conforme all'insegnamento centrale di Gesù sulla venuta
imminente del regno. Il tema del regno di Dio appartiene infatti agli strati più antichi
della tradizione evangelica. E inoltre attestato dal criterio di discontinuità:
onnipresente nei sinottici, esso ha una risonanza di urgenza escatologica che lo distingue sia
dal giudaismo antico sia dalla predicazione primitiva della chiesa.
La conformità con l'ambiente. come l'intende Rigaux, ci sembra un argomento valido per
stabilire la storicità globale dei vangeli. Infatti, quando racconti così
notevoli riflettono un ambiente in maniera così fedele, si può dire che
c'è una solida presunzione di autenticità. Tanto più che la descrizione
evangelica deriva da fonti e non tradisce il minimo sforzo di ricostituzione post
factum. Notiamo tuttavia che una simile conformità non porta direttamente al
Gesù storico, ma all'ambiente in cui egli ha vissuto. Da sola, essa non potrebbe
bastare.
Per questo proponiamo, del criterio di conformità, la definizione seguente, che ingloba
le posizioni di Rigaux, Perrin e de la Potterie: «Si può considerare come
autentico un detto o un gesto di Gesù che è non solo in stretta conformità
con l'epoca e l'ambiente di Gesù (ambiente linguistico, geografico, sociale, politico,
religioso), ma anche e soprattutto intimamente coerente con l'insegnamento essenziale, il
centro del messaggio di Gesù, cioè la venuta e l'instaurazione del regno
messianico». A questo riguardo, sono esempi tipici: le parabole, tutte centrate sul regno
e sulle condizioni del suo sviluppo; le beatitudini, originariamente proclamazione della buona
notizia della venuta del regno messianico; il Padre Nostro, primitivamente ed essenzialmente
preghiera per l'instaurazione del regno; i miracoli, intimamente legati al tema del regno di
Dio e al tema della conversione; la triplice tentazione, conforme al contesto della vita di
Gesù e al suo concetto del regno: richiesta insistente di un prodigio, da parte degli
ebrei, e rifiuto costante di Gesù; attesa di un messia politico e temporale, da parte
degli ebrei, e predicazione di un regno interiore, da parte di Gesù; contrapposizione
del regno di Dio e del regno di Satana.
I due criteri di discontinuità e di conformità si distinguono e si completano al
tempo stesso. E la conformità con l'ambiente che consente di situare Gesù nella
storia e di concludere che egli è veramente del suo tempo, mentre il criterio di
discontinuità rivela Gesù come un fenomeno unico ed originale. Egli si distacca
dal suo tempo e al tempo stesso vi si ricollega. E ancora il criterio di discontinuità
che consente di stabilire i tratti essenziali della sua personalità e del suo
insegnamento. Su questa base ancora limitata, ma salda, il criterio di conformità
allarga, amplifica, come cerchi concentrici, le zone di autenticità. Il tema del regno,
per esempio, si riflette sulle parabole, sulle beatitudini, sui miracoli, sulla triplice
tentazione, sul Padre Nostro. Infine, è con l'uso dei due criteri che noi riusciamo a
stabilire ciò che più avanti chiameremo lo stile di Gesù. Bisogna
guardarsi, nella pratica, dall'isolare i due criteri come degli assoluti. Validi in sé,
essi sono destinati a chiarirsi reciprocamente, a prestarsi un mutuo appoggio.
4. Il criterio di spiegazione necessaria. Ne proponiamo la formula seguente: «Se,
di fronte ad un insieme notevole di fatti o di dati, che esigono una spiegazione coerente e
sufficiente, si offre una spiegazione che chiarisce e raggruppa armoniosamente tutti questi
elementi (che, altrimenti, resterebbero degli enigmi), possiamo concludere di essere in
presenza di un dato autentico (fatto, gesto, atteggiamento, parola di Gesù)».
Questo criterio mette in moto un insieme di osservazioni che agiscono per via di convergenza e
la cui totalità esige una soluzione intelligibile, cioè la realtà di un
fatto iniziale . Questo criterio viene usato abitualmente in storia, in materia di
diritto e nella maggior parte delle scienze umane.
