N.B. Il presente articolo è tratto da La Civiltà cattolica 1997 II 16-29. Lo presentiamo perché permette, in una sintesi precisa, di conoscere e comprendere i principali nodi teologici del rapporto odierno fra cattolici ed anglicani. Lo mettiamo a disposizione on-line, grazie all'autorizzazione accordataci gentilmente dal direttore della Civiltà cattolica GianPaolo Salvini S.I.
L'Areopago
Dal 3 al 6 dicembre dello scorso anno si è svolta la visita ufficiale dell'arcivescovo di Canterbury, primate della Comunione anglicana, Sua Grazia il dott. George Carey, al Papa Giovanni Paolo II: il 50° successore della sede di Canterbury è il quinto che visita il Santo Padre. Prima di lui era venuto a Roma il dott. Geoffrey Fisher, primo arcivescovo di Canterbury dai tempi della Riforma a visitare privatamente un Papa, nella persona di Giovanni XXIII. Dopo di lui vennero il dott. Michael Ramsey (1966) e il dott. Donald Coggan (1977) che si incontrarono con Papa Paolo VI, e il dott. Robert Runcie che s'incontrò ufficialmente con Papa Giovanni Paolo II nel 1982 e nel 1989. L'attuale arcivescovo di Canterbury incontrò per la prima volta e brevemente il Santo Padre durante una visita in Italia nel maggio 1992.
Vari fattori hanno reso il contesto di questa visita ecumenica differente da quella precedente del 1989. Il dialogo tra anglicani e cattolici sta attraversando una fase critica. Ciò è emerso nell'omelia pronunciata dal Santo Padre durante la celebrazione dei Vespri solenni nella chiesa dei Santi Andrea e Gregorio al Celio. “Trent'anni fa, la Chiesa Cattolica e la Comunione Anglicana, mossi dallo Spirito Santo, si misero in cammino con decisione lungo la via che avrebbe condotto alla restaurazione dell'unità. E' un viaggio che si sta rivelando più difficile di quanto ci si aspettava all'inizio. Con tristezza, siamo confrontati con disaccordi che sono sorti al momento in cui siamo entrati in cammino, incluso il disaccordo per quanto riguarda l'estensione dell'ordinazione sacerdotale alle donne” [1] . E' evidente in questo brano dell'omelia la sorpresa di chi pensava di rimuovere e non di aggiungere difficoltà nel dialogo. Possiamo riassumere in breve le varie fasi del dialogo tra anglicani e cattolici.
Nel 1966 Paolo VI e il dott. Michael Ramsey istituirono una Commissione internazionale composta di
anglicani e romano-cattolici (ARCIC) con il compito di realizzare tra le due Chiese la perfetta comunione di fede e
di vita sacramentale. Nella Dichiarazione comune, tuttavia, si parla dell'esistenza di “seri ostacoli”
sulla via della restaurazione della comunione completa di fede e di vita sacramentale. Questi ostacoli erano da
individuarsi in gran parte nella questione della validità degli Ordini anglicani, dichiarati del tutto
invalidi e nulli da Papa Leone XIII nella Bolla Apostolicae curae (1896). Ancora di difficoltà e di
nuovi ostacoli parla Paolo VI nelle due lettere inviate al dott. Donald Coggan il 30 novembre 1975 e il 23 marzo
1976. Si tratta della questione dell'ordinazione delle donne, che sempre più si stava diffondendo nella Chiesa
anglicana. Il 15 ottobre 1976 la Congregazione per la Dottrina della Fede rispose a questa nuova situazione con la
dichiarazione Inter insigniores. A motivo della promulgazione di questo documento da parte della Congregazione
romana, la Commissione Internazionale anglicana-romano cattolica dovette chiarire alcuni punti del documento che
già aveva pubblicato su ministero e ordinazione. “Per quanto sostanziali siano le obiezioni sollevate
contro l'ordinazione delle donne, esse sono di natura diversa rispetto a quelle che in passato sono state sollevate
contro la validità degli Ordini anglicani in generale” [2]
. Con tale chiarimento la Commissione distingueva tra la “natura” e la “persona” del
ministero ordinato, mostrandosi fiduciosa nel poter raggiungere sul ministero un accordo che potesse rimettere in
questione l'invalidità degli Ordini anglicani. “[La Commissione] ritiene che il nostro accordo sui punti
essenziali della fede eucaristica, riguardanti la presenza sacramentale di Cristo e la dimensione sacrificale
dell'Eucaristia, come anche la natura e la finalità del sacerdozio, dell'ordinazione e della successione
apostolica, rappresenti il nuovo contesto in cui questi problemi dovrebbero attualmente essere dibattuti. Questo
richiede una considerazione nuova del responso dato in merito agli Ordini anglicani nell'Apostolicae curae
(1896)” [3] .
In una lettera del 13 luglio 1985 inviata ai due co-presidenti dell'ARCIC II, i vescovi Mark Santer (anglicano) e
Cormac Murphy-O'Connor (cattolico), l'allora presidente del Segretariato per l'Unità dei Cristiani, card.
