I testi e le foto che seguono vogliono presentare i luoghi della città di Roma legati al Nuovo
Testamento. Le foto sono di Riccardo Aperti.
I testi sono stati scritti per la sezione Roma e il Nuovo Testamento
della mostra La Bibbia a Roma presentata dall’Ufficio catechistico
della diocesi di Roma dall’8 al 16 novembre 2008. I testi completi della
mostra saranno a disposizione on-line fra breve su questo stesso sito. Per altre
foto della mostra, vedi al link Immagini
della mostra La Bibbia a Roma.
Il Centro culturale Gli scritti (26/11/2008)
«Antonio si fece avanti [nel Senato] e spiegò che anche ai fini della guerra contro i Parti era conveniente che Erode fosse re. Questa proposta fu accettata e votata da tutti... Terminata la riunione del senato, Antonio e Cesare [Ottaviano] uscirono avendo Erode in mezzo a loro, mentre i consoli precedevano gli altri magistrati, per andare a sacrificare ed esporre il decreto in Campidoglio. Così Antonio ospitò Erode nel suo primo giorno di regno, che egli ricevette nella centottantaquattresima olimpiade, sotto il consolato di Gneo Domizio Calvino, per la seconda volta, e di Gaio Asinio Pollione».
(da Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 14, 385-389)
Erode, che passerà alla storia come “Erode il
Grande”, dopo aver lasciato i suoi familiari assediati da Antigono nella
fortezza di Masada, si imbarcò in cerca di aiuti, giungendo prima ad
Alessandria d’Egitto, dove incontrò Cleopatra, poi a Roma dove
giunse nel 40 a.C. La sua richiesta era che venisse fatto re il fratello di
sua moglie, al posto di Antigono, ultimo sovrano della dinastia degli asmonei.
Antonio ed Ottaviano, invece, lo fecero proclamare re dinanzi al Senato riunito
nella Curia, ritenendolo il più affidabile per governare in sintonia
con il potere romano.
Durante il suo regno nacque Gesù.
«Salpato Archelao alla volta di Roma… anche Antipa(tro)
si mise in viaggio per sostenere le sue pretese al trono… In Roma si
riversò su di lui la simpatia di tutti i parenti che non potevano sopportare
Archelao…
Cesare (Ottaviano Augusto) radunò il consiglio dei magistrati romani
e dei suoi amici nel tempio di Apollo sul Palatino, che aveva fatto costruire
egli stesso, adornandolo con splendida magnificenza... Sentite le due parti,
Cesare sciolse il consiglio, ma pochi giorni dopo assegnò la metà
dei regno ad Archelao col titolo di «etnarca», promettendogli di
farlo re, qualora se ne fosse mostrato degno. L’altra metà la divise
in due tetrarchie e le assegnò agli altri due figli di Erode: una a Filippo
e l’altra ad Antipa che aveva conteso il trono ad Archelao. Antipa ottenne
la Perea e la Galilea... mentre a Filippo furono attribuite la Batanea, la Traconitide,
l’Auranitide... Dell’etnarchia di Archelao facevano parte l’Idumea,
l’intera Giudea e la Samaria».
(da Giuseppe Flavio, La guerra giudaica 2,18-20; 80-98)
Alla morte di Erode il Grande, scoppiò una disputa
sulla sua successione. Nell’ultimo suo testamento egli aveva designato
re il figlio Archelao. Erode Antipa – conosciuto anche come Antipatro
– facendosi forza su di un precedente testamento aspirava anch’egli
al trono. Si presentarono così entrambi a Roma, al cospetto di Ottaviano
Augusto, che infine decise per la divisione del regno in tre parti, pronunciando
sul Palatino il suo giudizio.
Ad Erode Antipa, toccò la Galilea. Per questo motivo il tetrarca sarà
poi coinvolto nel processo di Gesù, perché l’attività
pubblica del Cristo si svolgerà nei territori a lui assoggettati. A Filippo
(che era fratellastro di entrambi) fu assegnata la regione settentrionale della
Galilea nella quale egli fondò la città di Cesarea di Filippo.
Il luogo è noto nei vangeli, perché nei suoi pressi Gesù
condusse i dodici per porre loro la domanda sulla sua identità: «Voi,
chi dite che io sia?».