Nel caso dei vangeli, ha ragione la critica di ritenere come autentica una spiegazione che
risolve un grande numero di problemi senza farne nascere di più grandi, o senza farne
nascere nessuno.
Così, molti fatti della vita di Gesù (per esempio, il suo atteggiamento nei
confronti delle prescrizioni legali, delle autorità ebraiche, delle Scritture; le
prerogative che egli si attribuisce; il linguaggio che usa; il prestigio che possiede e il
fascino che esercita sui discepoli e sul popolo) hanno un senso solo se noi ammettiamo
all'origine l'esistenza di una personalità unica e trascendente. Una tale spiegazione
è più consistente di quella del ricorso ad una chiesa creatrice del mito
Gesù.
Nel caso dei miracoli, ci troviamo di fronte a una decina di fatti importanti che la critica
più severa non può ricusare, e che richiedono una spiegazione sufficiente:
l'esaltazione di fronte all'apparizione di Gesù, la fede degli apostoli nella sua
messianicità, il posto dei miracoli nella tradizione sinottica e giovannea, l'odio dei
sommi sacerdoti e dei farisei a causa dei prodigi operati da Gesù, il legame costante
tra i miracoli e il messaggio di Gesù sulla venuta decisiva del regno, il posto dei
miracoli nel kêrygma primitivo, il rapporto intimo tra le pretese di Gesù come
figlio del Padre e i miracoli come segno della sua potenza. Tutti questi fatti esigono una
spiegazione, una ragione sufficiente.
Anche se il campo d'azione privilegiato del criterio di spiegazione necessaria è quello
dei temi maggiori del vangelo, sottolineiamo che esso si applica altrettanto bene alle pericopi
particolari. Così, a proposito della moltiplicazione dei pani, si deve spiegare
perché, in seguito all'avvenimento, Gesù è stato considerato un grande
profeta, addirittura il profeta atteso dalla nazione, e si è voluto farlo re; si deve
spiegare la pericolosa esplosione di messianismo politico che l'atto di Gesù
provocò; si deve spiegare perché Gesù costrinse i discepoli a rimbarcarsi
subito, come se essi rifiutassero di abbandonare una cosa alla quale tenevano esageratamente;
bisogna spiegare che l'episodio, dapprima non compreso fu tuttavia per i discepoli un fatto
decisivo nel loro cammino verso la fede nella messianicità di Gesù; si deve
spiegare perché Marco ha messo così fortemente in luce la portata cristologica
dell'avvenimento e il suo valore di rivelazione messianica; si deve spiegare il fatto, unico
nel suo genere, dell'importanza che il racconto assunse nelle tappe successive della
tradizione, prima nella catechesi liturgica, poi nella composizione dei sinottici e del vangelo
di Giovanni, e infine nella tradizione patristica e nell'iconografia dei primi secoli. Tutti
questi fatti messi insieme esigono una spiegazione che sia vera e valida. Se si ammette che
Gesù ha veramente compiuto quel gesto messianico della moltiplicazione dei pani, si
trova in questo fatto iniziale il fondamento e la ragione sufficiente di tutti i fatti che
abbiamo menzionato.
c. Un criterio secondo o derivato: lo stile di Gesù –
Per stile non intendiamo qui tanto lo stile letterario ma lo stile vitale, personale di
Gesù. Lo stile è il modo di pensare che modella il linguaggio; è lo
slancio, il movimento dell'essere che si inscrive non solo nel linguaggio, ma negli
atteggiamenti e nel comportamento globale. E' quell'impronta inimitabile della persona su tutto
ciò che essa fa e dice. Le componenti di questo stile, tuttavia, potrebbero essere
stabilite solo a partire dai criteri fondamentali di attestazione molteplice, di
discontinuità, di conformità e di spiegazione necessaria. Per questo parliamo di
stile secondo o derivato. Una volta riconosciuto e definito, lo stile diventa a sua volta
criterio di autenticità.