Willebrands, si mostrava favorevole a riesaminare la nativa indoles ac spiritus, nella quale doveva essere
valutato l'Ordinale anglicano. Pur riconfermando la decisione di continuare a conferire in maniera assoluta
l'ordinazione sacerdotale a un ministro anglicano che entra nella Chiesa cattolica, il Cardinale riconosce che il
contesto che è stato alla base del giudizio di Papa Leone XIII è mutato, per cui attraverso un riesame
dell'Ordinale si potrebbe giungere a una valutazione nuova del carattere insufficiente dei riti anglicani per quanto
riguarda le ordinazioni future. Ciò significa che il testo dell'Ordinale non conserva più quella
nativa indoles che stava alla base del giudizio di Papa Leone XIII.
Bisogna tener presente che questo giudizio del card. Willebrands è stato formulato ben sapendo che per Paolo
VI e per Giovanni Paolo II l'ordinazione delle donne costituiva un nuovo ostacolo sulla via del riconoscimento dei
ministeri. Sembra tuttavia che il Cardinale facesse suo il giudizio della Commissione internazionale, la quale aveva
distinto l'origine e la natura del ministero ordinato, su cui si fonda l'accordo dottrinale, e il problema circa chi
può e chi non può essere ordinato. Meno di un anno dopo, il 17 giugno 1986, in una lettera inviata
all'Arcivescovo di Canterbury, il card. Willebrands precisò tuttavia che “la questione di chi può
o non può essere ordinato non può essere separata dal suo contesto appropriato di teologia ed
ecclesiologia sacramentale. La pratica di ordinare solamente uomini al sacerdozio è un aspetto integrale ed
essenziale della realtà della Chiesa” [4] . Questa nota di
precisazione da parte del Segretariato per L'unità dei Cristiani anticipa di alcuni anni la risposta che la
Congregazione per la Dottrina della Fede e il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani
diedero al Rapporto finale. In questo documento la Santa Sede ribadisce che “la questione di chi possa ricevere
l'ordinazione è legata alla natura del sacramento dell'Ordine. Le differenze su questo legame devono quindi
interessare l'accordo raggiunto su Ministero e ordinazione” [5] . Per la tradizione cattolica sussiste uno stretto legame tra “natura” e
“persona” del ministero ordinato; questo nesso essenziale non è riconosciuto, invece, nell'ambito
della dottrina anglicana sul ministero. Secondo l'arcivescovo di Canterbury, dott. George Carey, l'estensione alle
donne del ministero ordinato non muta affatto il concetto tradizionale di ministero.
Nelle Chiarificazioni su certi aspetti delle dichiarazioni concordate su Eucaristia e ministero redatte dall'ARCIC
II e inviate al Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani si risponde all'autorevole
presa di posizione vaticana affermando che l'oggetto del dialogo sul ministero era l'origine e la natura del
ministero ordinato, non la questione di chi possa o meno essere ordinato e che tale questione tocca invece
“problemi profondi di ecclesiologia e autorità in relazione alla tradizione” [6] . Di fatto, i membri della Commissione internazionale non si aspettavano che con
l'estensione alle donne del ministero ordinato venisse posto in così grave pericolo l'accordo faticosamente
raggiunto negli anni precedenti, al punto che la Santa Sede debba dichiarare che far accedere le donne al sacerdozio
significa alterare la dottrina dell'Ordine.
Con la lettera dell'11 marzo 1994, il neo-presidente del Pontificio Consiglio, card. E.Cassidy, rassicura la
Commissione che l'accordo su Eucaristia e ministero raggiunto dall'ARCIC I “non sembra richiedere alcun
ulteriore studio”, benché rimanesse irrisolta la valutazione da dare al nesso tra natura e persona del
ministero ordinato [7] . La lettera di Cassidy giungeva alla
Commissione dopo che il Sinodo Generale della Chiesa d'Inghilterra aveva approvato, il 4 novembre 1992, la
legislazione per estendere alle donne il sacerdozio. Ciò vuol dire che in quel momento del dialogo ecumenico
l'ordinazione delle donne non aveva ancora compromesso la novità del contesto in cui si voleva riesaminare la
questione dell'invalidità degli Ordini anglicani. In un'intervista rilasciata dal co-presidente cattolico
dell'ARCIC, mons. Murphy-O'Connor, si ribadiva la novità in cui si trovavano di fatto la Chiesa cattolica e la
Comunione anglicana. Da parte cattolica era possibile dare un giudizio nuovo sulla validità dei riti anglicani
per quanto riguarda le future ordinazioni. “A mio parere il rito anglicano dell'ordinazione può essere
ritenuto valido” [8] .