Ad Archelao toccò la Giudea con Gerusalemme. Fu, però, deposto
nel 6 d.C. poiché si era reso impopolare. Augusto decise allora di nominare
al suo posto un prefetto direttamente dipendente da Roma.
In occasione di un ulteriore viaggio a Roma avvenuto sotto Tiberio (descritto
in Antichità giudaiche 18,109 ss) Erode Antipa si fermò
ad alloggiare presso Erode Filippo e si innamorò della di lui moglie
Erodiade, figlia del re nabateo Areta IV. Da questo fatto nacquero le vicende
che portarono alla morte di Giovanni il Battista ed alla guerra fra Erode Antipa
ed Areta. Erode, spinto dalla moglie Erodiade, venne ancora in Italia, questa
volta a Baia, da Caligola, per chiedere la benevolenza dell’imperatore
contro il re Agrippa. Avvisato da quest’ultimo Caligola fece, invece,
esiliare la coppia a Lione, in Gallia.(Giuseppe Flavio, Antichità
giudaiche, 18, 240-255).
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta».
(dal vangelo secondo Luca 2,1-5)
«Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre
Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e
Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide,
e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti
Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto».
(dal vangelo secondo Luca 3,1-2)
Gesù nacque mentre a Roma veniva edificato da Cesare
Ottaviano Augusto il Tempio di Marte Ultore, nei Fori Romani.
Augusto ne decise l’edificazione già nel 42 a.C., come atto votivo
prima della battaglia di Filippi contro gli uccisori di Cesare, perché
il dio lo sostenesse in questo atto di vendetta. Esso fu, però, terminato
solo nel 2 a.C. Il tempio di Marte divenne il luogo nel quale si recavano a
sacrificare prima della loro missione tutti i condottieri dell’esercito
romano, così come i capi dell’amministrazione imperiale delle diverse
province.
Ponzio Pilato offrì così sacrifici a Marte ultore, nel Tempio
a lui dedicato, prima di partire in missione come prefetto della Giudea (magistratura
che ricoprì dal 26 al 36 d.C.). Ad Augusto era nel frattempo succeduto
Tiberio che aveva eretto, sempre nello stesso Tempio, gli archi di Druso e Germanico.
Solo con gli imperatori successivi il titolo di prefetto fu mutato in
quello di procuratore.
Nato sotto Augusto, Gesù fu crocifisso sotto Tiberio, essendo prefetto
della Giudea Ponzio Pilato.
«Il Signore conceda misericordia alla famiglia di Onesìforo,
perché egli mi ha più volte confortato e non s’è
vergognato delle mie catene; anzi, venuto a Roma, mi ha cercato con premura,
finché mi ha trovato...
Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito
il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato
in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo
con te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico
a Efeso. Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo
e anche i libri, soprattutto le pergamene.».
(dalla seconda Lettera di Paolo a Timoteo 1,16-17; 4,9-13)
Timoteo è stato il più fedele collaboratore
di Paolo. L’epistolario paolino lo vede mittente insieme all’apostolo
di molte lettere (1-2 Ts, 2 Cor, Fil, Flm, Col) e gli Atti lo citano a fianco
di Paolo nella fondazione di molte chiese. Infine, a Timoteo fu affidato il
compito di guidare la chiesa di Efeso.
Paolo lo richiamò da lì, richiedendo la sua presenza al suo fianco
nei momenti che precedettero il martirio. Il fatto non è storicamente
in discussione anche se le cosiddette “lettere pastorali” a Timoteo
ed a Tito fossero di mano di un discepolo di Paolo o dello stesso Timoteo, come
recentemente proposto, che avrebbe assemblato materiale paolino da lui conosciuto
oralmente.
«Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare».
(dalla Lettera di Paolo ai Filippesi 4,12)
In alcune delle sue lettere (Filemone, Filippesi, Colossesi),
Paolo fa chiaramente riferimento ad una situazione di prigionia nella quale
egli si trova. Tali lettere vengono perciò abitualmente designate come
“lettere dalla prigionia”. Secondo il racconto degli Atti, Paolo
venne recluso sia a Gerusalemme – e successivamente a Cesarea Marittima
- in occasione del suo appello a Cesare per potersi recare nell’urbe,
sia a Roma stessa. Tradizionalmente le lettere paoline scritte dalla reclusione
vengono ambientate nel corso della prigionia romana, ma sempre più si
fa strada l’ipotesi che potrebbero essere invece state spedite da Efeso,
nel corso di un ulteriore periodo di detenzione subito dall’apostolo.