A proposito del linguaggio di Gesù, Schürmann fa notare che esso è
caratterizzato da una coscienza di sé di una maestà singolare, senza confronto;
da una nota di solennità, di elevazione, di sacralità; da un accento al tempo
stesso di autorità, di semplicità, di bontà, di urgenza escatologica.
Gesù inaugura nella sua persona un'era nuova.
Nel suo comportamento, osserva Trilling, si può notare «un amore sempre uguale
per i peccatori, pietà per tutti quelli che soffrono o sono oppressi, una durezza
impietosa verso ogni forma di sufficienza, una santa collera contro la menzogna e l'ipocrisia.
E soprattutto. un riferimento radicale a Dio, Signore e Padre» (Jésus devant
l'histoire. Paris 1968, 59).
Questi tratti si ritrovano sia nell'agire sia nell'insegnamento di Gesù. C'è,
nelle sue parole, un accento di semplicità, di dolcezza e al tempo stesso di
autorità sovrana. Così, lo stesso Gesù che si proclama il servitore di
tutti, il buon pastore, l'amico dei poveri e dei piccoli, è anche quello che dichiara:
«Io sono venuto... Io, io vi dico... In verità, vi dico... Chi costruisce sulla
mia parola... Va'... vieni... seguimi... alzati, cammina». La sua parola ha un accento di
urgenza escatologica: «Finora vi è stato detto... Ormai... Il cielo e la terra
passeranno, le mie parole non passeranno».
La sua azione manifesta gli stessi tratti di semplicità e di autorità, e
soprattutto di bontà, di compassione, verso i peccatori e tutti quelli che soffrono.
Così, la parabola di Luca sul figliol prodigo descrive l'incomparabile bontà di
Dio verso i peccatori, ma giustifica al tempo stesso l'atteggiamento personale di Gesù
che frequenta pubblicani e peccatori, e mangia alla loro mensa. Lo stesso atteggiamento si
ritrova nella parabola della pecorella smarrita. Essa appartiene allo stile di
Gesù. Lo stile dei miracoli è identico a quello dell'insegnamento: è fatto
di semplicità. di sobrietà e di autorità.
d. Criteri misti - A volte un indizio letterario entra in
composizione con uno o parecchi criteri storici. Si tratta allora di un criterio misto.
Proponiamo due forme particolarmente importanti di questo criterio.
1. Intelligibilità interna del racconto. Quando un dato evangelico è
perfettamente inserito nel suo contesto immediato o mediato, e, per di più,
perfettamente coerente nella sua struttura interna, si può ritenere che si tratti di un
dato autentico. Da sola, tuttavia, questa constatazione dell'intelligibilità interna di
un racconto o di un insieme di pericopi, non potrebbe costituire un criterio di
autenticità storica: siamo ancora nei limiti dell'indizio letterario. Per essere valido
sul piano storico, il fatto dell'intelligibilità interna deve essere sostenuto da uno o
da parecchi criteri: attestazione molteplice, discontinuità, conformità.
L'insieme costituisce un criterio misto.
Così, il fatto della sepoltura di Gesù è attestato nei sinottici, in
Giovanni, nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 15,3), negli Atti. Inoltre, nel racconto di
Marco troviamo un insieme di precisazioni tutte coerenti tra loro. Pilato si meraviglia che
Gesù sia già morto; per questo fa andare il centurione responsabile e lo
interroga. La richiesta di seppellire Gesù è fatta da un membro del sinedrio il
cui nome è Giuseppe di Arimatea: un fatto verificabile da tutti. Ci si affretta a
seppellire Gesù, perché è la vigilia del sabato. Le donne, spaventate, si
limitano a guardare. Si depone il corpo di Gesù in una tomba situata vicino al Calvario.
E una tomba è una cosa che rimane e la cui esistenza può essere controllata.
Tutti questi tratti, molteplici e coerenti, costituiscono un indizio letterario che, con il
criterio di attestazione molteplice, ha valore di criterio misto.