L'evento che ha precisato la valutazione da dare al problema del ministero è stata la pubblicazione della
lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II. Questo documento, con il suo carattere
definitivo, coniugando essenzialmente la precedente questione della validità degli Ordini anglicani con quella
dell'ordinazione delle donne, afferma la coessenzialità che sussiste tra natura e persona nel ministero
ordinato. Gli Ordini anglicani sono di per sé nulli e invalidi, non solo per la forma e l'intenzione, come
già aveva affermato Leone XIII, ma anche per la persona dell'ordinando. Con la lettera apostolica del Santo
Padre si sono precisati meglio – e, diremmo, ristretti – i criteri con i quali la Chiesa cattolica
riconosce la validità del ministero ordinato della Comunione anglicana. Come si esprime con amarezza Edward
Yarnold, membro dell'ARCIC, si deve ritenere che il nuovo contesto “in cui devono essere giudicati gli Ordini
anglicani non è affatto più favorevole della situazione di centinaia di anni fa, o anzi di nove anni
fa” [9] . Se il contesto ecclesiologico e sacramentale non
è mutato dai tempi di Leone XIII, vuol dire che il defectus o il vitium presente fin dall'inizio, se non ha
potuto avere validità nella pratica delle ordinazioni, non lo potrà avere neppure in futuro
[10] . Nella dichiarazione dei vescovi d'Inghilterra e Galles si
richiede, perciò, che ogni prete anglicano accetti di essere riordinato in modo assoluto [11] . In tal modo ci si allontana da una prassi che aveva visto due preti
episcopaliani riordinati sub conditione[12]. A questi
due casi di riordinazione sub conditione si è aggiunta recentemente quella del dott. Graham Leonard,
l'ex vescovo anglicano di Londra, il quale è stato riordinato sub conditione al sacerdozio cattolico
dal card. B.Hume il 23 aprile 1994. La Santa Sede chiese al card. Hume di includere nella liturgia di ordinazione,
immediatamente prima dell'imposizione delle mani, una dichiarazione che doveva includere le parole Si non es iam
valide ordinatus (“se non sei già stato validamente ordinato”). In questo caso come in quelli
precedenti l'autorità competente aveva dubbi sull'invalidità degli ordini ricevuti da chi voleva
entrare nella Chiesa cattolica. Nel caso di Leonard fu messa a disposizione una documentazione dettagliata che dava
prova della materia valida (imposizione delle mani) e della forma usata nel rituale di ordinazione. Ricordiamo che
nell'ordinazione presbiterale ed episcopale dell'ex vescovo di Londra ci si avvalse di quell'Ordinale anglicano
ritenuto invalido dalla Lettera Apostolica di Leone XIII. Tuttavia il fatto dell'imposizione delle mani e
l'intenzione dei ministri ordinanti, nella linea della successione apostolica, “hanno potuto offrire
sufficiente base per domandarsi se il dott. Leonard fosse stato ordinato non invalidamente” [13] . Come era già accaduto precedentemente, anche per l'ex vescovo di
Londra si poteva testimoniare che coloro che avevano partecipato al rito di ordinazione e di consacrazione erano
inseriti nella successione apostolica, attraverso la Chiesa vetero-cattolica appartenente all'Unione di Utrecht
(1889). La Chiesa cattolica non ha mai messo in dubbio la validità delle ordinazioni vetero-cattoliche e
ciò è testimoniato dal fatto che sacerdoti vetero-cattolici sono entrati a far parte del clero
cattolico senza dover essere riordinati. In base a questi tre fattori (materia, forma e intenzione) la Santa Sede ha
pensato che si potesse dubitare dell'invalidità degli ordini ricevuti da Leonard. Il vescovo anglicano di
Stafford, rev. Christopher Hill, uno dei membri della prima e della seconda Commissione internazionale
anglicana-romano cattolica, si è rallegrato per questi casi di riordinazione sub conditione, i quali
costituiscono senza dubbio passi concreti per un riconoscimento della validità degli Ordini anglicani;
tuttavia si è sorpreso che oltre a fattori esterni (l'ininterrotta successione apostolica) si sia dato un peso
così grande all'intenzione personale di colui che doveva essere riordinato. Ciò contrasta con quanto i
lavori dell'ARCIC I, le decisioni della Conferenza di Lambeth, i Sinodi Generali e il Pontificio Consiglio per la
Promozione dell'Unità dei Cristiani avevano dichiarato a proposito dell'intenzione sacramentale, per cui si
deve prestare attenzione all'intenzione ufficiale della Chiesa, “così come si trova nelle sue liturgie,
e nelle dichiarazioni teologiche” [14] .
Se le formule dell'Ordinale anglicano, secondo p. Giuseppe Rambaldi, possono venire interpretate anche in maniera
cattolica, è solo la comprensione che i riformati avevano della Chiesa e dei sacramenti che rendono invalide
la forma e l'intenzione degli Ordini anglicani. Questo vuol dire che l'intenzione personale di un membro di una
Chiesa non può essere disgiunta da quella della sua Chiesa di appartenenza. Secondo p.E.Yarnold, non basta
appurare se la teologia del sacerdozio professata dal dott. Leonard sia o meno cattolica. Ciò che dev'essere
tenuto presente è che l'ordinazione e la consacrazione sono eventi celebrati all'interno di una Comunione
ecclesiale la cui nativa indoles ac spiritus è stata riconosciuta da Leone XIII come viziata e in
errore. Se vale l'assioma secondo cui lex orandi statuit legem credendi, non si può separare la
professione di fede del singolo credente dalla fede ecclesiale che è stabilita dalla liturgia. Dire che la
nativa indoles ac spiritus è mutata in questo caso particolare sembra una contraddizione in
termini: ciò che è nativo, lo è indipendentemente dalle circostanze particolari di un singolo
caso [15] . Questa interpretazione più
ecclesiologico-sacramentale dell'intenzione permette una comprensione della continuità nella successione
apostolica, che non si riduce a un semplice contatto materiale tra ordinante e ordinato. Il ricorso ai vescovi
vetero-cattolici può di fatto risanare e ristabilire il defectus ordinis non dall'esterno o per mero contatto
fisico, ma dall'interno in quanto tra Comunione anglicana e Chiese dell'Unione di Utrecht sussiste già dal
1931 piena comunione (full communion). Dando maggior rilievo a una comprensione ecclesiologico-sacramentale
dell'intenzione, si potrebbero ordinare sub conditione tutti coloro che fossero stati ordinati da vescovi a
loro volta consacrati da vescovi vetero-cattolici. Questa sanatio della successione apostolica sarebbe
necessaria, ma non sufficiente per riconoscere la validità degli Ordini anglicani. Il vero problema non
è di verificare, se “in alcuni casi” sia mutata la nativa indoles ac spiritus
dell'Ordinazione anglicano, ma vedere se il dialogo ecumenico abbia cambiato il contesto ecclesiologico-sacramentale
in base al quale Leone XIII espresse il suo giudizio e nel cui spirito vennero celebrate le ordinazioni
anglicane.