In particolare, la lettera ai Filippesi, fa riferimento alla presenza di cristiani
appartenenti “alla casa di Cesare”.
Se la lettera fosse stata scritta da Roma, si tratterebbe di convertiti al cristianesimo
fra i dipendenti del Palazzo imperiale, mentre, se la redazione è avvenuta
in Efeso, si tratta di dipendenti dell’autorità romana nella città
dell’Asia minore.
«Partimmo [da Pozzuoli] alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio. Arrivati a Roma, fu concesso a Paolo di abitare per suo conto con un soldato di guardia».
(dagli Atti degli Apostoli 28,14-16)
La finale degli Atti, con l’arrivo di Paolo a Roma, appartiene alle cosiddette “sezioni-noi”, in tedesco Wir-stücken, degli Atti (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), cioè a quei brani dell’opera che hanno il soggetto alla prima persona plurale. In questi testi Luca stesso, o almeno qualcuno che è una sua fonte, appare come testimone oculare presente a fianco di Paolo. Essi arrivarono così insieme nell’urbe. La tradizione colloca la residenza di Luca a Roma nella zona sottostante la chiesa di S. Maria in via Lata.
«[A Corinto, Paolo] trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricatori di tende».
(dagli Atti degli Apostoli 18,2-3)
«I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di (un certo) Cresto, egli [Claudio] li scacciò da Roma».
(da Svetonio, Claudius 25)
«Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa».
(dalla Lettera di Paolo ai Romani 16,3-5)
La lettera ai Romani conosce per nome una trentina di persone
della prima comunità di Roma (Rm 16), ma il numero dei cristiani era
più numeroso. Fra queste persone care a Paolo, di Aquila e Priscilla
è possibile affermare che la fede cristiana fosse antecedente all’anno
49, l’anno dell’editto di espulsione dei giudei da Roma emesso da
Claudio imperatore. I due coniugi sono così i più antichi cristiani
di Roma di cui si possa datare con certezza la conversione prima di quell’anno.
La comunità cristiana di Roma era stata probabilmente fondata da missionari
dei quali non si è conservato il nome, forse commercianti o soldati o
liberti; essi, divenuti cristiani in oriente si erano poi trasferiti in Roma
ed avevano lì annunciato il vangelo.
La loro testimonianza era così vivace da attirare l’attenzione
delle cronache; lo storico Svetonio, infatti, testimonia che già nell’anno
49 d.C. la presenza cristiana faceva talmente discutere nelle sinagoghe della
capitale da spingere appunto l’imperatore Claudio alla decisione di espellere
i giudei da Roma. Il motivo dell’agitazione verificatasi nelle sinagoghe
era, infatti, “l’istigazione di un certo Chresto”. Per il
fenomeno dello iotacismo, che porta all’equivalenza dei suoni “e”
ed “i”, Chresto è da identificarsi con Cristo; il suo nome
è causa di discussione nella comunità ebraica di Roma già
in quell’anno.
Aquila e Priscilla dovettero così lasciare Roma, conobbero Paolo a Corinto
e poterono poi tornare nell’urbe ed accoglierlo quando egli giunse finalmente
a Roma.
«A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io. Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi - ma finora ne sono stato impedito - per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma».
(dalla lettera di Paolo apostolo ai Romani 1,7-15)
Paolo scrisse la lettera ai Romani in prospettiva del suo
viaggio nella capitale. Probabilmente ciò avvenne durante la permanenza
di tre mesi a Corinto (At 20,3), nel corso del suo III viaggio missionario.
Paolo non era ancora mai stato a Roma, ma conosceva almeno una trentina di cristiani
della città (Rm 16,1-16), che doveva aver incontrato nei suoi viaggi
(si pensi, ad esempio, ad Aquila e Priscilla).
La lettera ai Romani è una esposizione del vangelo di Cristo. Paolo non
è pressato da contingenze concrete ed espone la sua comprensione del
cuore diviso dell’uomo e dell’amore di Dio che solo salva tramite
la fede.