2. Interpretazione diversa, accordo di fondo. Dì per sé,
l'interpretazione diversa di un insegnamento o di un miracolo è un fenomeno di
competenza dell'attività redazionale. Testimonia al tempo stesso la libertà dello
scrittore e il rispetto delle sue fonti. Ci riporta ad una tradizione più antica e, di
conseguenza, riduce le mediazioni che ci separano da Gesù, come anche le
possibilità di deformazione, ma non costituisce tuttavia un criterio di
storicità. Così, il fatto che Luca abbia sottolineato la portata sociale delle
beatitudini, mentre Matteo ne ha mostrato la portata morale, permette a J.Dupont di
ricostituire la probabile forma letteraria primitiva delle beatitudini nella tradizione orale.
Ma è con l'applicazione dei criteri di discontinuità e di conformità che
si passa dalla critica letteraria alla critica storica: eccoci di nuovo in presenza di un
criterio misto. L'accordo di fondo, malgrado la diversità delle interpretazioni,
costituisce tuttavia una forte presunzione di autenticità storica. A proposito della
moltiplicazione dei pani, Giovanni sottolinea più di Marco il simbolismo sacramentale
del miracolo. Marco, a sua volta, sottolinea più di Luca la portata cristologica del
miracolo e presenta Cristo come il buon pastore che ha pietà delle pecorelle (Mc 6,34)
senza pastore. Il vangelo di Giovanni contiene molti dettagli che gli sono propri: il luogo e
l'epoca del miracolo, il dialogo con i discepoli, l'identificazione di Gesù come profeta
messianico da parte del popolo, il tentativo di rapirlo e farlo re, il discorso sul pane di
vita, la divisione tra i discepoli di fronte alle esigenze di Gesù (Gv 6 ). Si
tratta sempre dello stesso fatto, ma interpretato e approfondito. Questo indizio letterario
è sostenuto dal criterio dell'attestazione molteplice, perché il fatto è
attestato dalla tradizione sinottica e dalla tradizione giovannea; dal criterio di
conformità, perché si presenta come un segno del regno messianico ed
escatologico; infine, dal criterio di spiegazione necessaria, perché senza la
realtà dell'avvenimento, molti fatti rimangono senza ragione sufficiente.
La guarigione del bambino epilettico è attestata dai tre sinottici, ma interpretata in
tre maniere diverse. Luca vede nel miracolo un gesto di bontà verso il padre
desolato (Lc 9,42); Marco, conformemente alla prospettiva generale del suo vangelo, ci
vede innanzitutto una vittoria clamorosa di Gesù su Satana (Mc 9,14-17); Matteo
infine sottolinea la necessità della fede nella missione di Gesù (Mt 17,19);
proprio perché questa necessità è mancata, i discepoli non hanno potuto
liberare l'indemoniato. C'è accordo sul fatto, ma diversità d'interpretazione.
Queste interpretazioni derivano dalla ricchezza dell'avvenimento, di un'intelligibilità
indefinita.
S'impone una conclusione: la prova o dimostrazione di autenticità storica dei vangeli
si basa sull'uso convergente dei criteri. Anche se, in un caso particolare, un criterio
non trova applicazione (per esempio, l'attestazione molteplice), nella maggior parte degli
episodi esiste convergenza di parecchi criteri; al minimo, un criterio, manifestamente valido,
si trova confermato da uno o da parecchi altri. Ancora di più, quando si tratta dei temi
principali del vangelo, c'è applicazione di tutti i criteri.