Dopo l'apertura dell'Archivio Segreto Vaticano, decisa da Giovanni Paolo II, è stato messo
in evidenza, specialmente attraverso l'attento studio del padre Rambaldi, che Leone XIII non fondò il suo
giudizio dogmatico analizzando in maniera separata la forma e l'intenzione dell'Ordinale anglicano di Edoardo VI, ma
tenendo presente l'orizzonte ecclesiologico e sacramentale in cui nacquero le forme di consacrazione anglicana
[16] . Non è sufficiente dimostrare la validità
sacramentale degli Ordini anglicani facendo riferimento alla forma, all'intenzione e nemmeno all'ininterrotta
successione apostolica. La condizione perché questi elementi siano riconosciuti validi è data
innanzitutto dal contesto ecclesiologico e sacramentale; il problema è dunque di natura teologica e non
meramente storica. E' il contesto ermeneutico del rito, infatti, che permette di determinare in quale modo sia stato
inteso il sacerdozio che si voleva comunicare nell'ordinazione. Di per sé la Bolla “non afferma, ma
nemmeno esclude, che le formule di un rito come quelle dell'Ordinal possano venire interpretate cattolicamente”
[17] . Per Leone XIII i riformatori inglesi hanno voluto modificare
il rituale romano con la precisa intenzione di negare la dimensione sacrificale della messa e del sacerdozio e questo
è sufficiente per affermare che gli Ordini anglicani siano nulli e invalidi.
La risposta anglicana alla Bolla di Leone XIII, contenuta nella lettera enciclica Saepius officio del marzo
1897, rimane vaga e ambigua. Secondo gli arcivescovi di Canterbury e di York, l'Ordinale anglicano non voleva negare
la dimensione sacrificale dell'Eucaristia e del ministero, ma correggere certi eccessi nella devozione popolare ed
evitare sottili dispute. Per questa ragione i redattori del nuovo rito si sono astenuti dal definire con troppa
precisione il modo del sacrificio (manner of the sacrifice), con cui il sacrificio dell'eterno
Sacerdote è unito a quello della Chiesa [18] . Questa è
la ragione per cui l'Ordinale anglicano sarebbe in continuità con la Tradizione della Chiesa. A tale
conclusione giunge anche il Rapporto finale dell'ARCIC. La Commissione internazionale ha voluto mostrare che
il rifiuto della dimensione prettamente sacrificale della Messa e del sacerdozio, presente nei formulari anglicani
del XVI e XVII secolo, è volto a negare quegli errori medievali circa il sacrificio eucaristico che erano
diffusi alla vigilia della Riforma protestante. Anche per quanto riguarda il carattere indelebile si è giunti
a una maggiore comprensione delle obiezioni dei riformati. “Siamo pienamente consapevoli dei problemi derivanti
dal giudizio della Chiesa romana sugli Ordini anglicani. Riteniamo che lo sviluppo della riflessione delle nostre due
Comunioni sulla natura della Chiesa e del ministero ordinato, così come è delineato nella nostra
dichiarazione, ponga questi problemi in un contesto nuovo” [19]
.
Nel discorso rivolto in occasione del Concistoro straordinario in preparazione al Grande Giubileo (22 giugno 1994),
il Santo Padre rileggeva il pronunciamento della Bolla Apostolicae curae alla luce della decisione presa dalla
Comunione anglicana di procedere all'ordinazione sacerdotale di donne, confermando così l'invalidità
degli Ordini anglicani [20] . A questo punto non è più
l'accordo su Eucaristia e ministero a rendere possibile un riesame della Bolla di Leone XIII, ma sono gli sviluppi
recenti in seno all'anglicanesimo e il giudizio definitivo di Giovanni Paolo II sull'impossibilità delle donne
di accedere al sacerdozio a motivare una diversa valutazione degli accordi sinora raggiunti tra le due Chiese. Ormai
la mèta non è l'intercomunione, possibile solamente se ci fosse un accordo sostanziale nella fede e un
riconoscimento mutuo dei ministeri.