L’apostolo decise di recarsi a Roma durante la sua permanenza ad Efeso
(At 19,21) e riuscì a realizzare il suo progetto quando, arrestato a
Gerusalemme con la falsa accusa di aver profanato il Tempio, si appellò
a Cesare e scelse di essere giudicato a Roma, possedendo fin dalla nascita la
cittadinanza romana. Secondo il racconto degli Atti, in quella circostanza fu
il Cristo stesso, apparsogli mentre era imprigionato nella Fortezza Antonia
costruita a sorveglianza del Tempio di Gerusalemme, a chiedergli di recarsi
a Roma (At 23,11).
«Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio».
(dalla prima Lettera di Pietro 5,13)
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
(da Tertulliano, De baptismo 2,3)
Se la morte di Pietro è databile con certezza al 64
d.C., anno della prima persecuzione romana dei cristiani ad opera di Nerone,
sul momento del suo arrivo a Roma sono possibili solo congetture.
Egli dovette, comunque, risiedere per un certo periodo nella città, prima
del suo martirio. Il ricordo della sua presenza in Roma è testimoniata
dalle due lettere attribuite a Pietro, che si presentano scritte da “Babilonia”;
il termine indica nella tradizione veterotestamentaria ed apocalittica la città
nemica di Dio e del suo popolo e nelle lettere petrine stesse la capitale dell’impero
romano che, idolatrando l’imperatore, perseguita chi gli rifiuta un culto
divino.
La prima lettera di Pietro ha frequenti richiami al battesimo, quel battesimo
che Pietro dovette amministrare in Roma, come ricorda Tertulliano nei primi
anni del III secolo, nel fiume Tevere.
«Né interventi umani, né largizioni del principe, né sacrifici agli dei riuscivano a soffocare le voce infamante che l'incendio fosse stato comandato [da Nerone stesso]. Allora, per mettere a tacere ogni diceria, Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati coloro che il volgo chiamava Crestiani, odiosi per le loro nefandezze. Essi prendevano nome da Cristo, che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio; repressa per breve tempo, quella funesta superstizione ora riprendeva forza non soltanto in Giudea, luogo d’origine di quel male, ma anche nell’urbe, in cui tutte le atrocità e le vergogne confluiscono da ogni parte e trovano seguaci. Furono dunque arrestati dapprima coloro che confessavano, poi, sulle rivelazioni di questi, altri in grande numero furono condannati non tanto come incendiari quanto come odiatori del genere umano. E alle morti furono aggiunti i ludibri, come il rivestirli delle pelli di belve per farli dilaniare dai cani o, affissi a delle croci e bruciati quando era calato il giorno, venivano accesi come fiaccole notturne. Nerone aveva offerto i suoi giardini per tali spettacoli e dava dei giochi nel circo ora mescolandosi alla plebe vestito da auriga, ora stando ritto sul cocchio».
(da Tacito, Annales 15,44,2-5)
Tacito racconta nei suoi Annali della persecuzione
dei primi martiri di Roma – i protomartiri romani – nella quale
fu ucciso anche Pietro. Il fatto avvenne nei giardini neroniani, cioè
nel Circo di Gaio e Nerone che era alle pendici del colle Vaticano. L’attuale
obelisco di piazza S. Pietro era al centro della spina di tale Circo che segnava
il percorso sul quale si sfidavano le quadrighe nelle corse.
L’obelisco fu spostato da Papa Sisto V che volle erigerlo dinanzi alla
basilica. Il sito originario in cui era posto è attualmente indicato
da una lapide in terra posta alla sinistra della basilica vaticana, poco oltre
l’attuale nartece, che ricorda così l’ubicazione del Circo
nel quale furono martirizzati Pietro ed i suoi compagni nell’anno 64 d.C.
Sul fianco destro del Circo, proprio sotto l’attuale basilica, sorgeva
una necropoli a cielo aperto, nella quale Pietro venne sepolto dopo il martirio.
Parte della necropoli è stata riportata alla luce dagli archeologi nel
secolo scorso. Essi hanno potuto così raggiungere nei loro scavi il luogo
della sepoltura del primo degli apostoli. Il sito è attualmente visitabile,
con ingresso proprio a fianco del luogo dove era anticamente eretto l’obelisco.
«Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio».
(dal Vangelo secondo Marco 10,12)
Solo nel diritto romano erano previsti casi in cui era la
donna a poter divorziare dal marito. Tale situazione non era prevista, invece,
dal diritto rabbinico.
Il vangelo di Marco è l’unico vangelo ad estendere alla donna le
parole pronunciate da Gesù sul divorzio.