Lo studio dei dati della critica esterna; lo studio dell'ambiente prepasquale, della sua composizione e coesione, della sua fedeltà a Gesù, in un'intimità quotidiana in un ambiente di cultura orale; la fedeltà a Gesù voluta, mantenuta nella chiesa primitiva che si esprime con un vocabolario di base nato sotto il segno della fedeltà; l'uso dei criteri di storicità: tutte queste vie d'approccio e tutti questi argomenti convergenti, ci consentono di arrivare a conclusioni sulla conoscenza di Gesù. Pur adottando la posizione della critica moderata, a mezza strada tra una fiducia di principio e il sospetto di principio, noi arriviamo a risultati straordinari. La critica storica permette di ripercorrere la quasi totalità del materiale evangelico e di giungere ad una conoscenza di Gesù che fonda una cristologia e una ecclesiologia ben solide. La nostra conoscenza riguarda:
a. L'ambiente linguistico, umano, sociale, politico, economico, culturale, giuridico e religioso;
b. le grandi linee del ministero di Gesù: gli inizi in Galilea, l'esaltazione del popolo e degli apostoli di fronte ai prodigi compiuti, l'incomprensione progressiva a mano a mano che si rivela il messianismo di Gesù, il ministero a Gerusalemme; il processo politico e religioso, la condanna; la passione e la morte;
c. i grandi avvenimenti della vita di Gesù: il battesimo, la trasfigurazione, l'insegnamento sulla venuta decisiva del regno, l'invito alla penitenza ed alla conversione, le parabole del regno, le beatitudini, il Padre Nostro, i miracoli e gli esorcismi come segni del regno, il tradimento di Giuda, l'agonia, il processo, la crocifissione, la sepoltura, la risurrezione;
d. le controversie con gli scribi e i farisei sulle prescrizioni riguardanti il sabato, la purezza legale, il divorzio, le imposte;
e. l'atteggiamento contrastato di semplicità e di autorità, di purezza assoluta e di compassione per i peccatori, i poveri, i malati, gli oppressi, l'atteggiamento di servizio, fino al dono della vita;
f. le formule di una cristologia oscura, a volte enigmatica: segno di Giona, segno del tempio, figlio dell'uomo;
g. i lóghia che abbassano Gesù e lo costituiscono inferiore a Dio;
h. il rifiuto di un messianismo politico e temporale, la predicazione di un regno al quale si accede attraverso la penitenza, la conversione e la fede;
i. le pretese straordinarie manifestate nelle antitesi del discorso della montagna, negli atteggiamenti nei confronti delle prescrizioni della legge, nell'uso del termine Abba per definire il suo rapporto con Dio, nella sua assimilazione al «figlio dell'uomo» danielico e nelle dichiarazioni che lo avrebbero portato alla morte;
l. la vocazione e la missione degli apostoli in vista di un progetto comunitario; la loro esaltazione, poi la loro incomprensione, il loro tradimento ed il loro abbandono.
Su ognuno dei temi enumerati possiamo invocare la testimonianza dei
più grandi tra una folla di esegeti. A mano a mano che le ricerche continuano, il
materiale riconosciuto come autentico aumenta incessantemente fino a ricoprire l'intero
vangelo. Dopo le tappe della dimostrazione che abbiamo seguito, non possiamo più dire,
come Bultmann: «Di Gesù di Nazareth non si sa niente, o quasi niente».
Un'affermazione simile non regge più. Rappresenta un mito superato.
C'è di più: tutto l'atteggiamento nei confronti dei vangeli deve essere
modificato. Per quasi un secolo, si è mantenuto, nei confronti dei vangeli, un
pregiudizio sistematico di sospetto, poiché il peso della prova ricadeva sempre sui
vangeli. Dopo gli studi degli ultimi decenni, non si può più sostenere questo
atteggiamento dei maestri del sospetto, perché gli argomenti stessi della storia sono
contro di esso. Bisogna invertire le posizioni e dire: il peso della prova ricade, non su
quelli che riconoscono Gesù all'origine delle parole e delle azioni conservate nei
vangeli, ma su quelli che le considerano creazioni della chiesa primitiva. Il presupposto che i
vangeli meritino fiducia è fondato, mentre il pregiudizio che i vangeli non siano degni
di fiducia non lo è. Questo capovolgimento delle posizioni non significa che la critica
sia tornata ad un atteggiamento di fiducia ingenua e acritica. Noi costatiamo soltanto che i
vangeli hanno ritrovato credito agli occhi della critica storica.