“Sebbene la Commissione tendesse nel suo scopo ultimo alla piena comunione, si sperava che un dialogo
fruttuoso su tali argomenti [=la Chiesa e l'Autorità, il Ministero e l'Eucaristia] avrebbe potuto
raggiungere un obiettivo intermedio: un riconoscimento del ministero anglicano avrebbe infatti reso possibile
applicare alcune misure intermedie di condivisione sacramentale” [21] .
Nell'omelia pronunciata durante la celebrazione dei Vespri solenni il Santo Padre faceva notare che il cammino verso
la piena comunione si stava rivelando più difficile di quanto si credesse in partenza. Ci troviamo in una
situazione che rischia di offuscare la novità, di cui parlavano invece la Commissione Internazionale e la
lettera del card. Willebrands. Di fatto il contesto in cui si trova ora il dialogo ecumenico tra anglicani e
cattolici non è differente da quello di cui parlava Leone XIII nell'Apostolicae Curae.
A conferma dell'immutata nativa indoles ac spiritus dell'anglicanesimo si possono citare le
parole pronunciate dal dott. Carey durante l'omelia a San Gregorio al Celio. Ricordando che la Comunione anglicana
non è radicata solamente nella tradizione cattolica, ma anche nella Riforma del XVI secolo, l'Arcivescovo di
Canterbury ha fatto esplicita menzione dell'accordo di Porvoo, firmato il 3 settembre 1996 a Trondheim in Norvegia.
L'accordo di Porvoo, dal nome della città finlandese nella cui cattedrale nel 1992 anglicani e luterani hanno
celebrato insieme l'Eucaristia, prevede la comunione completa (full communion) – quindi comunione
eucaristica e riconoscimento reciproco di ministeri – tra le Chiese anglicane delle Isole britanniche e alcune
Chiese luterane dei Paesi baltici (Estonia) e scandinavi (Norvegia, Svezia, Islanda e Finlandia). Non va dimenticato
che non in tutte le Chiese luterane con le quali la Chiesa d'Inghilterra ha firmato l'accordo è stato
mantenuto l'episcopato storico [22] . Perciò, firmando
l'accordo di Porvoo, la Comunione anglicana non considera più l'episcopato storico come il segno della
successione apostolica, ma come uno dei suoi segni. Nel documento dedicato al ministero, il Rapporto finale
dell'ARCIC I fa notare che l'episkopç è un elemento essenziale del ministero ordinato e che la
sua istituzione fa parte del piano divino [23] . Non risulta chiaro,
però, dal documento della Commissione internazionale, se anche la tripartizione storica dell'
episkopç sia di diritto divino. Perché questo ministero episcopale sia esercitato, anglicani e
cattolici sono d'accordo nel sostenere che i ministri debbano essere ordinati nella successione apostolica
[24] . Anglicani e luterani sostengono, invece, che è errato
affermare che sia solamente la catena ininterrotta delle ordinazioni dai tempi degli apostoli il criterio da
soddisfare perché una Chiesa sia riconosciuta nella tradizione e successione apostolica [25] . Riprendendo le conclusioni del documento di Lima (BEM), anglicani e luterani
affermano che la successione apostolica non è soltanto del vescovo, ma definisce primariamente tutta la
Chiesa. L'apostolicità della Chiesa si focalizza nel vescovo, ordinato in continuità ininterrotta con
gli apostoli, ma l'episcopato non costituisce da solo la successione apostolica della Chiesa [26] . Se l'esistenza di vescovi non garantisce di per sé la continuità nella
fede apostolica, una sua interruzione non comporta la distruzione della comunione con la Chiesa universale e tanto
meno la perdita della continuità nella fede apostolica [27] .
Il confronto tra questi due Rapporti elaborati da due diverse Commissioni internazionali, l'anglicana-romano
cattolica e l'anglicana-luterana, ci fanno capire il pericolo inerente ai dialoghi bilaterali. In questo modo di
procedere nel dialogo “la mano sinistra ecumenica non sa (o può ignorare) ciò che fa la
destra” [28] . Di questo era ben consapevole la Congregazione
per la Dottrina della Fede nella sua risposta al Rapporto finale; perciò venne chiesto ai membri della
Commissione internazionale di chiarire ulteriormente da che cosa è data la continuità storica tra
Chiesa locale e Chiesa apostolica. Citando il n. 20 della Lumen gentium, la Risposta vaticana dichiara che
tanto l'episcopato storico, “che parte da Cristo e tramite gli apostoli, attraverso i secoli, giunge ai vescovi
di oggi”, quanto l'insegnamento apostolico “che da Cristo giunge fino a coloro che oggi insegnano in
unione con il collegio dei vescovi e il suo Capo, il Successore di Pietro” rendono possibile in reciproca
relazione causale la successione apostolica [29] . Se viene dunque a
mancare una delle due concause, o la linea ininterrotta degli apostoli o la dottrina apostolica, non si ha alcuna
successione apostolica.
L'affermazione che la continuità nella successione apostolica è essenziale per la Chiesa fu una delle
tesi fondamentali del Movimento di Oxford e in particolare dei Tractarians, di cui faceva parte, prima della
sua conversione, anche John Henry Newmann. Nella Conferenza di Lambeth del 1888 la Comunione anglicana richiese la
successione apostolica come condizione indispensabile per ogni progetto futuro di unione con altre Chiese. Questo,
che è il cosiddetto quarto pilastro del Quadrilatero di Lambeth, fu assunto come essenziale
perché una Chiesa sia riconosciuta cattolica: oltre alla Sacra Scrittura, al Simbolo di Nicea e ai due
sacramenti istituiti da Cristo stesso (battesimo ed Eucaristia). L'interpretazione di questo pilastro
dell'anglicanesimo fu fin dall'inizio molto flessibile. Infatti, per riconoscere la presenza dell'episcopato storico
in una Chiesa, bisogna tenere conto dei modi e delle forme con cui è stato adattato nelle varie situazioni ed
esigenze locali.
Sebbene la comprensione anglo-cattolica dell'episcopato storico abbia influito fortemente sulla Comunione anglicana,
fino a considerarlo assieme alla dottrina e alla pratica sacramentale un fattore essenziale per l'unità
visibile della Chiesa, tuttavia questa non è che una delle sue possibili interpretazioni. Appunto quella di
chi ritiene il ministero episcopale appartenente all'essenza (esse) della Chiesa. Nell'accordo di Porvoo,
tuttavia, le Chiese firmatarie hanno seguito una prassi già adottata nel 1947 nell'India del Sud, quando
quattro diocesi anglicane si unirono con Chiese prive dell'episcopato storico. La scelta fu quella di estendere a
tutte le Chiese, entrate in unione organica e strutturale, il ministero episcopale, per cui tutte le future
ordinazioni dovranno avvenire attraverso l'imposizione delle mani di un vescovo. A coloro che sono stati ordinati
prima di questo accordo non è richiesta alcuna riordinazione. In tal caso il ministero tripartito di diacono,
presbitero e vescovo, non appartiene all'essenza della Chiesa, ma è solo di natura pratica, cioè per il
buon funzionamento (bene esse) della Chiesa.
Come nel 1947, così anche nel recente accordo sarà necessaria una sospensione temporanea della
clausola richiesta dall'Ordinale anglicano del 1662, in cui vengono esclusi dall'esercizio del ministero episcopale,
presbiterale e diaconale nella Chiesa anglicana coloro che non erano stati validamente ordinati da vescovi attraverso
l'imposizione delle mani [30] . Diversamente dall'Unione del 1947,
l'accordo di Porvoo non prevede la fusione organizzativa tra le due Chiese, anglicana e luterana. Alle Chiese
luterane del Nord Europa, inoltre, la Chiesa anglicana non ha bisogno di estendere il ministero tripartito,
poiché una certa forma di tale ministero è stata presente nel luteranesimo, seppur non con
continuità e sotto nomi diversi: come servizio diaconale, pastorato e sovrintendenza. Alle Chiese luterane
verrà richiesto solamente di uniformare la loro terminologia con quella anglicana, mentre alle Chiese
anglicane verrà richiesto di non sottoporre il clero luterano a ulteriore ordinazione o ad un'ordinazione
supplementare. Solamente in questo modo sarà possibile una piena reciprocità di ministero tra le due
Chiese.
Un accordo simile a quello di Porvoo è stato raggiunto l'8 ottobre 1996, tra la Chiesa episcopale degli Stati
Uniti (PECUSA) e la Chiesa evangelica luterana d'America (ELCA): quest'ultima, come la Chiesa di Danimarca, Norvegia
e Islanda, non ha mantenuto l'episcopato storico. Se l'Accordo venisse approvato dagli organi competenti delle due
Chiese, avrebbe valore solamente per gli anglicani e i luterani degli Stati Uniti, non per le altre Chiese con cui
queste due Chiese sono già in comunione. Perciò i membri del Comitato Internazionale anglicano-luterano
rassicurano le controparti e gli altri partner nel dialogo ecumenico che tali cambiamenti “non vogliono
implicare indifferenza verso il dono e il simbolo che è l'episcopato storico” [31] . L'Arcivescovo di Canterbury si è rallegrato dell'accordo, in quanto incoraggia
le comunità luterane e anglicane di tutto il mondo e fa vedere come sia possibile trovare modi in cui diverse
realtà ecclesiali possano coesistere. Facendo esplicito riferimento al recente accordo tra luterani e
anglicani nel Nord Europa, l'Arcivescovo di Canterbury ha mostrato come si stia intensificando sul piano
internazionale la cooperazione tra anglicani e luterani. L'accordo di Porvoo – ha detto il dott. George Carey
– “procede dalla premessa che la volontà di continuare nel movimento ecumenico con molti partner e
molte iniziative, per quanto fragili siano, è un segno per gli stessi cristiani e per il mondo intero”
[32] . Incoraggiamento è venuto anche dall'ex direttore di
Fede e Costituzione Günter Gassmann, che ha qualificato Porvoo “l'avvenimento più importante della
storia nel movimento ecumenico dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II” [33] . Esso costituirà uno stimolo per gli altri dialoghi.
A questo punto, ormai, è difficile per l'ARCIC riconciliare questa comprensione inclusivista della
successione episcopale con l'affermazione, ribadita anche nei Chiarimenti alla Risposta cattolica, della
necessità di un'ininterrotta successione episcopale [34] . I
recenti accordi tra anglicani e luterani confermano perciò la nuova difficile situazione che si è
creata tra Chiesa cattolica e Comunione anglicana. L'ordinazione delle donne al sacerdozio e la comprensione
dell'episcopato storico come uno e non come il segno e criterio della successione apostolica sono due
ragioni che fanno allontanare sempre di più la possibilità di un riconoscimento del ministero
anglicano, tale da permettere misure intermedie di condivisione sacramentale. A questo si deve aggiungere il fatto
che in alcune Chiese anglicane si parla già di conferire la presidenza e la celebrazione dell'Eucaristia ai
laici (la cosiddetta lay presidency). Ciò vuol dire che la comunità può designare un
laico, con un'adeguata preparazione teologica, a presiedere la preghiera eucaristica, senza bisogno di alcuna
ordinazione. Il Sinodo della diocesi di Sidney in Australia, per esempio, ha votato nel 1994 a favore di questa
lay presidency; mentre per ora la Camera dei vescovi (House of Bishops) del Sinodo Generale della
Chiesa d'Inghilterra si è dichiarata contraria a tale richiesta. Rimane il rischio, tuttavia, che nel prossimo
futura sia questo il dilemma che la Chiesa d'Inghilterra dovrà affrontare.
I recenti sviluppi in seno all'anglicanesimo attestano che il contesto ecclesiologico e
sacramentale della Comunione anglicana non è mutato dai tempi di Leone XIII. Nell'omelia durante la
celebrazione dei Vespri, Giovanni Paolo II ha sottolineato come sia necessario, per il dialogo ecumenico tra
anglicani e cattolici, concentrarsi sulla questione fondamentale dell'autorità nella Chiesa. Come ricorda il
Santo Padre, c'è bisogno “di raggiungere una comprensione di come la Chiesa discerne con autorità
l'insegnamento e la pratica che costituisce la fede consegnataci dagli apostoli” [35] . Per conseguire tale obiettivo è forse opportuno – ricorda la
dichiarazione comune – rivedere come debba progredire il rapporto tra la Chiesa cattolica e la Comunione
anglicana. “Allo stesso tempo, incoraggiamo l'ARCIC a continuare e approfondire il nostro dialogo teologico,
non solo su questioni connesse con le presenti nostre difficoltà, ma anche in tutte le aree dove deve
essere ancora raggiunto il pieno accordo” [36] . A tal fine
Giovanni Paolo II e il dott. George Carey invitano l'ARCIC a continuare e approfondire il dialogo teologico, per
cercare ulteriore convergenza sull'autorità nella Chiesa. Senza un accordo in quest'area non sarà
possibile raggiungere la piena unità visibile, verso cui anglicani e cattolici si sono impegnati. Il nuovo
contesto che sembrava dischiudersi 15 anni fa, con la possibilità di riconoscere la validità degli
Ordini anglicani, è ormai sorpassato. Il nuovo contesto del dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa anglicana
è molto più intriso di realismo e prudenza.
[Nota 1] Giovanni Paolo II, “Omelia alla celebrazione dei Vespri nella chiesa dei Santi Andrea e Gregorio”, in Oss. Rom., 7 dicembre 1996, 4.
[Nota 2] ARCIC I, Chiarimento circa la dichiarazione concordata su ministero e ordinazione (Salisbury, 1979), n. 5, in Enchiridion Oecumenicum, vol. I, Bologna, EDB, 1986, n. 62.
[Nota 3] ARCIC I, Chiarimento circa la dichiarazione concordata su ministero e ordinazione, n. 6, ivi, n. 63.
[Nota 4] “Cardinal Willebrands to the Archibishop of Canterbury”, in One in Christ 22 (1986) 298.
[Nota 5] SANTA SEDE, Risposta cattolica al Rapporto finale dell'ARCIC I (5 dicembre 1991), in Enchiridion Oecumenicum, vol. III, Bologna, EDB, 1995, n. 300.
[Nota 6] ARCIC I, Chiarificazioni su Eucaristia e ministero (settembre 1993), ivi, n. 124.
[Nota 7] E.I.CASSIDY, Lettera in risposta alle “Chiarificazioni su certi aspetti delle dichiarazioni concordate su Eucaristia e ministero” (11 marzo 1994), ivi, n. 315.
[Nota 8] “Intervista a mons. Murphy O'Connor”, in Il Regno-Attualità 39 (1994) 4.
[Nota 9] E.YARNOLD, “A New Context: ARCIC and Afterwards”, in R.W.FRANKLIN (ed .), Anglican Orders. Essays on the Centenary of Apostolicae Curae: 1986-1996 , Harrisburg, Morehause, 1996, 74.
[Nota 10] Cfr LEONE XIII, Lett. ap. Apostolicae Curae, in DENZ.-SCHÖNM. 3317 a-b.
[Nota 11] CONFERENZA DEI VESCOVI D'INGHILTERRA E GALLES, “Per entrare in comunione con Roma”, in Il Regno-Documenti 39 (1994) 110 s.
[Nota 12] Cfr P.GAMBERINI, “La Comunione anglicana e l'ordinazione delle donne”, in Rassegna di Teologia 35 (1994) 181 s.
[Nota 13] “Riordinazione presbiterale? A proposito di un recente fatto di cronaca”, in Rivista liturgica 83 [1996] 555.
[Nota 14] CH.HILL, Anglican Orders: An Ecumenical Context, in R.W.FRANKLIN (ed.), Anglican Orders. Essays on the Centenary of Apostolicae Curae: 1986-1996 , cit., 94.
[Nota 15] Cfr E.YARNOLD, A New Context, cit., 72.
[Nota 16] Cfr G.RAMBALDI, “La sostanza del sacramento dell'Ordine e la validità delle ordinazioni anglicane secondo E.De Augustinis S.J.”, in Gregorianum 70 (1989), 47-91; cfr anche ID, “Come Leone XIII arrivò a pubblicare la Bolla “Apostolicae Curae”. I. Il contesto umano e teologico”, in Civ. Catt. 1990 III 227-237; ID, “Come Leone XIII arrivò a pubblicare la Bolla “Apostolicae Curae” II. La Commissione e la Bolla”, ivi, 462-477.
[Nota 17] Cfr G.RAMBALDI, “La sostanza del sacramento dell'Ordine e la validità delle ordinazioni anglicane secondo E.De Augustinis S.J.”, cit., 76.
[Nota 18] Cfr ARCHIBISHOP OF CANTERBURY – ARCHIBISHOP OF YORK, Saepius Officio. The Reply of the Archibishops of Canterbury and York to the Letter Apostolicae Curae of Pope Leo XIII, London, The Church Literature Association, 1977, 16.
[Nota 19] ARCIC I, Dichiarazione concordata sul ministero e ordinazione (Canterbury, settembre 19473), n. 17, in Enchiridion Oecumenicum, vol. I, cit., n. 57.
[Nota 20] G.MARCHESI, “Verso il Grande Giubileo del Duemila. Il Concistoro straordinario (13-14 giugno 1994)”, in Civ. Catt. 1994 III 524.
[Nota 21] “La visita dell'Arcivescovo di Canterbury”, in Oss. Rom., 4 dicembre 1996, 6.
[Nota 22] In Danimarca, Norvegia e Islanda la successione apostolica è stata interrotta, poiché la successione è stata mantenuta solamente attraverso un prete, Bugenhagen, sovrintendente luterano della Chiesa tedesca settentrionale, il quale consacrò sette uomini all'incarico di sovrintendente pari a quelle di un vescovo.
[Nota 23] ARCIC I Dichiarazione concordata sul ministero e ordinazione, nn. 6-9, in Enchiridion Oecumenicum, vol. I, cit., nn. 46-49.
[Nota 24] ID., Chiarimento circa la dichiarazione concordata su ministero e ordinazione, nn. 14 e 16, ivi, nn. 61 e 63.
[Nota 25] Cfr. Comitato Internazionale Anglicano-Luterano, “Introduzione”, in Rapporto di Niagara sull' “episkopç” (ottobre 1987), cit., n. 383.
[Nota 26] Cfr Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Battesimo, Eucaristia, Ministero (Lima, 1982), n. 35, in Enchiridion Oecumenicum, vol. I, cit., n. 3.156.
[Nota 27] Per il luteranesimo e le altre Chiese riformate “lo sviluppo storico e la distinzione tra vescovo e presbitero sono di ius humanum e non divinum. Per cui, nella visione luterana, l'episcopato è conveniente ma non necessario per la vita della Chiesa, almeno nella forma storica che è a noi pervenuta” (R. Magnani, La successione apostolica nella tradizione della Chiesa, Bologna, EDB, 1990, 160).
[Nota 28] E.Yarnold, A New context , cit., 70.
[Nota 29] Santa Sede, Risposta cattolica al Rapporto finale dell'ARCIC I, cit., n. 301.
[Nota 30] Cfr R.A.Norris, Episcopacy , in S.Sykes – J.Booty ( edd.), The Study of Anglicanism , London, SPCK, 1988, 304 s.
[Nota 31] Comitato Internazionale Anglicano-Luterano, Rapporto di Niagara sull' “episkopç” (ottobre 1987), n. 98, cit., n. 475.
[Nota 32] Episcopal News Service, n. 96.
[Nota 33] Ivi.
[Nota 34] “Ogni ordinazione episcopale è così parte di una linea di successione che collega i vescovi di oggi con il ministero apostolico” (ARCIC II, Chiarificazioni su Eucaristia e ministero [settembre 1993], cit., n. 123).
[Nota 35] Giovanni Paolo II, “Omelia alla celebrazione dei Vespri nella chiesa dei Santi Andrea e Gregorio”, cit., 4.
[Nota 36] Dalla costituzione della seconda Commissione avvenuta nel 1982 all'indomani della visita di Giovanni Paolo II a Canterbury (1982), l'ARCIC ha sinora pubblicato i seguenti documenti: Salvezza e Chiesa (1986), La Chiesa come comunione (1990) e La Vita in Cristo: la Morale, la Comunione e la Chiesa (1993). Tali documenti hanno fatto emergere come sia indispensabile – prima di procedere oltre nel dialogo bilaterale – mettere a fuoco la questione dell'autorità nella Chiesa, alla luce di quanto già è stato raggiunto nei lavori della prima Commissione sull'autorità nella Chiesa.