Anche i latinismi invitano a vedere in Marco un vangelo fortemente legato ad
un ambiente di lingua latina: se alcuni di questi sono comuni agli altri vangeli
(denarion, modios, kensos, krabbatos, legion,
phragelloun), altri sono presenti esclusivamente nel primo vangelo, in
particolare xestes, boccale (7,4), spekoulator, guardia (6,27),
kodrantes, quadrante o spicciolo (12, 42), hikanon poiein, dare
soddisfazione (15,15), kentyrion, centurione (15,39.44-45), praitorion,
pretorio (15,16).
L’analisi interna del testo conferma così le parole di un frammento
di Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, del 130 d.C., in cui si dice:
«Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse senza un ordine, ma con
esattezza, ciò che ricordava delle cose dette e fatte da Gesù.
Egli non aveva udito il Signore, né l’aveva seguito; più
tardi seguì Pietro».
La tradizione pone la residenza dell’evangelista nel luogo dove poi sorgerà
la basilica di S. Marco in Campidoglio; in quel luogo Marco avrebbe scritto
il suo vangelo.
«Vi salutano gli emigrati dall’Italia».
(dalla lettera agli Ebrei 13,24)
La lettera agli Ebrei fu scritta probabilmente per essere
inviata in Italia (e, quindi, a Roma stessa) come si deduce dalla sezione finale
nella quale vengono acclusi i saluti da parte di “quelli che provengono
dall’Italia”, probabilmente emigrati italiani nella città
dalla quale fu spedita la lettera: essi desiderano salutare i loro connazionali
rimasti in patria.
Gli studiosi ritengono che l’epistola debba essere stata scritta prima
dell’anno 70, l’anno della distruzione del Tempio da parte dei romani.
Infatti, pur essendo incentrata sulla questione del confronto fra l’antico
culto veterotestamentario ed il nuovo culto cristiano, non fa alcun cenno alla
cessazione dell’attività cultuale nel Tempio di Gerusalemme.
La lettera presenta Cristo come l’unico vero sacerdote: egli, infatti,
non ha offerto animali o sacrifici, ma piuttosto se stesso, per amore, fino
alla morte di croce.
«Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei».
(dal libro dell’Apocalisse 13,18)
«L'angelo mi trasportò in spirito nel deserto.
Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi
blasfemi, con sette teste...
Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la
madre delle prostitute e degli abomini della terra”. E vidi che quella
donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù...
Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli
sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re».
(dal libro dell’Apocalisse 17,3.5-6.9)
L’Apocalisse fu scritta durante il regno di Domiziano,
l’imperatore che fece erigere lo Stadio che portava il suo nome, la cui
conformazione è ancora oggi ricalcata dall’andamento di piazza
Navona che sorge sulle sue rovine.
L’autore dell’Apocalisse scrisse il suo libro nell’isola di
Patmos, nelle Sporadi, ad un giorno di navigazione da Efeso e Mileto, dove era
stato allontanato, forse esiliato, “a causa della parola di Dio e della
testimonianza di Gesù” (Ap 1,9). L’azione contro Giovanni
si situa in un contesto più ampio di persecuzioni contro i cristiani
messe in atto dal potere politico.
Gli studiosi sostengono a ragione che l’Apocalisse ben si situi negli
anni dell’imperatore Domiziano (81-96) che ad Efeso volle fosse eretto
un tempio agli imperatori divinizzati della famiglia Flavia cui apparteneva.
Questo ben combacia con i versetti dell’Apocalisse che parlano di un drago,
personificazione del maligno, che cede il suo potere a due bestie, la seconda
delle quali erige una statua perché la prima sia adorata. Dinanzi a questa
manifestazione di apparente potenza, Giovanni insiste che colui che si fa adorare
è solamente “un uomo”. Proprio il numero 666 – la metà
di 12, il numero di Israele e della Chiesa, il numero dei benedetti da Dio e
dei salvati – indica che quel potere è fallimentare e finirà
miseramente per scomparire.
Gli ultimi capitoli dell’Apocalisse profetizzano questa vittoria di Dio
e della sua Chiesa, quando annunziano che Babilonia, personificazione del potere
idolatrico romano che si erige a Dio, “colei che siede sui sette colli”,
cadrà miseramente e scomparirà per lasciare il posto alla Gerusalemme
che scende dal cielo, alla città di Dio.