Deve essere chiaro che il nostro sforzo per raggiungere Gesù attraverso la ricerca storica non è un ritorno sottile alle prospettive della Leben-Jesu-Forschung. Pensare così significherebbe non aver capito niente del nostro progetto. Non si tratta di assoggettare la fede alla ricerca storica. Non si tratta di ridurre Cristo all'uomo Gesù per proporlo in seguito come ideale religioso dell'umanità. Non si tratta nemmeno di abbandonare le interpreta zioni cristologiche del kêrygma e dei concili per conservare soltanto un Gesù immunizzato contro ogni interpretazione successiva. Si tratta piuttosto di accedere a Gesù di Nazareth, che è stato identificato come Cristo e Signore, proprio sulla base di ciò che egli ha detto e fatto veramente durante il suo passaggio terreno tra noi. Una indagine storica e critica non determina naturalmente la fede, ma rende a questa immensi servizi. Essa può fornire alla fede un contenuto concreto. Può mostrare che un accesso all'autentico Gesù e al suo autentico messaggio è un'impresa possibile e realizzabile. Può mostrare che l'interpretazione ecclesiale di Gesù è coerente con la vita e con il messaggio storico di Gesù. Contributo importante perché in Gesù c'è conformità tra dire e agire. In definitiva, la fede si riferisce a Gesù di Nazareth, nel quale Dio si è manifestato. La ricerca storica può dunque stabilire che l'appello alla decisione di fede appartiene al messaggio originale di Gesù. Può anche, illuminandoci su questo messaggio, disporci nei suoi confronti e manifestarcene la credibilità. Non può tuttavia imporre la decisione di fede, né costringerci a riconoscere, in colui che parla, il figlio del Dio vivente. La ricerca storica non impone la fede, ma la rende possibile: dà accesso all'autentico vangelo dell'autentico Gesù. Ci rimane ancora da lasciarci interpellare da Cristo e abbandonarci allo Spirito che parla all'interno e ci fa cogliere come parola viva, a noi personalmente indirizzata, il vivo messaggio di Gesù. Al credente, la ricerca storica rende anche un prezioso servizio. Stabilisce innanzitutto che la fiducia plurisecolare della chiesa verso i vangeli, come fonte di conoscenza di Gesù, si basa su argomenti solidi, che resistono allo choc della critica. Gli insegna anche a leggere correttamente i vangeli. Non si tratta, infatti, di fronte ai vangeli di chiedere loro semplicemente che cosa ci dicono oggi, quanto piuttosto di chiedere loro quale senso ha per noi oggi, quello che Gesù, letto e compreso dalla chiesa e dall'evangelista, ha detto e fatto ieri. Altrimenti il vangelo rischia di essere una semplice dottrina, addirittura un'ideologia, distaccata dal suo autore, un messaggio senza messaggero. Rischio supremo, nel caso presente, perché il messaggio qui ha per oggetto lo stesso messaggero.
Questa piccola appendice è il risultato di un nostro adattamento, ai fini della presentazione on-line di questo articolo, di alcune voci del Dizionario della scienza biblica di Flor Serrano Gonzalo e Alonso Schoekel Luis, LEV, Città del Vaticano, 2002.
L'Areopago
Formgeschichte (tedesco, abbreviazione usuale, FG; in italiano
“storia dei generi letterari”)
Metodo esegetico che studia l'origine e l'evoluzione di un genere letterario. Si applica
specialmente al NT.
Lòghion (greco, in italiano “detto”; plurale
“lòghia, “detti”)
Benché si applichi a ogni specie di sentenze isolate e brevi, in un senso più
preciso e tecnico si riferisce alle massime di carattere parenetico sapienzale di
Gesù.
Redaktionsgeschichte (tedesco, abbreviazione usuale, RG; in italiano
“storia della redazione”)
Metodo esegetico che studia il processo di composizione di un libro fino al suo stato
definitivo, a partire dagli elementi minimi e originali.
Per molti autori si identifica con l'analisi della composizione. Per altri studierebbe
piuttosto il processo che porta allo stadio della redazione finale.
Sitz-im-Leben (espressione idiomatica tedesca, in italiano:
“situazione vitale”)
Termine coniato da Gunkel, che si riferisce alle circostanze socio-religiose tipiche nelle
quali ha origine e si adopera un genere letterario.
Per altri articoli e studi sul Gesù storico presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici